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Autore: _Lightning_    03/02/2020    0 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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.2.

 
 
10 Novembre 1908,
Guarnigione di Tiham, Ishval
20:00


 
La fuliggine che permea l’aria affatica i polmoni, ricoprendoli di una patina viscosa. Avanziamo in una pantomima di marcia, scoordinati, le spalle curve sotto il peso dell’ennesima giornata di guerra.

Finalmente, superate le due palazzine che fungono da strettoia e barriera, entriamo nell'accampamento, annidato tra le macerie delle basse palazzine che prima occupavano l'area.

Non credo che ai miei soldati sia rimasta abbastanza energia per arrivare fino alla camerata, e li sento arrancare dietro di me in una cadenza strascicata e meccanica. Mi fermo poco dopo l'ingresso, li faccio schierare e controllo che non ci siano feriti. Spedisco Roger ed Ellis in infermeria, ignorando le loro proteste. È stata una buona giornata, stranamente senza perdite.

Prima di congedarli cerco con lo sguardo la testa calda di prima, che si tiene prudentemente in ultima fila.

«Ehi, tu, laggiù,» lo indico per fugare ogni dubbio su chi stia chiamando e gli faccio bruscamente cenno di avanzare.

A quel punto la truppa sembra riscuotersi, nonostante il pensiero di tutti voli sicuramente alla propria branda e al rancio, e si apre all'istante in due ali che lasciano il malcapitato privo di ogni riparo, alla mia mercé. Colgo con la coda dell'occhio Richard che dà di gomito a Haytham, e sono combattuto tra l'ignorarli e il richiamare anche loro, tanto per vedere come reagiranno.

«Ragazzo, se non ti muovi te la faccio io, la ramanzina!» prorompe Haytham, che come previsto non vede l'ora di andarsene per i fatti suoi, e dà una spintarella allo sciagurato per sottolineare le sue parole.

Lui incespica in avanti, chiaramente terrorizzato, e stringe la cinghia del fucile fino a sbiancarsi le nocche.

«Springfield!» prorompo, e Haytham ammutolisce all'istante riprendendo una postura marziale, anche se il suo sogghigno divertito rimane.

Il ragazzo è finalmente di fronte a me e cerca in tutti i modi di non guardarmi negli occhi, rendendo sfuggenti i suoi. È ben piazzato e mi supera di un paio di centimetri in altezza, ma ha la faccia di un bambino troppo cresciuto: le guance sono piene, rosee, al contrario degli zigomi affilati che tagliano i nostri volti smunti, la mascella è stata appena squadrata dalla pubertà. Quanti anni avrà? Diciannove? Venti?

Gli occhi celesti sono limpidi, anche se già segnati dal sonno e dalla fatica, e sembrano lenti affacciate sui bei salotti di East City con tre pasti caldi al giorno, un letto con un cuscino di piume e un materasso e acqua corrente a volontà. Non avrà neanche il tempo di abituarsi alla nostra vita di fango e sangue; lo sparo di prima non farà in tempo a trapassargli la coscienza. Forse una medaglia al valore, un encomio, qualcosa di cui scrivere a casa su della bella carta filigranata per far sorridere un padre, fiero tra le lacrime nell’accogliere la salma del figlio.

Stringo le labbra smorzando un sospiro, e il mio silenzio non fa che sprofondarlo nel disagio più totale. In altre circostanze, mi gusterei il momento: mettere alla berlina i nuovi arrivati in cerca di gloria facile è un passatempo intriso di senso del dovere che svolgo quasi con piacere, ma stasera è una di quelle sere. Quelle in cui vedo l’uomo e non il soldato, in cui guardo gli occhi e non le mostrine sul petto o le spalline graduate.

«Identificati,» gli intimo infine, nel tono più duro che la mia gola irritata mi consente.

«Soldato Zachary Stormer a rapporto, signore!» balbetta; evidentemente sono stato comunque abbastanza convincente.

«Quando imparerò il tuo nome e cognome sarai probabilmente già morto, cadetto. Perché non sei un soldato, vero?» lo metto in difficoltà.

«Sì, signore... cioè, no, signore!» s’ingarbuglia prevedibilmente lui.

«Ti vedo nervoso. Sei nervoso?»

Lui fa vigorosamente cenno di no con la testa. Giuro che è lo spettacolo più avvincente che abbiamo avuto da un mese a questa parte, Festa dell'Esercito esclusa, ma inizio a provare un po’ di pietà per lui.

«Bene, cadetto.» Faccio una pausa prima di mettere fine alla cosa, anche se so che la truppa ci rimarrà male: di solito mando avanti la farsa per una decina di minuti, con qualche ordine ridicolo nel mezzo, ma stasera sono sfinito e non so che altro inventarmi. «La prossima volta che spari un colpo senza permesso ti faccio sbattere a fare servizio d'ordine per tre giorni. Sono stato chiaro?»

Stormer impallidisce, con la faccia di chi è appena stato mandato al patibolo. Il “servizio d'ordine” è lo spauracchio che impedisce ai cadetti bizzosi di compiere ulteriori atti di eroismo. Di solito funziona: a nessuno piace improvvisarsi becchino.

«Sissignore,» riesce a dire, e gli do credito per non essersi strozzato nella sua stessa saliva.

«Truppa Blaze, riposo. Rapporto all'alba come sempre,» ordino quindi, con voce più stentorea.

Il capannello si scioglie in un mormorio di congedi e “sissignore”; Stormer farfuglia qualche parola prima di filare via con la coda tra le gambe dai suoi compagni. Questa sera i cadetti faranno gruppo a parte...

Vengo riscosso dalla fragorosa risata di Richard, evidentemente molto divertito dallo spettacolo offerto dal sottoscritto.

«Dreyse...» lo riprendo bonariamente, ma il richiamo stavolta non ha effetto.

Quando non siamo sul campo di battaglia la distanza tra ufficiali e subordinati si accorcia, ma rimane quel tanto che basta per non farmi sentire allo scoperto: sono stato particolarmente attento a lasciarmi attorno una bolla protettiva. Non amo particolarmente legare coi miei soldati, ma devo ammettere che da quando Riza e Hughes sono passati sotto un altro comandante ha iniziato a mancarmi il contatto umano. Così per una volta sto al gioco e non mi ritiro nella mia tenda come al solito, perché forse stasera ho bisogno di vedere attorno a me degli uomini e non delle uniformi.

«Breve ma efficace,» continua lui imperterrito, con un ampio sogghigno sulla sua larga faccia rubizza da oste. «Quand'è che ci mandano la prossima partita di cadetti?»

Alzo gli occhi al cielo e gli faccio cenno di tacere mentre ci addentriamo nell'accampamento. Si uniscono anche Charlie e Joel, che sembrano pericolosamente pieni di energia, e mi chiedo se quella dei poveri uomini distrutti dalla fatica non fosse una messinscena per tornare prima al campo. Ma in cuor mio so che non mi mentirebbero mai.

Sembrano apprezzare il fatto che mi stia intrattenendo con loro, ma non capisco se sia semplice deferenza nei confronti di un superiore o sincero piacere: dal modo in cui camminiamo, appaiati e non con me a guidarli, sembrerebbe una semplice uscita tra commilitoni di pari grado. Mi rilasso leggermente.

«Maggiore, certo che stavolta ci ha deluso,» afferma Charlie scuotendo la testa e facendo sobbalzare la sigaretta che gli pende dalle labbra. «Vista la giornata di merda che abbiamo avuto ci si poteva impegnare un po’ di più,» continua, indirizzandoci con decisione verso il tendone del rancio.

«Si meritava minimo mezz'ora,» borbotta Joel con la sua voce distrutta dal fumo, sfregandosi la barba troppo lunga.

«E tu ne sai qualcosa, mh?» lo rimbecco divertito.

«Almeno ho imparato la lezione,» si schermisce lui, con pacatezza.

Non credo di averlo mai sentito pronunciare più di una frase per volta, così non mi stupisco quando non aggiunge altro e si chiude in uno dei suoi soliti silenzi meditabondi. Ci mettiamo in fila stancamente, gavette e cucchiai alla mano con annesso stomaco brontolante.

Cerco lo sguardo di Hughes e Riza nel marasma di mantelli bianchi assembrati davanti alla tenda del rancio, ma probabilmente la loro squadra è ancora in trasferta, altrimenti mi starei già sorbendo i deliri del mio migliore amico sulla sua fidanzata. Preferirei ascoltarli, piuttosto che saperlo – saperli – in territorio ostile.

Deglutisco polvere e torno a concentrarmi sulla schiena del soldato davanti a me, che sembra avanzare sempre più lentamente.

«È solo un ragazzo,» commenta improvvisamente Joel, mangiandosi le parole.

«Non ho bisogno di sbarbatelli sanguinari nella mia truppa,» replico, forse troppo duramente.

Charlie mi lancia un'occhiata più che eloquente, e se fossimo più in confidenza mi aspetterei una frecciatina sulla mia carenza di barba. È il tipo di commento che avrebbe potuto fare Oskar. Il pensiero mi folgora e mi incupisce il volto, mentre Richard continua:

«Devono essere disperati, se continuano a mandare quaggiù i cadetti.»

«Non sono i primi e non saranno gli ultimi,» replico con noncuranza, e il mio pensiero corre a Riza.

Segue un silenzio pesante, che alla fine mi sento tenuto a rompere.

«Imparerà in fretta, come tutti. Non è certo il primo che metto in riga,» e scocco un’altra occhiata saputa a Joel, che fa spallucce.

«Ohi, va così, quando metti un fucile in mano a uno zotico che sa usare solo zappe e forconi, no?» commenta Charlie, scivolando nel suo comico, cantilenante accento del sud.

«Parli di te?» lo rimbecca Richard con una risata, e si rimedia uno spintone che fa ondeggiare la calca attorno a lui in un coro di insulti e proteste.

«Quello non mi sembra uno zotico, ma uno appena uscito da un salottino da tè di Central,» intervengo io, con noncuranza e una goccia d’acredine che suscita consenso.

Il discorso vira sugli anni di preparazione militare, tra Accademia e corsi ufficiali, ma io non spiccico che qualche parola di circostanza. Mi concentro sul fondo metallico della gavetta, che riflette i miei lineamenti leggermente distorti.

Dopo mezz'ora buona di attesa abbiamo finalmente una scodella di zuppa calda e un tozzo di pane un po' raffermo in mano – stasera ci è andata bene – e ci sediamo ai margini del campo, su alcuni massi tondeggianti che i miei tre compagni hanno rivendicato come propri fin dal nostro arrivo a Tiham.

Nonostante ci sforziamo di non trangugiare la nostra razione, sparisce come sempre troppo rapidamente in pochi morsi e cucchiaiate voraci prive di gusto. Almeno placherà il nostro stomaco fino a domattina; lo sento addirittura pieno, ormai abituato banchettare con porzioni di cibo ben più infime, e tanto basta.

Ultimamente circolano voci su delle rivolte contadine nell’area orientale, e il fantasma della carestia ha già iniziato ad aleggiare al fronte. Nessuno osa però parlarne apertamente.

Charlie e Richard si accendono un’altra sigaretta e se la passano facendo un paio di tiri a turno. Joel se ne accende una per sé in disparte e si rigira tra le mani la catenina che tiene appesa al collo, facendo tintinnare tra loro medagliette e fede nuziale. Io me ne sto in silenzio, la testa libera da pensieri e il fumo del sonno che mi risale agli occhi.

Inizio a sentire freddo: le temperature si sono abbassate drasticamente negli ultimi giorni e le nostre uniformi invernali tardano ad arrivare. Cerco di scaldarmi stringendomi nel mantello, ma infine mi alzo per raccogliere della sterpaglia e qualche rametto; li raduno al centro del nostro piccolo cerchio e accendo un fuoco con uno schiocco di dita. Gli altri accolgono la cosa di buon grado e imprecano contro i rifornimenti tardivi e i superiori e la guerra.

Io fisso ipnotizzato le fiamme, ma quando inizio a distinguervi volti e forme distolgo lo sguardo.

«Ho una sorpresa per voi,» annuncia di punto in bianco Charlie, e si inclina all'indietro per alzare un sasso piuttosto pesante a circa un braccio da lui.

Al di sotto rivela un'infossatura, dalla quale estrae con fare trionfale una bottiglia di quel che sembra whiskey. Richard lancia una sonora esclamazione e siamo in tre ad intimargli il silenzio, nonostante i nostri occhi brillino al pensiero di un buon bicchiere per scacciare freddo e fatica.

«Come hai...» inizio, ma poi scuoto la testa nel notare il suo ghigno machiavellico. «È meglio se non lo so,» concludo rassegnato.

La bottiglia fa un paio di giri e ognuno la maneggia come se fosse un oggetto sacro, con gesti quasi rituali. Beviamo poco più di un sorso a testa, preferendo mantenerci vigili. Io mi bagno appena le labbra: la mia ultima esperienza con l'alcool non è stata delle migliori e sento ancora una leggera nausea nel percepire il suo odore pungente. Alla fine, la bottiglia viene meticolosamente riposta al sicuro da mani e occhi indiscreti.

Mi sdraio con la schiena appoggiata al mio masso e ascolto i miei compagni parlare del più e del meno, delle ragazze o delle mogli, di vino e di cibo, di case vicine e lontane e di cosa faremo una volta tornati. La guerra rimane sullo sfondo, distante come gli spari isolati che risuonano oltre le basse colline sabbiose. Intervengo di tanto in tanto, ma mi tengo sulle mie e loro non mi forzano.

Dopo poco la stanchezza prende il sopravvento e il nostro chiacchiericcio scema nel silenzio.

«Manca poco, me lo sento,» sospira Richard come ogni sera, stiracchiandosi.

Joel stringe nel pugno il suo ciondolo e tace.

«Ho smesso di illudermi,» replica Charlie, lapidario.

Mi incupisco e non commento. Siamo in guerra da quasi sette mesi e ancora non riesco a scorgere la fine di questo massacro. Ogni giorno si sussegue all'altro in una marcia agonizzante che si lascia dietro una scia di sangue.

Per un istante mi riaffiorano alla memoria dei volti familiari, speranzosi, con occhi rivolti a una fine vittoriosa che tutti noi pensavamo vicina. Prima che possano consolidarsi serro le palpebre e li scaccio, anche se so che torneranno a visitarmi stanotte.

Riprendo a guardare il cielo, godendomi la torpida miscela di sonno e alcool, stupidamente contento di avere la pancia piena e di essere ancora vivo.

«Finirà presto,» mormoro, in uno sbuffo di vapore che si dissipa subito.

È quasi una preghiera, ma nessuno la sente. Oltre la perenne coltre di fumo non si scorge alcuna stella. Il cielo è nero come inchiostro.


 
 

Note:
-Tutti i cognomi dei soldati sono ispirati a mezzi di trasporto bellici o armi, rimanendo in linea con il "metodo Arakawa".
-Il modo di parlare dei soldati, in particolare di Charlie, è in alcuni punti volutamente scorretto o pieno di ripetizioni/elementi pleonastici.
-Ho invertito l'ordine dei capitoli e accorpato l'ultimo col secondo.

 
   
 
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