DISCLAIMER:
I personaggi sotto trattati non
mi appartengono.
La storia
è stata scritta senza alcun scopo di lucro.
Otto
Volte
La prima volta
che Nejire lo sente,
non sa che la loro strada è appena iniziata.
La
turchina incontra il ragazzino sotto l’acquazzone autunnale
che ha preso in
ostaggio la città, nel vento che le strappa di mano
l’ombrello con cui affronta
i capricci della tempesta: ancor prima che lei possa iniziare a
inseguire la
sua unica protezione, è Tamaki che ferma il fuggitivo e lo
raccoglie da terra,
per poi porgerglielo. Le gocce scorrono sul viso della fanciulla e
fanno
risplendere i suoi capelli come perle, lasciano apparire un sorriso
anche in
mezzo a quel caos.
«Grazie,
credo proprio che tu mi abbia salvato!
Però…», esclama lei mentre guarda il
moro tremare, coperto a malapena da un giubbino ormai bagnato quanto
lui, «sei
fradicio anche tu! Ecco, aspetta.» Gli si avvicina e allunga
l’ombrello così da
proteggere entrambi, senza attendere un attimo di più,
«non è tanto, ma ora dovrebbe
andare meglio, vero? Se vuoi ti posso
accompagnare…»
Tamaki
arrossisce con violenza, poi accenna a sua volta un sorriso; non con la
sua stessa
forza, ma può bastare. Il suo corpo parla ancor prima che lo
faccia la voce. «Sei
gentile, ma non posso fermarmi», le sussurra mentre abbassa
il capo, «sono già
in ritardo. Grazie comunque, e… e niente, scusami.»
Nejire
annuisce e per un istante — il tempo che lui rimane ancora
lì — fissa con
curiosità il volto dell’altro, specie quei begli
occhi notturni che evitano di
guardarla di rimando; e passano i secondi, diventano minuti, prima che
si
rimetta in cammino.
Improvvisamente
il rumore della pioggia si fa più attutito e
l’acqua che le scorre fin nel
colletto della camicetta non è gelida come prima, giunge
perfino a calmarsi tra
le luci della città; quella smorfia di tenerezza che ha sul
viso, invece, rimane
con lei ancora per parecchie ore.
La seconda volta
che Nejire lo trova,
sono passati almeno tre anni da quell’incontro sotto la
pioggia, sono entrambi
cresciuti e solamente per caso si sono trovati nella stessa classe di
liceo:
eppure lei riconosce immediatamente quello sguardo timido.
Anche
Tamaki sembra fare lo stesso e si sofferma un lungo istante sul suo
viso;
quindi china il capo appena lei sorride, arrossendo fino alla radice
dei
capelli.
Per
un primo momento la giovane lo lascia in pace e sfrutta tutte le
proprie
energie per conoscere l’intera classe e farsi
conoscere, osservando intanto
come il moro parli e sia tranquillo solamente con il ragazzo dai
capelli biondi
che gli siede vicino; ma appena la giornata finisce e le loro strade
s’incrociano sulla porta dell’aula, lei libera
tutto l’entusiasmo e gli si para
davanti. «Ciao! Sono contenta che quella tempesta non ti
abbia portato via e ti
ringrazio ancora per avermi aiutato», esclama prima di fare
un lieve inchino,
«mi chiamo Hado Nejire, lieta di conoscerti. E,
oh», s’interrompe sgranando gli
occhi e allungandosi verso il volto di Amajiki per guardare meglio,
«ma tu hai
le orecchie a punta! Sono così cariiiine! … Sei
forse un elfo?»
Il
giovane non replica ma si ritrae leggermente quando si ritrova la
ragazza a
pochi centimetri da sé, quindi balbetta qualcosa e sposta lo
sguardo altrove,
il volto paonazzo.
Nejire
ride senza schernire, allontanandosi di qualche passo. «Nel
caso ci trovassimo
sotto un altro temporale, ricordati che ti devo un favore. E non
scappare mai
più come quella volta, non è il modo di
comportarsi con una signorina!»
Questa
volta, però, è proprio la ragazza a fuggire; e
Tamaki rimane il solo a sentire
ciò che di lei resta mentre la luce penetra
nell’aula e una voce dolcissima fa
tintinnare un pomeriggio qualunque, in una vita già un
po’ diversa.
La terza volta
che il cuore di Nejire respira,
il cielo è diviso in due dalla scia di un aereo e
l’estate sta riempiendo
l’aria con più calma del normale.
Sono
già passati due anni di liceo: lei è riuscita a
diventare la ragazza più tenera
dell’intera classe — se non di tutto
l’istituto, a essere una delle migliori
studentesse di esso e a legarsi così tanto a Mirio e Tamaki
da essere quasi
un’unica cosa con loro. “Il Grande Trio”,
così sono noti ovunque: un nome che
la riempie d’orgoglio e carica al solo pensiero di essere
associata a due persone
simili.
Sono
come sfaccettature di una stessa gemma, ma comunque con
qualità e obbiettivi
diversi: si completano, si legano senza scomparire l’uno
nella luce dell’altro
e si comprendono a vicenda più di quanto, forse, non
facciano con sé stessi; e
nell’espressione “volersi bene”
l’anima riconosce le varie sfumature dei legami
e cosa improvvisamente nasca dall’amicizia, si evolve per
incontrare ciò che
l’esalta.
Così,
quella di Nejire sa che Mirio è un tornado di buonumore, un
amico leale e una
persona piena d’iniziativa; ma è innegabile che la
ragazza si sia affezionata
al più timido fra loro con un trasporto fuori dal comune.
Tamaki la intenerisce
e le insegna ad attendere, ma anche a incoraggiare e a portare nella
vita del
giovane un vento vivace; le fa comprendere che pure tra caratteri
opposti ci
sono sempre punti comuni dove poter crescere insieme e che perfino lei
è capace
di rimanere in silenzio, sedersi o camminare vicino al moro e ascoltare
semplicemente ciò che la circonda.
Anche
questa volta, alla fine delle lezioni e quando raggiunge Amajiki nel
cortile
del liceo, non parla per lunghi istanti.
Il
ragazzo la sente arrivare e, voltandosi per guardarla, riconosce
immediatamente
che è successo qualcosa d’importante: basta vedere
come gli occhi blu siano
così ricolmi di voce da luccicare e il respiro corto della
loro proprietaria
denoti che stia trattenendo un intero mondo dentro di sé.
«Va tutto bene, Hado-chan?»,
le chiede mentre le si avvicina, leggermente preoccupato dal suo
serrato
silenzio.
«Amajiki-kun…»,
sussurra infine lei, «ti ricordi gli articoli che ho scritto
nel blog di
scienze, sulle dinamiche sismiche nella Cintura di Fuoco? Ecco, mi
è appena
arrivata una mail da un professore della Kandai[1]:
vorrebbe
parlarmi.
Ha
accennato a un concorso internazionale per i migliori articoli
scientifici
scritti da studenti, una grossa competizione che mette in premio per i
primi
classificati un periodo di permanenza in
un’università americana che si occupa
di scienze naturali…
…
Insomma, se dovessi partecipare e arrivare sul podio, potrei assistere
a
lezioni di oceanografia in America[2]! Ci credi?
Perché a me sembra un
sogno, un sogno!
Devo
parlare subito con i professori, voglio assolutamente
iscrivermi!»
Il
moro sorride senza alcuna fatica nel vedere l’amica correre
intorno
nell’eccitazione, partecipando alla sua gioia e ben deciso a
non arginarla in
alcun modo: si merita ogni bellezza, specie questa felicità.
«Il mare e l’oceano
sono parte di te e li devi ascoltare; e so che vincerai quel concorso,
non ho
alcun dubbio.» Una pausa, un altro sorriso mentre Nejire si
blocca e lo fissa; e
questa volta lui la guarda dritto negli occhi per un attimo, un grande
istante
di coraggio e necessità. «… E quando
andrai in America portaci con te, nel
cuore: vincerai, verrai sicuramente notata ed è probabile
che tu ottenga anche
una borsa di studio per rimanere a studiare là,
e—»
Senza
preavviso, la turchina gli prende entrambi le mani e le stringe; quindi
lo
abbraccia di slancio, senza nemmeno lasciargli il tempo
d’imbarazzarsi. «Non
esiste che mi dimentichi di voi due», gli
mormora, «non pensarlo neanche per un secondo: se pure le
nostre strade si
separeranno, sarete comunque e sempre al mio fianco. Sempre.»
Dopo
una breve esitazione, Tamaki ricambia la stretta e la giovane chiude
gli occhi;
sente il proprio corpo ottenere un secondo cuore, lascia che il tempo
si fermi.
Allora
e solamente allora il cielo ritorna intero, e l’estate
esplode.
La quarta volta
che l’anima di Nejire lo sceglie,
smette di tenerlo per sé.
È
un calmo pomeriggio d’inverno quello che accoglie lei e
Amajiki in uno dei
parchi della città: il giorno dopo è libero da
lezioni, quindi si sono potuti
concedere una pausa e approfittare della bella giornata per godersi
l’aria
frizzante e la reciproca compagnia… inoltre, visto che gli
ultimi avvenimenti riguardanti
il Grande Trio non consentono loro una massima concentrazione sugli
studi,
restare chiusi in camera non porterebbe a nulla di produttivo.
«Non
riesco ancora a crederci, sai», mormora infatti Tamaki dopo
un breve silenzio,
«stavamo per perderlo senza neanche saperlo.»
Nemmeno
ventiquattr’ore prima, Mirio ha salvato due persone dalla
corsa di un’auto
impazzita: non è accaduto nulla di grave e non ci sono state
vittime, ma se il
giovane non fosse stato anche abbastanza lesto a scartare di lato ed
evitare
che la vettura gli centrasse la gamba in pieno, la frattura ricevuta in
regalo
sarebbe stata qualcosa di molto peggio.
Rimasti
a scuola per ultimare una ricerca, loro due hanno appreso
l’accaduto solamente
ore dopo; e la ragazza non è ancora riuscita a levarsi dalla
mente né come abbia
artigliato la mano di Tamaki, né il fatto che lui abbia
risposto nell’identico
modo e nello stesso suo tempo. Si sono graffiati la pelle a vicenda
mostrando e
unendo il sangue, respirando attraverso di esso e ascoltando ogni cosa
senza
udirla veramente; poi la realizzazione è esplosa e si sono
precipitati a trovare
l’amico in ospedale, che nel vederli ha sorriso e poi li ha
abbracciati, finendo
per piangere con loro.
Tre
miracolati, non possono definirsi diversamente; anche se la gente ora
chiama
Togata eroe — e non
c’è alcun torto in questo, a dir la
verità.
«…
Stavamo per perderlo.»
La
ragazza osserva il mondo intorno, quindi prende un grosso respiro.
«Sì, è vero;
ma così non è stato, ed è questo che
ci deve importare.» Osserva il volto tetro
dell’amico, gli si fa più vicino per fargli forza
— per cercare pure la propria.
«Anch’io tremo ancora, credimi; ma Togata-kun
sta bene e noi dobbiamo
rimanere sereni. Non vorrebbe vederci in queste condizioni, specie tu
che sei
il suo migliore amico.
Un
osso rotto si riaggiusta, ma lui non si sarebbe mai perdonato due vite
in meno.
Sfruttiamo quello che è successo per rimanere ancora
più vicini, va bene?»
Tamaki
alza il capo per incrociare gli occhi della giovane. «Lo so;
eppure…»
«Eppure
non eri lì con lui e questo che ti tormenta.»
Lui
annuisce e la turchina lo comprende: conosce entrambi, sa quanto
tengano l’uno all’altro
e non ha bisogno di alcuna dimostrazione. Intanto, quello che
è successo ha
smosso qualcosa dentro il suo animo: e improvvisamente si sente stanca,
ormai
sazia di molto di ciò che tiene solamente per sé.
«Molto probabilmente avrebbe
fatto lo stesso se tu fossi stato al posto suo; però, ora ha
bisogno di te al
meglio.»
«Avrebbe
saputo gestire meglio la paura, lui: anche tu, ora, ti stai occupando
di me…
mentre io non riesco a farlo.»
La
verità è che tu sembri tanto delicato e sensibile
da rischiare di spezzarti al
primo urto, ma sei così forte da poter reggerci tutti. Se tu
potessi vederti realmente…
Il
mondo non attende, non rispetta i tempi di nessuno e non si ferma
affinché
qualcuno possa far maturare i propri segreti fino all’attimo
adatto per
svelarli; corre e corre ancora lasciando indietro tutti coloro che non
sono
pronti al coraggio, e sì, lei ne ha abbastanza di cercare
nuove occasioni: il
momento è ora, adesso.
«Amajiki-kun…
è da parecchio che non passiamo del tempo assieme. Lo
studio, la preparazione
per il concorso e la scuola preparatoria si stanno prendendo tutte le
energie,
e i pochi momenti per noi fanno fatica a bastarmi.
Quindi,
per favore, per una volta stiamo fuori un po’: andiamo a
trovare Togata-kun
per tutto il tempo che ci verrà concesso e poi prendiamoci
la sera libera.
Per
oggi gli impegni sono rimandati.»
«Tra
qualche giorno hai una prova importante; ne sei sicura?»
«Quella
può attendere ancora qualche ora. Ho anche degli amici, e
loro hanno già
aspettato abbastanza.»
Tamaki
non replica subito. «Io… io temo che non sarei una
grande compagnia, stasera.
Mi dispiace, ma non me la sento.»
Nejire
sorride con dolcezza. «Sono abituata al tuo silenzio, non
è un problema; però comprendo
e per questa volta non insisto. È stata una giornata
tosta.»
Se
solamente fossi io lo specchio con il quale poterti scoprire davvero.
Il
moro accenna a sua volta un sorriso per ringraziarla, quindi sgrana gli
occhi
appena la vede avvicinarsi. È ancora pomeriggio, tuttavia
sono rimasti
solamente loro nel parco — loro e gli alberi, unici testimoni
di quello che accade.
Se
solamente lo avessi fatto prima.
Non
è un bacio che pretende e mette all’angolo, che
rapisce il fiato: è rispettoso
e morbido e leggero, perché Nejire sa anche essere come le
farfalle che lui
tanto ama.
È
un contatto più lungo di quello che ha previsto,
perché appena incontra le
labbra di Amajiki ha l’impulso di restare ancora, un altro
istante soltanto e
poi fino alla fine del mondo; e se la realtà vuole correre,
che lo faccia pure.
Quando
si stacca, lentamente e già nostalgica, la sua bocca brucia:
un fuoco gentile
perché il ragazzo non risveglia niente che sia violento, ma
che la arde fin
dentro le ossa e più nel profondo, all’anima.
«Non importa se non staremo
insieme questa sera: nella mia mente ci sarai comunque, come
sempre», gli sussurra
appena prima di staccarsi dal suo volto, un’ultima carezza
sui capelli neri e
sul cuore che può sentire battere attraverso il giubbino. Lo
guarda per accertarsi
che stia bene: al di là del volto più rosso del
solito, degli occhi che non
osano fissarla e del balbettio della voce, non presenta niente che non
abbia
già visto.
Starà
bene; lei, invece, a prescindere dalla risposta che riceverà
si sente libera di
non nascondere più quell’importante parte di
sé. «L’orario di visita sta per
iniziare: vieni, andiamo a salutare il nostro ragazzo senza
paura.»
«Ne-Nejire.»
È
la prima volta che la chiama per nome; la turchina lo guarda con
intensità,
lasciando che il vento le scuota i capelli come fa con il mare, e
rimane in
ascolto.
«Io…
io n-non so come-e… dirlo…»
«Va
tutto bene: non ti devi preoccupare di nulla.»
Lui
attende un istante e avvampa nuovamente, quindi china il capo e serra
gli
occhi. «Avrei dovuto farlo io!», rivela di getto
prima di nascondere il viso
tra le mani.
Nejire
spalanca gli occhioni a quelle parole, si copre la bocca e non si
preoccupa di
tremare; appena il ragazzo scioglie la posizione, fa lo stesso e gli si
getta
tra le braccia. Il suo calore l’accoglie e scalda, ben presto
lui la tiene
stretta come per accertarsi che sia davvero lì.
«Puoi
farlo», sussurra la ragazza dopo un po’, al colmo
della gioia.
«C-come?
Che cosa…»
«Baciami.
Faremo finta che io non abbia fatto nulla e che sia stato tu a prendere
l’iniziativa: baciami per la prima volta.»
Nessuno,
oltre a loro, potrà mai raccontare l’accaduto di
quei minuti: ma la luna che sa
ogni cosa non si cela davanti alle mani intrecciate con cui lasciano il
luogo,
né a due anime che si sono rivelate una sola.
♦
La quarta volta
che Nejire piange —
ma non di tristezza —, c’è una casa che
li unisce.
Dopo
il diploma e l’avverarsi della predizione di Tamaki, prima
della partenza per
l’America, trova spazio una parentesi tutta per loro: giorni
di luce, notti di
mille baci[3].
Le
chiavi della casa materna a Okinawa[4]
riflettono il mezzogiorno tra
le vesti della ragazza, che non ha atteso nemmeno un istante per
buttarsi tra
onde di giada e indaco; sulla riva, Amajiki l’osserva
rotolarsi come una
bambina ed esprimere tutta sé stessa, mentre lui avanza
piano.
Le
forze naturali che li circondano, dai fiori che ricoprono tutta la
spiaggia
della caletta fino ai pesci che pigramente s’aggirano intorno
alle sue gambe,
sembrano un’altra espressione dell’energia che
anima lei; e come una sirena
questa non fa che attrarre a sé, tanto che lui resiste
solamente per poco
quando le si ferma a qualche metro di distanza e tende le braccia nella
sua
direzione.
L’acqua
li accoglie nelle proprie mani cullandoli dolcemente, prende la forma
della
giovane e lo stringe senza far male, lo tiene al sicuro e distante
dalla
frenesia della realtà: esiste solamente lei, creatura dalle
labbra di sale e
figlia del mare, che tanto libera ciò che sente, vuole e
possiede da dover
essere poi portata sulla spiaggia in braccio, esausta ma completamente
felice.
Allora
è il moro che, dopo averla avvolta in un telo e portata in
un punto all’ombra,
la tiene appoggiata a sé e le costella il breve sonno di
coccole e carezze; e
nel pomeriggio iniziano i giochi, le corse e le risate tra onde
più vivaci, che
fanno sentire la propria voce anche tra le mura della casa e li
accompagnano
fino alla notte.
Non
c’è la luna al di là delle finestre
spalancate, ma un manto nero punteggiato da
milioni di perle: bagliori e cristalli che penetrano nella camera,
arrivano fin
sul letto che condividono e scivolano sulla pelle come petali
d’argento.
Nejire
spegne tutte le luci eccetto quella della lampada a forma di gelsomino:
il primo
regalo che il ragazzo le ha fatto e che ora campeggia sul comodino di
fianco a
lei.
La
giovane ne accarezza un petalo di ceramica, quindi si volta verso il
moro e
silenziosamente gli s’infila tra le braccia, respirando il
suo profumo. Lui la
bacia sulla fronte, quindi le fa scivolare le dita tra i capelli e ne
attorciglia una ciocca intorno al palmo. «Non te lo dico mai
abbastanza quanto
siano stupendi…»
«Non
sono come le onde, però.»
Amajiki
sposta l’attenzione verso il suo viso, quindi fulmineamente
muta le posizioni
per intrappolare la ragazza sotto di sé. Lei ride mentre il
giovane china il
volto sul suo, ed entrambi socchiudono gli occhi mentre fondono i
respiri nella
notte già calda.
«Ma
tu sei un’onda, Nejire; la tua intensità
è pari solo a quanto sei bella.»
«Lo
dici perché sei pazzo di me…»
«È
vero: un giorno ho sognato una ragazza con la dolcezza e
serenità di una
farfalla, e la pioggia mi ha fatto incontrare una fata. Non dovrei
adorarti?»
«Lo
fai anche troppo! Mi stai viziando!»
Un
altro bacio, all’angolo della bocca. «Per te ne
vale la pena», le sussurra.
Lei
si solleva sui gomiti, guarda la luce che neanche
nell’oscurità abbandona gli
occhi del suo amore; gli accarezza il viso seguendone tutto il profilo,
spostandosi sul collo e poi staccandosi fino a raggiungergli un fianco.
La
pelle è fresca sotto la maglia leggera, appena le dita la
sfiorano desiderano
averla tutta per loro; e il ventre le s’infiamma quando
è lui ad alzarle
leggermente la canotta per accarezzare gentilmente la schiena, quindi
scende a
baciarle il ventre.
Nejire
singhiozza: una lacrima si crea dal nulla e le solca una guancia, e la
giovane
la lascia scivolare insieme a tutte quelle che la seguono.
Tamaki
si ferma, le tocca il viso con preoccupazione. «Se non vuoi
non dobbiamo farlo
per forza; possiamo aspettare tutto il tempo di cui hai
bisogno.»
«No»,
lo rassicura lei mentre ride, «non è per quello:
io credo… credo che la mia
anima non riesca a contenere la felicità che prova e la stia
manifestando così.
Sta per conoscerti ancora di più, si deve
preparare.»
Si
sorridono, si abbracciano il cuore a vicenda: gli abiti a terra e
solamente il
proprio calore a rivestirli[5], fanno
l’amore finché l’aurora non
toglie loro la coperta della notte; e allora si addormentano, lasciando
che
siano i propri sogni a continuare.
Il
mare si riempie d’oro e distende una nuova, splendida
giornata per quando avverrà
il loro risveglio; le ombre che s’insinuano sotto la
superficie e scivolano in profondità,
invece, quelle forse nessuno potrebbe notarle, né tanto meno
comprenderle.
La terza volta
che Nejire prova terrore,
non è insieme a lui.
Dovrebbe
fare ritorno in America, ma l’aereo non ha nemmeno iniziato a
muoversi che un
rumore simile al rombo di un tuono lo scuote. I motori si spengono, il
brusio serpeggia
nell’intera cabina e gli animi si agitano: eppure, il
problema non è lì.
C’è
del fumo, ma non riguarda il velivolo; scorre la paura e si sentono
grida di
ogni tipo, ma provengono tutte da oltre la pista, dove qualche ora
prima
stavano anche loro.
La
ragazza non è coinvolta fisicamente: eppure, mentre fissa
dall’oblò pezzi di
vetro e cemento e chissà cos’altro — lo
sai, lo sai — ricadere a terra con
rapidità o rimanendo più tempo sospesi, sente
nel cuore cos’è successo. È
distante dal caos che sale e annienta ogni cosa sulla sua strada, non
vede
bene; non riesce comunque a illudersi.
I
pensieri sono tutti incastrati, non possono farsi spazio ed emergere: e
questo
forse è un bene, perché la proteggono.
Seduta
al suo fianco, la sua mentore Tatsuma Ryuko le stringe una mano e le
passa un
braccio intorno alle spalle per stringerla a sé, impedendole
di tremare troppo
forte; e lei tenta del suo meglio per rimanere calma, facendosi
forza… almeno
fino a quando i telefoni di metà dei presenti non iniziano a
squillare, e la
verità inizia a mostrarsi.
«C’è
stata un’esplosione nella zona Est
dell’aeroporto!»
«Una
bomba?»
«C’è
sangue ovunque!»
«È
dove si trovano anche le terrazze panoramiche…»
«Riesci
a sentirmi?»
Amore
mio, mi senti? Ci siamo salutati un’ora fa, davanti al gate:
e tu ti sei illuminato
quando ti ho detto che questa volta passerà solamente un
mese prima di rivederci.
Tu
e Mirio avreste guardato l’aereo partire…
Come
un automa, la giovane recupera il suo cellulare e digita il numero di
Tamaki. Le
dita scivolano varie volte sullo schermo, a fatica riesce infine
nell’intento e
inizia l’attesa più dolorosa della sua esistenza.
Rispondimi
e dimmi che vi siete stancati e ve ne siete andati.
Per
favore, dimmi che non siete lì in mezzo, che non sapete
neanche cos’è successo.
Non
è giusto, no, non possiamo perderci…
Il
primo squillo non porta a nulla, il secondo neppure; il terzo le fa
piantare le
unghie nella carne della gamba, il quarto apre la via al sangue, il
quinto è quasi
insopportabile da reggere. Il sesto è un pugnale nel petto,
il settimo è la
bocca del Nulla.
Clic.
Mente
e cuore fanno un balzo e gli occhi si spalancano; la gola arde mentre
Nejire scatta
in piedi, pronuncia il nome di Tamaki ritornando a respirare dopo
istanti…
…
Ma all’altro capo non c’è niente per
lei: solamente confusione, pianti,
richieste di soccorso e urla, e una voce che non è quella
che ha cercato.
Non
è sola: intorno a sé ci sono tante anime nelle
sue stesse condizioni, persone
che la vita ha appena reso fratelli e sorelle; eppure non sente nessuna
di loro.
La seconda volta
che Nejire soffre davvero,
è sotto a un temporale: il gemello di quello che le ha
portato l’amore.
Sono
passati dieci giorni e l’attentato che ha sventrato una parte
dell’aeroporto di
Tokio non smette di risuonare nella voce gracchiante dei telegiornali,
nello
stato d’allarme che serra il paese, negli spazi pubblici per
lo più deserti, negli
occhi impauriti della gente e nei manifesti che fioriscono agli angoli
delle strade,
attaccati ai pali della luce e sui muri, uniti ai tanti fiori e ricordi
che le
mani continuano a depositare in ogni angolo della città.
Tokio
si china e prega, Tokio piange le vittime che ha accolto in grembo e
abbraccia
chiunque possa: riunisce famiglie, fa incontrare amici, lega le anime e
nel
dolore culla rabbia o empatia, silenzio o compassione.
Quanto
a lei, non può permettersi di fermarsi e chiudersi in
sé: c’è ancora una
parentesi aperta. Mirio, infatti, è tra coloro che sono
rimasti feriti; di Tamaki
è stato invece trovato lo zaino ma non il corpo, e siccome
tutti i morti sono
stati identificati, per lui resiste ancora un filo di speranza:
così che a nemmeno
un giorno dalla tragedia la ragazza si è trovata a postare
su internet e ad
attaccare fisicamente infinite repliche di un foglio con al centro la
più bella
foto che gli abbia scattato — una di quelle dove sta
accennando un sorriso e
gli occhi luccicano sereni, mentre lei cerca di farlo ridere in ogni
modo —,
unita a una breve descrizione e ai recapiti telefonici suoi e della
famiglia
Amajiki, e a una disperata preghiera per qualsiasi informazione
possibile.
È
per una chiamata che passa la notte insonne e si sveglia al mattino con
quel
che è rimasto della sua energia; è per Mirio e
una sola, misera notizia che vaglia
ogni angolo della città e visita ospedali dove uomini e
donne dal volto
irriconoscibile attendono tra la vita e la morte, che parla con tutti
coloro
che vogliano ascoltarla, che si stringe a gente che non conosce ma che
non allontana
o l’allontana mai.
L’incertezza
la consuma e rischia di farla impazzire, la tormenta senza tregua e la
fa
scattare per qualunque parola che riguardi Togata o indizio che possa
riportare
a Tamaki, nella peggiore o migliore delle situazioni in cui si trovi:
vuole solamente
scoprire la verità, se sperare ancora o ricordare, e provare
a ricominciare.
Questo
tuttavia non la protegge dal dolore più atroce quando, in
uno dei giorni di
stasi, il cellulare suona e il numero del padre di Mirio compare sullo
schermo.
Nejire
non fa passare nemmeno uno squillo e risponde, imponendosi tutta la
lucidità
possibile: rimane immobile per qualche secondo, ascolta, non stacca
l’orecchio
dallo schermo quando la chiamata si chiude.
Grosse
nuvole stanno riversando la pioggia di un intero mese su Musutafu; ma
dopo
qualche attimo dalla telefonata la ragazza affronta comunque la
tempesta, quasi
non le importa neppure di potervi annegare sotto.
Mirio
non ce l’ha fatta.
Non
ha neppure saputo rispondere all’uomo, che nel pianto le ha
dato la terribile
notizia: non una parola dalla gola arida, non una lacrima nella mente
attonita.
Il
nostro migliore amico se n’è andato.
Il
cuore accelera i battiti di secondo in secondo, urla, strepita e
diventa
incontenibile; incurante di tutto e tutti, la giovane inizia a correre.
Corre per
non pensare, corre per liberare il buio: una luce si è
spenta, che cosa
succederà se anche l’altra lo farà?
Mirio…
I suoi piedi le
fanno cavalcare
marciapiedi e ponti a una velocità disperata, la portano in
zone mai visitate e
dove i ricordi mettono radici; troppi angoli di quella città
sono intessuti delle
loro risate e si rivelano essere una prigione, un inferno.
Voglio andarmene.
Volta il
capo quando
incontra le finestre del liceo, sforzandosi per non urlare.
Via
da qui, via da
tutti!
Ecco
là i giardini dove tante
volte si sono divertiti a guardar passare le nuvole e a inventare
storie: anche
da quel luogo deve allontanarsi il prima possibile.
Se
è questo che
vuol dire avere un cuore, non lo voglio più! Non voglio
più provare nulla, né sofferenza,
né preoccupazione, e stupore, e… amore.
Amore.
Amore… dove sei? Portami
lontano da questa notte.
I piedi
trovano un
ostacolo, oppure è lei che se lo crea; e cade a terra
rotolando, strappandosi i
pantaloni e sbucciandosi il mento sull’asfalto ruvido.
Piove di meno in quella
zona: grandi fiori arancio costellano i lati del sentiero che ha preso
e la
fissano mentre si rannicchia al suolo, a singhiozzare.
«Sto male… sto così male…
perché devo soffrire tanto?
Perché non ho potuto
perdere quel maledetto aereo e restare con loro, perché ci
siamo dovuti separare?
L’America, il futuro… qui avevo tutto, e ora non
ho più niente!
Perché sono dovuta rimanere?
Tamaki… Mirio… non voglio
che mi lasciate. Non voglio restare sola…»
Ora piange senza freni:
libera ore e ore di angoscia, tutto ciò che ha trattenuto
per giorni. Non chiede
scusa per ciò che urlato, anche se sa bene cosa prova
veramente e che se perde
il cuore allora sì, sì che non le rimane
più nulla; ne ha abbastanza di mostrarsi
forte, quando in verità è così debole
che forse nemmeno si rialzerà dal suolo.
«Perché
ora non dovrei seguirvi, eh?», mormora poi,
«perché non dovrei… non
dovrei…»
«Perché Amajiki-kun
potrebbe essere ancora qui; e perché, se rimarrai con noi,
permetterai a
Togata-kun di continuare a vivere.»
Nejire alza il capo e si
volta, sorpresa; alle sue spalle, Ryuko le si sta
avvicinando piano e attenta a lasciarle il suo spazio. «Sono
passata a casa tua
per vederti, prima; non credevo che avrei dovuto attraversare tutta
Musutafu
per trovarti.» Una pausa. «Però so che
ti seguirei perfino in capo al mondo, se
questo ti desse un po’ di sollievo.»
La
ragazza non replica e si mette seduta a fatica; l’altra le si
inginocchia
davanti.
«Io…»,
inizia la turchina, e la più grande tra loro scuote il capo;
un sorriso dolce
quanto triste le solca il volto. «No: non devi spiegare
nulla. Non devi
pretendere da te stessa di essere invincibile, quando tutti sappiamo
bene che
cosa stai provando.
Sei
una ragazza meravigliosa, Nejire-chan, e dovunque
entrambi siano
continueranno a vederti come la persona migliore che la vita potesse
loro
donare; e anche se ora ti senti cadere in pezzi, sarai sempre la
persona più forte
che abbiano mai conosciuto.
Ora
sulle tue spalle c’è un’esistenza in
più: dovrai ridere, consolare, piangere, costruire
un futuro e amare anche per Togata-kun. È
un’impresa che solo i
coraggiosi portano a termine, e tu puoi farcela; lui lo sa.»
La
turchina nasconde il volto tra le mani, riprende a piangere con
più forza; quindi
si getta tra le braccia dell’amica e chiude gli occhi,
abbassa tutte le barriere
e grida con quanto fiato ha in gola.
Il
temporale si scioglie con lentezza, abbandona pigramente la
città: sotto timide
stelle Ryuko fa alzare la giovane, tenendola a sé.
«Andiamo a casa, piccolina»,
le sussurra, «da questo momento mi occuperò io di
te.»
La prima volta
che Nejire apprende cosa
si possa fare in nome dell’amore, non sono passati che otto
giorni dalla morte
di Mirio.
Sono
le cinque della mattina quando il telefono suona e la risveglia
dall’ennesimo
sonno tormentato; risponde al terzo squillo, il cuore in gola ma decisa
ad affrontare
le conseguenze della chiamata.
«Moshi
moshi. Parlo con Hado Nejire?»
«Moshi
moshi. Sì, sono io… chi mi
chiama?»
«Buongiorno,
signorina. Il mio nome è Hoshino Hideki, di Mito,
e… ecco, mi perdoni davvero
per averla chiamata a quest’ora e spero che abbia pazienza se
non trovo subito le
parole giuste, perché sono agitato quanto lei, immagino: ma,
per essere il più
rapidi possibili, le devo comunicare che qui nella mia casa
c’è il ragazzo che sta
cercando.»
«Scusi?»
«Dico
la verità: il ragazzo che si chiama Amajiki Tamaki
è qui da me. Le ho
telefonato appena ho letto il suo numero sul manifesto, e mi deve
scusare: lo
accudisco da quasi due settimane, ma solamente ora ho trovato il modo
per
contattarla.»
Nejire
si alza dal letto ma si risiede subito dopo; la testa le gira e gli
occhi
pizzicano mentre deve reprimere un singhiozzo. Stai
calma… calma. «Non
si deve preoccupare, a-anzi… non so proprio come
ringraziarla. Per fa-favore, mi
dà il suo indirizzo? Abita a Mito, vero?»
«Esattamente.
Per l’indirizzo non si preoccupi: mi faccia solamente sapere
con che mezzo e
quando arriva in città, così la vengo a
prendere.»
«Ma
no, non si disturbi così…»
«È
il minimo che possa fare. Non oso immaginare quanto lei debba aver
sofferto nel
non sapere le condizioni del suo fidanzato.»
Nejire
prende un respiro, si attacca con forza al cellulare.
«… Lui sta bene? Mi dica
la verità, per favore.»
Una
lieve pausa, e la ragazza intuisce qualcosa in essa. «Lo
vedrà di persona. Mi
raccomando, mi contatti appena sa qualcosa. A più
tardi.»
Per
la seconda volta in pochi giorni, la giovane rimane attaccata al
cellulare
anche quando la comunicazione è ormai finita; ma il tumulto
che prova nell’animo
è totalmente diverso dalla prima. È come trovarsi
alla fine di un tunnel ritenuto
senza sbocco; è come sentire le ali spezzate rinsaldarsi e
prepararsi a volare
nuovamente. Attendi ancora un po’, sono sempre
più vicina.
Il
signor Hoshino è il nonno che tutti vorrebbero: cordiale,
dolce e dagli occhi
pieni di vicende e storie. La viene a prendere fuori dalla stazione e
le si
presenta con un inchino, per poi guidarla a piedi attraverso le vie a
lei sconosciute.
«Non ho scusanti accettabili per questo silenzio»,
inizia immediatamente, «sono
mortificato: ma, vede, a Tokio non ci vado spesso e a casa non abbiamo
internet…
se solo io e mia moglie fossimo meno ignoranti!»
«Non
è colpa sua, mi creda: non ho pensato di mettere manifesti
nelle altre città
perché, beh… non credevo che sarei venuta
qui.»
L’anziano
annuisce. «Lo ha trovato mia moglie una mattina, accasciato
sulla porta di casa:
vestiti a brandelli, ricoperto di bruciature e ferite, più
morto che vivo. Non abbiamo
pensato neppure per un secondo di abbandonarlo al suo destino, lo
abbiamo
accolto e curato; e credendo che fosse un ragazzo del luogo uscito da
un brutto
pestaggio o qualcosa di simile, abbiamo provato a informarci sulla sua
famiglia,
ovviamente senza alcun risultato.
L’avverto
subito: da quando è con noi non mai parlato una volta, e i
suoi occhi… ha
attraversato l’inferno, il suo giovane.»
Nejire
annuisce, il cuore pesante. «Come… come avete
fatto a trovarmi?»
«Pura
fortuna: un nostro amico di vecchia data è andato a Tokio
per qualche giorno e stamattina,
al suo ritorno, ci ha portato uno dei suoi manifesti. Avendo
già visto il ragazzo,
lo ha riconosciuto; noi abbiamo fatto il resto.
Non
ci spieghiamo come possa aver percorso tanti chilometri in quello
stato, né avremmo
mai immaginato che fosse un sopravvissuto
dell’attentato.»
«Capisco.
Avete chiamato anche gli altri numeri? Sono quelli dei suoi
genitori.»
«Ovviamente,
ma senza risposta. Lei è stata l’unica.»
La
giovane sorride, sinceramente grata, e appena ne ha la
possibilità posa un
bacio sulla fronte dell’uomo. «Parlerò
io con la famiglia, allora. Grazie per
ogni cosa: lei e sua moglie non avete salvato la vita solamente a
lui», gli mormora,
quindi si zittisce: l’uomo si è appena fermato
davanti a una piccola casa
circondata da un grazioso giardino e una miriade di alberi.
La
turchina chiude gli occhi, respira e inspira: una volta ancora, due,
tre,
mentre il mondo si condensa nella sua mente. È a
pochi passi da te, ormai ci
sei.
«Coraggio»,
l’invita lui, «è il momento di riunirvi,
finalmente.»
Tamaki
è seduto di spalle quando la giovane esce nel giardino sul
retro della casa.
È
avvolto in una lunga coperta bianca e i suoi capelli neri,
più corti di quanto lei
ricordi, rifulgono sotto il sole che vince le fronde arboree; non si
volta
quando questa scende la scaletta di legno che collega
l’ultima stanza al prato,
facendo rumore; non fa alcun movimento neanche quando raggiunge
l’ultimo
gradino e gli passa vicino.
Il
signor Hoshino l’ha preparata su quello che deve aspettarsi,
ma comunque sia non
ha paura: ha atteso e sperato così tanto, ha temuto per
troppo tempo e ora vuole
solamente guardarlo a lungo, come una volta. Lo fa: gli si inginocchia
quasi di
fronte, per non turbarlo, e lo incontra.
Oltre
ai capelli tagliati, la parte sinistra del volto è segnata
da ciò che rimane di
lievi ustioni e cicatrici; quella destra, invece, è bruciata
da metà della
fronte fino a tutta la guancia. L’unico occhio rimastogli
è vivo e attento, ma
sembra vedere solo quello che la sua mente cerca al di là
della corona di
alberi; e c’è il sorriso accennato di qualcuno che
ha guardato il mondo
crollare su di sé e ora riconosce di avere un poco di
pace… anche se laggiù lei
non esiste.
O
sì? Dentro di lui, là dove il trauma, la
solitudine, la pena e quello che ha
vissuto non sono arrivati, sta forse tenendo stretto il ricordo
della sua Nejire,
certo di poterla sentire solamente così? Il Tempo
è colui che ha tutte le
risposte; e del Tempo si fideranno. Potrebbe essere difficile,
durissima: ma non come rimanere senza la presenza del moro.
La
giovane si alza e gli si avvicina di un passo; quindi gli si siede
vicino.
Tamaki
volta appena il viso verso di lei, ma non lo sguardo: attende un
istante,
quindi ritorna alla sua posizione iniziale.
«I
signori che ti hanno salvato dicono che non parli. Ma a me non importa,
sai:
sei sempre stato più bravo a comunicare in
silenzio.» Una breve pausa; il vento
sospira tra i rami, facendo danzare luci e ombre sul volto di entrambi.
«Da
quando ho creduto di averti perso, non ho fatto che rivedere le mie
convinzioni:
ciò che volevo, che chiedevo, a cui non avrei mai
rinunciato. Non ti ho mai dato
per scontato, quello no; ma nella mia ingenuità ho creduto
tante volte che tutto
sarebbe andato secondo le nostre decisioni, che avremmo potuto
scegliere sempre,
che niente ci avrebbe diviso.
Almeno
quest’ultima cosa, fammelo dire, è vera:
perché eccoci qui. Abbiamo vinto la morte,
io e te.»
Il
silenzio rimane per parecchi istanti; quindi la ragazza allunga una
mano, l’appoggia
su quella che Tamaki tiene più vicino a lei.
Il
moro non si scosta, la lascia restare.
«Ci
sono molte cose che non so, Tamaki; ma posso imparare a conoscerle.
Se
portarti via da questa casa vorrebbe dire farti impazzire, io sono
disposta a
stare qui anche per tutta la vita, fino a quando vorrai. Mito
è una bella città:
starò bene.
Se
non parlerai più o non riuscirai a vedere nulla, lo
farò io per entrambi: piegherò
le ombre e ti aprirò la strada nel buio, ti terrò
per mano.
Se
crederai di essere rimasto da solo, troverò il modo di
rispondere al tuo richiamo:
lo hai già fatto una volta, se sono qui è
perché hai combattuto fino a vincere
la battaglia.
Io
sono l’oceano, le onde e il mare, e nessuno
cancellerà mai l’amore che provo
per loro: ma non sono le onde a completarmi, sei tu. Non è
stato l’oceano a
riportarmi in vita, ma la chiamata che mi ha detto che dovevo avere
ancora
speranza.
Ma
tutto questo lo sai già, vero? Resto in silenzio
anch’io, allora: ho già tutto
quello che può rendermi felice.»
Come
si aspetta, Tamaki non risponde; ma a lei non importa. Socchiude gli
occhi,
alza il viso verso il sole; e forse è una sensazione, un
tremito involontario,
ma le dita del giovane si muovono appena per incastrare leggermente
quelle di
lei.
Non
sono in tanti a dirti che l’amore può far male,
che il fuoco che accende
potrebbe ridurre in cenere; ma in quelle fiamme ci andrei per prima, se
tu lo
volessi.
Farò
tutto questo e anche altro in nome dell’Amore.
Lui è
forte: troverà la strada insieme a noi.
La
testa di lui sfiora appena quella della ragazza, le si appoggia contro
un attimo;
può essere questione di un istante che non si
ripeterà mai più o di un principio
di ripresa di sé, ma è certo che sotto il cielo
del Giappone la speranza rimane, che i miracoli sono più numerosi di quanto la
razionalità possa credere.
E va bene così: rimanere nel mattino fianco a fianco e lasciare che le parole scorrano via, inutili e troppo pesanti per descrivere i sentimenti, e batta solamente quel cuore unico che li ha ricondotti l’uno dall’altra, a casa.
NOTE
[1]
Università
privata del Kansai.
[2] Due
parole sono necessarie. Questa scelta particolare prende spunto dalla
prima
impressione che la ragazza mi ha fatto: infatti, ho conosciuto il suo
personaggio per vie traverse e ancor prima di leggere di esso, e appena
l’ho
visto ho pensato che fosse legato all’elemento acquatico,
specie alle onde; questa
cosa ha dato il la a trip mentali insospettabili.
In
quest’AU, trasformare il suo quirk in un interesse legato
all’oceano è stata la
prima cosa che mi è venuta in mente, e da quel momento non
sono più riuscita a
levarmi l’idea dalla mente.
[3] Riferimento
alla poesia “Dammi Mille Baci” di Catullo.
[4]
Luogo famoso per le sue splendide spiagge e un altrettanto memorabile
mare.
[5]
Riferimento alla poesia “Alicante” di Marguerite
Yourcenar. Tutta la scena è
intessuta da richiami alla lirica amorosa perché solamente
la sua delicatezza e
intensità può legarsi bene alla TamaNeji.
Nell’ultima
parte ci sono continue riprese dal testo della canzone “In
The Name of Love”
di Martin Garrix e Bebe Rexa.