3.11
Era
uno di quei
giorni di marzo in cui il sole splende caldo e il vento soffia freddo:
quando è estate
nella luce e inverno nell'ombra.
Ero
sul punto di pranzare quando la terra improvvisamente si mosse, come
animata da
un'entità maligna.
La
mamma aveva già poggiato il riso sul tavolo, invitandomi a
sfamarmi; mia
sorella aveva appena afferrato le bacchette, quando il lampadario che
giaceva
sopra le nostre teste, grosso e vetroso, si staccò dal
soffitto, precipitando
sulla mia ciotola.
Mio
padre non era in casa e la mamma si spaventò a tal punto da
correre in strada,
per vedere se i vicini erano feriti, portandoci con sé.
Facemmo
appena in tempo a varcare la soglia, quando la credenza con i cristalli
colpì
il pavimento in un tonfo con tanti echi.
La
strada, però, era vuota. Solo l'acqua ne era divenuta la
totale padrona.
Strinsi
la mano di mia sorella, poi quella di mia madre; vidi che stava
piangendo, ma
non lasciò la presa nemmeno per asciugarsi il volto.
Non
capivo che cosa stesse succedendo, ma vedere la mamma singhiozzare mi
faceva
stare male.
Dopo
sette anni passati al mondo, avevo capito che, nel mio Paese, doveva
essere
normale sentire la terra tremare, di tanto in tanto.
Eppure,
quel pomeriggio doveva star accadendo qualcosa di terribile
perché, ad un
tratto, l'acqua mi portò via con sé. Mi
strappò violentemente dalla mia
famiglia, sbattendomi contro qualcosa di indefinito; non avevo
più appiglio,
l'acqua mi aveva sommerso e anche il respiro, improvvisamente, si
mozzò.
Ora,
però, giaccio in un luogo in cui le onde non mi soffocano
più: mi sento al
sicuro e il mio respiro è finalmente tornato regolare.
Devo
trovarmi su di un ponte, se l'intuito non m'inganna, perché
dall'altra parte
vedo la mamma e la mia sorellina Hanako salutarmi con gioia, pronte ad
accogliermi in un nuovo mondo.