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Autore: Aurelia major    17/03/2020    2 recensioni
"Riparti da zero Michiru", commentò a margine delle vicende tra il tragico e il comico cui finalmente era stata messa a parte, "per chi lavora la tua memoria in fondo? Una mica è ciò che crede, è quello che si ricorda. Puoi tirare le somme è vero, ma gli addendi se ne vanno per i fatti loro, quindi fidati del mio consiglio, adattati al jet lag, fregatene di tutto e torna indietro di almeno dieci anni. Vivi in differita." Concluse ghignando e non si capiva se, come al solito, la stesse prendendo in giro, o facesse sul serio.
"E sentiamo", fece quest'ultima replicando per iperbole, ma disponibile comunque al compromesso, poiché non è che al momento avesse altre opzioni disponibili, "come mi regolo se mi chiedono l'ora?"
"Gli rispondi che è già passata."
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Setsuna/Sidia | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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                                                                                 Premessa
 
Che senso ha, dopo tanto tempo, ritornare sulla medesima storia e cambiarla?
Di motivi ce n’è più di uno.
La ricerca del tempo perduto innanzitutto, di un periodo forse non migliore, ma sicuramente più spensierato degli anni che sono seguiti alla prima stesura. E infatti, a rileggere oggi quanto ho scritto allora, è evidente. 
Sono cambiata e le motivazioni che muovevano i miei personaggi non mi appartengono più. Anzi, ad un’attenta rilettura, mi sono risultati talvolta superficiali, forse un abbozzo a volte riuscito, altre no, di quanto avrei voluto raccontare e che è rimasto perlopiù involuto. Inoltre mi sono accorta d’ imprecisioni, refusi e passaggi un po’ ridondanti  che, probabilmente, o almeno lo spero, avrei potuto sviluppare meglio.
 
Non so dove mi porterà tutto questo, ma c’è di buono che finalmente torno ad esercitare una passione che per troppo tempo mi è mancata.
 
Buona Lettura, Aurelia.
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Prologo
 
 – Se un Brunello vuol’esser Tavernello - 
 
 
 
"Adesso basta, io voglio una vita normale." Affermò a voce alta Michiru, sebbene fosse sola.
“Normale.”
Ripeté, esasperata da quanto stava accadendo, ma soprattutto per quel senso d’inanità che proprio non riusciva a scrollarsi di dosso e che aveva fagocitato anche quel giorno, l’ennesimo, in cui tirava le fila del suo scontento, incapace di trovare una risoluzione al problema.
Si allontanò con uno scatto di collera impotente dal leggìo a cui inutilmente si era apprestata nel tentativo di concentrarsi in un’attività che potesse allentare il nervoso e l’insonnia che la tormentavano. E tanta fu la foga con cui abbandonò la stanza, che i suoi lunghi capelli ondeggiarono, quasi fossero la criniera di un leone.
Tale e quale al felino in gabbia cui si sentiva.
Dopodiché, senza alcun nesso, considerato che l’idea le era appena balzata in testa, priva di alcuna mediazione razionale e senno apparente, decise su due piedi di cominciare a fare le valige.
Così, improvvisamente, spoglia di scrupoli di sorta e di tutte le incertezze che fin lì l’avevano stremata.
“Via”, pensò preda dell’adrenalina delle intuizioni fulminanti, “via il prima possibile da questo manicomio.”
C’è da dire che di solito non era facile a simili sbalzi d’umore e neppure a colpi di testa sconsiderati, anzi, la sua natura era di norma dolce e le decisioni che prendeva erano assolutamente adulte e ponderate.
Deliziosa solevano definirla, soave azzardava persino qualcuno, un cicisbeo di sommelier una volta l’aveva addirittura paragonata ad un Brunello di Montalcino, figurarsi.
Eppure, agli stessi, avrebbe voluto replicare con veemenza, la medesima che la rigida educazione cui aveva fruito aveva badato ad addomesticare e tenere sempre nella sua giusta sede, ovvero nella parte più recondita del suo intimo, che anche la sua pazienza aveva un limite e che ormai non ne poteva più.
Perché negli ultimi tempi aveva preso a montare dentro di lei, potente, incontenibile e fortissima, un’inquietudine molesta, al culmine della quale stava sperimentando l’attuale ed inarrestabile anelito di libertà a cui finalmente, finalmente accidenti, stava dando luogo e forma concreta.
“Via di qua.” Si ripeté, prendendo a vagliare le varie possibilità che quella partenza precipitosa le metteva davanti.
Pure, intanto che continuava forsennata a riempiere i bagagli di abiti alla rinfusa, così come le capitavano sottomano, giacché non aveva ancora del tutto chiaro in che misura le sarebbero serviti, si chiese ancora una volta se si poteva definire una crisi la sua.  
A dare retta ai benpensanti dal culo stretto la risposta sarebbe stata no.
Perché pensò, a guardarsi con gli occhi altrui, magari gli stessi che non avevano avuto la stessa fortuna né le medesime possibilità, il suo sarebbe sembrato un capriccio. Il gusto pessimo di una privilegiata che, in mancanza di problematiche reali, se le creasse ad arte pur di passare il tempo. Laddove, apparentemente, altri problemi non aveva, salvo quelli di  bilanciare e dare un nesso alle passioni e gl’impegni che la vedevano protagonista.
Un’obiezione questa che riteneva assai opinabile, ma che comunque non arginava la frustrazione e nemmeno le ridava un equilibrio.
“Certo”, si disse seguitando in una spassionata analisi da terzi, aggirandosi a caccia nella cabina armadio e cercando di essere quanto più realistica possibile, sia nel formulare il suo pensiero che nello scegliere cosa portarsi dietro e cosa no, “avrei davvero poco da lamentarmi.”
E aveva ragione, giacché Michiru era di ottima e ricca famiglia, di quelle che contano, di quelle dotate di residenze avite, lignaggio atavico e soprattutto fornita di sufficiente potere politico e altrettanti mezzi da smuovere le pedine quand’è il caso e garantirsi, di generazione in generazione, dai meandri della nobiltà feudale, su, su fino all’attuale, di stare sempre sopra e mai sotto.
Bel po’ po’ di sedere a nascere sotto a quel tetto, d’accordo.
Ciononostante, tenne a precisare a se stessa e ancora una volta, sebbene un fondo fiduciario a molti zeri le garantisse una rete di sicurezza tale da non doversi mai preoccupare di nulla e che, anzi, avrebbe potuto trascorrere la vita a gingillarsi nei suoi agi, ci aveva messo del suo e dimostrato che non era soltanto una ricca e avvantaggiata ereditiera cui l’aspirazione massima sarebbe stata quella di diventare l’influencer.   
“Perché sono una sgobbona.” Considerò con una smorfia orgogliosa, frattanto che, terminato il saccheggio dei vestiti, cominciava quello di borse e scarpe.
In effetti sì, si era data da fare, tanto da avere in tasca una laurea in Storia dell’Arte e un diploma al conservatorio.
Inoltre, qualora non fosse stato sufficiente, unitamente ad un cervello di prim’ordine, la natura l’aveva benedetta di un’inclinazione artistica fuori dal comune, poiché dipingeva esattamente come suonava, ovverosia, con competenza, sentimento e notevole struggimento.
“Altrimenti col cavolo che mi facevano fare il primo violino e pure la solista.” Ragionò avanzando a passo di carica verso il boudoir, al fine di raccattare trucchi, creme e tutto il corollario da maquillage cui era fornita.   
Giusta osservazione la sua, infatti non c’era un addetto ai lavori, uno, che non fosse concorde sul fatto che lo facesse in modo davvero sublime e, a riprova del suo talento, c’era il non trascurabile dettaglio che riusciva ad esporre le sue opere e a suonare in prestigiose occasioni senza che la famiglia dovesse intervenire con i suoi tentacoli di amicizie, relazioni e scambi di favori.
Sebbene c’avessero provato spesso, nonostante il suo fermo diniego e il particolare che non ce ne fosse affatto bisogno.
Infine, ciliegina sulla torta, come se tutto questo non fosse già straordinario di per sé, nuotava talmente bene che, avesse voluto, avrebbe addirittura potuto dare piglio ad una notevole carriera nello sport.
“Eh sì, la Sirenetta!” Pensò risentita, stufa com’era persino dei vuoti complimenti che, se fino a quand’era una ragazzina erano stati lusinghieri e certamente una manna per la sua autostima, adesso le gravavano addosso come un sudario appiccicaticcio.
Ma c’era poco da fare, dovuti allo status o no, interessati o tesi ad uno scopo specifico e quanto mai pedestre, tipo arrivare ad infilarsi dentro le sue mutande oppure a sgravare il suo conto in banca, era innegabile che qualcosa delle sirene davvero le permeava addosso. Poiché di quelle ne aveva la malia e sembrava fosse emersa da un  mondo etereo che nulla aveva a che fare con l’ordinario.
Perché era bella e, in una parola, incantevole.
“Certo”, rifletté, rimirandosi ferma in uno specchio, approfittando della breve pausa per fare mente locale su quanto ancora le occorresse fuori di casa, “è vero, sono bella, ma a che mi è giovato?”
Un pensiero questo che la portava direttamente alla nota più dolente della premessa di tutto il suo malumore, poiché strettamente correlata al tizio che si fregiava, pure troppo a dire il vero, di essere il suo fidanzato.
Quantunque inizialmente quel rapporto le fosse sembrato d’ordinaria amministrazione, nient’altro che lo scialbo approdo naturale cui, prima o poi, chiunque cedeva le armi e si conformava alle regole della società civile.
Eppure il solo pensarci adesso, le faceva aumentare viepiù il mal di testa e montare dentro un’agitazione tale, che affrettò ulteriormente i preparativi di partenza.
Anche perché cominciava a subodorare quale potesse essere il luogo della sua volontaria clausura, difatti prese a riempire un baule d’indumenti invernali e soprabiti pesanti.
“Perché”, continuò, riprendendo le fila della sua precedente argomentazione e cercando di rimanere distaccata, nel tentativo quantomeno di giustificarsi ai suoi stessi occhi per quel marchiano errore, “in un certo senso sembrava non avrei potuto fare altrimenti.”
E in quel certo senso aveva ragione poiché, mediante una sorta di tacito obbligo di cui tra le domestiche mura non si parlava, ma che avevano badato bene a farle  assimilare come col latte materno, le si imponeva che avvenenza chiamasse avvenenza e che quindi lei Michiru, in quanto rampolla di una casta avvantaggiata, potesse e principalmente dovesse aspirare a qualcuno che le fosse all’altezza.
Se non in reddito, quantomeno in estetica.
Della serie che all’individuo infine prescelto, quand’anche fosse stato decerebrato, si richiedeva se non altro che fosse abbastanza decorativo da non farla sfigurare.
Un diktat, questo, perenne ed imperante fin dai suoi amoretti adolescenziali, tanto che dopo qualche tentativo finito malissimo, da un certo punto in poi aveva proprio lasciato perdere, in quanto presto s’era resa conto dell’inutilità dell’impresa.
Dopodiché , piuttosto che affrontare certi andazzi tortuosi, aveva deciso di metterci definitivamente una pietra sopra e s’era totalmente dedicata ai suoi studi, in attesa di avere abbastanza discernimento da venirne fuori incolume.
D’altronde, all’epoca aveva tanti di quei progetti da portare a termine, che tutto sommato non c’era neanche troppo da rimpiangerlo.
E così aveva fatto, peccato però che questa lodevole abnegazione l’avesse portata ad essere alquanto impreparata in materia e quindi potenziale vittima di qualsivoglia sòla si sarebbe approssimata al suo orizzonte.
E infatti inevitabile l’insidia, covante in paziente attesa dei suoi fremiti di donna, fatalmente era giunta e l’aveva colta  in un frangente del tutto inaspettato.
Ché tutto s’immaginava Michiru, tranne che di essere gabbata dal destino avverso mentre faceva da spettatrice ignara ad un evento melodico di nicchia. Circostanza apparentemente innocua, in quanto di molto inferiore ai suoi standard di violinista e persino di ascoltatrice, ma che invece si mutò in sinistramente eccezionale per mezzo dell’unicum di farla imbattere nella sua personale nemesi.
Poiché era stato da quel momento che aveva preso a consumarsi la farsa, in quanto aveva conosciuto Seya e da quell’infausto incontro la situazione rapidamente era andata precipitando.
Anche perché c’era caduta come una sprovveduta.
E chissà se fu perché priva dell’esperienza fattiva, oppure perché di necessità si fa’ virtù o, piuttosto ancora, per il non trascurabile dettaglio che in definitiva le stavano uscendo gli estrogeni dalle orecchie ormai.
Sta di fatto che davanti a quel bellimbusto dalla parlantina sciolta, che pretendeva di piccarsi di musica d’elite dandosi arie da intellettuale postmoderno, s’era fatta fuorviare come una parvenu alle prime armi.
“Che imbecille!” Si disse, come in tutte le occasioni in cui ci ripensava, inalberando una smorfia acida che davvero non sapeva se indirizzare a lui o a se stessa.
Pure la stizza le dava un’energia da tarantolata, tale da consentirle di depredare anche lo studiolo. Come se la sua non fosse una fuga alla chetichella, quanto un vero e proprio trasloco.
Dopodiché, proprio mentre traccheggiava indecisa su cosa lasciare e cosa portare,  inevitabilmente la vista di un libro d’esercitazioni d’armonia e solfeggio le riportò alla mente il fattaccio in tutti i suoi particolari.
E se lo rivide lì, neanche ce l’avesse davanti, come quando l’aveva conosciuto, nell’atto di fare la ruota perché pervaso dall’assoluta convinzione di star presiedendo alla sua imminente esibizione da protagonista immenso ed infinitamente charmant.
“Che beota!” Michiru scosse il capo, ripensando raccapricciata al vestito rosso fuoco, corredato di scarpe canarino, camicia nera e cravatta gialla, con cui si era addobbato.
Evidentemente Seya aveva presunto che, dotato di un look simile, senz’altro non sarebbe passato inosservato e come dargli torto?
Ma, non fosse stato abbastanza, ostentava pure zirconi scintillanti ai lobi e una pettinatura da ex Germania dell’Est, consistente in capelli corti davanti e codino d’ordinanza sulla schiena, che unitamente allo sfoggio del vestito, aveva il devastante potere di richiamare, in un attimo e con una sola occhiata, all’antologia dell’orrido modaiolo targato anni 80.
Michiru annuì afflitta, poiché probabilmente già lì avrebbe dovuto comprendere che non era aria. Ma le era mancato il criterio e l’occhio lungo dell’intenditore, sebbene Seya le stesse offrendo su di un piatto d’argento l’inequivocabile spettacolo di un papabile partner da evitare senz’altro.
Per dovere di cronaca va’ detto pure che, non pago di essere una via di mezzo tra un cialtrone e un’imitazione mal riuscita degli Spandau Ballet, si atteggiava a vedette di primo piano, laddove al massimo si poteva definirlo di primo pelo, considerando il particolare non tanto marginale che il debutto mediante il quale si celebrava la sua grandezza, per modo di dire, aveva  luogo in una sala che non era per niente prestigiosa.
Anzi, si seppe poi, che di solito era luogo di culto e raccoglimento per gli accoliti del reverendo Moon.
Ça va sans dire.
Come se non bastasse,  il pubblico pagante era assai scarso e perlopiù composto da parenti ed amici, intervenuti a supporto non tanto perché interessati, quanto perché la buona creanza li impossibilitava di rifiutare l’invito. Inoltre, sebbene il musicante in questione non ne fosse alquanto persuaso, animato com’era da un’arroganza e una sicumera del tutto fuori luogo, il suo nome era universalmente sconosciuto agli estimatori del genere. I quali già erano pochi di per sé, dal momento che la musica decacofonica che componeva, arrangiava e suonava, quale alto contributo alle avanguardie artistiche che credeva di capeggiare, apparteneva ad una branca assai minore e pressoché irrilevante, pertanto, per niente in grado di attirare numerosa affluenza.
Per non menzionare il determinante particolare che fosse un qualcosa di assolutamente inascoltabile.
“Diciamo pure che faceva accapponare la pelle.” Pensò Michiru ricordando con dolore.
Eppure, nonostante l’infamia e la vanagloria, quella di chi proprio non si capacita delle pernacchie e i fischi presi in sala, persino da quei quattro gatti in croce che c’erano, appena conosciutala Seya, apparentemente incurante del clamoroso insuccesso, aveva preso a farle una corte serrata.
E lei, che si sentiva un po’ spaesata in quell’ambiente così lontano dai suoi soliti, oltre al fatto che si trovava in uno stato di leggero rintronamento, dovuto sia al frastuono di quella disarmonia disturbante che dal prosecco da quattro soldi offerto al beverage del buffet, graziosamente aveva accettato di concedergli un appuntamento.
“E che sarà mai?” Aveva pensato sul momento. In fondo era abbastanza belloccio, magari poteva rivelarsi meno pozzangherale di quanto apparisse. Valeva la pena provarci e che diamine, mica poteva fare sempre la monaca reclusa?
“Che Imbecille!” Si ribadì, mentre articolava i capelli in uno chignon, e stavolta ce l’aveva proprio con se stessa.
Poiché era bastato appena un convegno di troppo che, senza che neppure se ne rendesse conto, si era ritrovata al cappio e incalzata malamente.
S’era scoperto difatti, mediante opportune investigazioni da parte dei sui genitori allorché gliel’aveva presentato, malgrado fosse assai poco persuasa della saggezza del gesto, che Seya portava in dote non solo una gradevole apparenza, quanto un’innegabile idiozia, ma anche origini e averi che, sebbene non comparabili a quelli dei Kaiou, se non altro risultavano accettabili.
Elementi che ai loro occhi non potevano che farne un buon partito, dato che, qualora si fosse arrivati al dunque, indubbiamente avrebbero tenuto costui in perenne e deferente soggezione.
Al punto tale da fargli assumere il loro cognome, piuttosto che mantenere il suo e imporlo alla loro altolocata figliola. Laddove qualcun altro più autorevole e magari meno cretino, li avrebbe surclassati col proprio blasone, impedendogli d’imperversare liberamente.
E forti di queste motivazioni, la pletora al completo dei parenti riuniti, lo elesse ad uomo ideale, giacché persuasi d’aver scovato finalmente colui il quale potesse infrangere il romitaggio da zitella che Michiru pareva essersi imposta.
Come se loro non avessero responsabilità in merito e fosse lei a fare la difficile.
E chi c’era di meglio d’un pupone intangibile da metterle accanto vita natural durante?
Nessuno a quanto pare.
E allora in alto i calici, la vergine di ferro stava per essere vinta, perché era arrivato lui, l’Ignoto Numero Uno!
E soddisfatti, come per decreto imperiale, avevano preteso d’imporglielo, dandole ad intendere senza neanche troppi preamboli né delicati giri di parole, che così facendo ottemperava al suo dovere di generare un erede che desse continuità al lustro della stirpe.
Praticamente una situazione a mezza strada tra una telenovela sudamericana e un melodramma Viscontiano.
Per intenderci, dalle parti de Anche i ricchi piangono, su,su fino al Gattopardo.
Eppure, nonostante il pamphlet da commedia dell’assurdo, facevano sul serio, talmente tanto, che il precipitare degli eventi aveva portato a pressioni gravose e sempre meno pazienti, ma peggio ancora, Seya, intuito dove soffiasse il vento, si era fatto audace.  
Infatti, senza degnarsi neppure di metterla al corrente, si era presentato al cospetto dei suoi in veste ufficiale chiedendo la sua mano e lasciando intendere che si sarebbe reso più che volentieri e manifestamente incline alla sudditanza.
Tutto ciò, frattanto che accettava una robusta raccomandazione da parte di Kaiou senior, volta a fargli pubblicare le sue sciagurate composizioni presso una casa discografica compiacente.
“Ma quanto amore!” Aveva enfatizzato Michiru allorché le avevano comunicato la lieta novella, paventando al contempo un matrimonio prossimo a venire. 
Nozze da favola naturalmente, sebbene quest’ultima avesse trasecolato e chiaramente espresso il suo diniego, ripetendo più volte che quando mai aveva dato segnali positivi in quel senso? E che anzi, coglieva l’occasione per rendere noto apertamente, ora più di prima e con chiarezza tale da non prevedere fraintendimenti alcuni, quanto fosse totalmente recalcitrante sia al legame che all’uomo.
“Ma come è potuto succedere, accidenti?” Si chiese ancora una volta, ripercorrendo a ritroso le circostanze, in cerca del bandolo della matassa.
E d’accordo che all’inizio ne era stata leggermente infatuata, ma leggermente, giusto un minimo sindacale d’interesse. E poi restava comunque il fatto che non lo fosse stata mai abbastanza da potersi immaginare un epilogo del genere.
Poiché, e su questo non accettava confutazione da nessuno, c’era sempre stata una parte di sé che lo respingeva, quasi fosse una specie di farmaco che si era costretta a prendere per un malessere specifico e consapevole del fine ultimo, ma allo stesso tempo seccata dalla procedura.
Una specie di supposta praticamente, pensò sarcastica, ecco cos’era stato per lei perdere la verginità con quel coglione.
E sia, lo ammetteva senza sconti,  aveva fatto una cazzata immane, chi lo negava? Tuttavia, finita la novità che Seya aveva rappresentato, le era bastato veramente poco per comprendere quanto fosse lontano dall’essere la sua persona.
E infatti, più passava il tempo, più l’obbligavano alla sua ingombrante presenza e più lo viveva come un qualcosa di superfluo da tirarsi dietro di malavoglia come accessorio, tipo una brutta borsetta o un ombrello quando non piove.
Magari, poteva dirsi al fine di attribuirgli quantomeno un’utilità pratica, seppur veniale, c’era stato di buono che in conclusione le avesse fatto scoprire le gioie, si fa per dire, del sesso.
Ma considerato che questa fantomatica rivelazione non si era palesata come quell’esperienza travolgente che aveva sempre vagheggiato e che, passato il momento topico che accompagnava quel rito di passaggio, altro non era rimasto che una domanda sibillina, che ora come allora risuonava come un barbarico YAWP sui tetti del mondo:
Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?
Tant’è, a bocce ferme e dopo che della sua virtù non era rimasto che il ricordo, per Michiru ne era conseguita la piena consapevolezza che il declino del suo benessere andava di pari passo al suo accompagnarsi a quello zotico.
Un’epifania che l’aveva colta sulla strada di Damasco già prima che si cominciasse a parlare di sponsali e soprattutto nel momento più opportuno, ovvero ad un successivo rendez-vous ed esattamente frattanto Seya la stava scopando.
Scopando sì, perché quello, ne era certa, di sicuro non era fare l’amore.
Anche se, accidenti a lei, le era occorsa più di una ripassata per afferrare il concetto, nonostante nel suo intimo, soprattutto in quello, cominciasse a lievitare un senso d’inappagato che da quel momento in poi aveva preso a divorarla.
Ricordava perfettamente il momento.
Lui le stava addosso, dandoci dentro convinto com’era di essere un completo amatore, e lei inerte ne subiva le spinte tra l’indifferenza e il fastidio, chiedendosi al contempo perché si stesse sottoponendo ad un simile strazio.
Allorché le era sovvenuto, con tutta l’evidenza del caso, che non provava nessun piacere, oltre al fatto che proprio non le riusciva di trovare un motivo per continuare a starci insieme, figuriamoci farla diventare una relazione duratura.
Di conseguenza gli aveva dato il benservito, immediatamente e senza curarsi del contesto.
Con uno spintone se l’era tolto di dosso e gelida gli aveva intimato di levarsi dai piedi. E tanta era stata l’estemporaneità del suo dire, che Seya aveva faticato parecchio ad afferrare l’antifona. Al punto che quando finalmente il succo del discorso gli era stato evidente, si era rapidamente afflosciato, come un soufflé mal cotto, sia nell’ego che nella virilità.
Tempo qualche giorno però, giusto il minimo di recuperare la faccia tosta e recepire appieno quale succosa preda si stesse facendo scappare, nientemeno l’aveva chiesta in moglie.
Ed eccoci  all’attuale dove tutti le scassavano le palle e lei stava per darsi alla fuga nottetempo.
“Me ne fotto!” Dichiarò la soave, in quel momento non troppo, Michiru alla fine delle sue fatiche, calzata, rivestita e pronta per abbandonare le natie sponde.
E altro che addio ai monti.
Animata com’era da un sacrosanto furore, non c’aveva messo molto ad accatastare fino all’inverosimile la somma parziale del suo bagaglio. Sebbene, pur badando a portarsi dietro l’indispensabile, cioè quello che secondo lei era lo stretto necessario, il risultato finale assommava a un set completo di valigie, due cappelliere, un baule e le varie custodie del suo corredo musicale.
Ora non le restava che caricare l’auto e filarsela.
Più facile a dirsi che a farsi, difatti non c’era nessuno che potesse darle una mano, oltre al dettaglio non trascurabile che di norma a certe mansioni provvedevano altri.
Ma siccome Michiru per ovvi motivi evitava da un pezzo la casa paterna, avendo riparato nel suo appartamento dove meglio poteva difendersi dalle invadenze ed intromissioni altrui e, considerato che al suo domicilio badava una governante che certamente a quell’ora di notte l’avrebbe mandata a quel paese qualora l’avesse convocata e che, soprattutto, non aveva nessuna intenzione di far sapere a chicchessia che stava partendo, né tantomeno dove fosse diretta, laddove avrebbe lasciato l’ingrato compito al personale di servizio, si risolse a provvedere di persona.  
Va’ detto in suo onore che non la spaventava affatto la gravità dell’onere, giacché la celeste Michiru era talmente incazzata che assunse all’impervia operazione con un piglio da scaricatore di porto professionista, fregandosene del tutto se nel frattempo le sarebbero venuti i calli della zappa alle mani.  
Quindi, incurante dell’ora e del casino che stava facendo, ché le ruote dei pesanti fardelli che trasportava risuonavano nitidamente nel silenzio della notte come le fanfare dell’Aida, per non menzionare il fatto che le si incastrò pure il tacco nella grata dell’ascensore, causando più volte l’apertura delle porte con relativo squillo d’avvertimento, il che, unito ai suoi improperi, svegliò più di un condomino e che le telefonate di protesta in guardiola cominciarono a diventare copiose, una volta liberatasi prese ad andare su e giù finché non ebbe portato tutto dabbasso.
Andava talmente spedita che non ci fu verso per gli addetti alla portineria d’intercettarla, tanto che ad un occhio esteriore sarebbe potuta sembrare Pac Man inseguita dai fantasmini.
Dopodiché, finalmente in garage e protetta dalla serranda chiusa, a furia d’ulteriori parolacce e spintoni, miracolosamente riuscì a stipare il tutto in macchina.
Oddio, aveva giusto lo spazio per incastrarsi sul sedile di guida, pensò mettendosi al volante e cominciando la manovra per uscire dal posto macchina. Dal lunotto posteriore poi non c’era visibilità alcuna e gli specchietti laterali chissà dove e quando li aveva persi. Tant’è, se l’avesse fermata la stradale probabile ne sarebbero potute nascere noie, se non addirittura un sequestro di mezzo e patente.
Pure, si disse uscendo dal perimetro dello stabile e apprestandosi ad immettersi in strada, non aveva che da fare un tragitto relativamente breve, dopodiché avrebbe abbandonato l’auto al suo destino nel parcheggio della lunga sosta e chiamato un tassì, ricordandosi di specificare che gliene occorreva uno veramente capiente.
A quel punto avrebbe potuto stare relativamente più tranquilla e pensare con più agio al da farsi. Ché di tempo ne avrebbe avuto a iosa durante il viaggio in aereo.
Casomai la preoccupazione più urgente adesso era quella d’acquistare il primo volo in partenza disponibile.
“A costo d’accamparmi nel gate o di fare una dozzina di scali, ma indietro non torno.” Pensò risoluta, ingranando la marcia e disinteressandosi di quanti ponti si stesse bruciando alle spalle.
Intanto però, forse era arrivato il momento di annunciare a chi di dovere il suo arrivo, ché non le pareva proprio il caso di capitare tra capo e collo senza neanche un poco di preavviso.
Si proponeva infatti di riparare presso la sua più cara amica e, benché non avesse dubbi di sorta sul particolare che sicuramente l’avrebbe prestato aiuto, poiché si conoscevano da tanto tempo e spesso avevano provveduto a pararsi il culo più volte e vicendevolmente, le sembrava comunque poco ortodosso piombarle addosso senza lasciarle la possibilità di deliberare in materia.  
In ogni caso si sentiva assolutamente sicura che la sua soccorritrice non avrebbe fatto una piega innanzi alla sua venuta intempestiva, serafica e pragmatica com’era infatti, probabilmente si sarebbe limitata a prenderne atto con un sorriso di benvenuto.
Tuttavia voleva esserne certa, per cui, mentre guidava con una mano sola, attivò il computer di bordo che si collegava direttamente al cellulare e chiamò Setsuna, intanto che si faceva il conto del fuso orario.
Lì dovevano essere pressappoco le sei di sera e in effetti quest’ultima rispose dopo appena qualche squillo.
“Michi tesoro”, proruppe piacevolmente sorpresa, “è da un pezzo che non ci sentiamo.” Poi evidentemente, quantificando anch’essa lo scarto temporale tra il posto dove stava e quello da dove veniva telefonata, chiese cauta: “Dì un po’, tutto bene? Com’è che mi chiami nel cuore della notte?”
“Perché sto partendo per venire là.” Fece Michiru volitiva, mentre finalmente, dopo tanto, cominciava a sorridere realmente compiaciuta.
Accidenti, lo stava facendo, lo stava facendo davvero.
“Qui?” Replicò l’amica sinceramente meravigliata. Era la prima volta che ne sentiva parlare. “Ma ch’è successo?” Domandò, non tanto perché fosse allarmata o perché le dispiacesse, quanto per il fatto che i conti non le tornavano per niente. “Mi sono persa qualcosa?” Chiese ancora, però poi, senza attendere risposta, aggiunse: “Lascia stare, tanto tra un po’ me lo dirai dal vivo.”
“Bene.” Fece Michiru altrettanto placida, ma a beneficio dell’amica specificò: “Sai, mi sono stufata di essere un Brunello e voglio essere un vino più leggero.”
E detto ciò prese a ridere di cuore mentre, sollevata come non ricordava da quanto, imboccava la corsia che dall’autostrada l’avrebbe portata direttamente all’aeroporto.       
 
 
 
 

 
   
 
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