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Autore: Dregova Tencligno    05/04/2020    1 recensioni
Ricordi emersi su un prato a mirare la vita di altri, pensando alla propria e aspettando un amante prezioso più dell'anima stessa. Pensieri che si rincorrono ed emozioni che esplodono.
Genere: Generale, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Memorie tese

Arrivato nel prato verde luminoso in cui trascorsi le mie fantasie di infanzia, mi fermai a sostare sotto un alto pino, immenso, come i giganti nel regno tra le nuvole, tra oche dalle uova d’oro e arpe magiche. Ma, a differenza delle giornate impresse nella mia memoria, quella che mi accoglie in quel luogo magico è uggiosa. Il cielo grigio pare possedere la straordinaria capacità di ingoiare tutti i colori del panorama. Le foglie degli alberi sono più scure, quello che avrebbe dovuto essere un verde luminoso dell’erba assomigliava più a un verde piangente.
Era estate, ma la giornata piovosa, di cui si sentiva l’odore penetrante permeare l’aria con il suo sfrigolante e intenso aroma, sembrava arrivare dalla primavera appena trascorsa, o, peggio, dall’autunno in anticipo. Come se novembre avesse deciso di fare i bagagli, salire su una macchina del tempo e anticipare la sua venuta. Con tanto di strascico di foglie secche e accartocciate.
La verità era che non vi erano foglie secche e accartocciate, ma un fresco sentore di umidità che arrivava fino alle ossa e che faceva assomigliare la cute come un cappotto di pelle d’oca. E la sensazione non era nemmeno spiacevole, anzi, faceva venire voglia di scaldarsi con il contatto umano, ricercare la compagnia di un’altra persona, abbracciarsi e sospirare, aspettando che le temperature si fossero decise a crescere, trasformando il dolce contatto in un umido tormento da cui, amaramente, mi sarei disciolto.
Arrivato nel prato verde, qualche giorno prima, poco prima del cambio del meteo, mi accampai nel nulla, poco distante da un gruppo di alberi solitari, così amichevolmente familiari, così spaventosamente silenziosi. Che cosa non avrei dato per conoscere i segreti che custodivano. Chissà quali conversazioni avevano origliato, quali tormenti di amore avevano osservato, curiosi di sapere come la passione si sarebbe trasformata. Un fuoco di paglia, breve e intenso? O le fiamme eterne della magia greca?
La pioggia che batteva sotto il tetto della tenda azzurra che mi era stata regalata da una cugina del ramo della mia faglia, da parte di madre, ondeggiava placidamente, ben salda e forte, alle correnti d’aria che il temporale che imperversava agitava con violenza, suonava la sua musica. La mia mente tornava al fanciullino che aveva giocato per anni tra quegli alberi, corso e rotolato su quello stesso prato. La terra non era cambiata, solo il manto verde ogni anno si rinnovava. Tranne quella terra, e quegli alberi, niente era rimasto di quel tempo. Se non le memorie, e anche quelle cominciavano ad essere intaccate dalla malattia del tempo. I dettagli non erano più vividi come anni prima, i profumi e gli olezzi avevano perso consistenza e intensità, tutte le sensazioni della pelle oramai sparite per sempre. Ma ancora restavano i sentimenti e le emozioni che avevo provato. La libertà di non avere regole cui rispondere, di sporcarmi e di farmi male senza preoccuparmi di niente.
Le preoccupazioni sarebbero arrivate più tardi, con la maturità, e l’accenno di essa.
Da bambino il temporale era stato per me come uno spirito tiranno, intangibile e furtivo, che si divertiva a mettere paura alla gente. Era un bullo che non si poteva vedere, e pertanto sgridare. E io ero convinto ci fosse e che si divertisse a farmi dispetti con i suoi rumori assordanti di massi che rotolavano su scudi di rame, con i suoi serpenti saettanti che squarciavano il cielo e con i suoi bagliori che tutto disegnavano tra le ombre tranne che fiabeschi sogni.
La pioggia batteva il suo tempo, rotolava sulla tenda, picchiettava e pizzicava corde degli incredibili strumenti cari alle muse. E la musica accompagnava la fantasia e le memorie che aleggiavano nella mente in quell’oasi di pace che la natura aveva da offrire.
Un tempo tutto era stato molto diverso, non c’erano state le case ad attendere la vista a un’ora di viaggio da quel prato, non c’erano tutte quelle macchine rumorose e pestilenziali.
Mangiai la merendina, che aveva trascorso il tempo, fino a quel momento, nel fondale scuro del mio zaino di un azzurro chiaro, quasi da cielo, con lentezza, assaporandone la dolcezza della crema e la morbida consistenza dell’impasto, in contrasto con la durezza delle scaglie di cioccolato che si intrecciavano alle bolle d’aria della levitazione.
Disteso con i piedi dentro la tenda e il capo sulla sua soglia, alzando di poco lo guardo, miravo il cielo fatto di una lastra grigia e di scuri batuffoli di cotone che si univano in una coperta solcata, talvolta, da fili argentei, ora dorati, e ora rubri, che zigzagando parevano risalire quell’arabesco arazzo ricamato da sapienti mani.
I rauchi e rombanti suoni del temporale mi arrivavano lontani e vicini allo stesso tempo, mentre con la mente già fantasticavo, accompagnato dal movimento della bocca, intenta essa a masticare la merendina, su come avrei impiegato l’immensità del tempo che mi separava da un più promettente e soleggiato meteo.
Già pensavo all’amico libro sopito nello zaino disperso nel piccolo e accogliente, e soprattutto caldo e rassicurante, spazio che la tenda offriva. Perdermi nei racconti di una guerra combattuta ancora prima della mia nascita, misto a una storia di amore, che speravo a lieto fine, mi attirava ancor più di qualsiasi attività che quel tempo mi permetteva di compiere.
Per un secondo mi smarrii nel ricordo di dove trovai il libro, dalla copertina di un verde accecante, con una foto in bianco e nero che, verosimilmente, doveva rappresentare il volto imberbe del giovane soldato che si trovava a combattere una guerra in cui non credeva, ma in cui si trovava per amor di patria e con la speranza di combattere per il bene. Un bene in cui faticava a credere. Come faceva a combattere per il bene se l’unica azione che gli era concessa, e di cui doveva andare fiero, era uccidere uomini come lui? Vedeva gli occhi di quelli che chiamava amici e non riusciva a vedere che le persone che si celavano dietro lo sporco, il sudiciume del fango impastato al sangue e la divisa diversa dalla propria. Sapeva cosa avrebbe trovato se avrebbe tolto ai nemici le spoglie di nemici. Avrebbe trovato uomini di carne, proprio come lui. E gli occhi che vedeva, prima di concedere una morte quanto più rapida e indolore possibile, per carità di animo, erano simili a quelli dei suoi fratelli che aveva lasciato in terra natia, agli occhi di sua madre e di suo padre, alle donne che aveva amato e agli uomini che aveva anche amato, seppure con diversa passione scostante da quella che la compagnia femminile prometteva se il sentimento fosse stato abbastanza forte.
Ricordavo dove avevo trovato quel libro. Pochi giorni prima, in un rione di Roma, mi era fermato avanti a una bancarella, impolverata e dondolante, dell’usato e, lì, ero stato attirato dai colori sgargianti del dorso e del retro della copertina. Ne ero stato attratto per il repulso che in me provocava; come ricevere un pugno in un occhio. E da questa sensazione di disgusto che la copertina mi causava fui spinto ad acquistare il libro.
Mai giudicare un libro da una copertina.
Mi orripilava il pensiero di vederlo in uno dei tanti scaffali della mia personale libreria, contenente opere largamente conosciute e qualche titolo più di nicchia, e proprio per questo lo acquistai. Mi dissi che doveva per forza contenere un tesoro inestimabile se l’autore, o chi per lui, aveva deciso di tenere alla larga eventuali acquirenti. Troppa la gelosia provata per quelle parole stampate su sottili pagine ingiallite per permettere a occhi estranei di posarsi su di esse.
Fu un buon acquisto, me ne convincevo pagina dopo pagina. Ed ero arrivato quasi alla fine, e avevo paura di giungere all’ultimo punto, troppo desideroso com’ero di prolungare l’amichevole compagnia che mi aveva accompagnato in quegli ultimi giorni.
I polpastrelli già degustavano l’impercettibile peso di quelle pagine, il loro spessore appena palpabile e la grana dei fogli; mentre le narici anelavano ad assaporare l’aroma di quel libro che sapeva di casa. Però, dopo piccoli balzi di pensieri, mi convinsi a lasciarlo dov’era, forse per un altro giorno, prima di porre fine a quella nostra prima avventura insieme. Mi ero troppo affezionato alla vicinanza del giovane soldato, troppo affini i suoi pensieri ad alcuni dei miei, troppo colpito dalla dolcezza del sentimento di amore che si era trovato a provare per una ruvida, ma geniale donna, un’infermiera di un campo nemico, addirittura, e detestavo l’idea di sperarmi da loro e dalla loro fuga di amore.
Lo lasciai, ancora per un giorno, mi ripetei con convinzione. Sconfiggendo la curiosità si sapere cosa altro l’autore aveva avuto in serbo per le sue creature. Considerai l’autore gentile e di buon cuore per aver concesso, dopo un iniziale dramma, la possibilità a quei due amanti di poter, speravo con forza, costruire un futuro su quella storia nata tra i fuochi della guerra.
 
Mi svegliai di soprassalto, colto alla sprovvista da un rumore sordo, in lontananza, come di grida festose e passi che si rincorrevano rapidi, gioiosi, scricchiolando sull’erba bagnata.
Aveva smesso di piovere, non avevo idea da quanto. L’aria si era raffreddata, potevo percepirlo dalla brezza leggera che aleggiava sopra la mia testa, arruffandomi i capelli, e insinuandosi dentro la tenda per solleticarmi i piedi, rendendo gelate le dita che, intorpidite, muovevo per riscaldarle. Anche il naso e le guance erano freddi, tranne le orecchie che sentivo cocenti e, anche se fisicamente mi era impossibile vederle, le sapevo arrossate, come se provassi qualche genere di timidezza.
Mi voltai prono e mi alzai sulle braccia, sulle ginocchia, entrando completamente nella tenda e mirando lo scorcio di terra che potevo vedere, perché il cielo era fuori dalla mia portata. Non avevo, però, bisogno di vederlo per sapere cosa avrei trovato. Le nuvole dovevano essere passate su altri orizzonti, mosse dal placido vento che era si sbizzarriva tra i fili d’erba bagnati, da cui proveniva un dolce aroma terroso che mi scaldava il cuore, e la mente, raccogliendo memorie dal passato, nemmeno fossero state fiori in primavera.
Il cielo doveva essere scuro, seta nera che avrebbe presto accolto le speranze mute dei sognatori, desideri che non avrebbero mai trovato una propria corporeità nel mondo dei viventi terreni. Desideri che, puri, avrebbero avuto modo, però, d trovare una realizzazione nei mondi in cui tutto poteva essere possibile e perfetto.
Anche se non potevo vederle, sapevo che le stelle erano ben visibili nel cielo, brillanti come diamanti. E da qualche parte, timida e pallida, la luna osservava dall’alto come gli uomini si divertivano, forse, pudica, scostando lo sguardo, se esso si posava su coppie appartate per consumare temporanee passioni.
Sentii nuovamente le urla giocose, provenienti da lontano, e trasportate dal vento assieme al pungente sentore di un fuoco acceso.
Qualcuno si stava divertendo. Una famiglia o un gruppo di amici. Sorrisi per loro e mi rintanai ancora di più nella tenda. Ora potevo vedere, nell’oscurità della notte, solo uno scorcio di terra umida su cui si intrecciavano i fili d’erba formanti una coccarda di benvenuto.
Chiusi gli occhi, inginocchiato nel vuoto della tenda, attendendo che il recente risveglio scivolasse via dal corpo e mi permettesse di capire se quella notte avrei potuto godere ancora una volta dell’abbraccio del sonno o se mi sarei dovuto inventare un passatempo con cui aspettare l’alba.
Dolcemente stordito, lasciai che quella realtà mi cullasse e risvegliasse il mio benessere.
Ancora grida, ancora corse.
Quante volte avevo, da bambino, corso spensierato su quella distesa di verde, a qualsiasi ora del giorno, rotolandomi e giocando con amici invisibili, impugnando un bastone come spada. Le mie urla erano state la gioia e il tormento dei miei genitori e degli altri villeggianti, qualcuno aveva pure alzato la voce contro di me per zittirmi, ovviamente senza ottenere successo. Che marmocchio insolente che ero. Sempre pronto a divertirsi, sempre alla ricerca di un modo per consumare le batterie.
Chissà che fine aveva fatto.
Quel bambino avrebbe colto l’occasione del riposino durato tutto il giorno per correre e saltare in quella fresca e serena notte. Il suo entusiasmo e la sua felicità si sarebbero levate alte, magari svegliando qualche ignaro signore che aveva, tra i progetti della villeggiatura, quello di recarsi, di buon mattino, presso il vicino lago per pescare, sperando che i rumori della limitrofa spiaggetta fossero stati inesistenti o abbastanza pacati tanto da permettergli di portare al vicino nel camper, amico di vecchia data, una lauta offerta per un pranzo da condividere in armonica serenità.
Chissà che aveva fatto quel bambino. A volte giudicavo si fosse nascosto proprio bene, altre che lo avessi perduto. Immaginavo che non avrei mai saputo la verità.
Caduto l’ultimo velo di sonno, mi accorsi di non essere abbastanza stanco per andare a dormire, di non provare nemmeno fame dopo il pranzo e la cena che avevo saltati. Più semplicemente mi accorsi di provare la voglia di immergermi nelle correnti d’aria fresca e di mirare, non più attraverso l’occhio della fantasia e della memoria, le stelle e la luna. Magari avrei approfittato di quel momento, oltre che per sgranchire la schiena e le gambe, per fare una passeggiata notturna.
Come misi piede fuori dalla teda, ebbi la sensazione che l’aria mi stesse distendendo la pelle, come se quest’ultima fosse stata una carta secca e stropicciata, posata poi su un laghetto di acqua fredda. Carta stropicciata su cui la storia aveva cominciato a scrivere la propria filastrocca. Sottili rughe erano comparse zoppicanti agli angoli degli occhi, scuri come il nulla, nel candore delle luci notturne, per essere poi un po’ più caldi al chiarore della luce, come cioccolata fusa.
Sapevo come sarei apparso agli occhi di chi avrebbe incrociato la mia strada: un ammasso sgualcito e informe di abiti neri, scarmigliato e con occhi pesti. Uno spettro che si aggirava indolente alla ricerca di qualcosa che, però, non riusciva a vedere, cieco nella notte e nella vita.
Mancava una direzione precisa alla mia passeggiata al chiaro di stelle e falce di luna. Alle mie spalle sentivo le persone parlare allegramente, scappavo dai fuochi accesi nei barili, controllati dagli occhi esperti di chi della villeggiatura aveva fatto la propria seconda ragione di vita. Io, invece, lontano dalla luce e, fortunatamente, per non recare spaventi, dagli occhi degli altri, vagavo sul sentiero sdrucciolevole e umido, come la base burrosa di una cheesecake non messa ancora nel frigorifero a riposare, del sentiero che aveva portato tutti noi in questa landa di verde prato, alberi sibilanti, con un lago oscuro e silenzioso.
Nella mia solitudine, con le mani infilate nel tascone della felpa, all’improvviso, tutti i miei pensieri avevano deciso di tacere e di lasciarmi solo, nella frescura di quella notte, a camminare e a consumare le suole delle scarpe.
Più seguivo il sentiero che si muoveva a spire, come il corpo di una serpe, più mi allontanavo dalla tenda, dalla pace che offriva, e più mi avvicinavo alla bocca del serpente dalla quale, una volta uscito, mi sarei trovato vomitato su una strada asfaltata e affollata di strani animali di metallo, razze diverse, ognuna con un proprio verso, che mi avrebbero catapultato violentemente, senza avviso e senza preparazione, nella civiltà da cui ero fuggito.
Inconsciamente stavo tornando da dove ero venuto? Oppure era altro a spingermi a ricercare quel qualcosa su quella strada sterrata, scivolosa per la pioggia, accidentata per i sassi e per le buche che la notte nascondeva abilmente, pronti a farmi cadere?
Poi, svoltando a destra, da dietro un alto cespuglio cicaleggiante, abbracciato a un pino immenso, mi trovai davanti l’apparizione di un ragazzo, grande e dritto, che camminava verso di me. Mi guardava fisso, calmo con quegli occhi che sembravano due pozzi pieni di pensieri liquidi, rassicuranti.
E la freschezza della notte fu improvvisamente mitigata da quella comparsa, così a lungo sperata e, verso la fine, creduta perduta.
Egli rispose alle richieste del mio corpo, e fu in un attimo che ci trovammo abbracciati, in un silenzio imbarazzato per ciò che ci circondava e per quello che prometteva. La foresta che ci permetteva di restare soli, ci avrebbe osservato, ma non ce ne saremmo curati, anzi, avremmo gioito di avere come testimoni il Mondo stesso.
Parlammo e ci salutammo, come compete agli amanti che da tempo avevano atteso il ricongiungimento. Le mani erano unite, come spesso anche le lingue, gli occhi che mai si separavano, incuranti del cammino accidentato.
Poi arrivò il tempo del silenzio, con gli occhi e le labbra e le lingue che ancora si parlavano.
Mentre camminavano, ancorati l’uno all’altro, mi accorsi con amarezza dello scorrere delle distanze che ci separavano dalla luce dei capi, dal vociare della gente e da tutta quell’allegria che non sentivo mia. Nemmeno nostra.
Aspiravamo ad altro, ad un’allegria molto più personale di cui le persone non avrebbero compreso l’idioma, a un’allegria più passionale e vera, non come le finte risate che si scambiavano gli altri.
E quando le luci arrivarono, le mani si sciolsero e non ci furono più baci a farci compagnia. Diventammo due estranei che conoscevano l’uno il sapore dell’altro, due amici con sguardi che si cercavano anelanti anime, corpi che si chiamavano.
Quando giunse il tempo di entrare nella tenda, penetrati nella solitudine che quel piccolo mondo fatto di tele, ganci e supporti ci offriva, già vidi nei suoi occhi la muta richiesta, e nei miei inserii il tacito assenso.
   
 
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