NOTE: Questa fanfiction è il sequel
di “Bringing
bees successfully through the winter”, ma può anche essere letta come
fanfiction a se. Lascio il link in caso vi vada di leggere anche la precedente.
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3810134&i=1
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Making winter endurable for bees
“Tre giorni fa mio fratello si è preso un proiettile, da
allora ha sempre la febbre,” ha detto Dean al telefono. Ed è stato sufficiente.
Sam ha sbuffato, lui ha sbuffato, il mondo ha sbuffato insieme a loro.
Ma alla fine, il dottore è venuto quasi subito.
Un uomo dai tratti latini, la voce pacata, le mani leggere.
Si è fatto bastare il ‘è stato un
incidente durante una battuta di caccia’ senza troppe domande, dunque a
Dean è stato subito simpatico.
Ha tastato il ventre rigido di Sam – anzi, di James, – rimosso le ultime medicazioni, storto gli angoli della
bocca di fronte a ciò che celavano.
“Chi diavolo ha dato i punti qua?”
Gli occhi di Sam sono rotolati come due palle da biliardo verso quelli di Dean,
che ritto lì, al capezzale, ha fatto del suo meglio per mostrare indifferenza,
guardare altrove. Non incazzarsi. Si è
schiarito la voce. “Walk-in clinic.” Ha tirato fuori il sorriso più compiaciuto
della sua vasta sfilza di sorrisi compiaciuti; talmente falso che è stato un
bene che il dottore non lo abbia visto, troppo impegnato a valutare il danno.
“Cani,” ha aggiunto l’uomo, scuotendo la testa con disgusto.
“Reggeranno?” La pezza sulla fronte di Sam si è afflosciata su un lato appena ha
voltato la testa per porre la domanda. Il dottore non ha risposto subito; prima
ha voluto valutare i punti a uno a uno, li ha tirati, sollevati, ispezionati al
limite dell’umana pazienza e sopportazione. Solo dopo ha ribadito che sì, sono
senz’altro opera di un macellaio, ma reggeranno.
E Dean è convinto che Sam l’abbia visto, quel sospiro di sollievo silenzioso
tirato roteando gli occhi.
Gli antibiotici prescritti in ospedale non sono sufficienti.
Vanno integrati con altra robaccia sintetica che Dean non ha mai sentito
nominare; in aggiunta a cortisonici, protettori gastrici, anticoagulanti e
possibilmente anche delle vitamine, che non fanno mai male.
Dean ha annuito durante tutta la spiegazione; la grafia incomprensibile del
dottore, che su quel foglio bianco svela i nomi degli alleati alla sua
battaglia, ha un che di confortante.
Poi però questo ha sollevato un sopracciglio di fronte alla seconda pagina della
terapia, quella spillata con una graffetta un po’ traballante.
“Mi dica, James...” Il modo in cui ha cambiato tono ha messo Dean in allerta; tutto il suo corpo si è teso. “Ha
mai avuto problemi di dipendenza in passato?”
Dean ha voltato la testa di lato, poi ha riso. Se solo quel tizio sapesse di
come Sam, modello di rettitudine, non vada neanche a letto senza prima essersi
cambiato le mutande!
La risposta di suo fratello, però, è arriva come una stilettata al centro del
petto.
-
“Perché hai detto di sì?”
“Perché è vero, Dean.”
Al dottore non è piaciuta neanche quella tossetta con cui
Sam ha intervallato la visita, il motivetto di una radio fuori frequenza.
Ha voluto auscultargli il torace e le spalle, raccomandato qualcosa, ma a quel
punto Dean lo odiava già.
La veranda ha uno spettro monocromatico in cui si interseca
prepotente un tocco di verde bottiglia, quasi il presagio di una primavera
anticipata di cui Dean non ha bisogno. È colpa sua e di quel sole bianco che
brilla in un punto impreciso al di là delle nuvole. Se non ci fosse stato, nulla
avrebbe dato a Sam l’impressione che fosse una buona idea, quella di lasciare
il letto e ghiacciarsi il culo lì fuori.
“Il sangue demoniaco non conta.” Poggia due pillole e una tazza di tè tra le
mani di Sam, perché ha l’impressione che né il cappotto né il plaid che ha sulle
spalle lo schermino davvero dal freddo.
“Non conta perché lo hai deciso tu?” Sam ha le labbra più bianche della brina
sull’erba. Tossisce, mentre cerca di deglutire le medicine.
“Non conta e basta. Pensala come ti pare, ma non conta e basta.”
Sam accenna un sorriso, ma quella ferita deve fargli così male che viene fuori
appena una smorfia capace solo di farlo incazzare ancora di più.
Dean scuote la testa, guarda l’orologio. “Dai, ti riporto a letto. Qui fuori si
gela.” Abbandona la sua tazza di caffè sul davanzale, le mani scivolano dietro
la schiena di Sam.
“Ancora un altro po’–”
“Sam.”
“Solo un po’, Dean–” Sam china il capo sul petto, affonda i
denti sul labbro inferiore. “Hai sentito il dottore, no?“
“Da quando in qua è così importante ciò che dicono gli altri?”
“Da quando hanno ragione.”
“Come no.” Dean distoglie lo sguardo, annuisce infastidito. Fa
finta di non vedere come Sam abbia stretto i denti pur di non urlare mentre,
cocciuto, fa aderire di nuovo le vertebre allo schienale della panchina. Sul
volto pallido, le sue guance brillano come due fornaci accese; sembrano capaci
di far arretrare qualsiasi tentativo del freddo di aggredirle.
“Voglio dire, lo abbiamo chiamato proprio perché volevamo un parere medico–”
“Già, un parere medico. Non un medico
che non sa farsi i cazzi suoi.”
“Ha solo fatto il suo lavoro. Mi ha dato delle medicine più
efficaci, ha detto che devo passare del tempo seduto per permettere ai miei
polmoni di espandersi, prendere dell’aria fresca–”
“E tolto completamente la morfina.”
Sam non dice nulla, ma fa quello sguardo.
Dean preferirebbe mille e altre mille volte ancora continuare a dibattere con
Sam in un botta e risposta sterile che si estinguerà da sé, piuttosto che
ricevere quello sguardo. È lo sguardo
di Sam che gli chiede la resa, che letteralmente gli dice ‘okay, ho capito dove vuoi arrivare, non cercare altre scuse, sei
fregato’, e di fronte a un simile affronto, Dean avrebbe solo voglia di
metterselo sulle ginocchia e sculacciarlo come avesse ancora tre anni (il fatto
che non lo abbia mai fatto, neanche quando aveva tre anni, è un dettaglio di
poco conto).
Ruota il bacino, recupera la tazza. Il caffè si è freddato, ma lui ha bisogno
di fare qualcosa.
“Sto bene, Dean. Davvero.” Una serie di colpi di tosse squassanti
lo sbugiardano. Soffia tra i denti, preme la mano inguantata sul cappotto. La
ferita sta implorando pietà, e lo sta facendo a lui, eh – non a Sam, che ha
deciso di non sentirla e non vederla.
“Oh sì, sei il ritratto della salute, amico.”
“Ho avuto di peggio.”
“Stai per svenire.”
Sam disperde
lo guardo di fronte a sé con un cipiglio che Dean definirebbe da filosofo, ma
la verità è che non vi è nulla in quel cortile dove suo fratello potrebbe nascondersi,
creare un mondo tutto suo, sfuggire alla realtà oggettiva da lui (non)
gentilmente offerta. Un passero arruffato dal freddo si posa su un albero
spoglio senza fare il minimo rumore. Si guarda intorno spaesato. Per un attimo,
sembra guardare proprio verso Sam, e questo non sembra reggere bene quel
contatto visivo.
“Sto bene,” ribadisce, ma è chiaro che non ci creda più neanche lui.
La tazza gli scivola quasi dalle mani quando prova a portarla alla bocca. “Piano.”
Dean ne accompagna il gesto con una mano, l’altra è già andata ad accarezzargli
la nuca con un movimento circolare e delicato.
È una gentilezza che gli concede di tanto in tanto, una debolezza che viene
fuori meno di quanto in realtà vorrebbe. Sam sta male, ha la febbre e il volto
teso dal dolore; l’addome roso da una ferita che non sta guarendo come dovrebbe
e i polmoni che chiedono il conto di quella
notte all’addiaccio e la successiva stasi forzata. Dean ha più
giustificazioni di quante ne avrebbe bisogno per far aderire le sue mani come
vorrebbe farle aderire sempre su quella pelle che sente appartenere un po’
anche a lui, una sorta di appendice segreta codificata nei suoi geni. E per Sam
va bene, non ha da ridire.
Dean beve svogliatamente gli ultimi rimasugli del suo orrendo caffè, poi fa ciò
che avrebbe dovuto fare già da un pezzo. Trova irritante e profondamente
sbagliato sollevare il mento di Sam e guardare di nuovo quei lividi. Può vedere
il pomo di Adamo di suo fratello guizzare in alto, la carotide gonfiarsi, il
respiro frammentarsi mentre chiude gli occhi e stringe forte il bracciolo della
panchina. Sam sta disperatamente cercando di restare lì. Sta provando ad ancorare
la sua mente e il suo corpo nel presente e
solo nel presente.
Dean tira fuori
un tubetto di pomata dalle tasche – una di quelle cose che non avevano mai
avuto nel loro kit del pronto soccorso prima d’ora, ne prende una noce sulle dita.
Sono passati quattro giorni, ma quei lividi sono ancora lì: pezzi di Corbin
volgarmente lasciati addosso a suo fratello; a Dean sale la nausea.
Piega il collo di Sam di lato, gli sposta i capelli dietro
l’orecchio, espone il livido scuro – quello più brutto, che ha a sinistra tra
la mascella e il collo; li odia tutti, ma quello in modo particolare: la pelle
intorno è così bianca da sembrare trasparente, quasi a volerlo incorniciare come
fosse un disgustoso marchio, un bug del sistema. Un’anomalia del creato.
“È un po’ fredda,” dice, e non dà neanche il tempo a Sam di rispondere. La
pomata è sul livido, e quando Sam scioglie un gemito nell’aria – perché
diavolo, è davvero fredda, e Sam sta davvero bollendo – Dean la sta già passando
su di esso, ricoprendolo piano, con delicatezza, trattenendo tutta la voglia che
ha di grattarlo via, staccarlo a forza dalla pelle di Sam.
Gli volta la testa dall’altro lato ripete l’operazione. Ha
la bocca impastata, non ha voglia di parlare. Non si parla di quello.
Sam, dal canto suo, lascia che
sfiori quei lividi con una arrendevolezza che lo manda in bestia, perché cazzo
– quel maiale ingrato ha tentato di strapparlo da lui, e la sola idea dovrebbe
fargli sentire lo stesso crescendo di rabbia che Dean sente sotto pelle; perché
Sam è una parte di lui, e non va affatto bene che se ne stia lì, ad accettare
ogni cosa come fosse un fottuto Gandhi.
“Va bene così, Dean...”
Sam si sottrae alle sue dita con un cenno del mento. In effetti, è chiaro che
quel dannato livido su cui si sta accanendo non sparirà continuando a
tormentarlo.
“Dovresti davvero tornare dentro.” È come se gli effluvi del risentimento gli
avessero dato al cervello, si sente quasi ubriaco. “Dico sul serio,” insiste,
ma Sam è in preda a un altro attacco di tosse che gli sta sconquassando il
torace, e Cristo – non accenna minimamente a smettere.
“Sammy?”
Dal modo in
cui preme la mano sul suo addome, anche i suoi cazzo di punti sbilenchi se la
stanno vedendo male. Cristo.
“Hey, Sam… Sammy?” Si siede sul bracciolo della sedia, porta una mano alla schiena
curva del fratello piegato su se stesso come una sorta di riccio morente. Nascoste
tra il petto e il cappuccio, le guance di Sam, prima accese, hanno adesso
assunto un colorito bluastro, e l’addio di Dean a ogni buon proposito di
mantenere la calma inizia prima con un tremito del viso, poi con il più
sentito, cordiale ‘cazzo!’.
Cazzo.
“Tirati su, Sam. Avanti – su con questa
testa, dai!” Dean digrigna occhi e denti mentre con sforzo sovrumano preme
contro il torace e la schiena di Sam affinché assuma una posizione più normale.
Le labbra e il mento del fratello sono imbrattate da una bava vischiosa e,
attraverso essa, l’aria viene fuori con un sibilo che crea un impasto schiumoso
venato di sangue.
“Direi che sei stato qui fuori abbastanza. Tempo di tornare a nanna, Sammy.”
Non attende
che la tosse si plachi del tutto; non appena nota un piccolo miglioramento, Dean
afferra suo fratello per le spalle del cappotto e letteralmente lo trascina
dentro la sua camera.
“Dean, aspetta–” Sam
inciampa sui suoi passi, le sue dita si aggrappano timide sulla porta a vetri; Dean
non sa neanche perché si sia fermato. “V-va tutto bene–”
A quel punto, stanno ansimando entrambi. Dean lo guarda senza incontrare il suo
sguardo, le guance hanno leggermente ripreso colore, il che è certamente un
bene (ma non abbastanza da fargli credere alle puttanate che dice). “Sono contento per te, Sam,” sorride piegando
il collo con sarcasmo. “Ma verrai dentro lo stesso! Avanti!”
Sam geme non appena Dean riprende la marcia verso l’interno della stanza, un
buon ottanta percento di stizza, il resto, dolore – o forse il contrario, a
giudicare dal suono lacerante che emette quando Dean lo aiuta a riadagiarsi sul
letto.
“Fammi vedere cos’hai combinato qui…” Dean gli scopre l’addome prima ancora di togliergli il
cappotto, preparandosi in cuor suo a un nuovo scenario apocalittico.
Il sollievo arriva solo quando i suoi occhi incontrano le garze che avvolgono
la ferita: sono ancora bianche. Linde e pulite così come le ha applicate il buon dottore qualche ora prima. Avverte
un formicolio ai polsi, uno strano senso di leggerezza al centro dello stomaco quando
tasta con la punta delle dita la spessa medicazione.
Vorrebbe complimentarsi con Sam per aver fatto in modo che almeno questa volta
i punti reggessero, ma teme che questo possa in qualche modo incentivarlo a fare
altre cazzate, dunque tace. Si accontenta di guardare suo fratello abbandonato
sul materasso in preda ai sudori freddi. Gli occhi chiusi, i pugni stretti
accanto al viso ansimante adesso di nuovo arrossato dalla febbre – sembra come
una sorta di grosso, enorme neonato e a Dean scapperebbe quasi un sorriso se solo
non riuscisse a vedere in quei lineamenti tutto il dolore che sta stoicamente
sopportando.
Lo aiuta a sfilarsi le scarpe, poi il cappotto, piano – prima un braccio, poi l’altro. Ogni movimento privo di
lamenti è per Dean una piccola vittoria, un piccolo trofeo da sfoggiare a
quella parte di se stesso che meno crede in lui dicendo ‘hey, figlio di puttana, guarda – sono stato bravo! So ancora prendermi
cura del mio fottuto fratellino!’.
Gli rimbocca le coperte fin sotto il mento, e Sam serra la mascella, affonda il
viso contro il cuscino mentre tenta lentamente di portarsi su di un fianco,
posizione che sembra in qualche modo attutire l’inferno che ha sul suo addome.
Dean si morde un labbro, lo osserva ancora un paio di secondi e decide di
affidare a quell’immagine il responso al duello in atto nella sua mente.
Piega un
ginocchio su un lembo del materasso, si appollaia su di esso. “Dammi il braccio,”
chiede autoritario, anche se in realtà ha già fatto scivolare la sua mano sotto
le lenzuola e ripescato da sé l’arto ammorbidito dalla febbre prima ancora che
il suo legittimo proprietario possa anche muoversi.
Sam solleva il volto dal cuscino, una ciocca di capelli castani gli è rimasta impigliata
tra le labbra. “Niente morfina.”
“Niente morfina,” conferma Dean sulla difensiva, sacrificando una delle sue
cravatte da agente dell’FBI per farne un rudimentale laccio emostatico.
“Me lo prometti?”
“Ti collego una flebo con una di queste porcherie prescritte dal tuo caro dottorino. Le ho pagate bene,
mi aspetto funzionino.”
Sam non
sembra convinto. Increspa la fronte, ma evidentemente non è in grado di fare
altro se non fissarlo con quei suoi occhi ridotti a due fessure sotto le quali
Dean teme di potersi fregare.
“Avanti, stringi il pugno!” sbotta esasperato, continuando a massaggiare l’incavo
dell’avambraccio con della garza imbevuta.
Sam dissimula (male) una smorfia di dolore, ed è la resa che Dean tanto sperava.
Il minore dei Winchester affonda di nuovo la testa sul cuscino come ad
acconsentire a qualcosa che sa di non poter controllare, ed è proprio a questa
ombra di consensualità che Dean si aggrappa. Batte un paio di volte una vena
timida ma tutto sommato grassoccia (una delle poche ancora intatte), allinea l’ago,
porta a termine l’operazione al primo colpo. “Però! Niente male, non trovi?”
Non si aspetta una risposta, e infatti non arriva. Fissa con dei cerotti l’accesso
venoso conquistato, e il senso di colpa, sempre lo stesso e sempre costante, gli
punzecchia lo stomaco come tanti piccoli aghi infilati da una mano maldestra.
Soprattutto, li sente più aguzzi e rabbiosi nel momento in cui recupera dal
cassetto del comodino una fiala che non è esattamente
tra le medicine prescritte, ma ‘sti gran cazzi.
Quando i tre centimetri cubi fluiscono giù dal raccordo e un gemito di sollievo
di Sam si erge a soffocare ogni rimorso, Dean sa di aver fatto la cosa giusta.
Va in bagno quando sente il respiro di suo fratello stabilizzarsi. Ritorna
pochi secondi dopo con una nuova bacinella d’acqua fredda, si accomoda sull’altro
lato del letto. Vuole vederlo in faccia, questa volta. Sente di avere il
coraggio e anche l’autorità per
farlo.
“Ti andrebbero degli hot dog per pranzo? C’è un furgone qui di fronte, non
sembrano malvagi...”
“Hot dog? Non male come pranzo per un convalescente–” Un sorriso stanco affiora sul volto
di Sam, e Dean si complimenta internamente con se stesso: è riuscito a
distrarlo sia dall’argomento precedente sia dalla pezzuola con cui ha ripreso a
rinfrescargli la fronte.
“Preferiresti del brodo di pollo?”
“Gli hot dog vanno benissimo.” Sam tossisce, spinge il dorso della mano contro
la bocca, i movimenti rallentati dai farmaci lo fanno apparire come una
creatura di un altro universo.
“Del resto, rientra nel comfort-food. Il brodino lo rimandiamo a questa sera.”
“Chi avrebbe bisogno
di essere confortato?”
Dean stira le labbra, scuote la testa. “Nessuno di mia conoscenza, figurati–” Ravviva l’acqua della pezza, deterge
gli occhi di Sam. Li osserva mentre, lucidi e quasi divertiti, vanno via via
perdendo fuoco.
“Riposati, adesso. Ti sveglierò tra qualche ora.” Dean deglutisce, non è certo
di riuscire più a ricordare qual è la giusta espressione di un sorriso sincero
e rassicurante, ma mette comunque in scena qualcosa di simile, perché se Sam
può ancora vederlo, allora è esattamente ciò che desidera mostrargli prima che possa
cedere alla confortevole pace artificiale da lui creata.
Lentamente,
le dita di Sam mollano le lenzuola a cui erano aggrappate e si afflosciano,
dischiudendosi perpendicolari al torace. Dean le riporta sotto le coperte,
sistema meglio la pezza sulla fronte.
Lascia che
una mano scivoli lungo il fianco adesso rilassato dal sonno, e sorride. Ha fatto la cosa giusta, si ripete. E se
quei piccoli rigurgiti di rimorso dovessero tornare a bussare alla sua porta,
Dean gli scaglierà contro la sua più ferrea consapevolezza: sta a lui e a nessun altro prendersi cura
del suo fratellino. Il resto può anche andare a farsi fottere.
Fine
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Betata a tempo record da Orchidea Fantasma, grazie infinite <3
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Potrebbe, anche questa, avere un sequel, ma chissà ;)
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