My life is
going on.
I
walk through the valleyof the
shadow of death
and I fear no evil because I’m
blind to it all
and my mind, and my gun
they comfort me,
because I know I’ll kill my
enemies when they come.
all the days of my life
and I will dwell on this earth
forevermore
Sad, I walk beside the still
waters and they restore my soul
because I’m wrong.
Lo
sapevano. Lo sapevano che era una donna abusata. Aveva sporto denuncia,
un
ordine restrittivo. Ma, ancora, si stupiva di quanto l’essere
umano potesse
essere infido. E ipocrita.
Per
questo se n’era andata.
Perché
sapeva di avere anche lei un lato oscuro. Ma, almeno, aveva smesso di
fare
finta che non fosse così.
Come
aveva fatto ad essere così stupida? Un albero liscio, senza
rami. Anche un
bambino avrebbe scelto un altro albero. E invece no. E così,
l’avevano presa.
L’avevano uccisa alle orecchie del mondo. Alle orecchie del
Professore. E poi,
l’avevano messa su un fottuto blindato e l’avevano
“perquisita”, come dicevano
loro. L’avevano spogliata, rivestita. E molto altro. E poi
Angel era entrato
nel furgone. L’aveva abbracciata. Solo un altro povero
ipocrita.
Gli
occhi vitrei, lo sguardo fisso. Figli di puttana. Se fosse uscita viva
da quel
furgone, da tutta quella merda, gliela avrebbe fatta pagare.
“La giustizia”,
cos’è infondo?
Dove
sta la soglia? Tra ciò che è giusto e
ciò che è necessario?
E
se ciò che è necessario fosse totalmente
ingiusto, potrebbe forse diventare
giusto per il semplice motivo che la causa per la quale viene messo in
atto sia
essa stessa giusta? Renderebbe l’ingiusto meno ingiusto?
La
verità è che è la pretesa stessa di
giustizia ad essere totalmente e
paradossalmente trascendentale. L’atto di ritenersi al di
sopra di qualsiasi
umanità, a qualunque costo, a qualunque prezzo. Anche a
prezzo di sacrificare
segretamente quell’ideale di giustizia tanto agognato. Ma, in
silenzio,
ovviamente. I media non devono saperlo.
Aveva
scelto. Il giorno in cui aveva davvero capito fino a che punto per
tutti quegli
stronzi nella tenda era più importante ciò che i
giornali dicevano piuttosto
che ciò che fosse davvero importante.
Alla
fine, si riduce tutto ad una questione di punti di vista.
E
di chi si vuole essere.
Un
eroe, ipocrita e privo di onore.
O
un criminale, fottutamente sbagliato ma con qualcosa di vero per cui
vivere.
Fissò
le catene ai polsi ed alle caviglie. Era fregata, per davvero stavolta.
Fece un
respiro profondo, nonostante il dolore all’addome, e
giurò che non avrebbe mai
tradito la banda. Per nessun motivo. Ormai, le cose erano due. O la
tiravano
fuori di lì, oppure era completamente fregata. Non
c’era una terza alternativa.
Indulto, riduzione della pena, buona condotta. Cazzate. Non avevano
avuto pietà
nel metterla su un blindato, non ne avrebbero di certo avuta da quel
momento in
avanti.
Sentiva
le sirene spianate.
Ripensò
al Professore ed a quello che le aveva detto quando era chiusa in quel
pollaio,
prima che l’inferno cominciasse davvero. Era stata la
più bella dichiarazione
d’amore che qualcuno le avesse mai fatto.
All’improvviso,
il motore si spense. Non seppe quantificare quanto tempo fosse passato,
ma era
ancora giorno perché quando la porta si aprì la
luce la investì accecandola.
Entrarono due agenti che le fecero mettere una giacca e un
passamontagna da
poliziotto. Perché travestirla come uno di loro? Forse
volevano umiliarla. Non
ne sarebbe rimasta stupita. La obbligarono a scendere, slegata, ma con
una
pistola puntata alla schiena, un’altra ipocrisia. Il mondo
vedeva una cosa,
mentre ne accadeva un’altra.
Si
guardò intorno e vide una folla di persone urlanti dietro
delle transenne, la
maggior parte portavano la maschera di Dalì.
Capì. Erano alla banca di Spagna.
La fecero entrare nella tenda e lì la vide. Alicia.
L’ultima persona che
desiderava vedere sulla faccia della terra. Si tolse il passamontagna e
tutti
nella tenda si voltarono e sussultarono nel vederla. Un sorriso le
affiorò
sulle labbra, aveva lasciato un segno in ognuno di loro. E anche bello
grosso,
a giudicare dalle loro facce. Un segno invisibile, ma che ti corrode,
da
dentro. “L’ispettore,
colei che abbiamo
ammirato e seguito per tanti anni, di cui ci fidavamo, ci ha traditi.
È passata
all’altro lato. Vorrà pur dire qualcosa no? Ah,
no. Noi siamo i bravi
poliziotti, lei è la cattiva!”
-
Ciao, Raquél -
Un
impeto di rabbia la pervase. Si trattenne dal rispondere. In sole due
parole
aveva rischiato di mandare all’aria la sua relazione,
chissà cosa avrebbe
potuto fare in tutte le ore che la aspettavano in sua compagnia. Ma non
gliela
avrebbe data vinta, mai.
-
Non mi rispondi? Mi sento dispiaciuta, credevo fossimo amiche! -
Rise
-
È Lisbona – le rispose infine.
Anche
Alicia rise. Ma non aggiunse altro, si voltò e le fece
strada verso il fondo
della tenda. Non che Lisbona la seguisse di sua spontanea
volontà. La fecero
sedere in un luogo isolato della tenda e la ammanettarono ad un tavolo.
Alicia
si sedette di fronte a lei e si mise a fissarla in silenzio.
-
Lo sai che non ti dirò niente, Alicia –
-
Oh sì, lo so bene, Lisbona
–
-
E allora perché mi hai fatta portare qui? –
-
Beh, Lisbona. Pensavo di
ricattarti.
O meglio, usiamo un termine più accettabile. Pensavo di proporti un accordo. –
Lisbona
rise.
-
Potrei proporti un accordo, del tipo: tu ci consegni il Professore e io
ti
offro una riduzione della pena. Oppure ci consegni il Professore e io
farò
finta di non sapere dove vivono tua madre e tua figlia. Sarebbe un
peccato se
quella piccola bambina adorabile andasse a vivere con un depravato come
il tuo
ex marito! –
Si
fermò per guardare Lisbona, che aveva smesso di ridere. Se
l’era aspettato, era
ovvio che l’avrebbero ricattata. Che le avrebbero proposto un accordo. Ma erano tutte
palle, non appena avesse
parlato avrebbero fatto completamente il contrario di ciò
che Sierra le stava
offrendo. E poi, Sérgio sapeva che l’avevano
presa. Sapeva che avrebbe dovuto
spostare la sua famiglia e metterla in salvo in un porto sicuro non
rintracciabile dalle forze speciali. Per questo non avrebbe parlato. Le
due
cose più importanti della sua vita erano in salvo. Questa
era l’unica cosa
importante.
-
Ma so che non accetterai – continuò Alicia.
Lisbona
la guardò di sbieco, senza capire.
-
Mi hai chiesto perché ti ho fatta portare qui, se
già sapevo che sarebbe stato
inutile? Beh, se non faccio finta di proporti un accordo, e se non
dimostro a
tutti che tu lo rifiuti, come pensi che io possa mantenere la mia
dignità
quando ti porterò negli scantinati dei servizi segreti per
fartela pagare per
aver infangato l’immagine dei servizi investigativi spagnoli?
Oh, e poi, sotto
tortura tutti parlano, cara –
Lisbona
fu scossa da un tremito. Si era sbagliata. Il vero inferno non era
ancora
iniziato.
Quella
era solo l’anticamera.
La
lasciarono in isolamento per ore. Senza sapere cosa stesse succedendo
fuori.
Finché, la sua attenzione non fu attirata da qualcosa che
stava succedendo
dall’altra parte del telo che divideva il suo isolamento.
Tutti si erano alzati
in piedi, all’improvviso, con gli occhi fissi sullo schermo.
Si alzò, doveva
essere successo qualcosa. Doveva vedere. Qualcuno cercò di
trattenerla ma
Sierra blaterò qualcosa in merito al rispetto di un momento
delicato. Guardò
gli schermi. E la vide. Una bara, che usciva dalla banca di Spagna
portata da
quattro uomini in completo nero. I militari tutto intorno, visibilmente
pronti
per un assalto, si erano pietrificati. Lisbona scoppiò in
lacrime, un’altra
vita. Un’altra vita rubata. Incontrò la spalla di
Angel su cui piangere, ma non
le diede poi tutto quel conforto. Nessuno della banda aveva mai
attentato alla
vita di nessuno. Il loro scopo non era mai stato la violenza.
“Iniezione di
liquidità”, quelle erano le parole che le avevano
fatto aprire gli occhi.
Potevano definirli criminali, ladri, depravati. Ma non erano assassini.
Mentre
invece, in quel momento, era la cosiddetta giustizia ad essersi appena
trasformata in un’assassina. Forse il modo in cui volevano
dimostrare la
scorrettezza del sistema era poco ortodosso, ma dopotutto, il fine non
giustificava i mezzi?
-
Allora? Dov’è il Professore? –
Alicia
le si era parata davanti e aveva pronunciato quella domanda con uno dei
suoi
sorrisi falsi. Che stronza.
-
Fanculo – fu la risposta di Lisbona.
Fu
la sua condanna. Sierra fece un cenno con la testa, e quattro agenti la
strattonarono,
la rivestirono da poliziotta e la portarono fuori, sbattendola di nuovo
sul
blindato che l’aveva portata in quella tenda solo qualche ora
prima. Prima che
la porta venne sbattuta fece in tempo ad intravedere la bara appoggiata
a pochi
metri dal furgone. Riuscì a leggere cosa c’era
scritto. Nairobi.
Non
si meritava questo.
Nessuno
di loro lo meritava.
Don't
ask why
Don't
be sad
Sometimes
we all must
alter paths we planned
Only
try understand
I
want to save you from
the lost and damned
Non
riusciva a togliersi dalla testa il rumore di quegli spari.
L’aveva pregata di
dire che si sarebbe consegnato, che sapeva dove fosse. Ma
dall’altra parte,
solo tre parole. “Non lo so”.
L’aveva
salvato. Ma si era sacrificata.
L’avevano
giustiziata.
O
meglio, glielo avevano fatto credere, quei figli di puttana, ma ci
avrebbe
giurato, se non gli fosse stata utile l’avrebbero uccisa
davvero, senza troppi
scrupoli.
Ed
ora, anche Nairobi. Questa non era più
un’iniezione di liquidità. Non era più
un attacco al sistema. Era una guerra.
Da
quando tutto il piano era andato a rotoli non riusciva più a
pensare
lucidamente. Troppe emozioni avevano sopraffatto la sua ragione. Doveva
riprendere il controllo, a tutti i costi.
Il
telefono squillò. Era Tokyo.
-
Tokyo! Dammi buone notizie –
-
Professore… abbiamo preso Gandìa –
aveva la voce rotta dai singhiozzi.
-
È vivo? –
-
Sì, ma non ancora per molto –
-
Tokyo, ascoltami. È importante che rimanga vivo.
È un tassello fondamentale del
piano –
-
Quale piano, Professore!! Il piano è andato a puttane!
Nairobi è morta!!! –
Una
lacrima solcò la guancia del Professore.
-
Tokyo, capisco quello che state passando… -
-
No Professore, non puoi capirlo!! –
-
Ascoltami Tokyo, cerca di calmarti. Sai benissimo anche tu che ci serve
vivo –
Silenzio.
Nessuno rispose. Poi si sentì la voce di Helsinki, e subito
dopo degli spari.
Il sangue del Professore si gelò.
Fu
Palermo a parlare di nuovo dall’altro lato della cornetta.
-
È vivo, Professore –
-
D’accordo. Avete scoperto dov’è la panic
room? –
-
Si accedeva da un passaggio segreto all’interno del bagno del
governatore –
-
Cosa? È entrato e uscito da lì per tutto questo
tempo e non avete sentito
niente? Nessun rumore? Possibile che nei bagni non si senta mai nulla?!
… Non
importa. Palermo, tenetelo in un luogo dove non si possa liberare in
attesa
della fase 3. Nel frattempo dovete continuare a fondere
l’oro, il più
velocemente possibile. Senza l’oro, non posso farvi uscire
–
-
D’accordo, Professore. E poi, quando saremo fuori, andremo a
riprenderci
Lisbona –
-
Sì, andremo a riprenderci Lisbona… -
Attaccò.
Era
folle, completamente folle. Ma era l’unico modo.
Si
spogliò, si infilò i guantoni da boxe e si
tuffò nell’allenamento. Doveva
liberare la mente, doveva pensare. Non poteva permettersi di sbagliare.
Doveva
tirarli fuori.
Altrimenti,
per Lisbona non ci sarebbe stata speranza.
---
Caught
in the frame work, dying to belong
Escape the wasteland
Don't forget who you are
Amnesiac
Don't
let the world revolve around you
Don't wait another day to re-erase your memory
Amnesiac
Don't
let the dream dissolve without you
The more you know, the more they hold you back
Amnesiac
Fu
l’odore di marcio
che le inquinò il naso a svegliarla. Non che
“sveglia” fosse la parola adatta a
descrivere il suo stato. Non avrebbe saputo dire dove fosse o
perché, l’unica
cosa che ricordava da quando era entrata nel blindato era che le
avevano iniettato
qualcosa. Probabilmente una dose da cavallo di narcotico, a giudicare
dalla
nebbia che aveva in testa. Sentì la guancia a contatto con
una superficie
fredda ed umida e capì di essere sdraiata prona.
Cercò di alzarsi, ma le
risultò molto complesso. Sentiva dolore alla schiena ed un
intorpidimento
generale e, come se tutto quello non bastasse, capì di
essere legata. Non
poteva alzarsi, non poteva neanche voltarsi. Osservò le
catene intorno ai
polsi, erano assicurate ad un anello incastonato nel muro ed erano
fermate da
un lucchetto grosso quanto una delle sue mani. Le sembrò
ridicolo.
Improvvisamente sentì la porta aprirsi alle sue spalle, ma
non si voltò.
Aspettò, senza nascondere il fatto che fosse sveglia. Alla
fine, non era
difficile comprendere la situazione. Probabilmente si trovava in un
buco
dimenticato da Dio, in qualche scantinato dove i servizi spagnoli
portavano le
persone per torturarle. Non era neanche difficile comprendere il
destino che la
attendeva, ma in fondo se l’era immaginato e sapeva che
sarebbe andata a finire
così. Aveva deciso che le stava bene nel momento in cui
aveva mandato a fanculo
quella stronza di Sierra.
- Sei sveglia, tesoro!
–
Ah. Beh, in fondo,
parli del diavolo… La aveva riconosciuta dalla voce e decise
di non voltarsi,
nemmeno quando la sentì sedersi su una sedia accanto a lei.
- Non sei molto
accogliente con i tuoi ospiti, Lisbona.
Girala! – ordinò a qualcuno.
Si sentì strattonare
per le spalle e qualcuno la obbligò a voltarsi sulla
schiena, schiacciandola
violentemente contro il pavimento irregolare. Ma perché le
doleva così tanto la
schiena? Sussultò, ma proprio non capiva. Era come se fosse
ferita, ma non riusciva
a ricordare.
- Ehi, ti sembra il
modo di trattare una signora? – disse Sierra con un tono
indispettito, ma
palesemente falso.
Cazzo se poteva essere
stronza. La più grande stronza sulla faccia della terra.
Tuttavia si rifiutò di
guardarla in faccia. Ma poi, era ancora incinta, dopo tutto quel tempo?
Dopo
tutto quello stress?? Ah ma forse risolvere le rapine non le provocava
affatto
stress, ecco perché. Del resto, ci si potrebbe aspettare
qualcosa di diverso da
una stronza così?
Forse la stava
insultando troppo però. O forse, la dose di narcotico che le
avevano
somministrato era veramente da cavallo.
- Sai perché sei
davvero fottuta, Raquél? Perché a differenza di
tutte le altre persone che sono
passate di qui, tu non uscirai mai.. Perciò, non devo per
forza fare tutte
quelle cose, odiose, come il non lasciare segni. Diciamo che nessuno ti
vedrà
mai più, perciò, non interessa a nessuno il tuo
aspetto, mi sbaglio? –
Lisbona ancora non la
guardava in faccia, ma dentro di sé ebbe un tremito.
E Alicia se ne
accorse. Un sorriso affiorò sulle sue labbra.
- Hai vinto una
battaglia, ma non vincerai la guerra. Ma, se anche mi sbagliassi e la
tua banda
di depravati capeggiati dal Professore autistico dovessero uscire vivi
dalla
banca… Beh, tu non uscirai viva di qui, puoi starne certa.
–
Lasciò che il silenzio
rendesse ancora più pesanti quelle parole.
- Ti stai chiedendo
perché ti fa male la schiena? –
Le sventolò davanti
una piccola fotografia di polaroid. C’era una donna, sdraiata
in una cella
buia, con la schiena nuda. E sulla schiena degli squarci, come se fosse
stata
graffiata da degli artigli. Solo che con molta probabilità
non erano stati
artigli, ma una corda, o una cinghia… Cercò di
fermare il pensiero, non voleva
nemmeno immaginarselo. Ma fu la memoria a continuare il lavoro,
perché ricordò
di come ci era arrivata in quella cella.
Le frustate, le cadute. Le mani che la rialzavano. E poi di nuovo, e di
nuovo.
Fino a svenire. Per lo meno avevano avuto la decenza di rivestirla.
“Rivestirla”.
Aveva il busto coperto solamente da una fasciatura e
realizzò di essere in
mutande. L’umiliazione più totale.
Una lacrima solcò la sua guancia, ma non fece in tempo ad
arrivare
all’orecchio che una lama fredda ed affilata fermò
la sua corsa. Sierra
raccolse sadicamente quella lacrima, senza ferirla però, e
la osservò
soddisfatta.
Poi, guardò l’uomo che era stato nella stanza per
tutto quel tempo, gli
fece un cenno e dichiarò, con un sorriso enorme:
- Apriamo le danze! –
Non
sapeva quanto tempo era passato.
Ore.
Giorni.
Ma indubbiamente doveva essere trascorso tanto tempo.
Perché non si può infliggere tanto dolore ad una
persona in poco tempo.
Non è umanamente possibile.
O forse, era proprio questo il problema. Quella donna non era umana.
Aveva perso il conto di tutte le torture che le aveva inflitto. La cosa
peggiore era quando un uomo le copriva la faccia con un panno bagnato
ed un
altro le versava sopra dell’acqua. Ogni volta era come
affogare. Aveva perso il
conto anche delle volte in cui era svenuta, e di quelle in cui
l’avevano
svegliata. Per affogarla di nuovo, e di nuovo.
- Dov’è il Professore – diceva Sierra.
E lei non rispondeva.
E loro l’affogavano.
E ancora, e ancora.
Aveva scoperto che poteva fuggire però, con la mente.
Andarsene lontano da
quel luogo e non soffrire. Come se non fosse davvero lì.
Le avrebbero tolto la vita, ma non le avrebbero tolto
l’identità.
Non le avrebbero tolto i ricordi.
E così, ogni volta che affogava, tornava a quando lei e
Sérgio avevano
fatto il bagno vestiti. A quando avevano fatto l’amore nel
mare. E l’acqua
diventava un po’ meno nemica. E si dimenticava che stava
affogando. Il suo
corpo si dimenava, i suoi polmoni urlavano, ma la sua mente sorrideva,
e dentro
di lei continuava ad esserci vita.
Sarebbe morta, ma avrebbe vinto. Lo capiva da come Sierra la guardava,
che
la stava battendo. Non stava soffrendo e questo per lei rappresentava
un
terribile fallimento. Stava lì, seduta sulla sedia ad
accarezzarsi il pancione
mentre qualcuno faceva il lavoro sporco al posto suo.
Finché, non si stufò.
- Senti figlia di puttana, non parli? Ok, ammetto che mi sarei
aspettata
che cedessi sai, non credevo che quel Professore ti avesse ammaliata
fino a
questo punto. Adesso è ora di fare sul serio –
Si inginocchiò goffamente al suo fianco per sussurrarle
all’orecchio.
- Inizierò dalle braccia… poi
scenderò, sull’addome. E se ancora non avrai
parlato… Potrei pensare di rovinare quel bel faccino che
tanto ha fatto
innamorare il tuo genio. Ma tanto, non importerà a nessuno,
o mi sbaglio? –
Le piantò la lama del coltello nell’avambraccio ed
iniziò a tagliare.
Sapeva cosa stava facendo. Niente vene che avrebbero potuto
compromettere la
sua vita, per ora. Ma un dolore assurdo, quello sì. E per la
prima volta da
quando si era ritrovata in quel buco, Lisbona emise un lamento.
Poi fu il turno del petto. Sierra si era decisa a sfregiarla per bene.
Tentò disperatamente di non urlare, rifugiandosi di nuovo
nella sua mente. Ma
ora era più difficile, era diverso. Era stanca. E
soprattutto, era presente, e
il dolore vivido.
Ma quando fu il turno del volto, non resistette più. Alicia
le stava
schiacciando con una mano la faccia contro il pavimento e continuava a
ripeterle
- Non muoverti! Potrei sbagliare! –
Non sapeva nemmeno dove stava incidendo la lama, perché
ormai il dolore si
era fatto pressante in tutto il corpo. Le bruciava tutto. Le mancava
l’aria,
forse per le urla, forse per i singhiozzi.
Dopo attimi orribili ed interminabili, finalmente Alicia si alzo, con
aria
soddisfatta. Le sorrise, si voltò, e senza dire una parola
uscì. Gli uomini che
l’avevano affogata fecero per seguirla, ma Alicia ne
fermò uno e le disse
qualcosa che Lisbona non capì. Lui si avvicinò
con aria insicura e la fissò,
senza fare nulla. Lisbona non riusciva nemmeno a distinguere il suo
volto,
aveva la vista annebbiata ed era come se ci fosse un velo tra lei ed il
mondo.
- Allora?! – la voce di Alicia risuonò dal fondo
della stanza. Ancora non
se ne era andata?
Il pugno arrivò come se fosse stato un mattone. La
colpì in pieno volto,
dove Sierra aveva appena finito di tagliarla.
Il dolore fu talmente forte, che tutto divenne nero.
Finalmente.
Un po’ di riposo.
---
A
warning to the
people, the good and the evil
This is war
To the soldier, the civilian, the martyr, the victim
This is war
It's
the moment of
truth and the moment to lie
And the moment to live and the moment to die
The moment to fight, the moment to fight,
To fight, to fight, to fight!
To
the right, to the
left
We will fight to the death
To the edge of the earth,
It's a brave new world, from the last to the first
Fin
dal giorno in cui
avevano messo piede in quel monastero a Firenze era sembrata una
follìa a
tutti.
Ed ora, eccoli lì.
Davanti all’uscita principale della Banca di Spagna, con le
tute rosse e le
maschere di Dalì, come il primo giorno, in attesa della resa
dei conti.
Anche se mancava
qualcuno all’appello.
Per due giorni avevano
continuato a fondere oro come dei matti, fino allo sfinimento. Avevano
ridotto
i turni di riposo e sfruttato fino all’ultimo ostaggio per
cercare di
velocizzare la produzione di quelle fottute sfere dorate. Ma erano in
guerra, e
in guerra non è concesso alcun lusso, tantomeno il riposo.
Avevano ucciso
Nairobi.
Avevano preso Lisbona.
Avevano mentito,
avevano infranto la tregua.
Avevano perso qualche
battaglia, ma non avrebbero perso la guerra. E avrebbero combattuto
fino alla fine,
fino alla morte. Niente avrebbe fatto tornare in vita la loro compagna,
ma
Lisbona se la sarebbero ripresa eccome.
Ma prima, avrebbero
dovuto umiliarli fino all’ultimo. Il piano del Professore
sembrava folle, come
tutto il resto, certo, ma questo se possibile lo era ancora di
più. Lo aveva
chiamato piano Hiroshima. Pretenzioso, ma rispecchiava bene
l’entità del danno
che avrebbero causato. Non sarebbe stato un danno in termini di vite
umane, ma
lo sarebbe stato a livello economico e di sistema. Perché di
quell’oro, loro
non ne avrebbero tenuto neanche un grammo. No, il piano era quello di
umiliare
la nazione e regalare, letteralmente, l’oro alla popolazione.
Il Professore aveva
fatto i conti fin nei minimi dettagli. Numero di agenti, squadre
antisommossa,
militari. Quante armi, posizioni, protezioni. E poi, aveva scatenato il
delirio
nei media, così che mezza Madrid era accorsa alle porte
della banca di Spagna
per protestare. Erano troppi, letteralmente troppi per le forze
dell’ordine.
Soprattutto se qualcosa avesse fatto scattare il delirio tra la folla.
Sarebbe
stato impossibile contenerla.
E così, fecero la loro
uscita trionfale. Facendosi beffe di tutta la Spagna, la porta
principale della
banca si aprì e rivelò una cinquantina di persone
in piedi, in fila, armate,
con le tute rosse e le maschere di Dalì, che fissavano
l’esterno, immobili. E
piano piano una sparaneve si fece largo tra loro e si
attivò. Ma non sparò
neve.
Sparò l’oro.
Miliardi di minuscole
sfere dorate iniziarono a volare a decine di metri di distanza dalla
banca.
E la folla entrò in
delirio.
Se la polizia avesse
aperto il fuoco, qualche civile sarebbe sicuramente rimasto colpito, e
un altro
scandalo mediatico era l’ultima cosa di cui le forze
dell’ordine avevano
bisogno. Non che quello non lo fosse, ma la morte di un innocente non
avrebbe
di certo migliorato le cose. Perciò, non ci fu modo di
arginare la follìa. I
calcoli del Professore erano corretti, le squadre antisommossa non
erano
abbastanza e vennero spazzate via come una scialuppa in mezzo ad una
tempesta. La
calca impazzì e scoppiò il putiferio proprio di
fronte alle porte della banca
di Spagna, dove l’oro era maggiormente concentrato. E
così, i cinquanta
personaggi in maschera fecero la loro uscita trionfale.
E la banda si
dissolse, invisibile ed inosservata in quella situazione completamente
paradossale.
Ciò che successe dopo,
è di poca importanza paragonato ad un’impresa di
tale entità: il buon
Marsiglia, onnipresente, si era casualmente fatto trovare a pochi metri
di
distanza, alla guida di un insospettabile furgone di hot dog. Li
caricò e li
portò nell’hangar. E come promesso, non portarono
con sé nemmeno un grammo
d’oro. Tranne qualche lingotto che non avevano fatto in tempo
a fondere, era un
peccato lasciarli lì. E una valigetta piena di segreti di
stato, anche quella
sarebbe potuta tornare utile, non si sa mai.
Quel
ricongiungimento
sarebbe rimasto nei cuori di tutti loro. Indelebile, indimenticabile.
La luce
negli occhi di ognuno ricordò a tutti di quanto fossero
importanti i legami che
avevano creato tra loro. Avevano iniziato imponendosi la regola di non
costruire relazioni, ma ora si guardavano come si guardava la propria
famiglia.
Si concedettero quel piccolo momento di gloria, ma sapevano che non era
finita.
La guerra non era giunta al termine, avevano vinto la battaglia
più importante,
ma ora veniva la parte più delicata e più il
tempo passava più la vita di
Lisbona era in pericolo. Sierra non ci avrebbe messo molto ad ucciderla
non
appena fosse venuta a conoscenza della notizia della loro fuga. Non
l’avrebbe
fatto tanto con uno scopo preciso, quanto per il puro gusto di
danneggiarli. Si
era dimostrata spietata ed ora che era alle strette non sarebbe
sicuramente
stata da meno. Lisbona non gli sarebbe più servita e Sierra
sapeva che
ucciderla li avrebbe indeboliti. Avrebbe indebolito il Professore,
spingendolo
a fare qualcosa di avventato. E allora sì, che avrebbero
perso la guerra. Ma
erano tutti risoluti perché questo non accadesse.
Il Professore aprì una
mappa su un tavolo ed iniziò a spiegare. Aveva scoperto dove
tenevano Lisbona,
si trovava in un magazzino abbandonato che era diventato
proprietà dello stato
anni prima, quando era stato requisito. Il posto perfetto quando si
vuole
torturare qualcuno, ma non si ha tempo di espatriarlo o portarlo nelle
prigioni
dei servizi segreti. In poche ore aveva elaborato un piano che poteva
funzionare, anche se folle. Ma del resto, quali delle cose che avevano
fatto
insieme non era folle?
Lo squadrone di hacker
pakistani che fino a quel momento li aveva tolti dai guai fu
fondamentale,
ancora una volta. Manomisero filmati di sorveglianza, procurarono nomi
ed
identità di tutti gli uomini che lavoravano in quel
magazzino; planimetrie,
passaggi segreti, celle telefoniche ed intercettazioni. E soprattutto
la
conferma che Lisbona si trovava lì.
Il piano era semplice.
Eliminare le guardie all’esterno e sostituirle. Sarebbe stato
il ruolo dei
Serbi.
Poi, fare irruzione.
Il più silenziosamente possibile.
Eliminare chiunque si
trovasse sul loro cammino.
Entrare nello
scantinato dove era tenuta Lisbona.
Prenderla e portarla
via. Il più in fretta possibile.
Il Professore avrebbe
coordinato tutto da un veicolo a poca distanza dal magazzino.
Semplice, pulito.
Poteva funzionare. Non ci sarebbero state molte guardie, si trovavano
in una
struttura abbandonata all’insaputa di chiunque, in un luogo
disperso fuori
Madrid durante uno degli eventi più memorabili della storia
spagnola. C’erano
solo due regole. Tirare fuori Lisbona viva, e non commettere nessun
omicidio.
Ovviamente la prima aveva più importanza della seconda.
- Professore, come
possiamo “eliminare chiunque si trovi sul nostro
cammino” se non dobbiamo
commettere omicidi? – chiese Tokyo con aria beffarda.
- Narcotici. Sarete
armati, ma i vostri fucili d’assalto avranno proiettili a
schegge imbevuti di
narcotico. Strano, per un fucile d’assalto, lo so, ma li ho
fatti progettare
anni fa. Avrete l’onore di essere i primi ad utilizzarli. Li
ferirete, li
addormenterete, ma non moriranno. Questo vi permetterà di
entrare, fare il
vostro lavoro ed uscire. Non preoccupatevi però, avrete
anche una pistola. Non
voglio che nessuno di voi perda la vita là dentro. Questa
guerra è già costata
fin troppo –
Un silenzio di
approvazione seguì quella spiegazione esaustiva.
- Vamonos – disse il
Professore – andiamo a vincere questa guerra! –
- Sì cazzo! Andiamo! –
esclamarono tutti all’unisono.
---
If
I stay with you, if I'm choosing wrong
I
don't care at all
If
I'm losing now, but I'm winning late
That's
all I want
Whatever
happens in
the future, trust in destiny
Don't try to make anything else even when you feel
I
don't care at all
I am lost
I don't care at all
Lost my time, my life is going on
- No, mi dispiace… -
- Se vuole, può usare il mio… -
- Grazie, lei è molto gentile! –
Si svegliò, e lui era ancora accanto a lei. Le
capitava spesso di ripercorrere in sogno il loro primo incontro, ed
ogni volta
si svegliava con la paura che potesse non essere reale. Ma poi, se lo
trovava
accanto ed ogni mattina era la più bella scoperta dopo anni
di frustrazioni ed
abusi.
Il profumo di
erbe Thailandesi la fece sorridere, sembrava il paradiso. E
Sérgio
addormentato, nudo al suo fianco. Appoggiò la testa sul suo
petto ed ascoltò i
battiti del suo cuore. Lo accarezzò dolcemente ed
osservò il suo petto
sollevarsi ed abbassarsi al ritmo dei suoi respiri. Non c’era
altro posto in
cui avrebbe voluto essere. Doveva essere mattino presto a giudicare
dalla luce,
ma sembrava che il sonno l’avesse abbandonata.
Scoccò un bacio alle labbra di
quello che inaspettatamente era diventato il suo uomo e si mise a
sedere sul
letto, ma sentì una mano accarezzarle la schiena nuda.
- Dove pensi di andare… - disse una voce assonnata
alle sue spalle.
Si voltò e lo guardò, sorridente. Aveva ancora
gli
occhi chiusi, ma sorrideva anche lui.
- Pensavo di andare a fare una corsetta… ho bisogno di
fare esercizio- rispose lei.
- Esercizio? – aprì gli occhi guardandola con aria
maliziosa. Le cinse il braccio e la tirò a sé,
baciandola con passione. Non
sarebbe mai riuscito a vivere senza quel sapore, senza quella dolcezza.
La loro
storia era nata per sbaglio, ma era la cosa più giusta che
gli fosse mai
capitata nella sua intera vita da lazzarone - Posso aiutarti io a fare
esercizio … - aggiunse.
Lei ricambiò il suo bacio e si sedette a cavalcioni sopra
di lui. Si guardarono, si sorrisero.
Era il momento più felice della sua vita.
E sperò che potesse non finire mai.
Si baciarono di nuovo, ma piano piano quel bacio
iniziò ad avere un sapore diverso. Incominciò ad
essere, quasi… soffocante.
Sempre di più, sentiva di non poter respirare, cosa stava
succedendo?
Cosa… ?
-
Finalmente! Mi stavo
preoccupando, Raquél, per un momento ho temuto che non ti
saresti più svegliata!
–
Questa volta, il sogno
era davvero un sogno. Un ricordo, di un momento ormai lontano. Che
probabilmente non avrebbe vissuto mai più.
Tossì, le avevano
rovesciato un secchio intero di acqua ghiacciata in faccia, ecco
perché si
sentiva soffocare. Aveva la vista annebbiata, non sapeva quanto tempo
era
passato dall’ultima volta in cui… Sierra le aveva
fatto visita. Per la prima
volta realizzò davvero quanto quella situazione fosse
estrema, drammatica.
Faticava a ricordare perché si trovasse lì, ma
poco importava. L’unica cosa che
contava era che non aveva tradito la banda, non aveva tradito
Sérgio. Aveva
scelto da che parte stare anni fa, e ora, non le importava
più della sua vita.
Aveva votato la sua esistenza ad una causa, ad un amore, e non si
sarebbe tirata
indietro. Se morire in quel sudicio buco per mano di una psicopatica
era il suo
destino, che così fosse. Non si sarebbe opposta.
Lei amava Sérgio, e
lui amava lei, questa era l’unica cosa che importava.
Stava perdendo la vita
perché lui potesse vivere, questo importava.
Che Sierra non
vincesse, anche questo importava.
Tutto il resto, era
irrilevante.
Scoppiò a ridere
tirando le fila di quei pensieri, cosa che fece indispettire non poco
la sua
aguzzina. Ma Alicia non si decompose, come suo solito.
- Ci sono novità, sai?
I tuoi compagni sono usciti dalla banca, ed indovina? Non ne abbiamo
preso
neanche uno! – gesticolò come a voler dire
“com’è
possibile?!” in un modo incredibilmente
caricaturale. Lisbona rimase
stupita da quella notizia. Se erano usciti dovevano essere passati
giorni da
quando l’avevano presa.
Ma nemmeno questo
importava, ciò che contava era che ce l’avevano
fatta, anche senza di lei. Ed
erano andati avanti, fino alla fine, anche senza di lei.
Sorrise.
- Puoi sorridere,
tesoro, ma ancora per poco. Perché ora che i tuoi compagni
sono scappati,
immagino che tu non sappia davvero dove andranno. Perciò,
sorpresa! Non ci
servi più! –
Quella sentenza non fu
una novità per Lisbona, ma sentirlo dire da qualcuno che non
fosse la sua testa
le fece raggelare il sangue. Era il momento, dunque.
- Hai qualche ultimo
desiderio? Non so, vuoi una delle mie caramelle gommose? Mi sento
misericordiosa, apprezza questo gesto d’amore –
scoppiò a ridere sadicamente –
Pistola, per favore – disse ad uno dei due uomini accanto a
lei. Impugnò la
pistola e gliela puntò alla testa.
Lisbona chiuse gli
occhi, cercando di tornare al sogno che stava facendo prima che quei
figli di
puttana la svegliassero. Ma non ci riuscì, perché
gli spari arrivarono prima
del previsto. Ma non erano così vicini come dovevano essere.
Riaprì gli occhi e
vide che Sierra aveva abbassato la pistola e stava guardando
preoccupata la
porta.
Gli spari
continuarono.
I due uomini uscirono
subito, armi alla mano, mentre fuori iniziarono a sentirsi anche delle
urla.
L’avevano trovata
allora. Non l’avevano abbandonata. Scoppiò a
piangere e ridere insieme, mentre
guardava Sierra sbiancare sempre di più. Ma non ci mise
molto a ricomporsi e
puntarle di nuovo contro la pistola.
Ma certo, l’avrebbe
presa in ostaggio. Quanto poteva essere scontata se presa alla
sprovvista.
Allora, era umana anche lei in fondo!
Finalmente, dopo
minuti interminabili di spari, degli uomini vestiti di nero fecero
irruzione
sfondando la porta. Le guardie erano stese a terra.
- Fermi, figli di
puttana, o le pianto una pallottola in testa! –
urlò Sierra. Nonostante avesse
cinque fucili d’assalto puntati contro, cercava ancora di
giocare al
negoziatore. Lisbona non seppe dire se le faceva onore, o se faceva
solo pena.
Ci fu un momento in
cui la situazione rimase immobile, congelata dalla tensione. Nessuno
parlò,
nessuno mosse un dito. Finché, uno degli uomini fece un
passo avanti estraendo
la pistola e con un movimento rapido mirò in direzione di
Lisbona ed esplose il
colpo ancora prima che qualcuno potesse muovere un muscolo. Poi ci fu
un urlo,
quello di Sierra. Marsiglia si tolse il passamontagna e andò
subito a prendere
la sua arma, ormai a terra insanguinata. Le aveva sparato alla mano con
la
quale teneva sotto tiro Lisbona. Ci voleva una mira da cecchino per
centrare un
colpo simile con una tale rapidità. Spinse via Alicia e gli
altri subito la
presero sotto tiro, poi andò a liberare Lisbona dalle
catene. La prese in
braccio.
- Sei al sicuro,
adesso ti porto da Professore – le disse sorridendo, con quel
suo accento così
buffo.
- Forza, andiamo.
Lasciamo qui questa stronza – era la voce di Denver.
Sentì dei passi dietro di
loro mentre Marsiglia la portava fuori da quell’inferno.
- Attenti, potrebbe
essercene ancora qualcuno cosciente –
Stoccolma.
Un rumore improvviso
interruppe quello dei loro passi.
- Attenzione! Davanti
a te Marsiglia! – urlò Tokyo.
Marsiglia scartò di
lato riparandosi dietro una colonna di ferro mentre una catena di colpi
esplodeva a pochi centimetri da loro. Gli altri si erano riparati nello
stesso
modo, poco più indietro.
- Cosa facciamo?! È
corazzato, i nostri proiettili non gli faranno niente! –
disse nuovamente
Stoccolma.
- Aspettiamo che
finisca il caricatore?! – ironizzò Denver.
- Non muovetevi, voi!
Ci pensa Marsiglia! – urlò Marsiglia, sovrastando
il rumore dei colpi.
Senza preoccuparsi di
mettere giù Lisbona, si espose al fuoco e sparò
un colpo con la sua pistola,
che in confronto all’F-16 del nemico sembrava una formica al
cospetto di un
gigante. Eppure, il colpo apparentemente andò a segno,
perché i gli spari
cessarono all’improvviso. Marsiglia aveva mirato alla parte
scoperta tra il
giubbotto antiproiettile ed il casco, ed aveva fatto centro.
- Marsiglia, sei un
grande! – la risata fragorosa di Denver risuonò in
tutto il magazzino, ormai
completamente silenzioso.
- Andiamo – rispose
lui, imperativo.
Uscirono, e Lisbona fu
accecata dalla luce del sole. Ma durò poco,
perché la scarica di adrenalina
degli ultimi attimi l’aveva sfinita. Chiuse gli occhi e si
sentì svenire.
Sentiva solo le voci lontane dei suoi compagni.
“Tieni
duro, Lisbona, ci siamo quasi!”
“Ancora pochi metri!”
“Dai cazzo, che ce la facciamo”
“Forza, mettetela qui.”
“Piano, piano…”
Sentì
delle mani
stringerla e si sentì poggiare su qualcosa di morbido. Poi
il rumore di un
motore, ed una sensazione di movimento. E delle esclamazioni, tante
esclamazioni, e risate. Con uno sforzo immane aprì gli occhi
e capì di trovarsi
nel retro di un furgone. Tutto intorno, persone vestite di nero la
osservavano.
- Professore – disse
una voce familiare. Sembrava quella di Tokyo.
Sentì una mano
accarezzarle la testa, cercò di alzare la testa per guardare
chi fosse… e,
nonostante la nebbia negli occhi, riconobbe il suo volto. Il suo
inconfondibile
sguardo, con quella barba che ancora non si era fatto da quando avevano
iniziato la rapina, come suo solito.
Trovò la forza di
sorridere.
- Sei al sicuro
adesso, Raquél – le sussurrò.
Lei sorrise di nuovo e
con un filo di voce disse:
- Ti amo, Sérgio… -
Ora era al sicuro. Lo
era davvero, ed era finita. Chiuse gli occhi e lasciò che
l’oscurità la
inglobasse, ma con la consapevolezza che quando si sarebbe svegliata,
lui
sarebbe stato di nuovo al suo fianco.
---
Si svegliò di
soprassalto, scossa da un tremito. Spalancò gli occhi, aveva
il respiro
pesante, i battiti accelerati.
- Raquél, Raquél,
tranquilla –
Il Professore al suo
fianco la rassicurò, accarezzandole la testa. Non appena
Lisbona realizzò cosa
era accaduto, cercò il suo abbraccio ed appoggiò
la testa sul suo petto,
stringendolo con la poca forza che aveva recuperato in quel breve
riposo.
- Puoi stare
tranquilla ora, siamo al sicuro – disse lui scoccandole un
bacio sulla fronte.
Erano sdraiati in un
letto, la luce dell’alba filtrava da una piccola finestra
rotonda. In
lontananza, Lisbona poté scorgere l’orizzonte, che
si stendeva su una vasta
distesa di acqua. Mare. Erano in mare. Ce l’avevano fatta,
dunque. Avevano
raggiunto il punto di estrazione e si erano messi in salvo.
Per la prima volta,
dopo giorni, sentì i muscoli del suo corpo rilassarsi
davvero. Si puntellò
goffamente su un gomito e scrutò il volto
dell’uomo di cui era follemente
innamorata. Lui ricambiò quello sguardo e si baciarono.
Fu uno dei baci più
belli di tutta la sua vita.
Caldo, romantico.
Sicuro.
Vero.
Avevano vinto la
guerra, dunque, e quel bacio sapeva di vittoria.
Si appoggiò di nuovo
sul suo petto, spingendo la fronte nell’incavo del collo di
lui e si godette
quel momento indimenticabile, finché non cominciarono ad
affiorare i dolori.
- Come sto? – gli
chiese, senza cambiare posizione.
- Beh… - la sua voce
era titubante – hai delle brutte ferite alla schiena, alle
braccia e al petto…
ti abbiamo ricucita, ma in qualche giorno dovresti stare bene
–
Ci fu un momento di
silenzio.
- E poi… -
Ma fu interrotto da
qualcuno che fece rumorosamente irruzione in quella minuscola stanza.
- Ragazzi, la Professora
è sveglia! – la voce di Tokyo risuonò
fortissima nelle orecchie di Lisbona –
Forza, venite!! –
Qualcuno si buttò sul
letto, e poi qualcun altro e ancora e ancora mentre il Professore
cercava di protestare
dicendo cose come “piano, attenti” e Lisbona
cercava di mettersi a sedere.
Sérgio la aiutò infilandole un cuscino dietro la
schiena, e finalmente li vide.
C’erano tutti. Tokyo, Denver, Stoccolma, Rio, Helsinki,
Marsiglia, Palermo,
Bogotà… Rise insieme a loro, anche se la
consapevolezza dell’assenza di Nairobi
trafisse tutti nel momento in cui realizzarono che la guerra che
avevano appena
vinto aveva richiesto un prezzo enorme. Marsiglia, la persona
più integra del
gruppo, stappò una bottiglia di spumante,
distribuì degli squallidi bicchieri
di plastica mentre tutti se ne stavano in silenzio a contemplare quel
cambio di
atmosfera così fottutamente inevitabile. L’omone
versò lo spumante, alzò il suo
bicchiere e disse:
- Per Nairobi. –
Dopo un momento di
silenzio, tutti lo imitarono.
- Per Nairobi –
Helsinki fu il primo a ripeterlo, e tutti seguirono in coro.
- E per Mosca –
aggiunse Denver.
- E per Oslo – disse
Tokyo.
Dopo che tutti ebbero
bevuto, il Professore spezzò quell’atmosfera
insopportabile esordendo ironico:
- Marsiglia, ti rendi
conto che mi stai facendo bere alle 6 del mattino!? – e
così, tutti tornarono a
ridere.
Anche Lisbona rise e
si voltò per dare un bacio al Professore.
- Io, vorrei brindare
anche a voi – disse – per avermi tirata fuori da
quel sudicio buco dove sarei
sicuramente morta… e soprattutto, per avermi tirato fuori
dalla vita che stavo
conducendo prima di unirmi a voi –
Tutti alzarono i
bicchieri e le sorrisero, mentre il Professore le diede un altro bacio.
Lo
sguardo di Lisbona fu però catturato da un piccolo specchio
appeso alla parete,
di fianco alla finestra, proprio di fronte a lei. O meglio, fu
catturato dal
suo riflesso. Vide le cicatrici che Sierra le aveva lasciato in volto e
si
gelò. Con la mano libera si toccò in
corrispondenza di ciò che vedeva riflesso
nello specchio, come a controllare che non fosse la sua immaginazione.
Ma no,
quei tagli c’erano, poteva sentire i punti cuciti sotto i
suoi polpastrelli.
Tutti, compreso il
professore, osservarono la scena in silenzio, lo sguardo basso,
lasciandole il
tempo di elaborare quello che poteva a tutti gli effetti considerarsi
un lutto.
Ma dopo qualche secondo il Professore le prese il volto tra le mani,
facendo
attenzione a non farle male, e la costrinse a guardarlo negli occhi. Ma
prima
che potesse dirle qualcosa, Tokyo intervenne.
- Le cicatrici
significano che hai sofferto, Lisbona. Ma significano anche che sei
sopravvissuta –
Lisbona la guardò ed
annuì. Sapeva che aveva ragione.
In quella stanza,
ognuno di loro aveva pagato un prezzo imparagonabile per quella guerra,
per
quella resistenza. Tokyo portava sulle spalle il fardello della morte
di Mosca.
Denver aveva perso suo
padre.
Stoccolma aveva perso
la sua vita precedente.
Rio aveva perso la sua
famiglia.
Helsinki aveva perso
Oslo.
Palermo aveva perso
Berlino.
Il Professore aveva
perso Berlino.
E tutti loro, avevano
perso Nairobi.
Quelle cicatrici erano
il suo prezzo.
Il prezzo di chi ha
vissuto l’inferno ed ora è costretto a vivere una
vita camminando con la morte
a fianco.
E a doverselo
ricordare ogni mattina.
A cosa era servita
quella guerra? Forse nessuno avrebbe saputo dare una risposta in quel
momento.
Nessuno era più lo stesso dopo quell’impresa
folle. Avevano vinto, perdendo
molto.
Ma una cosa era certa.
Avevano anche guadagnato qualcosa: una ragione per vivere.
Ed una famiglia.
E questa, è una cosa
che non ha prezzo.
---
MUSIC
CREDITS.
- THROUGH THE VALLEY, SHAWN
JAMES
- LOST AND DAMNED, KAMELOT
- AMNESIAC, KAMELOT
- THIS IS WAR, THIRTY SECONDS TO MARS
- MY LIFE IS GOING ON, CECILIA
KRULL, BURAK
YETER