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Autore: Master Chopper    02/05/2020    2 recensioni
[Shūmatsu no Valkyrie]
[Shūmatsu no Valkyrie]Per decidere le sorti dell'umanità, gli dèi di ogni pantheon si riuniscono e, disgraziatamente, la loro decisione è unanime: distruggere il genere umano. Una voce però si leva in opposizione, ed è quella di un dio misterioso di cui nessuno sa niente, ma che sfida dieci dèi ad affrontare dieci umani prima di poter accettare quel destino crudele.
Dieci esseri umani provenienti da qualsiasi epoca affronteranno dieci dèi provenienti da qualsiasi cultura: questo è il Ragnarok.
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Chapter 3: The Pain of a Past Sunset

1946, Giappone, Tokyo

Quella era davvero una notte senza dio.

Tra le strade più impoverite della capitale giapponese, facendosi largo tra bordelli e ambulanti, un uomo barcollava in cerca di un appoggio. Il liquore ancora impregnava i suoi baffi, così tanto da fargli domandare se davvero fosse riuscito a pagarlo tutto.

Gli schiamazzi dei sobborghi parevano ululati e lo spaventavano, facendolo rimbalzare tra un muro e l’altro in continuazione, trovando raramente passanti con cui urtare. Sfortunatamente, due di questi furono molto più grandi ed incassarono il colpo, mente lui cadde rovinosamente nella poltiglia che ricopriva i ciottoli. Aveva piovuto, e l’acqua marrone della pozzanghera gli schizzò sul volto e sui vestiti.

“ Oh my fucking god, Johnny! This drunk-ass Jap looks like he’s looking for a fight !” Un soldato americano lo sollevò da terra con aggressività, ma il suo compagno lo spinse via scoppiando a ridere.

“ No way, Stanley! I think that he’s looking for a toilet to throw up like a tramp !”

Masutatsu si sentì così flaccido da non potersi nemmeno rialzare, mentre quel mondo offuscato continuava a bruciargli la gola e la testa. Persino quando gli uomini lo ebbero chiuso all’angolo, strattonandolo contro il muro e schiaffeggiandogli la faccia, non riuscì a muovere un muscolo.

“ The war is over, little samurai! And your ridicolous country has lost !” Gli gridò in faccia uno. Poi provò ad accennare quel poco di giapponese che sapeva: “ Se mi fai incazzare… BOOM !” Mimò il gesto di un’esplosione con le mani.

“ Ti sganciamo un’altra bomba in testa! Bwahahahaha !!”

In quel momento nella testa del giapponese nacque, anzi rinacque, anzi esplose, un tremendo sogno di morte e distruzione. Non c’era alcuna sconfitta peggiore di quella desolazione, della tabula rasa accarezzata da un vento caldo, come il manto rosso di un dio della morte che ora lo tormentava.

Sentì sulla sua pelle il sospiro di un uomo oltre la tomba che lo intimava a combattere. Volevano che si ribellasse, che riguadagnasse l’onore del Giappone.

“ Io non ho perso nessuna guerra …” I soldati americani si stupirono quando gli venne risposto quel sussurro, al punto ad non riuscire a credere che davvero quell’uomo avesse avuto il coraggio di parlare.

Istintivamente si prepararono a combattere, ma quando anche solo ebbero finito di formulare quel pensiero, dei pugni carichi di tutto l’odio che un essere umano potesse generare erano già affondati nei loro volti.

“ IO NON HO PERSO NESSUNA GUERRA !!”

 

1946, qualche mese dopo, Giappone, Prefettura di Yamanashi

Il giovane ragazzo si trovava al centro della strada di campagna, completamente da solo.

Lui contro il mondo. L’uomo contro la natura.

Nonostante tutto ciò che avesse passato nella sua vita, tra violenza e fatica, bastò la visione del Monte Minobu a scaraventarlo immaginariamente indietro di chilometri e chilometri.

Gli sembrò di starsi allontanando, diventando sempre più piccolo in confronto al colle verdeggiante e ricoperto di chiazze nevose.

Si schiaffeggiò le guance con decisione, cercando di sopprimere quella sensazione opprimente.

- No, non fuggirò !- Pensò, sorridendo nervosamente.

-D’altronde nessun uomo scapperebbe mai dalla propria casa. -

Iniziò così la solitaria scalata, affondando i piedi nudi nella terra resa fredda e bagnata dalla prima neve. Sulle sue spalle il peso di un gigantesco zaino non gli gravava affatto, impedendogli di avventurarsi tra gli angusti passaggi, superando torrenti e scivolando tra i pendii.

Cercava una casa, chiedendosi costantemente se l’avrebbe trovata vicino ad una cascata, o ad una tana di lepri. Nella selvaggia ed incontaminata sacralità di quel monte, era certo che qualcuno prima di lui aveva trovato rifugio.

Ripensò al libro incastrato nel gi bianco come la neve sulla quale camminava, a contatto con il suo cuore: Il Libro dei Cinque Anelli. Il suo scrittore, Miyamoto Musashi, aveva percorso quegli stessi sentieri ben trecento anni prima mentre lo scriveva per la prima volta.

Il freddo pungeva sulla sua pelle, dolendo particolarmente sulle cicatrici guadagnate recentemente e distraendolo dai suoi sogni di gloria. Riportato alla realtà, proseguì con sguardo sempre più cupo nel suo cammino.

Le ferite spuntate sul suo corpo nei precedenti mesi erano motivo di vergogna, ma nessuno con cui ne aveva parlato poteva comprendere cosa per lui rappresentassero.

Molti artisti marziali, ciò che lui aspirava ad essere,  consideravano motivo di vergogna esclusivamente le ferite riportate dalle sconfitte.

- Cosa ne sanno però, della vergogna provata nella vittoria ?- Sempre più sprezzante avanzò tra il vento gelido che scivolava come una valanga giù per la montagna.

 

I ricordi di gloria con cui si era sollazzato per troppo tempo erano finiti, venendo sostituiti solo da una deplorevole esistenza.

Notti annegate nell’alcool, trascorse a sfogare la sua rabbia contro le pattuglie americane da poco sbarcate nel Giappone, sconfitto in guerra. A lui non importava nulla della guerra: il Giappone non era la sua terra, gli americani non erano i suoi nemici, eppure quel mondo meritava di assaggiare i suoi pugni quanto un qualsiasi avversario affrontato.

 

Lasciò cadere pesantemente lo zaino su di un masso leggermente soprelevato rispetto alla neve. Non osava più sorridere, ora che era arrivato nel posto dove si sarebbe stabilito.

Lento ed inesorabile si adoperò per costruire una capanna, scegliendo il fianco di un’altura per ripararsi dal vento. Le ultime rondini volavano verso il cielo vermiglio, scappando ora che la nevicata si era conclusa.

La freddezza e la durezza della pietra e del legno fu tutto ciò che entrava a contatto con le mani di Masutatsu, e così sarebbe stato per tutto il periodo della sua permanenza.

Tre anni. Aveva scelto di restare lì per tre anni, quindi forse si sarebbe dovuto adattare in fretta a quelle condizioni. Il freddo non lo spaventava, la solitudine non lo intristiva, e di animali feroci avrebbe potuto sconfiggerne dall’alba al tramonto.

Quello era l’allenamento da eremita di Miyamoto Musashi, il più grande spadaccino esistito,  grazie al quale era potuto ascendere a leggenda ed ispirare il mondo dei combattenti.

Lui sarebbe voluto diventare tutto ciò, ed era pronto ad accogliere qualsiasi esperienza e conoscenza la natura gli avrebbe riservato.

 

- Ma allora perché …?-

Piangeva.

Aveva smesso di lavorare. Di colpo non voleva più una capanna, né seguire il Libro dei Cinque Anelli, o una vita da leggenda. Il freddo gli doleva ovunque, persino nel cuore. Soprattutto nella cicatrice del suo cuore.

Con un impeto di rabbia si strappò di dosso il gi, lanciandolo nella neve. Bianco su bianco.

Calpestò il terreno, le rocce, i rami, saltò sugli alberi e lì abbatté i colpi forgiati da anni di allenamenti. Gli immobili avversari non si dimostrarono degni di una vera sfida, perché caddero al suolo con il fragore di un’esplosione.

Le foglie cadute erano bossoli di proiettili. Il ruscello d’acqua che iniziava a ghiacciarsi ricordava un fiume di sangue che colava da una pila di cadaveri ammassati.

Non c’era più neve attorno a Masutatsu, bensì ossa e teschi, per avvolgerlo in un silenzioso inferno bianco.

 

Il ricordo che da tempo cercava di sigillare si liberò come un animale incattivito dal suo cuore, squarciandogli il petto per uscire.

Lui era ancora Choi Bae-Dal, un ragazzo coreano arruolatosi nella leva giapponese per rispondere agli invasori di una terra sconosciuta. Non gli era mai interessato nulla del mondo, per questo ignorava il significato della guerra in cui sapeva la sua madrepatria ed il Giappone stessero combattendo.

In tutta la sua adolescenza si era concentrato solo sul concetto di forza. Le arti marziali erano per lui una meravigliosa espressione di eleganza e potenza. Le aveva conosciute sin da piccolo, allenandosi con un amico di famiglia, e nella sua città natale era riconosciuto come uno dei giovani più forti.

Orgoglioso della forza che però continuava a desiderare di accrescere, si era incuriosito della forza di cui vantavano i soldati giapponesi, ed il sogno di diventare uno di loro si era finalmente realizzato.

Ogni giorno si sedeva in mensa con i suoi camerati, anch’essi coreani. Venivano tenuti in disparte dagli altri soldati, a causa di una freddezza solita del razzismo e vagamente mascherata da confuse gerarchie inventate di sana piante per tenerli lontani. Speravano che man mano la situazione sarebbe migliorata, e per dimostrare ai giapponesi di essere utili quanto loro, sarebbero dovuti diventare valorosi ed abili nell’arte della guerra.

Una mattina però i soliti chiacchiericci assonnati vennero interrotti dall’arrivo di un generale. Questo si avvicinò al loro tavolo, e dopo un’occhiata di ispezione, poggiò la mano sulla spalla di un amico di Bae-Dal.

Gli disse, per quanto riuscivano a comprendere di giapponese, che era stato promosso a pilota.

Felicità ed un po’ di invidia accompagnarono la colazione, anche se tuttavia tra coreani si sentivano un po’ tutti fieri del progresso di uno di loro. In quel momento non avrebbero desiderato altro che diventare il più presto possibile piloti.

La sera stessa, il compagno promosso non si presentò.

Passarono i giorni, e sempre più leve coreane divennero piloti durante la prima colazione. Tutti loro non videro più il tavolo per l’ora di cena.

Choi era rimasto solo.

Si ritrovò a fissare il suo piatto con sguardo sperduto, illuminato dalla luce di una lampada posta sopra la sua testa. L’ombra proiettata sul tavolo era solitaria, distendendosi tra i posti dove aveva parlato di sogni e speranze con altri suoi simili.

Tanti di loro avevano desiderato la forza, altri la fama, ed ultimamente sempre di più si auguravano solo che la guerra finisse per tornare dalle loro famiglie con una paga adeguata.

Lui non sapeva se avessero trovato tutto questo.

Ciò di cui era a conoscenza, però, era una parola che aveva iniziato a risuonare tra le risate di scherno rivolte dai giapponesi a lui ed ai suoi amici durante la sentenza del mattino.

“ Kamikaze.”

 

Il pugno di Masutatsu fece esplodere il grosso sasso come i sogni di gloria inseguiti in passato da lui e da tutti i suoi compagni. Nell’aria si dispersero frammenti di roccia e lacrime sgorgate dai suoi occhi rossi.

Nulla gli dava conferma che quella strada lo avrebbe portato verso il successo, oppure solo verso l’ennesima illusione.

Attratto dalla forza era destinato a ferirsi sempre più, così pregava che la prossima ferita gli avrebbe fatto dimenticare il più grande dolore provato in vita sua.

  

 

Mesopotamia, circa 2500 a.C

La luna sorgeva sulla città di Uruk, illuminandola nella sua distruzione.

Mai una guerra aveva scalfito le sue mura, distrutto le strade ed abbattuto le abitazioni come ciò che era avvenuto quel giorno. Sorprendentemente però, non c’era stato nessuno scontro tra i sumeri ed un esercito straniero.

Comunemente il termine più adatto, e che col passare degli anni i cittadini utilizzarono per riferirsi a quell’evento, fu “rissa”.

L’eco di pugni che cozzavano contro muscoli ed ossa,e  di  corpi scaraventati contro le mura fino a farle crollare, cessò all’improvviso. Il fracasso era stato una costante di quell’intero giorno, a partire dall’alba.

Per gli abitanti di Uruk, i quali l’avevano sentito crescere d’intensità, al riparo nel tempio o nel palazzo reale, fu un avvenimento tanto atteso quanto sorprendente.

Con timore si riversarono sulle mura più alte della città, ovvero dove lo scontro aveva avuto fine.

Lì trovarono due uomini ricoperti di ferite, intenti a guardarsi seduti l’uno di fronte a l’altro. Ridevano e si parlavano, circondati da uno stuolo di ancelle e curatori intenti a fasciarli o ad ungerli con unguenti.

Indisturbati, quei colossi capaci di far impallidire con la sola presenza tutti gli abitanti, avevano la stessa espressione di due amici che si parlano riportando alla memoria ricordi di giovinezza.

“ Quindi gli dèi ti hanno creato per darmi una lezione ed insegnarmi ad essere un sovrano più giusto? Ma pensa te !” Sbottò l’uomo indossante un’armatura dorata quasi del tutto ridotta a brandelli, per poi scoppiare a ridere divertito dalla sua stessa constatazione.

“ Come se io sapessi come si dovrebbe comportare un sovrano …” Rispose autocritico l’altro uomo.

“ Ammetto che fino ad ora non mi ero reso conto di quanto insensato fosse questo piano.” Di corporatura, stazza e persino nella voce e nel viso pareva la copia dell’altro, se non l’avesse distinto la sua umile toga sbrindellata.

“ No.” Il sovrano sollevò la mano per zittirlo, mostrandosi sorridente. “ Anche io mi sono appena reso conto di quanto abbia sbagliato fin’ora. Se davvero né tu né io sappiamo come bisogna essere un giusto sovrano… vuol dire che lo impareremo insieme !”

Rise. Gilgamesh, il più grande sovrano dell’impero sumero e dominatore della Mesopotamia rise con la gioia nel cuore per la prima volta in vita sua.

Enkidu chinò il capo con riverenza, avvertendo per la prima volta qualcosa che non aveva mai potuto apprendere tra gli animali.

- Non come un leone verso il capobranco… ciò che provo per quest’uomo è qualcosa di completamente diverso. È affetto, amore, amicizia, quanto più di positivo l’uomo e l’animale possa sperimentare nel proprio cuore …-

Nati per essere rivali, i due giganti divennero compagni d’armi e fratelli al calare delle tenebre.

 

Passarono gli anni, soltanto per far ritrovare Enkidu e Gilgamesh ricoperti di sangue e feriti proprio come al loro primo incontro.

“ Questo è stato lo scontro più arduo della mia vita !” Il re dorato si appoggiò al fianco della montagna, slacciandosi la pesante armatura che ricadde al suolo con un boato. Il frastuono riecheggiò nel vuoto: dove prima c’era una foresta, ora era rimasta solo una valle arida spoglia di alberi e vegetazione.

“ Ed è stato tutto per il tuo popolo. L’avresti mai detto ?” Sospirando affaticato, Enkidu si lasciò scivolare per terra accanto a lui, rivolgendogli un sorriso un po’ provocatorio.

L’amico sorrise, sedendosi accanto a lui mentre riprendeva fiato.

Dinnanzi ai due, i quali poggiavano le loro schiene sulla Montagna degli Dèi, c’era solo la rovina della Foresta dei Cedri. Alberi su alberi, accatastati in così grande quantità da formare una catena montuosa che si perdeva all’orizzonte, restavano l’unica testimonianza di quella grande foresta.

Dall’altra parte, un cadavere mostruoso e decapitato giaceva al centro di un cratere liquefatto, dove la pietra si era sciolta in una sostanza nera.

Gilgamesh si riteneva davvero soddisfatto, proprio perché la loro missione era stata portata a termine e da allora Uruk non avrebbe più sofferto della mancanza di legna.

“ Gli dèi non avrebbero dovuto dichiarare loro gli alberi sulla terra che noi uomini abbiamo combattuto per possedere.” Sentenziò duramente, rivolgendo lo sguardo alla montagna che incombeva su tutto.

“ Non dirlo qui. Rischi di inimicarteli, e non è una scelta saggia dopo ciò che abbiamo appena fatto.”

“ Anche se fosse? Sono pronto ad affrontare un dio, proprio come ho appena fatto con il mostro guardiano Khubaba, che ora qui giace! Lo faremo insieme, Enkidu !”

“ Gilgamesh.” Il suo compagno stavolta non lo assecondò nel suo entusiasmo, e preferì rimanere serio.

“ Siamo entrambi più dèi che uomini: tua madre è una dea, ed io sono loro figlio diretto, creato ad immagine e somiglianza di un uomo. Dobbiamo evitare di combattere contro chi ci ha creato… è solo merito loro se possiamo condurre la nostra vita da mortali.”

Un tono preoccupato aleggiava sulla stanchezza del guerriero, il quale tuttavia non riusciva a sottrarsi dal peso delle sue palpebre sui suoi occhi.

Gilgamesh storse il naso: “ Ho capito: hai sonno e per questo dici una marea di baggianate !”

“ Non cercare sempre la scusa per avere ragione !” Ribatté Enkidu, per poi ritenersi troppo esausto per litigare.

Il compagno gli posò una mano sulla spalla, rassicurandolo finalmente con un sorriso sereno.

“ Dormiamo.” Mai invito sarebbe risuonato così dolce dopo lo scontro leggendario dei due uomini.

Scivolarono entrambi nel sonno come dei bambini, non curanti dell’ombra proiettata dalla Montagna degli Dèi sul loro destino.

 

Poco più tardi Gilgamesh si svegliò. Le tenebre inghiottivano la landa, tuttavia la notte era mite.

Niente più del suo corpo doleva, nonostante le ferite riportate contro il demone.

Non riuscì a trovare una spiegazione a tutto ciò, tuttavia avvertì l’urgenza di alzarsi. Si separò dalla spalla del suo amico, ancora immerso nel sonno, per poi incamminarsi verso le cataste di legna.

“ Re dei Re …” Una voce femminile lo richiamò con giocosa riverenza.

Il sovrano trovò così la figura di una donna, in agguato nell’oscurità come un predatore. Nonostante il buio, fu capace di individuarla all’istante a causa di una misteriosa aura luminosa da lei emanata.

Gilgamesh era figlio della dea Ninsun, dunque era sempre stato capace di individuare cosa appartenesse al mondo degli umani, e cosa alle divinità. Nonostante la sua scarsa frequentazione dei templi e riverenza agli dèi, riuscì dunque a riconoscere ugualmente Ishtar.

 La dea dell’amore lo fissava con occhi brillanti e avidi, come se volesse catturarlo da un momento all’altro.

L’eroe del suo popolo non si sottrasse di un passo, ed anzi rimase ritto ed in guardia. Il pensiero di poggiare la mano sull’elsa della spada, anche solo per provocare la dea, lo sfiorò per un attimo.

Fortunatamente, in quella situazione così tesa lo perseguitò il rimprovero di Enkidu avvenuto poco fa.

- Accidenti a quell’impiccione !- Lo maledisse mentalmente, optando così per un approccio meno offensivo.

“ Prego. Parlami.”

“ Sia gli uomini che gli dèi ti riconoscono come il Re dei Re, immagino che tu ti senta lusingato.” Le parole della dea erano velate dalla cortesia, tuttavia per il re risuonavano lontanamente pericolose.

“ A breve su questa montagna si terrà il Concilio degli Dèi, e noi tutti ci sentiremmo onorati della tua presenza. Gradiremmo anzi che tu prendessi parte tra noi per sempre.”

“ Per sempre… tra gli dèi? Per farlo dovrei diventare io stesso un dio.” Ovviamente Gilgamesh comprese che era lì il punto dove voleva portarlo la dea, ed infatti la vide sorridere compiaciuta.

“ Certo, saresti finalmente un dio! Il modo per diventarlo sarebbe… che io ti prendessi in sposo.” Rivelò Ishtar, ed a quel punto il re giurò di averla vista irradiare luce come una stella.

Mai un essere umano avrebbe potuto esprimere tanta felicità in quel modo. Le emozioni di un dio erano senza dubbio qualcosa di molto più potente.

“ Sposo …” Ripeté il sovrano, abbassando il capo.

“ Esatto! Devo ammettere che è sempre stato il mio desiderio, sin da quando ti ho visto crescere nell’uomo forte e vigoroso conosciuto ora in tutte le steppe, da un fiume all’altro. Fidati di ciò che dico, so che ogni donna della Mesopotamia ti desidera e sarebbe disposta ad uccidere pur di giacere nel tuo letto… però io ti voglio per me! Solo la dea dell’amore potrà amare un re della tua portata …”

“ Rifiuto.”  Gilgamesh la interruppe duramente, noncurante più delle sue parole.

Ishtar si arrestò di colpo, sottomessa quanto sorpresa dall’autorità schiacciante dell’uomo.

“ Il motivo è semplice.” Iniziò a spiegare lui, schiudendo la bocca nel suo famoso sorriso. “ Se diventassi un dio, sarei obbligato a vivere lontano dai mortali per i quali ho deciso di lottare. Ogni avventura, ogni rischio ed ogni ostacolo da affrontare pur di rendere sempre più felice il mio popolo… non voglio sottrarmi a tutto ciò.”

Detto questo il sovrano voltò le spalle alla dea, incamminandosi lontano da lei con disinvoltura.

“ Andiamo Enkidu, abbiamo riposato abbastanza.” Disse apparentemente a nessuno. Il suo compagno invece, nascosto fino ad allora dietro una catasta di legna, uscì allo scoperto con un’espressione indecifrabile in viso.

Ricevette una pacca sulla spalla da parte dell’amico, mentre questo si metteva al lavoro per trasportare il legno fino in città, tuttavia la sua attenzione era altrove. Con la coda nell’occhio, Enkidu assistette infatti agli ultimi istanti prima che la dea Ishtar sparisse.

Le emozioni di un dio davvero erano più potenti di quelle dell’uomo: un volto deformato dall’odio come quello della dea non l’avrebbe mai più scordato finché sarebbe rimasto in vita.     

 

“ Dobbiamo fermare quei due umani! La loro superbia offende noi dèi, ed è nostro dovere punirli !” Adirata oltre ogni limite, Ishtar cozzò i suoi pugni contro il tavolo.

Mai ci si sarebbe aspettato di trovare la dea della passione in quello stato: i capelli frustavano l’aria come serpenti, scoprendo solo del suo viso gli occhi iniettati di sangue.

“ Non sono esattamente due umani.” An, il dio del cielo e presidente dell’assemblea degli dèi, parlò con voce piatta ed inespressiva. Di tutte le altre divinità radunate sulla cima della Montagna, era senza dubbio il più imperscrutabile, proprio come il cielo stesso.

“ Gilamesh è figlio di Ninsun, mia figlia, mentre Enkidu è stata una nostra creazione collettiva. Vuoi forse dire che mio nipote e la mia creazione sono… due umani ?”

Lo sguardo serio del dio rilasciò un’invisibile pressione su di Ishtar, schiacciandola sul suo seggio e facendo ripiombare il silenzio nella sala.

“ N-No… però …” Cercò di biascicare la dea, tremando per la paura ma non del tutto soppressa nel suo odio.

“ Una cosa è innegabile: Gilgamesh ed Enkidu hanno ucciso pocanzi il guardiano Khubaba.” Si erse all’improvviso il dio Enlil.

Il dio delle tempeste mostrava un’ira ben più radicata di quella di Ishtar, e per questo seppe fronteggiare lo sguardo giudicante di An.

“ Io stesso avevo assegnato a Khubaba il ruolo di guardiano della Foresta dei Cedri. E la Foresta dei Cedri è… o meglio, era, la più bella foresta che circondava questa nostra dimora… prima che quei due la distruggessero.”

Enlil a quel punto piazzò l’indice ed il medio sul tavolo: “Gilgamesh ed Enkidu sono dunque colpevoli di aver ucciso Khubaba e di aver distrutto la nostra foresta, soltanto per portare più legna alla loro città! Queste mi sembrano prove più che sufficienti per un’accusa di tracotanza !”

Tracotanza: una parola che successivamente nei poemi epici greci sarebbe stata chiamata “hybris”, divenendo l’emblema del conflitto tra dio e uomo.

Mentre l’uomo accusa il dio di essere spietato contro la sua gente, cerca in ogni modo di guadagnarsi con le unghie e con i denti un barlume di libertà e potere, venendo così giudicato dalle divinità come superbo ed irriverente. In tale circolo vizioso vivevano già da tempo uomini e dèi della Mezzaluna Fertile, senza nemmeno essersene resi conto.

Ishtar sorrise di nascosto, continuando a fingersi acquietata. Il supporto del dio Enlil le giovava molto per la condanna che presto avrebbe lanciato ad i suoi due più odiati umani.

 “ Sta bene.” Rispose allora An, rilassando le spalle sul seggio. “ Due accuse però sono tollerate, in merito alla natura divina di Gilgamesh ed Enkidu. Alla terza sarete liberi di intervenire, giudicandoli colpevoli e punendoli come meglio crederete.”

 

Tempo dopo, la Mesopotamia resa forte del magnifico legno dei cedri divini perse tutta la sua pace e tranquillità.

I campi si tingevano del sangue dei contadini innocenti, le città venivano spazzate via come da un alluvione e solo per disperazione pregavano gli uomini.

Il giudizio era arrivato, dicevano. Chiedendosi di cosa fossero colpevoli per star subendo quella punizione divina, i deboli tremavano. Eppure, due uomini non si sottomisero.

Allertati dai pianti del popolo, si misero alla ricerca della fonte di tutta quella morte e distruzione. Cacciarono il terrore per giorni, viaggiando tra rovine e trovando i sopravvissuti senza più una casa o forse una famiglia.

Quando ebbero trovato la causa, per quanto il nemico si palesasse imbattibile, lo affrontarono senza paura alcuna.

 

“ L’abbiamo messo alle strette, Gilgamesh !” Urlò Enkidu al compagno, straziando le sue corde vocali come ogni altro muscolo già lacerato e sanguinante sul suo corpo.

Il re di Uruk però non gli rispose, tanto era concentrato sulla bestia.

Il Toro Celeste, inseguito fino in fondo ad una conca prosciugata dopo anni dal più grande alluvione mai visto in Mesopotamia, scalpitava e muggiva facendo tremare la terra. Il suo verso pareva più un ululato infernale, forse rivolto agli dèi suoi padroni.

Gilgamesh aveva la spada sguainata, ben più vicino all’animale per cercare di ferirlo alle zampe. Se solo avesse potuto mettere fine alle cariche che da mesi terrorizzavano la sua gente, quella creatura avrebbe avuto vita breve.

Enkidu si ritrovò a fissare la schiena imponente del suo sovrano. Loro due erano pressoché identici nelle fattezze, eppure osservando il suo amico dalle spalle gli era sempre parso molto più grande.

Il suo corpo pareva sempre oscurare il sole quando camminava di fronte a lui, e quand’anche si metteva alle sue spalle, la sua ombra lo inghiottiva come quella di una torre.

Nonostante fossero pari, sia in forza che nel loro rapporto, non era difficile notare perché tutti i sumeri continuassero a lodare Gilgamesh come il re eroe della loro stirpe. Quell’uomo era capace di irradiare grandezza ed imponenza come un dio, riuscendo però a sorridere, ridere, arrabbiarsi e piangere come un comune mortale senza provare vergogna.

- Il dio più umano di tutti.- Enkidu formulò così un titolo che sarebbe stato adeguato anche per lui, ma non ebbe il tempo di pensare a tutto ciò.

 

“ Enkidu !”

Il grido di Gilgamesh già risuonava nell’aria quando il Toro Celeste, animato da una foga inimmaginabile, lo aveva travolto con una carica più veloce di un fulmine.

Il guerriero venne sbalzato all’indietro di diverse miglia, trascinato dall’immenso animale. I due scomparvero all’orizzonte in un lampo, lasciando così il sovrano di Uruk solo.

Dove prima avrebbe trovato la presenza consolatoria del suo amico, Gilgamesh vide solo una chiazza di sangue.

“ Enkidu …” Ripeté il re, questa volta più debolmente, come se con quel lamento volesse riportare lì il suo compagno.

 

Intanto, ad oltre ottocento chilometri di distanza, appena un istante dopo Enkidu aveva ripreso conoscenza. Lo shock del colpo a bruciapelo l’aveva fatto svenire per circa un secondo.

Il Toro Celeste, bestia divina inseguita per giorni e giorni, non aveva mai sfoderato una carica così veloce prima d’ora. Enkidu non lo avrebbe potuto sapere, ma la velocità percorsa dall’animale avrebbe potuto superare qualsiasi proiettile inventato fino al duemila avanti Cristo.

- Non è mai stato così veloce! Per tutto questo tempo ha nascosto la sua vera forza !- Pensò il guerriero, sentendo il suo corpo venir usato per fendere l’aria  con così tanta forza da generare il vuoto sul percorso tracciato.

Il dolore lo aveva a stento raggiunto quanto realizzò di avere due lunga corna affilate piantate nel petto, attraverso persino l’armatura di scaglie di pietra ed oro. I suoi muscoli divini non erano stati nemmeno una degna difesa, e nonostante il suo peso era stato sollevato di circa un metro da terra dalla mastodontica creatura.

Vide i suoi occhi rossi, ben più spietati di qualsiasi guerriero umano. Riconobbe allora un tipo di odio impareggiabile tra gli uomini: quello degli dèi.

Lo sguardo di Ishtar si ripresentò nella sua mente come un lampo nel cielo buio. La vendetta della dea non aveva atteso altro che il momento più proficuo per punirli.

- Gilgamesh !-

Conficcò entrambi i suoi pollici nelle orbite del Toro Celeste, mentre con le restanti dita afferrò saldamento il cranio della creatura. La sentì gemere e schiumare dal dolore, tuttavia finché la sua corsa non si sarebbe fermata nemmeno quando Enkidu avrebbe lasciato la presa.

Nella creazione divina vissuta tra gli umani era per la prima volta scaturito un impulso di protezione: verso i suoi simili, i poveri, gli innocenti ed il suo più grande amico. Non vi fu mai rumore più grande di quello prodotto da Enkidu quando piantò i suoi piedi nel suolo. La terra tremò, come percorsa da un sisma, ed il toro si ritrovò sollevato in aria da due potenti braccia.

Enkidu mosse un passo.

“ Se questa è la punizione che mi spetta, va bene! La accetterò !”

Più veloce di un fulmine, l’uomo partì alla carica, ripercorrendo il solco tracciato lungo svariate miglia mentre trascinava la bestia divina come fosse un aratro.

“ PERÒ NON POSSO ACCETTARE CHE GLI DÈI SI PRENDANO GIOCO DEGLI UMANI A LORO PIACIMENTO !”

 

L’urlo del guerriero percorse tutta la Mesopotamia, raggiungendo chi pregava invano per la salvezza e chi si condannava già vittima del giudizio divino. Raggiunse anche Gilgamesh, il più grande re mai vissuto, il quale vide il suo migliore amico e compagno d’armi raggiungerlo ad una velocità sovrumana.

Arrivato davanti all’eroe, Enkidu sollevò un piede da terra per colpire con un calcio il Toro Celeste. L’animale, già morto da tempo, venne scagliato in aria come un pallone di stracci, raggiungendo il cielo che gli aveva dato i natali.

In un duello durato appena qualche secondo, la minaccia dell’umanità era stata debellata.

Gilgamesh, incredulo, guardò l’amico. Era così tanto confuso da dover impiegare diverso tempo prima di notare le ferite mortali sul suo petto. “ Enkidu !” Esclamò inorridito, correndo in suo soccorso.

Il guerriero si accasciò tra le sue braccia, ma non prima di avergli poggiato una mano sulla spalla con fare fraterno.

“ Il tuo piano era buono, come sempre… scusami se però ho voluto essere un po’ eccentrico e risolvermela a modo mio.” Sussurrò alle sue orecchie mentre un rivolo di sangue gli percorreva il mento. Le braccia del re sumero lo cinsero in un caldo abbraccio.

 

Qualche ora più tardi, Gilgamesh aveva raggiunto la stanza nel palazzo reale dove Enkidu riposava, dopo una sessione infinita di cure. I migliori medici delle terre dei fiumi erano stati richiamati a corte con una prontezza mai vista, all’avviso che uno degli eroi capaci di salvarli dalla piaga del Toro Celeste era stato ferito a morte.

Il re vide il suo amico disteso su di un letto, con davanti a sé un balcone che dava sulla bellissima strada principale. Le luci delle fiaccole risplendevano nel buio con baldanza, assieme alle genti in festa dentro le loro case o nelle piazze.

Bisognava essere grati per chi aveva lottato, dando la propria vita pur di salvarli.

Gilgamesh però non aveva voglia di festeggiare l’ennesima vittoria. Nessun vino e nessun banchetto sarebbero stati buoni senza il suo più fedele compagno seduto accanto.

Il mondo poteva strepitare gioioso quanto voleva, ma lui sarebbe rimasto in silenzio fino a quando non avrebbe potuto riabbracciare Enkidu. Si appoggiò al balcone, chinando la testa alla luna splendente.

Pregò.

 

In quel momento Enkidu riaprì gli occhi, non trovando però alcuna luce a confrontarlo dopo quel lungo sonno. Si rese allora conto di star ancora sognando, confinato in un mondo buio nella sua mente.

“ Dove… ?” Fu sul punto di chiedere, quando una voce che non si sarebbe mai aspettato gli rispose.

“ Grande Enkidu. Benvenuto !” Così tanto disprezzo in poche parole furono subito una manifestazione di odio ben chiara per il guerriero.

La dea Ishtar apparve con così tanta luce da eguagliare una stella, rischiarando a giorno lo spazio vuoto circostante. Quando i suoi piedi toccarono il suolo insondabile, delle onde si diradarono in ogni direzione.

“ Benvenuto al Concilio degli Dèi …” Il suo sorriso perfido per Enkidu fu ben più mostruoso del Toro Celeste.

“ Ti chiediamo di scegliere chi sacrificare per la salvezza dell’umanità. Tu… o Gilgamesh ?”

 

   
 
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