Nota:
Eccomi qui, come promesso. Il prossimo capitolo
sarà
leggermente più lungo e sarà l'ultimo.Ringrazio
le persone che
stanno dando una chance alla me di 15 anni e a quella
presente
che sta cercando di mettere un punto.
Capitolo 41
Come la decima per Beethoven
Day4
Dopo
quello che mi sembra appena qualche attimo di sonno tranquillo apro
gli occhi e non mi sconvolgo nel percepire quanto la poca luce che
filtra dalla finestra li ferisca, ruoto la testa e goffamente allungo un braccio per sbloccare il cellulare e controllare l'ora.
La faccia dormiente di Embry mi risulta d'intralcio, sbuffo seccata
dall'impossibilità di raggiungere l'apparecchio, che rimane
una mia
priorità giusto il tempo di assimilare che quella faccia
profondamente addormentata si trova proprio nel mio letto sfatto ed
è attaccata ad un corpo febbricitante e scarsamente vestito.
Cazzo.
Cerco
di mantenere la calma perché - guardiamo in faccia la
realtà -a
conti fatti quando Embry è mai stato completamente vestito?
Dopo
essermi convinta che la quasi nudità del ragazzo non
rappresenta un
elemento sufficiente per determinare il livello di criticità
della
situazione mi limito a tastarmi il corpo, sospirando sollevata quando
percepisco addosso il tessuto dei miei vestiti del giorno prima.
Oltre lo straziante momento con Jacob e quel flirt strampalato ed
enigmatico con Edward espletare i miei bisogni sessuali con Embry
sarebbe stato il fattore decisivo a testimonianza della mia
“stronzaggine” e insanità mentale.
Scommetto
che dopo questa settimana schifosa sarò costretta a tornare
dall'analista.
Scongiurato
l'attacco di panico decido di volere delle risposte, quindi tento di
svegliare il rovente addormentato scuotendolo progressivamente sempre
più forte.
«Meg,
se non la smetti ti spezzo il braccio.»
gracchia. Trattengo un urlo e decido di spingerlo giù dal
letto
facendo forza sui piedi, lui preso alla sprovvista cade sul parquet con
un tonfo sordo e un lamento arreso.
«Cosa
ci fai nel mio letto, Embry?»
scandisco bene ogni parola, come stessi parlando con nonno Quil, lui
decide di mettersi seduto e poggia il mento sul materasso, stringendo
gli occhi bruni, alla ricerca di un motivo che giustifichi la sua
presenza nella mia stanza, a quanto pare senza particolare successo.
«Io
mi ricordo solo il rum»
un sorrisino ammiccante si disegna sul suo viso «tanto
rum»
ripete.
Assottiglio
le labbra, inorridita «Oh
no, non il rum. Tira fuori il peggio di me quella merda.»
«Puoi
scommetterci, bimba. Hai fatto veramente... beh... non ricordo, ma
qualcosa è successo.»
mugugna, si gratta la testa e di nuovo quell'espressione di sforzo
mentale si dipinge sulla sua faccia, «Credo
c'entrasse Nessie.»
lo dice alzandosi in piedi e stiracchiandosi. A quella mezza frase mi
sento venir meno, crollo sul cuscino e chiudo gli occhi colta dalle
vertigini. Non posso evitare ciò che è successo,
prima o poi dovrò
uscire dalla stanza e affrontare l'accaduto, accettarne le
conseguenze. Il peso della responsabilità e dei miei anni mi
costringe ad alzarmi, lavarmi velocemente la faccia e
mettere una vecchia felpa dentro cui nascondermi, alzo il cappuccio
come unica barriera tra me e la fastidiosa percezione del mondo
esterno che solo la sbornia può donarti, a questo punto non
mi resta
che uscire e apprendere di quale morte sarei dovuta morire. Dico ad
Embry di rimettersi a dormire, che gli avrei portato un
caffè appena
possibile. Non voglio un pubblico mentre Zio Billy mi sgrida come
quando da adolescente non riuscivo a tenere a freno la lingua e il sol pensiero
di potergli dare un tale dispiacere mi provoca delle fitte intense
allo stomaco.
O
forse devo semplicemente vomitare.
In
cucina trovo Jacob, appena metto piede nella stanza mi pento
amaramente di non essermi portata dietro Embry. Il suo sguardo si
alza su di me e capisco che di lì a poco avrà
luogo una di quelle
belle conversazioni/litigate che caratterizzavano il nostro rapporto.
Lo accetto riluttante e mi siedo esattamente di fronte a lui,
sprofondo il più possibile dentro la grande felpa grigia e
mi verso
un caffè sperando che il liquido scuro e fumante mi dia la
forza di
affrontarlo. Lui continua a starsene sulle sue mentre io prendo un
sorso dalla tazza, squadrandolo come di consueto. Credo di non averlo
mai visto senza quel ridicolo cappello indosso da quando sono
tornata, chissà cosa nasconde là sotto. Oggi
porta una camicia di
flanella a quadri, aperta su una semplice t-shirt bianca attillata.
Sicuramente più nelle sue corde, anche se il semplice fatto
di avere
più di uno strato di vestiti mi sembra alquanto strano.
Sente
forse freddo? Chissà se si trasforma ancora, se fa ancora
parte del
branco.
Quando
comprendo di dover essere io a rompere il silenzio faccio mente
locale e dico le prime parole che mi ronzano in testa.
«Cosa
ho fatto ieri sera?»
pensavo di aver chiamato a raccolta ogni
briciolo di
sicurezza e spavalderia che possiedo nel dire quelle parole, ma il
suono della mia voce risulta comunque intimidito.
La
reazione di Jacob mi spaventa, perché all'improvviso si alza
tanto
velocemente da creare un fastidioso trambusto e sbraita: «Santo
cielo, Meg! Questo ti hanno insegnato a Londra? Ad ubriacarti tanto
da non reggerti in piedi? Guarda come ti sei ridotta!»
Ignoro la sua ramanzina paterna e fuori luogo, battendo sul punto
della questione.
«Cosa
ho fatto?»
Sembra capire che non sono disposta a mettere sul banco
d’accusa il
mio grado di lucidità della sera prima e tenta di
ridimensionarsi,
tornando a sedersi mentre lo osservo di sbieco.
«Eri
ubriaca, ti stavi divertendo ma ero preoccupato, okay? Volevo
portarti a casa, ho dovuto prenderti in braccio, portarti via di
peso. Nes mi ha fatto una scenata ... e tu gli hai vomitato sulle
scarpe mentre litigavamo.»
provo con tutta me stessa a non ridere e mordicchiando uno dei
cordoncini che penzolano dal cappuccio aspetto che il silenzio si
allunghi, sperando non aggiunga altro, dopo dieci secondi capisco di
poter tirare un grande respiro di sollievo.
«Oh,
bene! Ma allora perché siamo tutti così
incazzati? E perché c’è
Embry nella mia stanza?»
Dallo sguardo stralunato che mi riserva non capisco se ho sbagliato
ad aver minimizzato la lite tra quasi-neo-sposini o
a parlare
del ragazzo tra le mie lenzuola, firmandone la condanna a morte. «Maggie,
perché stai rendendo tutto così difficile?»
Okay, giuro che adesso lo ammazzo.
E invece no,
respiro appieno per evitare di saltargli al collo e guardo il
caffè,
provando a distendere i nervi percorro il bordo della tazza con le
dita e decido di chiarire una volta per tutte la situazione, di
stabilire delle linee guida che evitassero esaurimenti nervosi
durante la mia permanenza.
Perché,
veramente, non voglio tornare dall'analista.
«Non
mi importa.»
No, non è un buon inizio.
Prendo
un respiro e riprovo «Di
te e Nessie, non mi importa. Converrai con me
che da
quando quella fottuta partecipazione di nozze è finita nella
mia
buca lettere io mi trovi in una grandissima situazione di merda, sto
cercando di fare del mio meglio! E né quelle stronzate
maliconiche a
First Beach, né la passivo-aggressività della tua
ragazza mi stanno
aiutando e ci sono un mucchio di altre cose che mi fanno sentire come
se stessi correndo una maratona. >> chiaro, conciso.
«Non
stai bene.»
sbotta.
«Come
scusa?»
mi massaggio la testa e torno a guardarlo, confusa.
«Non
puoi stare bene, io sto cadendo a pezzi da quando sei tornata.»
non oso proferir parola, mi perdo nel suo sguardo denso di tristezza
e lo guardo strofinarsi il viso con le mani, grattarsi la fronte
corrugata.
«Renesmee
ha avuto una strana reazione ieri, lo so, mi dispiace. Il fatto
è
che da quando sei tornata sono assente nei preparativi e in... tutto
il resto»,
quella pausa piena di significato mi provoca un conato, ma tento di
ignorarlo, «
e lei sa - io so - che in un certo senso
c’entri tu.»
i suoi occhi languidi addosso e il fatto che si è alla fine
tolto
quel fottuto cappello dalla testa peggiorano la mia situazione
cardiaca e so di dover fare qualcosa. Porta i capelli corti, ma non
come immaginavo, è un taglio curato, da adulto, niente a che
vedere
con quell'accorciatura che di tanto in tanto subiva la sua lunga
chioma corvina. La
tentazione di accarezzarlo la reprimo stringendo il pugno e non so se
mi rivolgo a me o a lui quando esplodo in un: «no,
cazzo.» non
è più il mio Jake, quest'uomo distrutto davanti
ai miei occhi.
Gli
assomiglia parecchio, ma il passato non dovrebbe mai inficiare la
vita di qualcuno fino a tal punto, in una circostanza così
delicata
soprattutto. Lui non è più il mio Jake, io non
sono più la sua
Meg.
Con
questa consapevolezza apro di nuovo bocca: «Jay,
non sono più una che deve essere salvata, protetta e
supervisionata. Odieresti la persona che sono diventata e tu... tu
adesso indossi i golfini, Cristo Santo! Quello che voglio dire
è che
bisogna smetterla di pensare a legami iperuranici del cazzo e altre
fottutissime porcherie simili a incatenarci l'uno all'altro per
l'eternità! Non sono più affar tuo, non in quel
senso. L'unico
motivo per cui senti queste cose è perché siamo
stati il primo vero
amore l'uno dell'altro, avrai sempre un posto nel mio cuore ma ora
basta, sarebbe una stronzata immane mandare tutto a puttane
perché
ti senti in colpa nei miei confronti, sei solo un coglione che se la
sta facendo sotto.»
quando finisco di parlare mi accorgo della smorfia indecifrabile che
gli deforma il volto. Ho vomitato il mio discorso talmente tanto di
getto da non ricordarmi neanche più davvero ogni parte e
quel
silenzio mi preoccupa alquanto. Per fortuna dopo qualche minuto
eterno solleva un angolo della bocca, divertito.
«Sei
stata molto volgare»
dice, mi prende per mano e sento che probabilmente ho detto quello di
cui aveva bisogno perché la sua fronte è distesa,
i suoi occhi più
limpidi.
«Colpa
dei residui del rum»
scherzo, prendo una grande sorsata dalla tazza, fino a vuotarla
completamente, mi alzo dal tavolo e realizzo che Edward aveva
ragione, aveva sempre avuto ragione:
devo
fare i conti con tutti, chiudere ogni questione irrisolta abbia con
loro, il momento è arrivato.
«Tu
la ami, lo so e sono qui perché voglio vederti
felice. Io voglio che tu sia felice.»
il mio obiettivo è lo stesso fin da quando ho preso
quell'aereo, è
giunta l'ora di lasciarli andare; non è un rassegnarsi,
bensì un
accettare con serenità e positivamente le direzioni che
ognuno di
noi ha preso mentre il tempo passava. Tutti loro sono in un modo o
nell'altro riusciti senza volerlo a ferirmi parecchio, fino alla
parte più intima di me; ciò è successo
esclusivamente perché io
li adoravo a tal punto da far diventare marginale qualunque altra
faccenda o entità non li riguardasse direttamente, li amavo
più di
quanto avessi mai amato me stessa.
Oggi
è diverso, ho imparato a volermi bene e sono abbastanza
forte da
andare avanti, ma per riuscirci completamente devo riappacificarmi e
accettare la piccola Megan diciassettenne e fragile, fatta a pezzetti
e sparsa nelle persone di questo posto. «Adesso
andiamo, dobbiamo buttare giù dal letto Embry e precipitarci
da
Nessie. Le devo delle scuse e mi offrirò di ricomprarle
delle scarpe
che non posso permettermi».
Day5
Ho passato il
periodo immediatamente seguente la discussione e tutto il tempo
appresso a cercare di capire come poter tornare a Londra con un
bagaglio emotivo più piccolo. Ho accettato la fine della mia
storia
con Jacob, ho parlato con Renesmee, precisandole che non ho alcuna
intensione di rubarle il marito e che niente che mi riguardi
potrà
in nessun caso ostacolare la loro vita, almeno da questo istante in
avanti. Per fortuna ha rifiutato la mia offerta di ripagarle le
scarpe. Ho cercato di farmi perdonare da Rachel per non essermi
presentata al suo stupido matrimonio - utilizzando i soldi
risparmiati con Nessie - regalandole un servizio da tè che
Esme mi
ha aiutato a scegliere; ho perdonato Paul, Sam e gli altri membri del
branco per essere quello che sono, non che sia una colpa,
più
semplicemente credo di averlo accettato, in ogni sfumatura, anche la
più inumana come l'imprinting che li lega, lo stesso
imprinting che
tra altre cose è causa della morte di Leah. Ho accettato
anche lei e
sue decisioni: il fatto che non sia mai riuscita a trovare la forza
che ha dato a me convincendomi ad andare via, che abbia deciso di
farla finita, la perdono per non aver pensato che io avrei potuto e
voluto aiutarla; accetto e comprendo la decisione dei miei genitori e
quella di chiunque altro abbia mai avuto un segreto con me con
l'esclusivo fine di proteggermi; accetto il fatto che la mia vita non
sarà mai normale fin quando ci saranno loro, tuttavia so
bene di non
poterne più fare parte come prima e ho accettato anche
questo. Da
questo recinto fatto di perdono, accettazione e altre
banalità del
tipo ho intenzionalmente lasciato all'esterno Edward: non so cosa ci
lega, mi fa paura pensarlo, mi ha sempre fatto paura aprire quella
porta e lui non è mai stato da meno. La sua vita
matrimoniale non è
tutta rosa e fiori come chiunque conosca Edward e Bella ha ragione di
pensare, non riesco ancora a capacitarmene. Forse dovrei
semplicemente accettare il fatto che non tutto si può
risolvere, che
ci sarà sempre qualcosa che rappresenterà l'opera
incompiuta, una
cosa finita ma a metà, una melodia che esisterà
solamente in
potenza. Indubbiamente la mia maturità è
schizzata alle stelle in
quarantotto ore, la mia comprensione e benevolenza si sono
ammorbidite come un paio di scarpe usate e credo di essere
addirittura riuscita a tornare ad un livello passabile di parolacce.
Per questi motivi, oltre il fatto che rappresenta di per sé
una
barzelletta fatta e finita, ho le mie legittime ragioni nell'adirarmi
quando Alice decide che durante il matrimonio dovrò
subentrare ad
una delle bambinette lancia-petali che si
è rotta la tibia
durante una corsa in bicicletta.
«Alice,
spero tu stia scherzando!»
balbetto,
agitando il cestino di vimini che mi ha mollato in mano comunicandomi
la lieta notizia. « Ti
prego, non farmi
essere parte attiva al matrimonio del mio ex ragazzo quasi
fratellastro. Sarebbe davvero deprimente!»
Lo sguardo che mi
rivolge è carico di comprensione, ciò che esce
dalla sua bocca no :
«lo faccio
per te e tutti i tuoi passi
di accettazione e perdono da tossicodipendente. E poi pensa a
Renesmee! Quale cosa migliore dice ad una donna “prendilo,
è tuo!”
Della sua ex che le prepara letteralmente il terreno?»
Alzo
gli occhi al cielo e accetto di buon grado il braccio rasserenante di
Jasper sopra le spalle, lo guardo e dalla sua faccia capisco che non
potrò vincere, non questa battaglia.
«Jazz,
dovrai aiutarmi almeno tu oppure ricorrerò allo Xanax.»
lo imploro, riferendomi al suo dono di controllare
l’umore,
lui si segna una croce sul petto e annuisce. Nel preciso istante in
cui lo fa Alice comincia a saltellare dicendo di aver salvato le
nozze.
Io credo di essere
il ritratto della rassegnazione e dell'indolenza, prendo la tazza di
cioccolata calda consolatoria che mi offre Carlisle con una mano, con
l’altra gli sfilo dal taschino della polo bianca il pacchetto
di
sigarette che mi ha reiteratamente confiscato durante la mia
permanenza in casa Cullen.
«Quelle
cose ti uccideranno»
mi dice con fare
giudicante, il medico che è in lui esce fuori. Lo guardo
esasperata
esclamando non so che sul fatto che probabilmente mi avrebbe uccisa
prima Alice o la vergogna a cui sarei stata sottoposta e vado in
direzione del patio con l’intento di intossicarmi per bene i
polmoni e accettare anche questo conclusivo sommo gesto
d’amore
verso questa imponente massa di – diciamolo pure senza alcun
filtro
– irriconoscenti bastardi. Aprendo la portafinestra scorgo
all'aperto la zazzera rossiccia di Edward, ci guardiamo per un
secondo e in seguito sparisce.
Edward per me sarà come la
decima per Beethoven?
Mentre mi perdo tra le spirali di fumo
bofonchio tra me e me , dandomi della sciocca per essermi paragonata
perfino a Beethoven.
Un altro individuo
era stato lasciato fuori dalla mia rotazione : Bella. Questo mancato
confronto probabilmente si potrebbe considerare una immediata
conseguenza del non voler aprire quel cassetto nella mia mente con
sopra il nome di Edward, eppure sarebbe erroneo indicarla come
ragione dal momento che più candidamente non ho avuto
necessità di
pensarci perché credo mi stia evitando come la peste, lo ha
fatto
per tutta la settimana. Una parte di me ne è sollevata,
sarebbe
inutile provare a negarlo; sta facendo ad entrambe un grandissimo
favore, ma non potremo scappare in eterno: so di doverla vedere alle
nozze, mi sono rassegnata al fatto che una madre sia presente al
matrimonio della figlia nella stragrande maggioranza dei casi.
Nessuno mi ha tuttavia ricordato che la sera prima usualmente si
organizza una la cena di prova.
Nessuno
si era annotato di accennarmene, nemmeno una volta.
Quindi attualmente
mi ritrovo a sudare cercando di tirare su la cerniera di un vestito
nero e troppo attillato mentre il mio cervello cerca di far pace con
l’idea che il plotone di esecuzione al completo
sarà riunito e
pronto a far fuoco con più di un paio di ore
d’anticipo rispetto a
ciò che mi ero abituata a pensare.
Ci
saranno migliaia di persone a guardarmi con pietà a causa
degli
sposi.
E
ci sarà Bella, con Edward chiaramente.
Nel
momento in cui la zip arriva ad un punto - tra le mie scapole - in
cui mi risulta impossibile anche solo sfiorarla reprimo un urlo a
labbra strette e sento un coro angelico mentre la porta si accosta
subito dopo, lasciando sbucare il viso di Emmett.
«Una
parte di me vorrebbe chiederti cosa cavolo ci fai qui, ma ti devo
supplicare di aiutarmi!»
prima che finisca la frase il vampiro è già al
mio fianco e la mia
chiusura lampo è già al suo posto alla base della
nuca. Sospiro
soddisfatta e lo guardo grata, mi allungo verso i grandi orecchini
d’oro e perle - uno dei pochi ricordi che ho della mamma - e
li
indosso con calma.
«Sei
meravigliosa»
mi dice, nei suoi occhi da eterno diciottenne leggo la fierezza di un
padre, la malinconia di un vecchio amico, l’affetto di un
fratello.
«Anche
tu non sei niente male»
gli rispondo, con un sorriso ampio e sincero «sai,
faccio finta di niente ma mi sento ancora così in imbarazzo
qui tra
di voi.»
si chiude nelle spalle il dolce Emmett, mi guarda comprensivo dalla
superficie riflettente e afferra il braccialetto che sto cercando di
agganciare al polso per facilitarmi.«Sarebbe
strano il contrario, io credo. Sono venuto per garantire che facciate
in tempo, per scappare dall'eccitazione di casa Cullen e per te,
soprattutto. Per assicurarmi che stessi bene e
prepararti»
«Prepararmi»
ripeto
e ho capito, un
misto di inquietudine ed esaltazione mi monta all'interno dello
stomaco. Mi sento talmente confusa che mi gira la testa. La
specchiera mi rispedisce indietro un'espressione che speravo di non
dover più incontrare sul mio volto.
«Stasera
l’atmosfera sarà tesa, bisognerà non
innescare strane dinamiche e
andrà tutto bene»
quel ragionamento mi pesa come un macigno e decido di cercare in lui
le risposte a quei quesiti che molto disperatamente ho tentanto di
non elaborare neanche dentro la mia testa.
«Emmett
che accade tra Edward e Bella?»
Lo sguardo che mi riserva mi fa comprendere che attendeva che lo
chiedessi e contrariamente a quello che pensavo non ho bisogno di
forzarlo. Si siede sulla sponda del letto e comincia a
parlare:
«Hanno
cominciato ad avere dei problemi quando hanno capito quanto
celermente crescesse Renesmee, andava sempre peggio, sarò
sincero,
ma in seguito al suo fidanzamento con Jake la situazione è
diventata
drammatica. Il problema sta nel fatto che la ragazzina dovrebbe avere
circa 11 anni adesso e invece sembra una ventenne e domani si
sposerà. Bella è frustrata e sente che gli
è stato strappata via
la possibilità che aveva di essere madre. In breve, ha
bisogno di
aiuto e lo rifiuta, rimane chiusa in se stessa, Edward ne soffre e...
e poi ci sei tu.»
il
suo sguardo si
solleva dalle sue mani e mi trafigge, illeggibile.
«Io?»
balbetto, mi giro confusa in cerca
delle scarpe, colta dal bisogno frenetico di fare qualcosa per
evitare di crollare in uno stato catatonico. Lui afferra la
situazione e mi raggiunge, mi acciuffa le mani e sorride a
metà.
«Dai
Meg, Edward ti adora e adesso a tutti appare evidente quanto anche
tu...»lo
fermo, scuotendo vigorosamente la testa e accennando un risolino
esiguamente convinto.
«Edward
è un amico»
lo
asserisco come se
fosse la cosa più ovvia del mondo, come se sinora si fossero
dette
soltanto eresie, come se le parole non avessero avuto alcun
significato alle mie orecchie.
«Ci
sei andata a letto»
quello che mi sconcerta, oltre la mancanza di sensibilità,
è il
fatto che abbia usato il mio identico tono ovvio.
«EMMETT!»
mi libero dalla sua presa, scioccata e mortificata, riprendendo a
cercare le scarpe. Questa volta non prova a bloccarmi, sospira e
basta, guardandomi rassegnato mentre sprofondo nella mia
irrequietudine girando a vuoto.
«Maggie,
ti imploro»
biascica, sollevando gli occhi al soffitto allora mi fermo senza
guardarlo in viso.
«Lo
sanno tutti»
sussurro, e non so se la mia sia una domanda o un'affermazione. So che
non mi sono mai vergognata tanto nella mia vita per le azioni che
ho compiuto, come se mi stessi rendendo conto della situazione solo
adesso che la bolla di riserbo tra Edward e me è esplosa.
«Non
che io sappia»
dice, tranquillo, poi osa una risata «Io
stesso non ho mai avuto una conferma prima di... be', proprio ora»
lo guardo truce, presumibilmente gli lancerei un cazzotto se non
sapessi quanto sarebbe inutile e controproducente. Sarebbe
meglio prendersi a schiaffi da sola.
«Stai
distante da Ed per stasera.»
è un bisbiglio, una supplica.
Mi guardo per l'ennesima volta
allo specchio e allungo la mano per prendere il mascara, ma non lo
uso, lo tengo semplicemente chiuso in un pugno. I miei occhi sono
lucidi e penso che a breve piangerò, per cui metterlo
sarebbe
inutile. «Non
immaginavo potesse essere così difficile.»
balbetto appena, maledicendomi ancota per essere tornata, per aver
pensato per un attimo di poter ricavare qualcosa di buono da questo
terribile viaggio.
«Anche
noi abbiamo bisogno di chiudere i conti con tutto quello che
concernere te e quegli anni del cazzo.»
Se potesse
piangere adesso piangerebbe con me.
Lo penso mentre mi
lascio andare a qualche lacrima e lo sento stringermi fraterno,
scoccandomi un bacio sulla tempia mentre un'angelica Rosalie accosta
la porta e con un sorriso triste, quasi avesse paura di rompere il
nostro momento,
dice con
un filo di voce:
«Ora andiamo
o
faremo tardi.»