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Autore: bekka981    07/05/2020    1 recensioni
Iniziate a leggere il libro.
Vi lascerete immergere e avvolgere dall'aria serena di Eastbourne, una città tranquilla, di quelle che non fanno rumore, di quelle che sembrano non esistere.
Scorrete capitolo dopo capitolo e vi scontrerete così in dieci ragazzi.
Vi immedesimerete in loro, nella loro noiosa routine, nelle loro famiglie ordinarie, nelle loro contrastanti emozioni.
Penserete come loro. Agirete come loro.
Vi farete un'idea chiara di come siano andate le cose.
Crederete di aver capito tutto, di sapere tutto.
Ecco, adesso fermi.
Il tabellone di gioco si è ribaltato.
È caduto a terra, e con esso anche le pedine che avevate posizionato, convinti di aver preceduto la mia mossa, quando invece non vi siete resi conto di aver guardato tutto alla rovescia.
***
- Tutti i capitoli della storia saranno scritti da dieci diversi punti di vista (Avice, Zowie, Nolan, Holly, Zack, James, Gregory, Theo, Lola, Jessica).
- Consiglio la lettura su Wattpad (link del prologo: https://www.wattpad.com/689355755-locus-amoenus-0-prologo) perché revisiono continuatamente i capitoli, quindi le modifiche non le riporto sempre su questo altro sito.
- Se avete domande, scrivete pure ed io sarò felice di rispondere il prima possibile ^^
Genere: Hurt/Comfort, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"I-io non so… non so da dove iniziare".

"Perché sei qui? Inizia da qui".
"...".
"Il resto verrà da sé".

 

⊳⋄⊲

 

Tre mesi prima

 

AVICE

 

 

Avete mai avuto una tradizione?

Intendo una di quelle consuetudini che si hanno periodicamente, o solo in un certo periodo dell'anno, a cui siete molto legati e senza le quali vi sentireste come vuoti.

Intendo uno di quei momenti semplici ma speciali, di cui non potete fare a meno perché ormai fa parte di voi.

Quando arriva quel momento ti scappa un sorriso e, tu, sai per certo che nessuno riuscirà a togliertelo per tutta la giornata. Sei in preda all'eccitazione. Ti senti fortunato, felice. Il cuore ti batte forte, così forte che tutti lo possono sentire, ma a te non importa.

No, non importa perché sei troppo concentrato a goderti il momento. Sei troppo emozionato, felice con l'adrenalina a mille, convinto che nessuno potrà mai privarti della tua tradizione.

È tua e puoi decidere solo te chi può farne parte e chi no.

È tua, fa parte di te e niente ti rende più felice che viverla.

Ecco, avete mai avuto una tradizione simile, un momento del genere a cui nessuno prima di voi ha mai pensato? Avete mai provato una sensazione simile, questa stessa gioia?

Io sì. Io avevo una tradizione simile.

Ogni autunno mio padre raggruppava le foglie cadute dagli alberi del nostro giardino. Ne creava un bel mucchio, cosicché io e mio fratello potessimo rotolarci dentro, l'uno accanto all'altro, come dei sacchi di patate.

Ogni autunno la nostra tradizione. Ogni autunno dei sacchi di patate.

Sentivo di avere tra le mani qualcosa di grandioso ed ero felice. Felice davvero, almeno fino a quando non la persi.

Fu lì che assimilai essa come il peggior male che mi potesse capitare.

Com'è che si dice? "Questa è un'altra storia"? Beh, no. Mi dispiace deludervi, ma niente può essere un'altra storia in questa storia. È tutto irrimediabilmente collegato.

Ma partiamo dal principio.

Iniziamo da quella mattina di settembre. La mattina che avrebbe dato inizio al nuovo capitolo della mia vita.

L'estate era finita. La pioggia bagnava delicatamente gli ombrelli della gente, e batteva forte sulla pietra grigia del marciapiede. Le cartolerie di Denver erano intasate da file ininterrotte di genitori, alla ricerca dei libri scolastici per i propri figli. L'aria era umida, spenta. Le strade trafficate. I clacson delle macchine creavano quel frastuono irritante. Le irritanti chiacchere tra le donne dai terrazzi dei condomini. Il dolce suono delle risate dei bambini che giocavano nel parchetto sotto casa.

Insomma, la solita atmosfera di città. Confusione. Clacson. Traffico. Voci sfuocate. Caos.

E prendetemi per strana, pazza o che so io, ma per me tutto taceva. Tutto taceva perché il mio orecchio era abituato, trascurava quei rumori. Così come trascurava le urla di quei ragazzi, radunati nella piazza principale di Denver per fare la differenza nel mondo.

Si trattava solo di una manifestazione per l'ambiente, organizzata da una ragazza che conoscevo solo di vista, e di cui non ricordavo il nome. Fatto stava che frequentava la mia scuola ed era simpatica, raggiante, estroversa. Aveva davvero tanti amici, tutti volevano conoscerla, ed io la invidiavo. Invidiavo la sua capacità di rapportarsi con la gente. Rendeva l'atto così facile, semplice.

Si comportava come una dittatrice che avrebbe potuto cambiare il mondo, o almeno tentava di esserlo. Aveva organizzato quella manifestazione in tutti i suoi minimi dettagli: le tappe, i percorsi, i motti, i cartelloni, il discorso in piazza. Tutto.

Perché lei voleva salvare il mondo dal cambiamento climatico. Tutti lo volevano.

Mi era stato chiesto di partecipare, ma dissi di no. Non potevo, quel giorno avevo un aereo che mi avrebbe portato fuori dall'America, lontano dai ricordi e, se fosse stato possibile, anche da quel giorno d'estate che aveva cambiato tutto.

Tuttavia la mia assenza nella piazza principale di Denver, a pronunciare le parole di quel discorso, apparve assurda a coloro che invece si presentarono. Perché tecnicamente ero io quella ragazza. La ragazza estroversa con mille amici, capo cheerleader, presidente del comitato studentesco, e miglior alunna dell'istituto.

Ero io.

Ma, nel caso non fosse chiaro, tecnicamente. Solo esclusivamente e assolutamente tecnicamente. Ciò che era al di fuori del tecnicamente non mi legava neanche lontanamente a lei. Non più.

La mattina della partenza, mamma era agitata. Voleva avere tutto sotto il proprio controllo, aveva l'ansia costante di aver dimenticato qualcosa, entrava e usciva dal portone di ingresso di casa ogni due minuti. Faceva avanti e indietro come una pallina da pingpong, ed i miei occhi, senza trovare niente di meglio da fare, la seguivano.

Seguivano la partita con la mente offuscata da risate lontane.

 

"Andremo a mangiare sushi. E' deciso!".

Lo sguardo contradditorio della mamma non perse tempo a fulminare papà, il quale, spedito e determinato, si era diretto verso l'auto senza guardarsi indietro. "Will!", lo chiamava come una belva. "Will, vieni qui!".

Io e Kyran, l'uno di fianco all'altro dietro la mamma che urlava, ci scambiammo un'eloquente sorriso divertito e guardammo la Peugeot rossa di papà uscire dal parcheggio, con sottofondo la voce squillante di lei.

"William!".

"Avice?". Sussultai sul posto, in piedi sullo stesso marciapiede, con lo sguardo perso tra le macchine. Incontrai gli occhi blu di lei e mi si formò un groppo alla gola. "Tesoro, dobbiamo andare. L'aereo parte tra mezz'ora", sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla, la leggera stretta che mi fece, prima di allontanarsi e farmi cenno di seguirla.

Guardai mia madre salire sul taxi che aveva chiamato, su cui aveva caricato le valigie, e da cui mi guardava interdetta. Spaventata. Preoccupata. Solo quando presi posto di fianco a lei e chiusi la portiera, si tranquillizzò. Mentre io fui travolta da un altro flash e trattenni spontaneamente il respiro.

La Peugeot rossa accostò di fianco al marciapiede, che precedeva l'ingresso di casa, e mamma non perse tempo a salire a bordo e rivolgersi a papà agitata, come sempre. "E' pesce crudo! Sai quante malattie porta il pesce crudo?".

Lei pretendeva una democrazia chiara e tonda nel loro rapporto, ma un idealista e spirito libero come lui non sapeva che significato recasse quel termine. Avevano pensieri opposti, caratteri opposti. Nessuno sapeva cosa fosse passata per la testa di entrambi il giorno in cui si erano uniti per la vita, ma si amavano e ciò bastava.

Intanto io e mio fratello avevamo preso posto sui sedili posteriori, e stavamo assistendo alla discussione. Eravamo così eccitati alla sola idea di poter assaggiare il paradiso di cui papà tanto parlava, e che mamma non ci aveva mai permesso di provare.

"Mmh, scommetto che uno c'è morto con il sushi. Giusto?", fece invece lui, mentre si immetteva nella strada trafficata. "E tu invece con i miei soldi, il mio stipendio, pagheresti la cena da… dov'è che volevi andare te? Ah, sì. Da La Nonna Genoveffa. Giusto?", disse guardandola con sfida.

Mamma non seppe ribattere, si ammutolì, e così io e mio fratello scoppiammo a ridere.

"Papà ha sempre ragione!", esclamò Kyran sporgendosi oltre il sedile, e rivolse una linguaccia alla mamma, in disaccordo.

"Sì, certo, e tua sorella andrà a quella festa!", ironizzò divertita. "Vero, Avice?".

Non voglio mentire. Le avrei voluto tirare uno schiaffo.

"Dai, su. Dove volete che vi porti, signore?", sdrammatizzò papà ridendo.

"Dove volete che vi porti?", domandò l'autista, distogliendomi dal flashback.

"Aeroporto, grazie", rispose mamma. La sua voce fremette, vibrò come la corda di una chitarra appena sfiorata. Ma io lo ignorai. Ormai avevo fatto l'abitudine ad ignorare gesti, atteggiamenti, frasi, imbarazzi. Mi risultava automatico.

Tramite lo specchietto retrovisore incontrai lo sguardo imperturbabile dell'autista, e deglutii mordendomi l'interno della guancia.

Gli occhi azzurri ed enigmatici di papà, contornati da rughe di espressione e la solita matita nera, si scontrarono con i miei tramite lo specchietto retrovisore. Lui strizzò il destro, ed io sorrisi.

"Tranquilla, principessa. La convinco io".

I miei occhi si inumidirono, ed una lacrima solitaria prese a rigarmi il viso.

Appoggiai la fronte sulla sua superficie fredda e fissai la nostra casa che si allontanava sempre di più, fino a sparire dietro la massa dei ragazzi con i cartelloni verdi e azzurri.

L'ultima cosa che vidi, prima di indossare le mie cuffie e chiudere gli occhi, fu la scritta di un cartellone verde.

"Non c'è un pianeta B". Era la mia calligrafia.

 

⊳⋄⊲

 

Dieci giorni dopo

 

Presi il rossetto e lo stappai, guardando il mio riflesso nello specchio.

Ero seduta a gambe incrociate in camera mia. Quel giorno sarebbe stato il primo che avrei trascorso nella nuova scuola, la Eastbourne High School.

L'ansia si percepiva.

Passai il rossetto sul labbro superiore, e poi su quello inferiore, colorandomi la bocca di un rosso fuoco. Premetti le labbra l'una contro l'altra e ottenni l'effetto desiderato. Mi colorai l'interno dell'occhio con una matita nera, misi due strati di mascara sulle ciglia e, successivamente, indossai una camicia a quadri neri e grigi sopra ad una maglietta nera ed un paio di pantaloni del medesimo colore.

Non appena finii di sistemarmi, rimasi a fissare il mio riflesso per qualche minuto.

Mamma diceva che un trasferimento equivaleva ad un nuovo inizio, una seconda possibilità per ricominciare da zero. Quindi avevo pensato che sarebbe stata l'occasione perfetta.

Avevo pensato che, se tutto attorno a me stava crollando ed assumeva un aspetto distrutto e diverso, anche io dovevo fare lo stesso. E fingere di non cambiare me stessa, ma convincermi invece che la ragazza riflessa nello specchio fossi io, mi rendeva la situazione più facile.

Se papà fosse stato lì, mi avrebbe detto che stavo sbagliando, che non era quella soluzione. Anche Kyran, convinto che papà avesse sempre ragione, sarebbe stato d'accordo. Fingevo di non sapere nemmeno questo.

Uscii dalla mia camera e mi fermai nel corridoio, tra la porta del bagno e quella della mamma. Sentii delle voci che bisbigliavano da dentro quest'ultima, e subito le riconobbi: mamma e Bob.

Stavano ridendo.

Lui le faceva sempre spuntare un sorriso, per questo ero felice che fosse al suo fianco, non la vedevo così contenta da molto tempo. 

Ma Bob non era il suo compagno, non stavano insieme. Erano solo migliori amici, carissimi amici di vecchia data.

Mamma da giovane abitava ad Eastbourne, aveva fatto tutte le scuole qui, e Bob era stato il suo compagno di avventure pazze e strambe al liceo. Avevano passato quei quattro anni assieme, prima che lei partisse per il college assieme al suo nuovo ragazzo. Papà.

Mamma e Bob avevano provato a mantenersi in contatto, ma non era servito a molto. Le amicizie a distanza non resistono a lungo. Lei non aveva più avuto notizie di lui e continuò con la sua vita, proseguì per la sua strada. Finì il college, papà le chiese di sposarlo, nacqui io e, sette anni dopo, Kyran.

Mamma aveva fatto scegliere a me la città che avremmo imparato a chiamare 'casa'. Perciò, io scelsi di pensare prima a lei che a me stessa e, facendolo sembrare un puro caso, puntai il dito sulla città dove aveva trascorso la sua adolescenza: Eastbourne.

Era considerata la città più tranquilla di tutta l'Inghilterra. La città dove tutti si conoscevano e si salutavano amorevolmente per strada. L'aria che si respirava per le sue vie era decisamente inebriante, mi rilassava e mi provocava una strana sensazione. Sapeva di 'casa'.

Mamma sembrava felice di essere tornata. Soprattutto perché lei e Bob non si sentivano da oltre vent'anni. Assurdo, ma era bastata una chiamata per farli riavvicinare così tanto e disintegrare quei venti anni di assenza, quasi come se non fossero mai esistiti.

Bob abitava in un palazzo in città, per caso l'appartamento accanto al suo era stato messo in vendita, ed io e la mamma lo avevamo comprato. 

Da come parlavano e come si guardavano sembravano due ragazzini del liceo. Era davvero imbarazzante, ma decisamente troppo bello vedere la mamma tornare a sorridere.

E poi Bob era simpatico, solare. Mi trovavo davvero bene con lui. E mica era brutto, eh? Capelli scuri, leggermente brizzolati, occhi verdi e un sorriso smagliante non si trovavano ovunque.

Aveva pure un ruolo importante in città.

Era lo sceriffo della centrale di polizia.

Ad Eastbourne Bob Cullen non passava di certo inosservato, ma chi lo avrebbe mai detto che nemmeno tre mesi più tardi avrebbe indagato su un omicidio?

   
 
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