Capitolo 29
Brandelli di cuore a Fossoli
“Amami,
compagna. Non mi lasciare. Seguimi. Seguimi, compagna, su quest’onda di
angoscia. Ma del tuo amore si vanno tingendo le mie parole. Tutto ti prendi tu,
tutto. E io le intreccio tutte in una collana infinita per le tue mani bianche,
dolci come l’uva.”
Pablo
Neruda, Perché tu possa ascoltarmi
Immagine
dal film “L’amore oltre la guerra”
Giacché scomparve sul
retro della baracca, durò pochi istanti la visione di quell’abbraccio veemente,
carico di affetto che a Sarah aveva strappato una risata – fioca, ma che gli
era parso di sentire fino a lì, attraverso il vetro della finestra chiusa. Era
chiaro quanto lei avesse un forte ascendente sui bambini e sapesse farsi voler
bene da tutti – sempre se gli ebrei potessero provare del bene, pensò.
Dal retro della baracca,
riapparve dapprima la bambina con i capelli ricci e le lentiggini in viso e,
nonostante la distanza e la fitta nebbiolina che aleggiava nell’aria
offuscandola, Hermann la vide sfregarsi la tasca della giacca, come per
assicurarsi che qualcosa vi fosse ben nascosta e capì allora il motivo di
quell’abbraccio. Di certo, Sarah aveva regalato alla ragazzina la sua tavoletta
di cioccolato, ma perché?
La sua generosa rinuncia
gli destò meraviglia, quasi ne fu sconvolto e, poggiando la mano sul davanzale,
trattenne la sigaretta all’ingiù, tra l’indice e il medio. Smise di fumare per concentrarsi su un momento che non
avrebbe tardato ad arrivare. Subito dopo, infatti, anche lei, dalla parte
opposta rispetto alla bambina, riapparve e la vide come fascio di luce che,
abbagliante, squarciava l’oscurità della caligine e dei pensieri, sfociando in
un crescente delirio. Iniziò a dubitare della sua origine ebraica e a perdersi
in congetture. Sarah sembrava non presentare alcuna caratteristica, né fisica
né morale, attribuita agli ebrei, anzi la sua tenacia e il suo spirito di
sacrificio – che, adesso, ben trasparivano da un incedere con portamento fiero
e sguardo determinato – la rendevano più somigliante a una donna ariana.
Sin da bambino, in famiglia, a scuola e nella Gioventù
hitleriana – a cui suo padre non tardò a iscriverlo non appena fu aggiunta la Deutsche
Knabenschaft[1] –, gli era stato insegnato che la specie umana si
suddivideva in una razza superiore, composta da uomini e donne valorosi che
incarnavano la perfezione psicofisica, la purezza di sangue e la nobiltà
d’animo e una razza inferiore, bastarda e parassita, fatta di esseri ripugnanti
e avari, dediti a manovrare l’altro secondo i propri interessi ed era
inverosimile che Sarah potesse far parte di quest’ultima. Da sempre, sapeva che
al mondo esistevano l’ariano e il non ariano, il puro e l’impuro, ma, forse,
tra le due razze doveva esserci una specie intermedia che gli scienziati
nazisti non avevano ancora scoperto e lei ne era il prototipo. Inoltre, Sarah
gli dava l’impressione di essere una donna dolce e guerriera, sognatrice e
concreta, capace di donare tutto di sé alle persone che amava e lo confermava
il suo gesto di altruismo verso una bambina, probabilmente, sconosciuta fino a
qualche settimana prima. Desiderò essere lui il destinatario di quell’amore, poi,
d’improvviso, i pensieri si dissolsero, quando la sigaretta, ridotta ormai a un
piccolo mozzicone, si spense tra le dita, scottandolo. Solo per un attimo aveva
distolto lo sguardo, ma Sarah era già sparita dalla sua visuale.
Il cuore le batteva forte nel petto, mentre si apprestava a
compiere un gesto contrario alla sua indole e ai suoi valori. Sempre attenta a
chiedere il permesso per qualsiasi cosa, a volte, persino a casa sua, Sarah non
aveva mai rubato nulla nei suoi vent’anni di vita. Ma si fece coraggio, sapendo
che fosse per una giusta causa, affinché Agnese e gli altri bambini non
soffrissero la fame durante il viaggio verso Auschwitz e, dopo essersi
assicurata che nessuna delle cameriere la stesse osservando, prese dal ripiano
della cucina due fette di pane per poi nasconderle nella tasca del grembiule.
“Sarah!” Una voce, seppur bassa, squillò nel suo orecchio,
mentre una mano le cinse prontamente il polso. “Che cosa stai facendo?”
Si volse tremante, imbattendosi nello sguardo preoccupato di
Giuditta, la cameriera milanese che l’aveva soccorsa dopo la violenza di
Hermann.
“Sei impazzita?” incalzò la donna, pur mantenendo un tono di
voce basso.
Sarah sentì le guance accendersi e gli occhi inumidirsi per
la vergogna e, nel tentativo di giustificarsi, biascicò ingenuamente: “Non l’ho
fatto per me.”
“Non ha importanza”, ribatté Giuditta e diede alla sua voce un’inflessione
più severa, “se lo scopre il tenente, ti ammazza di botte.”
“Non lo farà.” Volte a rassicurare se stessa, le parole
guizzarono dalle labbra senza che Sarah se ne accorgesse.
“Cosa te lo fa pensare?” le domandò la donna, assumendo un
piglio di curiosità.
“Me l’ha promesso.” A questa risposta, pronunciata come fosse
un’ovvietà, Giuditta riprese con un’altra domanda: “Hai ancora la faccia piena
di lividi e credi già alle sue parole?” L’espressione della donna si fece più
seria e, al contempo, quasi supplichevole. “Sarah, lascia che ti parli come a
una sorella più piccola. Lo so che per te è stata la prima volta”, fece una
pausa e sospirò, “ma quello che succede fra te e quell’ufficiale nazista non ha
nulla a che fare con il sentimento. È uno scambio, un vicendevole usarvi. Lui
ti usa per espletare i suoi bisogni di maschio e tu devi usarlo per garantirti
una sopravvivenza più dignitosa, fino a quando la guerra non sarà finita.
Attenta, Sarah, a non farti prendere troppo, a non lasciare brandelli del tuo
cuore sparsi in questo campo, quando sarai finalmente libera.”
Le parole di Giuditta furono come un susseguirsi di buffetti
sulle guance che, a poco a poco, la ridestavano, restituendole una
consapevolezza che andava inconsciamente perdendosi nel tentativo, forse, di
fuggire dalla dura realtà.
Nonostante ne portasse ancora i segni, Sarah sembrava aver
già dimenticato gli schiaffi e la violenza del tenente, sostituendoli con il
ricordo di carezze gentili, lievi sospiri e parole sussurrate. Si era
abbandonata tra le braccia del suo nemico, dimenticando che uomini come Hermann
le avevano portato via il calore di una famiglia, di una casa e, se guardava
meglio dentro di sé, poteva scoprirsi desiderosa che giungesse presto la sera
per cedere di nuovo all’inganno di quella scintilla di bene scorta nei suoi
occhi verdi. Si sorprese a immaginare di incorniciargli il viso tra le mani, di
fissarlo dritto negli occhi e lacrime di rimorso le appannarono lo sguardo.
Napoli, ottobre 1946
“Grazie, Sarah”, ripeté Hannah, guardandola con gli occhi
luccicanti di lacrime trattenute, mentre stringeva al petto la pila di
biancheria regalatale dall’amica. Ma, subito dopo, il suo sorriso commosso si
spense e, assumendo un’espressione seria, tornò sull’argomento, chiedendole:
“Credi che andranno all’inferno?”
“Chi?” Troppo presa dai suoi ricordi, Sarah mostrò in volto
un’aria confusa e Hannah, stupita dalla sua incapacità di comprenderla al volo,
ribatté: “Chi ci ha portato via le nostre famiglie.”
“Io non credo siano stati tutti uguali.” Sarah rispose di
getto, senza pensare che le sue parole avrebbero potuto far scaturire un’altra
domanda pregna di curiosità: “Come fai a saperlo?”
Hannah si mise in attesa nella speranza, forse, di sentire
una risposta volta a mitigare la rabbia per ciò che aveva patito a Mauthausen
e, intanto, gli occhi di Sarah si velarono di lacrime per il silenzio che stava
infliggendo alla sua cara amica.
Un prolungato silenzio che fu interrotto proprio da Hannah
che, con uno scatto, balzò dal letto e, forzando un tono allegro, disse: “Va
bene, non pensiamoci più. Vado a preparare una bella cioccolata calda.”
Si diresse in cucina, iniziando a canticchiare “’Na gita a li
Castelli” e permettendo che Sarah ritornasse a Fossoli, in una mattina di
luglio che non aveva né colori né profumi dell’estate, nella sua baracca fatta
da Hermann sgombrare per parlarle alla svelta, prima che un’altra sera
giungesse a sorprenderli ancora lontani l’uno dall’altra. Stretta forte al suo
petto, aveva avvertito un sussulto, come un singhiozzo trattenuto, mentre, con
voce roca e tremante, dichiarava di amarla. Sentendolo per la prima volta
commosso, vulnerabile, quasi intimorito all’idea di averla persa, era riuscita
a perdonargli l’esecuzione di sessantasette uomini[2].
Il ricordo di quell’abbraccio le portò via la magia del
pomeriggio vissuto con il suo futuro sposo e si sentì sporca verso di lui,
verso Hannah, verso la sua famiglia e tutte le altre vittime innocenti del
nazismo.
“E la tua luce è morbida.
La patina orrida ch’ora copre il cielo
non compromette la vista ottima.
La verità è una strada a doppio senso e ci s’invortica.
Il fuoco non è uno, sono due per ogni orbita.
E ogni circonferenza è illusione ottica.
L’idea di questa perfezione è dittatura cosmica.
Le paranoie in testa fanno aerobica.
La fantasia mi riordina la mente, non la logica.”
Rancore, Luce (tramonti a nord est)