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Autore: DrarryStylinson    24/05/2020    0 recensioni
Stiles è frutto di un esperimento genetico mal riuscito: metà uomo e metà lupo. Quando l’animale prende il sopravvento, la rabbia e l’istinto di far del male al prossimo sono impossibili da controllare. Solo un altro come lui potrebbe avere le capacità per fronteggiarlo.
Derek, rimasto solo al mondo e con un conto in sospeso con Stiles, si offre volontario per diventare anch’egli un mezzo lupo per poter così catturarlo.
Quando però la verità viene a galla entrambi dovranno rivalutare le loro posizioni in questa sorta di guerra.
Sterek!AU
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5


Stiles cadde all’indietro. Un attimo prima mi stava annusando la maglietta e quello dopo era per terra. Fu un movimento talmente veloce che mi spaventai e non riuscii a farlo restare in equilibrio. Lo sentii emettere un verso di dolore quando l’osso sacro sbatté su una radice sporgente.
Che cosa era appena accaduto? Sembrava così in ansia all’idea di annusarmi e adesso era così triste e spaventato da quello che aveva sentito.
“Stai bene?” chiesi stralunato abbassandomi un po’ per arrivare alla sua altezza e aiutarlo.
Stiles, puntellandosi sui talloni e sui gomiti, indietreggiò. Udii il fruscio delle foglie e alcuni rami che si spezzarono sotto il suo peso.
Il mio odore doveva essere molto particolare se aveva avuto quella reazione. Il suo cuore batteva forsennato e stava cominciando a respirare affannosamente: un attacco di panico.
Mi inginocchiai al suo fianco e lo vidi portarsi una mano al petto. “Ehi, ascolta. Respira” dissi stupidamente.
Lui mi fissò in malo modo annaspando alla ricerca d’aria e scommetto che se non fosse stato tanto disperato mi avrebbe riso in faccia per la mia uscita sciocca.
“Sei un licantropo” esclamai. “Non puoi farti sottomettere da un attacco di panico” aggiunsi tentando di risollevargli il morale. Lo issai prendendolo da sotto le ascelle e appoggiai la sua schiena al mio petto per tenerlo sollevato e farlo respirare meglio.
I suoi occhi gialli brillarono nel buio del bosco. Giusto: i suoi occhi erano gialli perché era difettoso, se fosse stato perfetto li avrebbe avuti blu, come i miei, e probabilmente non avrebbe sofferto di questi sintomi non da lupo.
Dovevo fare qualcosa. Era completamente trasformato sotto i miei occhi eppure non mi era mai sembrato più umano.
“Stiles” lo chiamai per nome per la prima volta e lo vidi spalancare gli occhi per la sorpresa. “Fa’ come faccio io” ordinai.
Lui continuò a guardarmi artigliandosi la felpa e bucandola con gli unghioni.
“Inspira” dissi inalando dal naso e osservandolo imitarmi. Tenne a fatica l’aria nel polmoni. “Espira” buttai fuori dalla bocca e lui fece altrettanto. Ripetemmo quel gesto quasi trenta volte prima che il battito del suo cuore tornò alla normalità. Lo vidi riprendere le fattezze da umano.
Si sdraiò per terra, con gambe e braccia spalancate, e restò a fissare il cielo coperto qua e là dai rami degli alberi. Mi sedetti, con un braccio sopra un ginocchio, e lo fissai insistentemente in attesa di una spiegazione.
Si asciugò il sudore con le mani sporche di terra, poi si tirò su a sedere davanti a me. “Perdonami” si scusò non trovando il coraggio di guardarmi in faccia. L’odore della tristezza stava lasciando il posto all’imbarazzo.
Lasciai che si prese il suo tempo, sapevo che prima o poi avrebbe cominciato a parlare senza che ci fosse bisogno di fargli alcuna domanda. Era latitante da più di due anni ed ero la prima persona al mondo ad avere intenzione di ascoltarlo.
“Hai un odore così simile al suo” disse abbracciandosi le ginocchia. Poggiò una guancia su di esse e mi contemplò e il suo sguardo mi sembrò così indifeso.
“Al suo?” domandai confuso. Forse avevo una fragranza che assomigliava a quella di una persona che aveva conosciuto.
“Talia” rivelò infine.


Conosceva mia madre?


Esalai un sospiro tremulo e cercai di controllare i segnali chimici che il mio corpo, di lì a poco, avrebbe emanato. Fu tutto inutile perché l’espressione sul viso di Stiles mutò rapidamente.
Si alzò velocemente in piedi e si spolverò i jeans. “Scusa” borbottò incamminandosi nella radura. “Nessuno dei due è pronto per questa conversazione” decretò lasciandomi lì a fissare il vuoto.
Adesso ero io che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a respirare meglio.
“Derek?” mi chiamò già allontanatosi di una decina di metri. Si riavvicinò con cautela, allungò una mano e cercò di poggiarmela sulla spalla per darmi un po’ di conforto ma fui più veloce: gliela afferrai e la strinsi talmente forte da rompergli un paio di dita. Sentii lo schiocco delle ossa e il suo ringhio di dolore.
Mi alzai in piedi continuando a stringergli la mano, percependo le dita guarire e mi venne voglia di spezzargliele un’altra volta. Lo sovrastai in tutta la mia altezza e, non per la prima volta, mi accorsi di quanto fosse piccolo se paragonato a me.
Lui non fece niente per liberarsi. Mi guardò e, mentre mi trasformavo, infilai gli artigli nella carne bianca che divenne subito rossa per via del sangue. Mi fissò colpevole e delle lacrime cominciarono a rigargli le guance. Non aveva alcun diritto di piangere la sua morte. Lui l’aveva uccisa. Le aveva uccise tutte e tre.
“Come conosci il suo nome?” ringhiai.
Chiuse gli occhi e li strinse, continuando a piangere.
“Parla!” urlai e la voce rimbombò tra gli alberi facendo bubolare qualche gufo spaventato.
“Quello che ho fatto è imperdonabile ma non volevo, ti giuro che non volevo” singhiozzò. Percepii il suo corpo tremare a causa del pianto.
“Le tue scuse non le riporteranno indietro” grugnii. “Come la conoscevi?” chiesi di nuovo.
“Lavorava lì” rispose non cercando nemmeno di liberarsi dalla mia presa.
“Lì dove?” domandai sempre più arrabbiato.
Stiles spalancò gli occhi e mi guardò con sorpresa. “Lì. Alla Corporazione. Lavorava per mio padre” rivelò.
Scossi la testa, sconvolto. Non era possibile. Ascoltai il battito del suo cuore: era spaventato ma regolare. Non stava mentendo.
Che ci faceva mia madre alla Stilinski Corporation e perché non ne aveva mai parlato a nessuno?

 

 


“Mamma, dove ci porti?” chiese Cora allacciandosi la cintura. Io mi voltai a fissare mia sorella minore e le feci una smorfia per farla ridere. “Ve l’ho detto: andiamo in vacanza” rispose lei girando le chiavi nel quadro e partendo. “Devi essere davvero importante per la clinica se ti permettono di prendere vacanze da un giorno all’altro” osservò Laura accendendo la radio per rallegrare l’atmosfera con la musica. “È estate. Voglio passare un po’ di tempo con i miei figli” esclamò lei stringendo il volante con forza. “Non è che sta succedendo qualcosa e non vuoi dircelo?” chiesi dubbioso. "Insomma, è quasi mezzanotte, potevamo aspettare la mattina prima di partire” aggiunsi. Tutti e tre la guardammo mentre lei ricambiò la mia occhiata dal retrovisore. Dopo pochi minuti eravamo in tangenziale, la musica venne interrotta per lasciare spazio ad una notizia locale dell’ultima ora: un incidente nell’azienda multimiliardaria della città. Dopo pochi secondi, mentre Laura era impegnata a cercare una stazione radio decente e Cora aveva la testa fuori dal finestrino per guardare l’elicottero che sfrecciava sopra di noi, l’ombra comparve in mezzo alla carreggiata. “Mamma!” urlò Laura spaventata. “Stiles!” gridò invece mia madre sterzando il volante.

 

 


Aveva detto il suo nome prima di morire, ora lo ricordavo chiaramente. Stiles. Lo aveva urlato a squarciagola ed era stata l’ultima persona a cui aveva pensato quando l’airbag non era esploso, né il suo né quello di Laura. Un difetto della macchina, così mi era stato detto. I suoi occhi gialli, inumani e spaventosi, erano stati l’ultima cosa che aveva guardato.
Mia madre conosceva Stiles. Mia madre aveva mentito. Eravamo tutti convinti che lavorasse in una clinica veterinaria ed invece era segretamente implicata in uno degli esperimenti più costosi e famosi a livello internazionale. Tutto il mondo conosceva il lavoro di Noah Stilinski sulla licantropia e mia madre ne aveva fatto parte.
Quella notte… Le valigie preparate in fretta, l’agitazione, il suo modo brusco di risponderci. Tutti i tasselli si stavano incastrando: non stavamo partendo per una vacanza, stavamo fuggendo. Forse sapeva che Stiles aveva intenzione di ucciderla e si era data alla macchia, era stata minacciata da qualcuno o forse era semplicemente una persona che sapeva troppo e doveva essere eliminata. Quante congetture, quante ipotesi. Ma qual era la verità?
Stiles, in tutto questo, trasudava dispiacere, senso di colpa e una sensazione di perdita che non riuscivo a spiegare.
Afferrai il ragazzo per la gola e affondai gli artigli nella carne di pochi millimetri. Stiles spalancò la bocca, alla ricerca d’aria. Era veloce a guarire, ma cosa sarebbe successo se gli avessi spezzato l’osso del collo? Forse sarebbe lo stesso riuscito a curarsi. Era meglio strappargli il cuore dal petto e stritolarlo tra le dita, avrei così concluso la mia missione: quello che mi ero prefissato di fare quando avevo firmato i documenti che acconsentivano alla sperimentazione.
Strinsi più forte la gola. La mia mano era grande attorno ad essa. Gli occhi di Stiles smisero di brillare. Guardò il blu dei miei con il castano naturale dei suoi. Con il poco fiato che aveva trovò la forza di dire un’altra frase: “io le volevo bene”.
Lo lasciai andare come se mi fossi scottato. Lui indietreggiò fino ad appoggiarsi con la schiena al tronco di un albero, si massaggiò la gola arrossata che guarì rapidamente.
“Le volevi bene?” ripetei oltraggiato. “L’hai ammazzata!” urlai conficcandomi gli artigli nei palmi.
Lui incassò, stringendosi nelle spalle e lasciandosi sopraffare da altri singhiozzi. “Non volevo” bisbigliò.
“Cosa?” domandai anche se lo avevo udito benissimo. Come si poteva uccidere tre persone senza volerlo?
“Non ricordo quello che successe. C’era la luna piena, non riuscivo a controllarmi” spiegò cercando inutilmente di giustificarsi.
“Questo è tutto quello che hai da dire?” chiesi pronto a riaggredirlo.
Scosse la testa. “La stavo cercando” disse guardandosi le scarpe. “Sì, mi pare di ricordare che avessi bisogno di lei”.
“Per quale motivo tu, dopo aver ammazzato tuo padre, saresti andato a cercare mia madre?” cercai di farlo confessare. Volevo che mi dicesse che volontariamente aveva fatto cappottare la nostra auto per ucciderla.
“Era mia amica” rispose spiazzandomi. “Una delle poche che mi vedeva per com’ero davvero” disse indicandosi il petto all’altezza del cuore.
“Mia madre era una veterinaria. Per quale motivo lavorava lì?” domandai cominciando a riprendere le sembianze umane.
“Era la mia veterinaria. Mio padre l’assunse due settimane dopo che uscii dall’incubatrice” replicò.
Mi passai una mano sulla fronte e strinsi le tempie. Sollevai lo sguardo al cielo che si stava schiarendo per lasciare spazio al nuovo giorno. Mi avvicinai a lui, con il solo intento di tirargli un pugno.
“È accaduto qualcosa” riprese dopo diversi secondi di silenzio.
Mi fermai a due passi da lui, che ancora non osava ricambiare il mio sguardo.
“Io le dissi di scappare” esclamò colto da un’illuminazione. Si aggrappò con le mani alle mie braccia e mi scosse guardandomi dritto in faccia con gli occhi spalancati per l’incredulità. “Avevamo scoperto… No, lei aveva scoperto qualcosa” si corresse affondando gli artigli nei miei bicipiti e distruggendomi ancora di più la giacca di pelle.
Non mi accorsi neanche del dolore, troppo preso dalla verità che stava pian piano venendo a galla. “Cosa?” lo esortai a rispondermi.
Si morsicò il labbro inferiore e strinse gli occhi cercando di concentrarsi sui suoi ricordi. “Qualcosa di brutto”.
Fin lì c’ero arrivato anche da solo. Dovevo sapere per quale motivo la mia famiglia era morta. “Stiles” lo chiamai.
Mi guardò con gli occhi lucidi e pieni d’affetto per Talia.
“Ti prego” supplicai sentendo il suo cuore battere agitato che si mischiava al canto dei merli che cominciava a riempire la radura.
“Mi aveva detto che mio padre aveva fatto qualcosa e quindi non eravamo più al sicuro”.
Inspirai rumorosamente cercando di mantenere la calma e percepii di nuovo quell’aroma di liquirizia che mi aleggiava attorno dal giorno in cui ero uscito dall’incubatrice.
“Le dissi di scappare. Di portare con sé la sua famiglia” continuò.
Per la prima volta dopo tanto tempo i miei occhi divennero lucidi. Li sentii pizzicare fastidiosamente e ritornare verde naturale. Stiles mi guardò percependo la mia sofferenza a livelli elevati a causa della natura mannara.
“Lei aveva paura per me” disse con la voce rotta dall’ennesimo singhiozzo. “E io, per rassicurarla, le promisi che l’avrei raggiunta”.
Abbassò di nuovo la testa quando mi vide piangere. Non feci in tempo ad asciugarmi le lacrime che altre due caddero contemporaneamente dai miei occhi.
“Credo che andò così” mormorò. “Non ricordo più. Era notte, ero fuori controllo. La luna…” disse parole a caso, cercando di riordinare i ricordi.
“Aveva paura di me” si corresse. “Non per me. Di me”. Lo vidi socchiudere le palpebre e concentrarsi ancora un po’. “La obbligai ad andarsene. Ero trasformato, la luna era piena e il lupo mi stava dominando”.
Non sapevo più a cosa credere, prima diceva una cosa e l’attimo dopo la modificava. Gli occhi gli si illuminarono di giallo per un istante prima di ritornare normali. Il suo odore impazzì invadendomi le narici. “Ho ucciso mio padre a causa di quello che lei aveva scoperto” confessò.
“Cos’aveva scoperto?” chiesi afferrandolo per le spalle. “Stiles, cosa scoprì mia madre?”. Dispiaciuto, scosse la testa. Non se lo ricordava.
Le mie teorie erano sensate. A Stiles, quella notte, era successo qualcosa di orribile che gli aveva fatto perdere il controllo sulla parte umana. Tutto riguardava Noah, suo padre, e Talia, mia madre.
“Basta, per oggi” conclusi. Stiles aveva davvero bisogno di riposare. Delle occhiaie scure erano presenti sul suo volto ed emanava fatica e stanchezza.
Lui annuì, pieno di gratitudine. La conversazione era lungi dall’essersi conclusa ma potevo assorbire quelle notizie un po’ per volta.
Chris Argent non mi aveva mai detto che mia madre lavorava per la Stilinski Corporation quando morì.
Stiles barcollò davanti a me. Non lo aiutai. Continuai a seguirlo in quella radura per altri sei chilometri fino a che raggiungemmo una casa, proprio nel centro del bosco. Era incompleta e mezza diroccata ma era sicura e, per il momento, bastava così. Entrammo in casa e l’odore di Stiles mi avvolse, il vero odore. Non quello impregnato di tristezza e che sapeva di cane bagnato. Odore di sapone e sicurezza, di solitudine e liquirizia. Viveva da più di due anni senza la compagnia di nessuno.
Si tolse le scarpe e, una volta arrivato in salotto, si lasciò cadere sul divano con un grugnito da lupo.
“Posso fare come se fossi a casa mia?” chiesi retorico. Lui mugugnò una frase incomprensibile.
Girovagai ritrovandomi in cucina. Stetti seduto sulla sedia a riflettere per un po’ su tutto quello che avevo scoperto, poi preparai la colazione. Era pieno di cibo. Le mensole straripavano e mi ricordai dei furti che compiva nei negozi di alimentari e di abbigliamento. Stavo per mangiare cibo rubato in un supermercato. Pazienza, avrei convissuto anche con quel fardello. L’aria si riempì di profumo di cibo ma Stiles non si svegliò. Con un piatto in una mano e una forchetta nell’altra ripresi a gironzolare per casa.
L’arredamento era scarno e c’erano libri sparsi ovunque, alcuni più impolverati di altri, molti con le pagine consumate come se fossero stati letti centinaia di volte. Era un grande lettore.
Notai che non aveva la tv ma aveva un computer e una quantità insormontabile di DVD. Sollevai il monitor per cercare informazioni su di noi ma scoprii che non aveva nessun accesso a internet.
Sbuffai e mi diressi verso un’altra stanza: il bagno. Ne approfittai per lavarmi velocemente e togliermi tutta la terra che avevo addosso. Non aveva l’acqua calda ma tanto quella era una delle cose di cui non avevamo bisogno. La nostra temperatura corporea era talmente elevata che di rado sentivamo freddo.
Arrivato all’ultima stanza aprii la porta e mi ritrovai nella sua camera. Una scrivania, un armadio, una chitarra appoggiata al muro e un letto e, al centro di esso, il peluche koala che avevo utilizzato per cercare di catturarlo. Sorrisi a quel ricordo. Ero stato proprio un idiota: minacciare di decapitare un pupazzo per indebolire Stiles.
L’armadio, come previsto, era stracolmo di vestiti. Sulla scrivania c’era un foglio con scritto un indirizzo e un numero di telefono.
Nessun poster, nessuna foto, nessun oggetto che facesse pensare che quella fosse veramente la camera di un diciottenne. Solo quel koala.
Uscii dalla stanza chiudendomi la porta alle spalle e annusai. Di nuovo liquirizia. Era più forte stavolta. Continuai a fiutare come un cane e seguii quell’odore che mi portò davanti ad una porta a muro. Cercai il pulsante per aprirla e, una volta che vidi la porta scorrere davanti ai miei occhi, la zaffata di liquirizia mi investì.
“Woah” mormorai quasi asfissiato. Scesi gli scalini davanti a me e mi ritrovai in una cantina buia e umida. Era vuota, eccetto che per tre catene conficcate nel muro, due nel pavimento e una mensola di ferro che conteneva diversi alimenti, tutti alla liquirizia. Caramelle, stecche, tisane.
Sbattei le palpebre numerose volte e fissai le catene inchiodate al muro. Ne presi una: era pesante e spessa, quasi impossibile da rompere. La cinghia, all’estremità, era di metallo e dentro c’erano degli spuntoni sporchi di sangue raggrumato. Non mi fu difficile riconoscere l’odore: era quello di Stiles.
“Non avresti dovuto vederlo”.
Sussultai al suono della sua voce e lasciai cadere la catena che si schiantò rumorosamente al pavimento.
“Cosa significa?” chiesi spaventato.
Fece brillare i suoi occhi di giallo e se li indicò con un dito. “Sono difettoso, ricordi?”.
“E quindi?”.
“Da quella notte, dopo quello che ho fatto, è stato impossibile controllarmi durante la luna piena” spiegò imbarazzato.
Lo sapevo. Era scritto nei fascicoli che avevo studiato. Dalla notte della fuga, ad ogni luna piena per circa dieci mesi, Stiles aveva causato diversi incidenti e poi, improvvisamente, aveva smesso e ora sapevo il motivo.
“Quindi tu, durante il plenilunio, ti incateni al muro?” domandai sconvolto.
Si strinse nelle spalle. “È l’unico modo per tenere la città al sicuro da me”.
“Ma è da pazzi” ribattei.
“Tu non sai come sono” mi aggredì lui alzando la voce. “Le cose che ho fatto… io non avevo il controllo. Non sono più umano in quelle notti e ho già fatto del male a troppe persone” si giustificò.
“Quindi la soluzione è incatenarsi come un cane? Come un animale rabbioso?” domandai incavolato. Non potevo credere che Stiles avesse una così bassa opinione di sé. Che fosse costretto a fare quella vita. Aveva già sofferto abbastanza.
“È ciò che sono” disse calmandosi, forse percependo anche il mio sconvolgimento. “Durante la luna piena non sono più Stiles. Sono LUPO-01, una bestia aggressiva e pericolosa”.
“E la liquirizia?” chiesi prendendo una manciata di caramelle nere e gettandogliela ai piedi.
“Ma Argent non ti ha spiegato niente?” domandò seccato chinandosi per raccoglierle. “La liquirizia ci calma. Indebolisce i nostri sensi e la forza, rendendoci più… docili” spiegò.
Forse era per quello che sentivo quell’odore anche alla Stilinski Corporation. Le persone si tenevano in tasca delle caramelle perché sapevano che avrebbero placato il lupo. Eppure, ora che ci pensavo bene, solo in compagnia di una persona sentivo quell’aroma: Scott. Quando c’era lui nei dintorni c’era anche il profumo di liquirizia.
Avrei già dovuto sapere quelle cose. Chris avrebbe dovuto raccontarmele prima che firmassi quei documenti. Mi avevano detto che la licantropia mi avrebbe reso invincibile, l’arma perfetta. Ma in poco tempo avevo scoperto che la luna piena mi rendeva più aggressivo, la liquirizia più mansueto e che una stupida pianta poteva uccidermi. Quali altre debolezze avevo di cui non ero ancora a conoscenza?
Fissai con tristezza le catene mentre Stiles mi si avvicinò. “So che se potessi torneresti indietro” sussurrò.
Aveva ragione. Se avessi saputo tutto quello di cui ero a conoscenza ora non avrei mai acconsentito all’esperimento. Con il senno di poi, c’erano tante cose che avrei potuto fare in quei due anni anziché sprecarli alla ricerca della vendetta.
“Ci sono anche degli aspetti positivi” disse, riferendosi alla nostra natura.
“Ad esempio? Farci odiare dal mondo intero?” supposi.
“Hai mai ululato alla luna?”.
Lo guardai. Mi stava sorridendo. Per la prima volta, da quando ero uscito dall’incubatrice, mi sentii bene. Non ero più accecato dalla vendetta. Non lo avevo di certo perdonato. Credo che non sarei mai riuscito a perdonarlo, ma ora sapevo una parte di verità. Quando avrebbe ricordato allora avrei saputo tutta la storia.
Infilai la mano in tasca. La foto di Stiles era ancora lì, ormai stropicciata talmente erano tante le volte in cui l’avevo stretta tra le dita.
“No, non ho mai ululato alla luna” risposi.
Stiles mi prese sottobraccio e mi riportò in casa. “Lo faremo insieme” promise.


 

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