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Autore: GoldSaints    12/08/2009    7 recensioni
Gamlehaugen non è imponente come l'Akershus, la fortezza costruita dalle mani dei vecchi re di Norvegia, antica quanto Oslo. Gamlehaugen è un castello da fiaba, circondato dalla foresta. Gamlehaugen è una cornice fatata, di un incontro che di innocuo ha solo l'apparenza. E forse neanche quella.
{MINOS/RUNE} {pre-Hades}{shonen ai implied}
{by LeFleurDuMal & Ren_chan}
Genere: Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bergen, Norvegia

Bergen, Norvegia.

Dicembre 1979.

 

 

 

Non capita tutti i giorni di fare visita ad un re.

Il vento soffiava, quell’inverno, su Bergen, come se fosse stato agitato dagli spiriti delle foreste in persona. E nelle terre nordiche tagliava, il vento, nel buio, graffiando le guance ed aggrovigliando i capelli. Ogni luce, anche la più vicina, si faceva fioca, e veniva spontaneo affrettare il passo per entrare in casa, come se potesse sparirsene da un momento all’altro. Anche se si trattava di un castello.

Il figlio del Primo Ministro aveva il cuore che batteva forte, i capelli ben pettinati, le spalle esili tirate indietro, impettito. Il padre, di fronte a tanta diligenza, si era lasciato sfuggire un mezzo sorriso, e con intento rassicurante aveva appoggiato piano la mano sulla schiena esile davanti a lui, mentre camminavano di stanza in stanza.

“So che sei emozionato.” Il ragazzino non si era sprecato a negare; già il solo tocco di suo padre l’aveva fatto lievemente trasalire. Ora però alzava gli occhi curiosi a lui, che aveva immediatamente soggiunto, sbrigativo ma gentile, come sempre: “Io e Sua Maestà avremo da discutere riguardo delle riforme particolarmente delicate, ed è il motivo per cui ci tratterremo. È stato un gesto cortese invitarci a passare qui il Natale. Comportati sempre educatamente e non mancherai verso nessuno.”

Il vento fischiava, agitato dagli spiriti. Per il padre era soltanto vento di riforme, c’è da dire. Tanto che se ne sorrideva, beatamente sordo agli ululati spettrali della foresta. Il figlio aveva annuito, guadagnandosi una nuova stretta veloce ma affettuosa alle spalle.

“Ora vai, Rune.”

“Posso davvero?”     

L’uomo annuì, distrattamente, gonfiando il petto per sistemarsi la giacca sulle spalle.

Gli occhi e la mente già rivolte verso il colloquio impegnativo che stava per affrontare, trovò il tempo di voltarsi, un cenno di saluto. Poi furono solo il ragazzino, i suoi enormi occhi, e il castello.

 

 

 

 

Capitolo I
Le Stanze

 

 

Rune se ne gironzolava per l’intera residenza, come un turista.

Di stanza in stanza, con curiosità, con ammirazione.

Che castello enorme.

Non era così grande, in realtà. Gamlehaugen era molto meno imponente rispetto alla fortezza millenaria dell’Akershus, che aveva conosciuto la voce tonante dei primi re di Norvegia. Era più nuovo, costruito apposta come un castello delle fiabe, più in piccolo. Come se fosse un’immensa casa di bambole. Per ogni porta c’era una nuova stanza, ricca di meraviglie.

Per natura poco invadente, appena tredicenne, Rune si faceva strada a piccoli passi discreti, ascoltando le poche voci di chi passava, o di chi chiacchierava, in una stanza lontana. Sgranava gli occhi, cercando di definire quella sorta di austera meraviglia che lo pervadeva, così giovane ed esile.

E immenso.

E antico.

E lugubre.

C’era da dire che Rune, giovane ed entusiasta, coglieva poco la differenza fra un maniero millenario e un lussuoso castello residenziale, disegnato a malapena un secolo prima. Avrebbe potuto vederne di simili, e più grandi, in Francia, o in Scozia. Ma, ignaro di ciò, camminava contento. Tanto che, naso per aria, non si accorse della porta massiccia che, al suo passaggio, si schiuse con un cigolio sinistro: il rumore, però, improvviso, gli fece spiccare un salto.

Si voltò. Silenzio.

Guardò meglio. Ancora silenzio.

Della porta semichiusa, tutto ciò che gli era concesso alla vista era uno spiraglietto scuro. Uno spiraglio che avrebbe astratto irresistibilmente qualsiasi ragazzino. Fece un passetto nella sua direzione, cercò di mettere a fuoco.

Mh...”

Trattenne il fiato, drizzando le orecchie. Come se venisse dal fondo della stanza misteriosa, e poi sempre più vicino allo spiraglio, lo raggiunse un fiato, poi una lugubre, bassa risata. Rune cacciò un gemito di sorpresa, assolutamente impreparato ad un rumore del genere. Sbatté gli occhi più volte, avvicinandosi, di un passo, di due:

“C’è qualcuno?”

Un altro passo avanti. Altri due. Ed una testa sbucò dallo stipite della porta, oplà, come una marionetta rotta. Questo gli fece lanciare un urlo, mentre cadeva sedere a terra. Non poté in alcun modo trattenersi.

“…fufufu” rideva la testa. Non di marionetta, bensì umana. Decisamente umana.

Quando Rune si riebbe dallo spavento, riconobbe la figura di un ragazzo, oltre la sua testa, poco distinguibile nel buio della stanza che si affacciava a malapena alla sua vista. Un ragazzo forse più grande di lui, con un vago sorriso in volto, che rimaneva in silenzio. Quando ebbe osservato bene l’ospite – o almeno, così parve a Rune – un ghigno si fece strada, lentamente, sul suo viso pallido. Senza metterlo affatto a suo agio.

“Ah…” arrossì istantaneamente il figlio del Primo Ministro. Si rialzò in fretta, rassettandosi i pantaloni. Adesso che l’aveva messo a fuoco, moriva di vergogna per la brutta figura.

“Perdonami. Non… non ti avevo visto, e…”

Si spolverava i pantaloni, alternando le occhiate preoccupate dai suoi vestiti al viso del ragazzo silenzioso. Lo inquietava il fatto di non riuscire a vedergli gli occhi, coperti dai capelli troppo lunghi. Unico segno di vita, quello strano sorriso, che adesso si allargava, divertito, come una mezzaluna bianchissima che gli divideva il volto pallido.

“Vieni avanti” disse.

Rune titubò. Poi avanzò appena, obbediente. E gli sorrise, amichevole, presentandosi per primo: “Come ti chiami? Io sono Rune.”

Gli tese la mano, incoraggiante.

Che rimase a mezz’aria, mentre la voce del ragazzo si alzava, senza preavviso:

“Dovrei essere io a chiedertelo per primo.”

Ritirò appena la mano, Rune, senza capire. Quello proseguì, senza scomporsi affatto, senza muoversi nemmeno, solo un ghigno spettrale dalla soglia di una stanza buia:

“Sei a casa mia. Presentati.”

 

Rune era impallidito, cominciando vagamente ad intuire qualcosa sull’identità del misterioso ragazzo. Almeno, quello che aveva soffiato dallo spiraglio della porta lasciava adito a ben pochi dubbi: il padrone di casa lì portava una corona in testa. Si inchinò, all’istante, sciorinando nome e cognome, e nome e cognome di chi era figlio, e perché si trovasse in quel luogo. Tutto sommato, era ancora calmo. Aveva fatto un banale errore di protocollo, ma d’altro canto, come poteva sapere? Senza dubbio a causa della situazione in cui si trovava – che spavento, maledizione! – nemmeno riusciva a venirgli in mente un nome che fosse uno. E dire che suo padre gliene aveva ripetuti: nomi su nomi, con grande pazienza. Ma non riusciva a ricordare né quello, né il volto del ragazzo che, come un fantasma, rideva soffuso sulla soglia di una porta misteriosa. Non poteva essere figlio del re, il re era ormai anziano. Che fosse uno dei figli del principe reggente? Se li ricordava più piccoli. Certo, sembrava poco più grande di lui; ma, con quella scarsa luce, mezzo immerso nella penombra della stanza da cui non usciva, non riusciva ad indovinarne con esattezza le fattezze né la fisionomia. Quello che vedeva con chiarezza, quello sì, era il viso pallido, affilato, solcato a metà da quel ghigno vago, quasi distratto, ed incorniciato da una massa di capelli talmente chiari da sembrare bianchi. Erano lisci, folti, e lo nascondevano allo sguardo. Rune si sentiva a disagio. Non riusciva a scorgere i suoi occhi. Non riusciva a capire che espressione avesse in realtà. Era abbastanza irreale.

“E…” decise di rompere il silenzio, tentando con un sorriso, giusto per vagliare la reazione. In fondo, se si dimostrava molto gentile, anche se infrangeva una o due regole di protocollo, male non gli poteva andare, no? Comportati educatamente e non mancherai verso nessuno, aveva detto suo padre. Quindi sorrise e tentò: “E tu?”

Anche l’altro sorrise – cioè, quella specie di sorriso – e rispose con un nome strano. Minos.

Era certo un nome strano per quelle terre, e nonostante questo Rune non lo trovò, lì per lì, più strano di tanti altri. D’altro canto – ma come poteva saperlo, il giovane Rune sovrappensiero che gironzolava per un castello da fiaba – anche quello era il nome di un re, e ben più antico dei loro.

 “Tuo padre” proseguiva l’altro, dal suo angolino buio “è al ricevimento da molto. Perché te ne gironzoli tutto solo?”

Il tono della voce andava abbassandosi mano a mano. Toglieva il respiro.

“Io…” Rune si trovò improvvisamente con il fiato sospeso, e si sorprese a cercare uno sguardo che non gli riusciva neanche d’intravedere. Poi confessò, ingenuamente: “…ecco, mi annoiavo a restare in camera.”

E fatto ciò, provò ancora a guardarlo negli occhi: era un ragazzino timido, ma niente affatto sottomesso. In compenso, l’altro non pareva aver voglia di dargli una risposta. Al contrario, gli girò le spalle, e s’infilò nella stanza buia.

“Ah…” Dalla soglia, senza entrare, Rune tentò: “Ma perché stai al buio?”

Lui non rispose, se non: “Vieni.”

Inspiegabilmente attratto, Rune entrò.

Cerò di far abituare gli occhi al buio, cauto.

“Dove sei?”

“Mmmh. Qui.”

La voce si muoveva come se procedesse senza colpo ferire, verso un punto ben preciso. Ma Rune non fece in tempo a raggiungerlo, neanche tentoni, che Minos aveva spalancato le tende, portando la luce in una stanza piena di marionette e di bambole. Rune d’istinto si coprì il viso con le mani, per contrastare la luce, che, benché scarsa, arrivava improvvisa.

“Hai paura?”

Quando i suoi occhi cessarono di protestare abbassò le braccia, piano piano: “No… perché dovr-?”

Poi tacque. Aveva visto le bambole. Per un attimo non osò muoversi, spalancando gli occhi sullo strano scenario, cercando di scacciare la sensazione d’inquietudine.

“Perché ti sei coperto gli occhi” sussurrò un fantasma al suo orecchio.

Rune sobbalzò e si girò di scatto. Quando era arrivato alle sue spalle?

“Per…”

Incontrò degli occhi giallissimi. Dorati, come quelli delle fiere.

Come quello delle lucertole e dei draghi. Dei falchi dall’aria maligna.

“Per la luce…” riuscì a mormorare, incapace di distogliere lo sguardo: il ragazzo non sorrideva più. Questo lo agghiacciò oltre l’umano dire. Fece un passo indietro, prima ancora di accorgersene. Fu allora che si ridelineò un sorriso sulle labbra esangui dell’altro, che ora lo lasciava per andare a controllare le lampade, ancora spente sui tavolini. Prese ad accenderle. Rune riprese contatto con la realtà.

 

Si guardò attorno di nuovo. Era una stanza abbastanza grande, tappezzata elegantemente, e la luce bastò per rassicurarlo. Era una stanza delle bambole, si disse. Eccentrica, ma d’altro canto non si trovavano in un posto ordinario.
“Sono tutte tue?” domandò.

Certo che rimaneva comunque strano. Riportò gli occhi su quello che si era detto il padrone di casa. Non gli sembrava tipo da collezionare bambole.

“Sono tutte mie. Anche quello.”

Ora che luce – poca, ma chiara – illuminava la stanza, Rune poteva vedere Minos. Il suo aspetto era assolutamente nell’ordinario, se si escludeva forse lo strano taglio di capelli che gli nascondeva gli occhi. Ma non era particolarmente magro, nonostante il viso affilato, né di aspetto malato, nonostante il pallore. Non camminava curvo, come uno spirito afflitto o un fantasma. Al contrario, se ne stava ben dritto, le spalle indietro. E gli stava indicando il teatro delle marionette.

“Mh…” Il teatrino gli parve subito sinistro. Tanto quanto le bambole che riempivano la stanza, se non di più. Cercò di scacciare l’impressione, avvicinandosi, e sbirciando il teatrino da dietro la spalla di Minos. Era davvero più alto di lui. Forse non era solo un anno a separarli. Forse erano due o tre.

“Guarda. C’è anche Nøkken” fece lui, con voce profonda, come a confermare le sue teorie. Allungò le dita lunghe e pallide verso il burattino più vicino, sollevando la sua testa di cavallo, bianca, intagliata nel legno. “Il genio che abita nelle acque e nei fiumi.”

“Ma è malvagio! Fa annegare i viandanti!”

“Certo che lo è.”

Prima che Rune potesse rendersene conto, un nuovo ghigno si ridipinse in faccia al ragazzo, che ora infilava la mano sotto la stoffa, dando vita a quell’inquietante testa animale. La fece muovere su e giù, lentamente, e Rune si ritrovò a rabbrividire, ringraziando che l’artista non avesse dato agli occhi bianchi di quel cavallo pupille che potessero fissarlo.

“Egli alletta le sue prede per trascinarle in acqua con sé” proseguiva intanto Minos, quasi cantilenando. Era una storia vecchia, quella del Nøkken. Uno dei tanti spiriti che popolavano le foreste norvegesi. “E sente sempre quando qualcuno sta affogando.”

“È spaventoso” commentò subito Rune, di cuore. “Come fa a non spaventarti?”

“Sono io che lo manovro” fu la pronta risposta. “Come potrebbe spaventarmi?”

Rune tacque. E Minos prese a far danzare il burattino, avvicinandolo delicatamente a loro, quasi volesse renderlo più innocuo, ai loro occhi.

“Quando voglio, egli danza. Non può farmi del male. Se volesse farlo…” qui s’interruppe, serio. Smise anche di muovere il burattino. “…posso anche ucciderlo.”

Il burattino cadde con un tonfo sordo a terra. Naturale. Il pugno serrato, erano bastati un paio di lievi scossoni per sfilarselo di dosso. Nøkken giaceva immobile a terra. Rune sussultò, e fece un passo di lato verso Minos. Anche lì in basso lo inquietava, non c’è che dire.

“È vero” diede comunque ragione al ragazzo. Ma gli prese, istintivamente, un braccio. Quell’affare, da terra, lo guardava.

“Nessuno di loro può farmi del male” alzò la voce Minos, senza nemmeno curarsi della presa al suo braccio. Invece, indicò con un ampio gesto, da banditore, le meraviglie della sua collezione di marionette. “Non lo faranno nemmeno a te, se non glielo dico io.”

Rune annuì. Non ci credeva poi tanto. Se fosse stato altrove, avrebbe sorriso. Ma in quella stanza era tutto molto realistico.

“Non glielo dire” gli chiese, ad ogni buon conto. Quello che non si aspettava, dopo quella richiesta, a dire il vero, era il silenzio. Minos si voltò verso di lui con un’espressione inspiegabilmente cattiva, un ghigno feroce.

Se non mi fai arrabbiare, no.

Allora Rune lasciò la presa di colpo, terrorizzato da quel sogghigno, e arretrò davvero.

Inciampò nel burattino. Cadde a sedere con un tonfo, e anche allora non smise di arretrare.

L’altro, con suo terrore, avanzò verso di lui di scatto, e lo prese per il braccio, forte, strattonandolo su. Rune si ritrovò in piedi, vicinissimo a lui. Scosse la testa, facendo cenno di no con la testa, gli occhi enormi. Non ti farò arrabbiare. Deglutì, senza riuscire a trovare la forza di parlare.

“Non…”

Ma Minos lo stava già spingendo fuori dalla stanza.

E fu un’esplosione di colori, di luce, e di una lunga risata.

 

 

 

 

 

 

 

 

~ Gamlehaugen’s corner  by Ren_chan

 

 

Sì, è una Minos/Rune. Eh, lo so che non sono tra i personaggi.

Ci mobiliteremo per chiederne l’inserimento. u_u

                                      

Chiedo immensamente perdono alla famiglia reale norvegese, il cui sito ufficiale – sì, embè, io mi documento, sapete? – mi fa lollare tantissimo, per quello che sto facendo. Ovviamente questo non significa che me ne penta. Ma di questo parlerò in seguito, con una nota apposta a seguire il prossimo capitolo; per ora sappiate che  questo è esattamente il background che io e LeFleurDuMal desideravamo per Minos. E anche per Rune, naturalmente.

Questa fanfic sarà composta sicuramente da tre capitoli, stando al suo progetto originale e per la storia che abbiamo da raccontare. È di tutte e due, ma sarò io che la scriverò, quindi gli insulti per la forma a me, prego (è un sacco che non leggo romanzi vittoriani, che potrebbero essermi d’aiuto, e si vede ç_ç).

Essa tratta, come avete potuto leggere, dell’incontro tra Minos e Rune, prima che il sigillo dei 108 specter fosse rimosso e i due non avevano ancora coscienza di cosa fossero destinati ad essere. Forse.

Troviamo deliziosa la coincidenza che Giudice e Procuratore siano entrambi norvegesi: siamo assolutamente certe che Minos se lo sia portato dietro, Rune, che ha esattamente la faccia di chi è nato per fare il suo segretario. Or sort of. E, naturalmente, abbiamo scelto per entrambi un’origine di tutto rispetto.

Tre capitoli sicuri, quindi, ed uno spiraglio aperto verso l’idea di proseguire: dipende da molte cose. Voi fateci sapere se vi piace, intanto! :*

   
 
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