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Autore: Ghostclimber    18/06/2020    3 recensioni
Gokudera si rende conto di non essere degno di essere il braccio destro del Decimo e di non esserlo mai stato.
Prenderà una decisione definitiva per il bene dell'uomo che ama, ma Uri ha altri progetti.
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Genere: Dark, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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She's made of hair and bone and little teeth,
and things that cannot speak.

She comes on like a crippled plaything,
her spine is just a string.”

 

-Uri.- Gokudera accolse con un misto di sorpresa e affetto il morbido calore del corpo della sua Box Arma che si accoccolava contro il suo fianco magro, sul letto spoglio del suo squallido monolocale open space in affitto.

L'aveva cercata per ore ed ore in giro per la città dopo che lei aveva deciso di darsi alla macchia, rinunciando solo quando il buio della notte che era calata gli aveva impedito di vederci: quel gatto era davvero insopportabile. E Gokudera ricordava ancora che l'ultima volta che era fuggita in quel modo, G aveva ben pensato di spacciarsi per lui e accompagnarsi al Decimo.

Quanto male aveva fatto sentirgli dire che quel giorno Gokudera era sembrato più affidabile: sapeva di essere spesso impulsivo e aggressivo, ma quando si trattava del Decimo gli era impossibile comportarsi altrimenti, e quelle parole avevano messo in discussione tutto il suo essere.

Uri si rivoltò a pancia in su e Gokudera si azzardò a farle dei grattini sul pancino. Con sua somma sorpresa, il micio cominciò a fare delle fusa appena accennate, che vibravano contro il suo polso. Rilassò la mano, circondandole il capino con la curva del braccio, e Uri strofinò il musetto contro i suoi braccialetti della fortuna, intensificando al contempo le fusa.

Gokudera si sentì pericolosamente vicino alle lacrime.

Quel sacco di peli e ossicine e denti aguzzi non gli aveva mai dato tanta confidenza, anzi: Gokudera era fermamente convinto che se ci avesse provato solo poche ore prima si sarebbe ritrovato con qualche dito in meno.

E, come volevasi dimostrare, Uri gli mordicchiò l'indice. Gokudera immobilizzò la mano, sperando che fingersi morto l'avrebbe fatta desistere dallo staccarglielo di netto, ma Uri lo stupì: gli diede una breve leccatina sul polpastrello, e la sensazione della sua linguetta ruvida contro la pelle fu un improvviso balsamo. Poi, il gatto si rivoltò con un movimento elegante e diede la scalata al suo petto; un po' inquietato dalla vicinanza delle zanne di quel mostro assassino in miniatura, Gokudera esitò, ma Uri si sistemò comoda e appoggiò la testolina contro la sua clavicola.

Gokudera osò accarezzarle la schiena, assaporò la sensazione della sua spina dorsale, una corda tesa e gibbosa sotto alla pelle sottile, e lei lo graziò con un'altra dose di fusa.

-Siamo coccolone, stasera, eh?- chiese a voce bassissima. Uri sollevò il muso e lo fissò con i suoi occhi fiammeggianti, poi gli leccò il mento. Gokudera rise per il solletico, non poté evitarlo, e il gatto si risistemò contro il suo collo con uno sguardo soddisfatto.

 

I wrapped our love in all this foil,
silver tight like spider legs,

I never wanted it to ever spoil,
but flies will lay their eggs.”

 

Gokudera si addormentò con Uri in braccio, i pensieri ancora concentrati sulle parole di G e del Decimo: per quanto quest'ultimo avesse poi fatto un passo indietro per dire che gli andava bene così com'era, si sentiva suo malgrado di dover concordare con G, ora che finalmente quel grosso casino del futuro era sistemato e aveva tempo di pensarci.

Il braccio destro di un Boss dev'essere affidabile, sempre. Non imprevedibile come lui, un dinamitardo dall'accendino facile sempre pronto a far esplodere i problemi. O meglio, sarebbe anche potuto andare bene, se non fosse che il Decimo non era il tipo da risolvere le questioni in quella maniera: il Decimo non voleva guerre, lotte e scontri, scendeva in campo solo quando non poteva fare altrimenti per il bene dei suoi amici. E come la sua priorità dichiarata era quella di proteggere le persone che amava, la priorità di Gokudera doveva essere stare un passo indietro a lui, pronto a difenderlo e spalleggiarlo, in prima linea sia per i combattimenti sia per le discussioni.

Avrebbe dovuto cercare di reprimere i propri sentimenti, soprattutto quella parte che andava ben oltre la semplice devozione che un subordinato prova per il proprio Boss, chiuderli dentro di sé e sperare che non marcissero com'era già marcito l'amore che provava per sua sorella.

Si agitò nel sonno, preda di un incubo che era più un ricordo che un sogno.

Aveva all'incirca nove anni, era un limpido giorno d'estate, di quelli che a volte si pensa esistano solo nelle favole: soleggiato ma non troppo, con qualche nuvola a solcare il cielo e a offrire delle piccole oasi d'ombra, e un tenue venticello che impediva all'umidità di attecchire e teneva lontani moscerini e zanzare. Bianchi era entrata nella sua stanza con un pallone in mano e gli aveva chiesto se gli andava di giocare insieme. La sola vista della sorella, bellissima nel primo boccio della pubertà, risplendente di luce propria nel suo prendisole colorato come un tramonto, l'aveva fatto scattare: si era avvicinato a lei, contrastando le ondate di nausea che lo colpivano sempre da quella sua prima manifestazione di Poison Cooking, e l'aveva scacciata in malo modo.

“Non sei mia sorella! E io ti odio!” le aveva urlato. E in quel momento era sincero, perché mentre lei poteva vestirsi come le pareva, andare dove voleva, fare qualunque cosa le passasse per la testa, lui restava costretto in rigidi schemi orari dedicati a compiti, ripassi e allenamenti, era obbligato a vestirsi sempre come un bambino degli Anni Cinquanta che va alla messa della domenica ed era sempre lui ad essere rimproverato per qualunque cosa.

La amava, lei era sempre a modo suo gentile nei suoi confronti, ma sapere che non erano del tutto fratelli e vedere come lei fosse trattata come una principessa mentre lo stesso trattamento non veniva riservato a lui l'aveva spinto a odiarla.

Era stato in preda a questi sentimenti contrastanti che, pochi mesi dopo, era scappato di casa. Vivere alla giornata gli sembrava comunque meglio rispetto a farsi trattare come uno stalliere per la colpa involontaria di essere un figlio illegittimo. E negli anni in cui aveva tirato a campare solo e sperduto, prima di partire per il Giappone, il suo cuore si era indurito, era stato contagiato dal marcio con cui era entrato in contatto e le mosche vi avevano deposto le loro disgustose uova.

Sognò il Decimo, vide la sua espressione imbarazzata, e si chiese come avesse mai potuto pensare di poterlo amare per davvero.

 

Take your heatred out on me
make your victim my head,
you never ever believed in me,

I am your torniquet.”

 

Gokudera spalancò gli occhi al primo trillo della sveglia.

Era sudato fradicio nonostante la notte fosse stata fresca, Uri se n'era andata di nuovo ma non si poteva dire lo stesso del suo incubo.

In esso, il Decimo si metteva ad urlare contro di lui, un rimprovero durato chissà quanto e che aveva contenuto tanto di quel disprezzo che, anche ora che il sogno era terminato, Gokudera non poteva non pensarci.

“E piantala con questa storia del braccio destro! Pensi davvero che io sceglierei come mio collaboratore uno scarto come te? Ma se non sai fare altro che attaccare alla minima provocazione! Come faccio a fidarmi di te quando so perfettamente che alla prima occasione disobbedirai ai miei ordini e ti metterai a piantare un casino? Smettila, davvero, prima che io sia costretto a chiederti di non rivolgermi mai più la parola. Non m'interessa che te la sai cavare con gli avanzi di galera, non m'interessa che sei bravo a combattere... sei bravo solo perché ti porti dietro la dinamite e le Box, senza cosa sei? Nulla, Gokudera, sei il nulla!”

-Cazzo.- biascicò Gokudera, traendosi seduto. Si strinse il petto con una mano e rabbrividì alla sensazione del suo stesso sudore che gli si raffreddava sulla pelle; si rese conto che non sarebbe riuscito ad andare a scuola, neanche in un milione di anni, neanche se fossero apparse tutte le precedenti generazioni dei Vongola a dirgli di farlo. Si lasciò ricadere sul letto e si raggomitolò su se stesso.

Si rese conto, dopo chissà quanto tempo trascorso a cercare di non soffermarsi su nessun pensiero, che era domenica: meglio ancora, nessuno sarebbe venuto a cercarlo e a chiedergli dove fosse stato tutta la mattina.

Poi, il suo pensiero tornò inesorabilmente al sogno.

Il Decimo, naturalmente, non gli aveva mai detto cose simili. Era troppo dolce, troppo votato a desiderare nient'altro che il bene per il suo prossimo, che non sarebbero riusciti a strappargli parole del genere neanche trascinandolo al suo punto di rottura, ma Gokudera era certo che la pensasse così. Chissà quante volte si era dovuto far richiamare prima di recuperare il lume della ragione, chissà quante volte aveva visto il suo viso deformarsi in un'espressione di disagio, chissà quante volte si era ripromesso di migliorare per poi non farlo.

Non era degno.

Né di essere suo amico, né tantomeno di essere il suo braccio destro.

Lui, Gokudera, era un nulla.

 

Prosthetic syntesis and butterflies,
sealed up with virgin stitch.
If it hurts, babe, please tell me,
preserve the innocence.
I never wanted it to end like this,
but flies will lay their eggs.”

 

Non si sarebbe alzato dal letto.

Non oggi.

Oggi si sarebbe preso un po' di tempo per tirare le fila della propria esistenza, per decidere chi fosse veramente. In totale sincerità, senza cullarsi in false speranze che l'avrebbero soltanto trascinato in un circolo vizioso, creando altri fastidi al Decimo.

L'ultima cosa che voleva era essere un disturbo, per lui che era la sua unica ragione di vita. Una volta aveva sentito in una canzone che ognuno ha bisogno di una ragione per vivere, ma che non può essere l'amore: non poteva concordare, dopo averlo conosciuto. Sawada Tsunayoshi era la sua unica ragione di vita, e per come la vedeva era giusto così.

Il Decimo era l'unica cosa bella in un mondo che Gokudera non poteva non percepire come ostile, ingrato, ingiusto. Lui era l'unico motivo per cui alla fine si era deciso a dare retta a Shamal che lo incitava a prendere in considerazione l'idea che anche la sua stessa vita avesse un valore, solo perché il Decimo in persona gli aveva detto che teneva alla sua compagnia.

Ma non era più così, era chiaro come il sole. Più passava il tempo e più il problema rappresentato da Gokudera si ingrandiva, gonfiandosi esponenzialmente come un gavettone dimenticato sul rubinetto, e prima o poi sarebbe esploso facendo danni. Solo che Gokudera non era pieno d'acqua, ma pieno di astio e nitroglicerina, e se fosse scoppiato sarebbero stati dolori.

La sola idea di vedere il viso del Decimo distorto in una maschera di orrore faceva contrarre lo stomaco di Gokudera, e la possibilità che lui stesso potesse essere nella posizione di farlo stare così male, un giorno o l'altro, era qualcosa di devastante.

Si sentì straziare il cuore nel petto al solo pensiero, e ricordò il lungo viaggio che l'aveva portato fino in Giappone: gran parte del percorso l'aveva fatto in autostop, e sebbene avesse incontrato alcune persone mediamente gentili, non in tutti i casi era stato così. Aveva patito le pene dell'inferno, pagato con il proprio sangue e con quel che restava della propria innocenza il prezzo da strozzini di quei passaggi. Un pezzo di strada l'aveva fatto su un treno merci, a soffocare nell'odore di corpi non lavati degli stagionali nomadi che l'avevano accettato guardandolo con sospetto, un ragazzo dall'aria del piantagrane con i capelli lunghi, una sigaretta tra i denti e la faccia di chi non aveva più nulla da perdere.

Ma infine era arrivato a Namimori, con le gambe stanche e i sentimenti morti, uccisi lungo il percorso e scaraventati a bordo strada come un procione che per sventura o avventatezza si è ritrovato sotto le ruote di un furgone.

E lì aveva incontrato il Decimo.

Il suo piano iniziale, di circuirlo fingendosi suo amico per poi coglierlo alle spalle, era andato a quel paese fin da subito: troppo stanco per fingersi amichevole, l'aveva invece spaventato, ma il Decimo si era ritratto di fronte alla sua sfida, dicendo qualcosa sulla falsariga del “non voglio battermi con te”. Il che, per Gokudera, era qualcosa di inconcepibile.

In strada, se qualcuno ti sfidava, tu non aspettavi di rispondere: attaccavi per primo, per procurarti un minimo di vantaggio iniziale. E cercavi sempre di colpire, se non per uccidere, quantomeno per mutilare o ferire gravemente.

Era certo che quella del Decimo non fosse altro che una finta per spingerlo ad abbassare la guardia. Dio solo sapeva che ci era cascato già una volta di troppo nei primi tempi per la strada. E non intendeva ripetere l'esperienza.

Ma quando poi il Decimo, invece di contrattaccare dopo il suo lancio di dinamite, si era limitato a correre in giro per spegnere i candelotti, Gokudera aveva capito che chissà per quale motivo quel ragazzo davvero non voleva fregarlo: non era un'ulteriore menzogna, perché Reborn gli aveva sparato con il Proiettile dell'Ultimo Desiderio, e quella era una cosa che non ammette falsità. Non si può alterare a comando il proprio ultimo desiderio, e quello del Decimo non era stato abbattere il nemico, ma proteggere se stesso, le persone vicine e lo stesso avversario.

Un cuore buono, colorato come le ali di una farfalla, emerso come un'occhiata di sole in un giorno bigio, di quelli che sembrano non finire mai, e Gokudera se n'era innamorato all'improvviso.

E insieme all'amore era cresciuto in lui il desiderio di proteggerlo ad ogni costo, di vivere per lui e anche di morire per lui se fosse stato necessario: un'innocenza così pura, una bontà così sfavillante che era quasi un obbligo morale difenderla dalle brutture del mondo, dalla cattiveria, dall'indifferenza, dalla noncuranza.

Aveva giurato solennemente a se stesso che avrebbe protetto il Decimo da chiunque e da qualunque cosa avrebbe rischiato di recargli un danno, e a ciò si sarebbe attenuto.

Anche se si fosse trattato di difenderlo da se stesso.

Naturalmente, ciò non era contemplato nel suo giuramento originario: intendeva restare al suo fianco per il resto dei loro giorni, anche da lontano se il Decimo non glielo avesse permesso, voleva guadagnarsi la sua fiducia in modo che lui cercasse Gokudera per primo quando qualcuno lo feriva, e poi arrivare a conoscerlo così bene da non dover neanche attendere che lui parlasse per capire che qualcosa non andava... ma le mosche che avevano eletto il suo cuore putrescente a loro sordida dimora avevano deposto le uova già da tempo, e non c'era modo di impedir loro di rovinare tutto.

Come un pezzo di carne che marcisce nel frigorifero, lui stesso andava rimosso prima che il tanfo e la decomposizione infettassero anche tutto il resto.

 

What I wanted, what I needed,
what I got for me...”

 

Si decise.

Avrebbe atteso il ritorno di Uri, ben sapendo che cercarla sarebbe stato inutile se lei non avesse voluto farsi trovare, e poi avrebbe preso di nuovo la strada per l'Italia. Sarebbe tornato a vivere per strada, un posto dove avrebbe potuto sfruttare il nero carbone della propria anima al meglio, e avrebbe sollevato il Decimo dall'incombenza di averlo tra i piedi.

Il Decimo non avrebbe più dovuto temere che lui ficcasse entrambi in qualche guaio, non avrebbe più dovuto girare per strada faticando per tenerlo al guinzaglio, non sarebbe più stato costretto a rischiare di compromettersi a causa dell'impulsività di Gokudera.

Svuotò lo zaino che usava per andare a scuola sul pavimento, rovesciando senza pietà quaderni, libri e cancelleria, e lo riempì a casaccio con i propri vestiti e le Box Arma.

Esitò, poi si sfilò dal dito il Vongola Ring della Tempesta: non vedendolo tornare per qualche giorno, Reborn avrebbe mandato qualcuno a cercarlo e avrebbe così recuperato l'Anello, che sarebbe così potuto andare a qualcuno più degno di Gokudera ad occupare il ruolo di Guardiano.

E Yamamoto sarebbe stato un perfetto braccio destro: era un pacificatore nato, proprio ciò che serviva al Decimo per raggiungere lo scopo di portare la pace in quel mondo disastrato. Perché sì, il Decimo continuava imperterrito a dichiarare di non voler diventare il Boss dei Vongola, ma dentro di lui Gokudera leggeva la consapevolezza che quello sarebbe stato l'unico modo per riuscire a riportare un po' di umanità nel mondo della mafia.

Si sedette sul materasso e rimase in attesa del ritorno di Uri, mentre la luce fuori dalla finestra diminuiva e si tingeva di rosso, segno inequivocabile dell'avvicinarsi del tramonto.

Nel silenzio relativo del piccolo appartamento, Gokudera aspettò e aspettò, ascoltando le sporadiche auto che passavano per strada e l'occasionale chiacchiericcio di qualche passante.

Udì qualcuno bussare ad una porta e dedusse che fossero passate le nove, anche se il sole non era ancora del tutto calato: era a quell'ora che la vicina di casa cominciava ad esercitare la propria professione di amante a noleggio.

Rifletté con amarezza su di lei: non appena era arrivato, solo con il suo zaino e i suoi cupi pensieri, lei gli si era offerta gratuitamente. Un dono di benvenuto, aveva detto, gli avrebbe portato dei dolcetti ma non era capace di cucinare. Ma nel suo sguardo Gokudera aveva letto altro: lei l'aveva riconosciuto come un suo simile, qualcuno che era ormai troppo indurito dalla vita per farsi un cruccio del doversi vendere, anche solo occasionalmente, per riuscire a mettere insieme un pasto per un altro giorno. E soprattutto, nel suo sguardo aveva letto la pietà dell'animale braccato che compatisce un compagno in gabbia: qualcosa che i romantici amavano vedere come il preludio di una scintilla di gioia a cui accompagnarsi, un flebile fuoco fatuo nella palude della vita, qualcosa che ci può condurre nei momenti più bui.

Ma i fuochi fatui sono ingannevoli, imbrogliano il viaggiatore e lo conducono solo più a fondo nella palude, in luoghi al di là del tempo dove le urla delle strolaghe si trasformano in lamenti di anime tormentate, là dove il fango lascia il posto alle sabbie mobili, una trappola nella quale si può solo sperare che la morte arrivi il prima possibile, troncando con il proprio silenzio il tardivo e inutile rimpianto di essere stato tanto ingenuo da fidarsi.

Il bussare si ripeté, accompagnato ora da un miagolio, e Gokudera fissò la porta, smarrito: perché diavolo Uri avrebbe dovuto tentare di entrare dalla porta, quando lui le aveva lasciato aperta la solita finestra? E soprattutto, come diavolo faceva un gatto a bussare?

Si alzò, timoroso, e per precauzione si armò di dinamite e si accese una sigaretta che avrebbe potuto accostare rapidamente alle micce. Scostò con diffidenza lo sportello dello spioncino, cercando di non fare rumore, e dal vetro concavo vide il viso del Decimo.

Si affrettò ad aprire, salvo poi maledirsi: poteva essere un inganno, anche la più scarsa delle Nebbie avrebbe potuto crearne uno così semplice, e se lo fosse stato ecco che, giusto poche ore dopo aver giurato di proteggere il Decimo da se stesso, Gokudera l'avrebbe cacciato nei guai. Di nuovo.

Il Decimo si illuminò: -Ah, Gokudera kun! Grazie al cielo!

-De... Decimo?

-Posso entrare? Ti ho riportato Uri.- il Decimo sollevò il gatto tenendolo con entrambe le mani appena sotto le zampe anteriori, e quella stronza maledetta emise un miagolio tranquillo.

-Ah, io... certo!- Gokudera si fece da parte, e il Decimo entrò. Lasciò andare Uri, che andò ad accoccolarsi sul materasso, e si tolse le scarpe dicendo: -Ahhh, ti ringrazio. Non voglio disturbarti, me ne vado subito, ma là fuori ci sono delle persone strane.

-Strane in che senso?- chiese Gokudera, già pronto a scattare.

-Beh... ad esempio, c'è uno che chiede l'elemosina con un orologio d'oro al polso.

-Ah, quello è il vicino. Tanaka, mi pare si chiami. Era ricco, poi ha mollato tutto quando è morta sua moglie e ora vive di elemosine. L'orologio non vuole darlo via perché è l'ultimo regalo di lei.

-Oh, mi dispiace... poverino.- disse Tsuna, facendosi strada verso la finestra per guardare fuori. Si ritrasse immediatamente con un sommesso “Iiih!”

-Che succede, Decimo?

-Una tizia in minigonna mi ha mandato un bacio!- Gokudera si affacciò e rivolse un cenno di saluto alla prostituta della porta accanto, scesa a gettare la spazzatura: -Nessun pericolo, è Sakura. Ma vi conviene andare via in fretta, Decimo, se non volete sentirla quando comincia a lavorare.

-Ti prego, dimmi che non è quello che penso...- gemette il Decimo. Gokudera rimase in silenzio, imbarazzato, e Uri miagolò dal materasso.

Istintivamente, entrambi i ragazzi si voltarono verso di lei, e Gokudera sentì il Decimo che tratteneva il respiro di colpo. Si aspettò un rimprovero: l'Anello della Tempesta era in bella vista sul materasso, e Uri ci stava giocando di fianco, quasi come se volesse proprio metterlo in mostra.

Ma non venne nessun rimprovero.

-Io... ehm... vorrei offrirvi qualcosa, Decimo, ma... temo di non aver fatto la spesa.- Gokudera pensò a cosa avrebbe potuto dargli, -Oh! Però credo di avere del tè!

-Gokudera kun...- chiamò il Decimo in un soffio.

-Sì, Decimo?

-Tu... tu vivi qui?

-Ah... sì, per... perché?

-Gokudera kun, io... non voglio giudicare le persone, ma... sì, insomma...- il Decimo abbassò la voce, -Vivi in mezzo a spostati e puttane?!

-Beh, ecco...- Gokudera arrossì, -L'affitto è basso, e... sì, insomma, all'inizio dormivo al parco, quindi è già un passo in avanti, no?

-Dormivi al parco?!- sbottò il Decimo. Gokudera corse a chiudere la finestra per evitare che i vicini si mettessero ad origliare e l'altro aggiunse: -Stai scherzando, spero.

-Beh, ecco, io...- Gokudera sospirò. Quella giornata infernale proprio non voleva saperne di giungere ad una fine; per un folle istante, Gokudera rimpianse di non essersi buttato dalla dannata finestra invece di chiuderla. -No, non scherzo. Ma non importa, ci sono abituato. Poi Bianchi ha fatto di testa sua, ha chiamato suo padre e lui mi ha fornito quanto basta per vivere.- Gokudera si sforzò di sorridere, -Allora, vi va quel tè?

-No che non mi va il tè, Gokudera kun!- sbottò il Decimo, e Gokudera si voltò a guardarlo. Tremava, aveva le lacrime agli occhi e il suo viso era distorto da un'espressione sofferente: -Mi stai dicendo che tua sorella dorme tranquilla e al caldo in casa mia mentre tu te ne stai qui da solo a tirare avanti in questo schifo di topaia?- il Decimo sussultò. Arrossendo, cercò di tornare sui suoi passi: -Voglio dire, insomma... sì, ecco, la tieni bene, vedo, è... pulita, almeno, a parte...- il suo sguardo si posò sui libri di scuola gettati in terra e sullo zaino pieno.

-Gokudera kun, che diavolo vuoi fare?- chiese a bruciapelo. Gokudera si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra, il volto tra le mani: -Decimo, vi chiedo perdono.

-No, io ti chiedo perdono, Gokudera kun... se avessi saputo...- Gokudera sentì i suoi passi felpati avvicinarsi, ma non osò togliersi le mani dalla faccia, troppo imbarazzato e troppo pieno di dolore. Le mani del Decimo si chiusero delicatamente sui suoi polsi e tirarono delicatamente verso l'esterno, e il suo sorriso dolce e triste che emerse tra di esse quando finalmente riuscì a smuoverlo strappò una ferita nel cuore di Gokudera.

-Gokudera kun, sono sicuro che possiamo trovare un posto per te a casa mia.

-Decimo, io...

-Sh! Non voglio sentire storie. Non dormirei più, sapendo che tu sei tornato qui e sei tutto solo in questo posto pieno di gente orrenda.

-Anch'io sono una persona orrenda, Decimo. Questo è il posto giusto per me.

-Ma che cosa dici, Gokudera kun?

-Anch'io ho vissuto per strada. Ho chiesto l'elemosina, e ho rubato, e ho partecipato a risse violente, e ho... ho dovuto...- Gokudera deglutì: non riusciva a dirlo ad alta voce.

-Non parlare, se non te la senti. Abbiamo tutto il tempo del mondo. Io...- il Decimo emise un piccolo colpo di risata amara, -Lo so che sono un Boss un po' sfigato... anzi, sarebbe meglio dire che non sono un Boss e basta.

-Decimo...

-Lasciami parlare, per favore. Io sono un nulla senza di voi. Siete tutti un po' strani, sì, e ogni tanto anche rompiscatole, ma non potrei fare a meno di nessuno di voi. Soprattutto, non potrei fare a meno del mio braccio destro, Gokudera kun.- il Decimo, che si era inginocchiato di fronte a Gokudera, si alzò e andò verso il materasso su cui Gokudera aveva trascorso tante notti solitarie, e per un attimo la mente del Guardiano fu attraversata da pensieri troppo poco casti. Il Decimo si inginocchiò sul bordo, e una fitta di imbarazzo pervase Gokudera: non si curava di cambiare molto spesso quei quattro stracci che aveva il coraggio di definire lenzuola, e in quel preciso istante erano anche appallottolate su se stesse in grumi indecenti. Sperò che quelle vaghe macchie biancastre che le costellavano al centro non venissero notate e arrossì quando vide la mano del Decimo appoggiarsi proprio di fianco ad una di esse. Poi, il Decimo si protese e prese l'Anello della Tempesta, infine si voltò.

-Gokudera kun, fino a poco tempo fa avresti dato una festa di dieci giorni a sentirti definire il mio braccio destro proprio da me. Vuoi ancora esserlo?

-Più che mai, Decimo, ma... ma non ne sono degno.

-E io non sono degno di essere un Boss della mafia...

-Decimo, non è ve...

-Vogliamo essere indegni insieme?- il sorriso del Decimo, l'Anello tra le sue dita... Gokudera non resistette e protese una mano per riprenderselo. Con sua somma sorpresa, il Decimo fu rapido e glielo infilò al dito lui stesso. Gokudera si sentì arrossire per l'implicito e sicuramente involontario doppio senso, e istintivamente si lanciò in avanti per stringerlo tra le braccia.

Il Decimo non ricambiò l'abbraccio, non subito, e Gokudera desiderò morire per sfuggire alla tremenda vergogna. Poi, il Decimo disse: -Prometti, Gokudera kun. Finché morte non ci separi.

-Finché morte non ci separi, Decimo. Lo prometto.- allora sì, le braccia del Decimo si alzarono e lo circondarono. Lo strinsero forte, come se volessero fare di loro due una cosa sola, e senza averlo preventivato Gokudera si ritrovò ad essere di nuovo prossimo alle lacrime. Dimentico per un istante del comportamento consono da tenere con il Boss, affondò il viso sul suo collo, respirò il profumo secco di balsamo dei suoi capelli e strinse due lembi di stoffa della sua felpa tra le mani.

Appoggiò un delicato bacio dietro al suo orecchio, appena sotto l'attaccatura dei capelli, e Tsuna sussultò appena prima di trattenerlo contro di sé ponendogli una mano sulla nuca.

 

Take your, take your...
Get up out of me...
I'm not proud of me,

I never ever believed in me...”

 

Di colpo, Gokudera realizzò.

Stava abbracciando il suo Boss, si era messo a sbaciucchiare impunemente il collo del suo Cielo, stringeva tra le braccia il suo innocente sogno erotico di mille notti passate a disprezzarsi mentre, con una presa spasmodica e incontrollabile, si masturbava pensando al sapore che doveva avere la sua bocca, e alla sensazione che avrebbe provato sentendola appoggiarsi sulla propria pelle nuda, al calore che avrebbero generato unendosi, carne nella carne e anima nell'anima.

-Decimo, vi chiedo scusa, sono irrispett...

-Gokudera kun. Non mi importa chi o cosa sei stato obbligato ad essere. Io vorrei che tu restassi con me, se anche tu lo vuoi. Ci penserò io a curare le tue ferite. Sarò come... come quei lacci che si mettono per fermare il sangue. Fermerò il dolore, lo manderò via, fosse anche l'ultima cosa che faccio. Ma ti prego, stai con me.- Gokudera non rispose, ma si strinse a lui ancora di più.

Le parole del Decimo, colme della sua bontà e del suo affetto, erano state così sincere che il cuore di Gokudera si gonfiò, libero da costrizioni.

Solo la sua promessa bastava a fargli capire che il suo cuore non era cenere, ma un tizzone: morente, sepolto da petali bianchi e grigi, ma ancora ardente all'interno. C'era ancora, in fondo in fondo, in un punto che solo il Decimo sembrava saper raggiungere, un caldo nucleo pulsante che anelava a una vita vera, colazione seduti al tavolo al mattino, poi la scuola, i compiti intramezzati a qualche cavolata, e poi più avanti impegni reali, questioni di vita o di morte da affrontare fianco a fianco con amici fidati e con la sicurezza di poter affidare loro la propria vita e di sapere che loro farebbero lo stesso con te, senza la minima esitazione.

Gokudera scoprì di desiderare un rapporto più stretto con Yamamoto: volente o nolente, quel maniaco del baseball era tra le persone più vicine al Decimo, e per dare il meglio sarebbe stato ottimo diventare buoni amici e imparare a collaborare. E poi, in fondo era simpatico.

Desiderò sentire di nuovo la voce di Sasagawa che sbraitava incitando tutti: non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma Testa a Prato sì che sapeva come incoraggiare la gente.

Desiderò vedere Chrome che sorrideva sincera: era quasi come una sorella, in lei Gokudera leggeva le stesse ferite dell'abbandono che sapeva di mostrare a sua volta, e se il sesso non era certo la via giusta per riprendersi, forse un sorriso condiviso lo era.

Si rese conto di essere sicuro che tutto andasse bene perché la presenza distante di Hibari lo garantiva; solo ora che il Decimo aveva offerto una via d'uscita ai suoi sentimenti sembrava realizzare quanto in realtà si fidasse di quello scorbutico psicolabile.

E si accorse, anche se tentò di negarlo a se stesso relegando la causa del pensiero sui sentimenti del Decimo, di aver spesso combattuto per Lambo: quel bambino rompiscatole e megalomane agiva come catalizzatore per tutti loro. Non vedeva l'ora di vederlo diventare grande e di accettarlo finalmente al proprio fianco come Guardiano.

Ma soprattutto, capì che era lui l'unico a non credere al proprio valore.

-Per prima cosa, devi imparare a fidarti di te stesso, Gokudera kun.- il Decimo si scostò quanto bastava per guardarlo negli occhi. Le sue iridi castane scavarono dentro di lui, smuovendo la cenere rimasta sulle pareti del suo cuore ed esponendone la carne viva, solcandola crudeli eppure necessarie come lame alla morfina, con le sole parole che nessuno aveva mai voluto dire a Gokudera: -Sei importante, sei le fondamenta del nostro gruppo. Senza di te siamo niente.

-Decimo...- soffiò Gokudera.

-Andiamo a casa?- chiese il Decimo, alzandosi e porgendogli una mano.

Gokudera si fece forza: guarire sarebbe stato difficile e doloroso. Ma il Decimo avrebbe saputo quando e come fermare il sangue, per tenerlo stretto a sé.

Per fare a palle di neve e guardare insieme i fuochi d'artificio.

E forse, un giorno, per qualcosa di più.

 

 

 

 

 

È la prima volta che scrivo una song fic su un pezzo di Marilyn Manson, perché di solito i suoi testi (fatte salve le cover) non hanno il minimo cacchio di senso, per sua stessa ammissione.
Ma non so, mi sembra di aver trovato qualcosa nel testo di Torniquet, spero non sia uscita una boiata! Fatemi sapere se avete gradito, magari è la volta che smetto per mezz'oretta di farmi le pippe mentali ^^'

Gokudera dalla regia: -Ma tu non avevi detto di amarmi?
Cathy: -Sì, ecco, io...
Ryohei: -Levati, Testa a Polpo, qui c'è un bisogno estremo di cioccolato!

 

XOXO

 
   
 
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