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Autore: Shiki Ryougi    07/07/2020    0 recensioni
Il mio peccato più grande, che tenevo sottochiave da troppo tempo, doveva uscire e urlare per rendermi libera. Lo sapevo benissimo che se non l’avessi fatto sarei morta in qualche modo, sicuramente suicida. Non avevo parole da lasciare, addii da comporre o parole vuote di rassicurazione da donare, ero solo pronta a esplodere. O mi rovinavo per sempre la vita, rivelando la verità ai miei genitori, oppure sarei morta nel silenzio, trascinata all’inferno da quel fardello enorme e pulsante di vita propria.
Un racconto composto da pochi capitoli, di un viaggio interiore per scoprire se stessi.
La storia, almeno per ora, resta INCOMPIUTA
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Sopra le mie spalle gravava un enorme peso, da moltissimo tempo. Camminavo ogni giorno trascinandomi, con quel fardello sulla schiena, come se stessi trasportando un’altra me stessa.
Ero pesante e ingombrante, ero troppo sbagliata.
Le parole si bloccavano in gola ancora prima di uscire e non riuscivo a dire niente. A scuola ero la più silenziosa della classe, non avevo amici e a casa mi rinchiudevo in camera mia, ascoltando musica ad alto volume con le cuffie per scacciare i pensieri e far finta che quel peso non ci fosse più, che come per incanto si fosse dileguato in aria, lasciandomi leggera come una piuma. Io, cullata dalle travolgenti tracce metal, mi materializzavo in un mondo dove avevo la chitarra in mano e potevo far sentire a tutti la mia voce. Era bellissimo e così liberatorio, era come vivere un sogno e infatti tale rimaneva.
Sul cuore avevo delle catene, chiuse da un pesante lucchetto di cui avevo perso la chiave da tempo; ero stata io stessa a rinchiudere i miei sentimenti. Meno parlavo, meno mostravo di essere felice, più ero mansueta, più ero invisibile, allora le cose sarebbero andate bene.
Per anni non avevo avuto alcun interesse ad aprirmi a nessuno, quindi avevo perso di vista me stessa in quella stanza buia in cui ero finita. L’unica cosa che mi ricordava di essere ancora viva era la musica metal e i miei momenti di pace in cui immaginavo di essere la leader di una band. Le canzoni erano ricamate e imbevute del mio animo, non più prigioniero.
In realtà non sapevo né suonare né cantare, tanto meno scrivere, ma a pensarci bene non ci avevo nemmeno mai provato. Ogni cosa che fosse rumore o manifestazione di ego non era tollerato in casa mia. Non dovevo dare nell’occhio, non dovevo essere strana, non dovevo essere eccentrica, non dovevo andare oltre le normali routine della casa e della società. Dovevo sembrare una bambola di porcellana, riposta in un angolo come decorazione, bella e gradevole, ma inutile.
Questo peso aveva pian piano cominciato a crescere, occupando prima una spalla e poi l’altra, come un tumore che guadagna massa.
Il mio peccato più grande, che tenevo sottochiave da troppo tempo, doveva uscire e urlare per rendermi libera. Lo sapevo benissimo che se non l’avessi fatto sarei morta in qualche modo, sicuramente suicida. Non avevo parole da lasciare, addii da comporre o parole vuote di rassicurazione da donare, ero solo pronta a esplodere. O mi rovinavo per sempre la vita, rivelando la verità ai miei genitori, oppure sarei morta nel silenzio, trascinata all’inferno da quel fardello enorme e pulsante di vita propria.
 
L’orecchio sinistro non la smetteva di fischiare, così come il mio braccio non cessava di pulsare dal dolore. Ero china, da una parte, appoggiata al tavolo, nella posizione in cui l’avevo urtato dopo lo schiaffo di mio padre.
A ogni minimo movimento tremavo ed ero riluttante a spostarmi, ad alzare lo sguardo e a proferir parola. Sentivo su di me i loro occhi, colmi di giudizio.
“Alice, non puoi più tornare indietro. Hai rimosso il peso che ti portavi addosso da troppi anni, aprendo il tuo cuore perché altrimenti saresti morta. Hai aperto gli occhi e lasciato uscir le parole dalla tua bocca; parole sincere, piene di sentimento e senza una traccia di esitazione. Non sono rimaste intrappolate nella gola sigillata dal terrore, come le altre volte. Hai aperto te stessa a quelle persone che ti hanno dato la vita ma che non meritano più di essere chiamati genitori. Perché in fondo cos’è un genitore se non una persona che ti ama incondizionatamente, senza cercare di azzittirti e plasmarti a sua forma e piacere? Questi due sconosciuti in piedi, che ti hanno repressa e uccisa più volte non sono altro che involucri vuoti. Non c’è amore, non c’è pietà, non c’è tutto ciò che compone il concetto di famiglia. Alzati, guarda negli occhi colui che chiamavi papà e affrontalo, per un’ultima volta. Ti sei preparata per mesi, anni, a questo momento. Ora non puoi fermarti a metà strada. Vai fino in fondo. Sii coraggiosa, come la cantante di una band metal!”.
I miei occhi fissavano il pavimento, dove mi era caduto lo zaino dalle mani. Era sera e i tuoni fuori annunciavano l’arrivo di un temporale. Nessuno fiatava e il silenzio era rotto solo dalle intemperie. Cosa si aspettavano che facessi, ora? Che a occhi bassi rimanessi in silenzio, tornando in camera mia, facendo finta di star solo mettendo in scena una bella manifestazione di manie di protagonismo?
Così le chiamavano, per loro era il miglior modo per definire i capricci e i comportamenti inopportuni. E una figlia lesbica era la cosa più inopportuna che potesse esistere.
Averlo detto, senza giri o spiegazioni inutili, aveva sorpreso anche me.
Ma non avevo avuto altra scelta: venir schiacciata da un’esistenza effimera e incatenata o guadagnare il ripudio dei miei genitori ma anche la libertà.
Quindi parlai, con decisione e gli occhi puntati in quelli di mio padre: «Non è un capriccio, non è uno scherzo, non è nemmeno una sfida: semplicemente è ciò che sono, e io sono lesbica. Mi piacciono le donne, da sempre. Se non lo accettate, io me ne vado».
I miei genitori si guardarono un attimo e poi tornarono a guardare me, con ora lo zaino in spalla, mentre sentivo la guancia sinistra arrossarsi e il dolore al braccio che diminuiva.
«Alice, dove pensi di andare, eh? Cosa farai fuori, da sola? Smettila di dire stupidaggini e vai in camera…» stava dicendo mia madre, ma mio padre la interruppe: «Cara, lasciamola andare, lasciamola essere protagonista di questa buffonata. Nel momento in cui si sarà pentita, capendo la grande cavolata che va dicendo, tornerà sana di mente e verrà qui alla nostra porta, implorando di essere riaccolta. Quindi, Alice, vai se è ciò che desideri. Vivi questa fantasia e ricorda che ormai sei un’adulta e che nessuno avrà pietà di te.»
Senza aggiungere altro, girai i tacchi e varcai il portone di casa.
Sentii una goccia cadermi sulla testa. I capelli lunghi e neri sciolti, lo zaino in spalla e via. Verso l’ignoto.

 

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Proprietà di Cecilia Maria Cimmino.
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​Questo primo capitolo partecipa al Taxi Writer Contest.
   
 
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