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Autore: T612    07/08/2020    1 recensioni
L'unica cosa che desidera Kobik è avere una "vita normale": purtroppo tale definizione non tiene conto di una Zarina come madre, un Soldato attaccabrighe come padre ed una intera famiglia adottiva di casi umani.
[What if? - WinterWidow + Kobik]
Genere: Angst, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'M.T.U. (Marvel T612 Universe)'
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Avviso dalla regia:

Mi è stato fatto notare che tendenzialmente i miei scritti sono composti dall'80% di "angst" e solamente il 20% di "fluff"... quindi, come ultimo esperimento e capitolo conclusivo del M.T.U. ho deciso di ribaltare le cifre e nuotare in acque un po' meno "conosciute".
Questa storia tripartita vuole essere un passatempo senza troppe pretese, un'ultima avventura per celebrare una Casa delle Idee che mi ha dato tanto e alla quale ho restituito più del dovuto… credo che una pausa sia dovuta, un po' perché ho davvero finito gli argomenti su cui ricamare, un po' perché per tornare ad apprezzare Mamma Marvel forse è giusto lasciar parlare la nuova Fase in dirittura d'arrivo.
Detto questo, diamo a Cesare quel che è di Cesare: il 20% di sottotrama angst è stata gentilmente offerta da "Bad Blood", ultima fatica della testata Black Widow in versione puramente testuale che ha reso questa quarantena carente di strisce disegnate un po' più leggera… l'80% di fluff invece è interamente farina del mio sacco, andando finalmente a spegnere quella fiammella di rivalsa grande quanto un "what if?" su cui si basa l'intera raccolta che celebra i due disgraziati di Bucky e Natasha (più Kobik, in questo caso). 

 

Veloce riassunto delle puntate precedenti: James è finalmente riuscito a trascinarsi Natasha all'altare, hanno distrutto dalle fondamenta il Dipartimento X (si spera definitivamente stavolta) e, nel rocambolesco susseguirsi degli eventi ("Studi di Anatomia", per i curiosi), hanno adottato Kobik – tecnicamente James ha adottato il Tesseract versione bambina di quattro anni, Natasha si è semplicemente adeguata realizzando di non essere più la sola donna di casa. Tre anni dopo i due, esperti assassini e coraggiosi idioti, non hanno ancora ben capito come dovrebbero comportarsi dei "bravi" genitori… ma provandoci sembra ci stiano riuscendo, sembra, perché nonostante tutto il "K Protocol" è ancora in piena fase di collaudo. 

 

*translate-note: dato che l'amico Google finge di sapere il russo, vezzeggiativi collaudati a parte, tutto ciò che trovate scritto < così > vorrebbe essere in lingua slava. Ora mi zittisco, giuro. 







 

Codice ARANCIONE
Protocollo: Mamma apprensiva

Missione: Lupo Solitario
Status: (purtroppo) in corso



 

«Togli le mani dal vetro, lasci le impronte.» la bacchetta Natasha posandole una mano sulla spalla come incentivo nel eseguire il richiesto, svicolando dal suo sguardo perentorio staccando riluttante i polpastrelli dalla superficie liscia del vetro appannato dalla condensa, lasciando il proprio nome fastidiosamente incompleto ed osservando intristita le lettere già tracciate sgocciolare fino al bordo del banco frigo. «Che gusto di gelato vuoi?» 

Kobik scrolla le spalle e punta il polpastrello decisa contro la superficie trasparente per automatismo, imprimendoci l'ennesima ditata già dimentica della correzione appena ricevuta da Natasha, indicando il talloncino colorato con la stilizzazione di Iron Man a pennarello che contrassegnava il gusto "Follia Stark al cioccolato" mentre la donna sospira rassegnata, si scusa con il gelataio per le impronte digitali e termina le ordinazioni pagando il richiesto prima di consegnarle tra le mani la sua agognata coppetta gelato. 

Kobik la segue a ruota passandole sotto il braccio mentre Natasha le tiene aperta la porta del chiosco, salutando con entusiasmo il gelataio e rischiando di inciampare sul gradino della soglia al contempo, suscitando un timido sorriso da parte dell'uomo che ricambia il saluto con un cenno della mano augurandole di tornare presto, correndo poi alla panchina più vicina per accaparrarsi il posto, lanciando via la cartella ed addentando soddisfatta la prima cucchiaiata. Natasha la raggiunge con calma dopo essersi armata di tovagliolini di plastica, chinandosi a raddrizzare la cartella prima di sedersi composta al suo fianco, districando i Ray-Ban dai ricci cremisi per neutralizzare ogni possibile fonte di disturbo celando il proprio sguardo ai passanti che passeggiavano lungo i marciapiedi di Central Park, reclinando la schiena contro la panchina ostentando uno stato di rilassatezza apparente. 

«Ma non sa da dentifricio?» chiede Kobik di punto in bianco interrogando la donna, indicando con un cenno del mento il cono gelato di Natasha riferendosi alla pallina di "Spaccatella Hulk" già ridotta a metà. «Papi dice che sa da dentifricio.»

«Papi è un idiota geloso, è un banalissimo gelato alla menta con delle banalissime scaglie di cioccolato.» le spiega Natasha accennando un sorriso divertito all'angolo delle labbra, porgendo il cono nella sua direzione. «Vuoi assaggiare?» 

«Buono!» esclama la piccola dopo un paio di leccate, vantando un cipiglio confuso dopo essersi ripulita le labbra con la punta della lingua. «Allora perché Bucky-bukaroo dice che sa da dentifricio?» 

«Perché è un idiota geloso, Kobik. E perché adora farmi saltare i nervi.» confessa Natasha scrollando le spalle, lisciandosi una ciocca sfuggita allo chignon portandosela dietro l'orecchio tradendo una briciola di nervosismo, lasciandosi scappare un'ondata di apprensione che si infrange contro Kobik rovesciandole lo stomaco sottosopra – James e Natalia si erano ormai abituati a non frenare le proprie emozioni quando si trovavano in sua presenza, solamente in rare occasioni prestavano reale attenzione nel limare gli impulsi più deleteri per non farla agitare, ma il più delle volte rimanevano entrambi invischiati in situazioni talmente paradossali da lasciar libero sfogo alla rabbia, alla preoccupazione ed alla frustrazione, facendo crollare i rispettivi muri mentali travolgendo la bimba di riflesso, rendendola disgraziatamente partecipe a più faide di quelle che idealmente avrebbero voluto. 

«Non ha ancora chiamato, vero?» chiede titubante la piccola, scrutando la maschera imperturbabile di Natasha mentre le concede un sorriso sereno e le pettina le ciocche castane con le dita in una coccola apprensiva. 

«C'è sicuramente un motivo logico e sensato se non si è ancora fatto vivo, possiamo stare tranquille моя дорогая.» afferma Natasha zuccherando la bugia appena espressa con un altro sorriso, sporgendosi a pulirle gli sbaffi di cioccolata con fare forzatamente rilassato, annuendo con finta convinzione scegliendo di assecondarla. «Successo niente di interessante oggi a scuola?»

«Scott [1] ha abbrustolito un altro albero…» inizia a raccontare Kobik, issandosi in piedi ed afferrando la mano di Natasha una volta gettati via tutti i tovagliolini, affiancandola dal lato in cui non le pendeva dalla spalla la sua cartella di Hello Kitty, seguendola fino all'accesso della metropolitana spostandosi in direzione dell'Upstate. 

«Clarice [1] è riuscita a teletrasportarsi senza perdere un arto? Ma è una notizia fantastica!» la asseconda Natasha ascoltandola attenta, dimostrando più entusiasmo del normale per impedirsi di pensare alle possibili brutte notizie una volta raggiunto il Complesso – era un vecchio automatismo che le aveva rivelato James, in tre anni che abitava sotto il loro stesso tetto Kobik aveva imparato abbastanza trucchi e sfatato sufficienti altarini per saperli leggete entrambi come un libro aperto, illimitati poteri cosmici o meno… il fatto che entrambi preferissero illudersi dell'esatto contrario era ben altro paio di maniche, adeguandosi alla menzogna per non turbarli più del dovuto, dato che paradossalmente preferivano credere che Kobik stesse ritorcendo contro di loro le nozioni basilari dello spionaggio assorbite negli ultimi tre anni – cosa per altro vera, ma non così fondamentale quando aveva dalla propria parte un radar emotivo pressoché infallibile che andava a nozze con i sentimenti geneticamente amplificati dei suoi genitori adottivi.

Era in quel genere di momenti, quando James era lontano da casa già da troppi giorni mantenendo un totale silenzio radio tale da innescare la paranoia di Natasha, che Kobik provava una profonda nostalgia nei confronti di Parigi… la loro vita in Europa era ben diversa da quella che conducevano in America, l'aria parigina aveva il sapore di un'eterna ed effettiva vacanza dove il profumo dei croissant appena sfornati riempiva la pancia di tutti e tre la mattina, quella della Grande Mela invece puzzava di sangue, polvere da sparo e adrenalina, la stessa che dava vita ad una relazione saltuaria condita da musi lunghi annegati nel caffè e punti di sutura ben prima dell'alba. Non che a Kobik dispiacesse avere tutti i suoi zii ad un paio di fermate di metropolitana di distanza invece che un oceano intero, ma allo stesso tempo le mancava la tranquillità e l'equilibrio che poteva percepire solamente nella sua cameretta tra le pareti azzurro pastello e la costellazione luminescente dell'Orsa Maggiore appiccicata al soffitto… la quale non aveva niente a che vedere con le ombre aguzze proiettate dalla lucina a muro sulle anonime pareti verdi della propria stanza a Little Ukraine. 

Kobik sopportava New York con la stessa flemma con cui tollerava i cavoletti di Bruxelles a cena, ma forse era fin troppo conscia per una bimba di soli sette anni che il Sergente Barnes e l'Agente Romanov si guadagnano da vivere facendosi sparare addosso ed erano assegnati alla giurisdizione di un Continente decisamente più guerrafondaio di quello europeo, ammettendo tra sé e sé che la scelta sofferta del trasloco a lungo andare si era rivelata la soluzione migliore per tutti… tralasciando ovviamente quanto lei adorasse la sua nuova scuola, scelta accuratamente da zio Logan [1] come ripiego "più idoneo alle sue capacità" rispetto a quella parigina – se durante la ricreazione Kobik perdeva le staffe all'X-Mansion e nella propria furia telecinetica sradicava un paio di arbusti, il massimo che rischiava era un richiamo dal Preside McCoy ed una chiacchierata nell'ufficio di Charles [1], a differenza della scuola "umana" in cui le conseguenze erano ben più serie, come spaventare gli altri bambini semplicemente cambiando tinta di capelli all'improvviso lasciando comparire il bianco candido del proprio colore naturale per qualche secondo o teletrasportando i propri libri dallo zaino al banco con uno schiocco di dita. 

«Quando torniamo a casa ti aiuto a fare i compiti, allora.» conclude la chiacchierata Natasha, ormai giunte davanti all'ingresso del Complesso e già impegnata a trasferire nella propria borsa in tela le lettere ed i disegni dei loro "piccoli fan" prelevati dalla cassetta della posta contrassegnata "Barnes - Romanov" appesa al muro d'entrata, per poi chinarsi a raccogliere lo scatolone di gadget posato a terra indagando curiosa sul contenuto, scoppiando a ridere deliziata porgendole l'oggetto del misfatto appena scartato. «Tieni, questo è tutto tuo… James impazzirà di sicuro quando lo vedrà. Sempre se Baloo non è geloso, ovvio.» 

A Kobik sembra già di sentire le lamentele dell'uomo in merito alla malsana fissazione del mercato mondiale nel affibbiare il nome dei singoli Avengers ad ogni possibile merce personalizzabile – era stato pressoché inutile il tentativo di Natasha di spiegargli che almeno il 10% del loro stipendio era dovuto al merchandise, con tanto di pagina Amazon a supporto della propria tesi che dichiarava sold-out tutti i peluche di "Bucky Bear" a cifre folli perché ormai diventati articolo da collezione, chiamando in causa una punta di vago imbarazzo del diretto interessato che segretamente pregava per l'estinzione del giocattolo dal mercato globale dopo più di ottant'anni dall'ideazione della discutibile trovata pubblicitaria –, quindi per la bimba trovarsi a stringere tra le braccia la suddetta palla di pelo sintetico in divisa aveva un ché di incredibile, a metà tra l'euforia ed il sorriso machiavellico speculare a quello dipinto sulle labbra della propria mamma. 

«Credo che Baloo possa farsene una ragione.» concede con una scrollata di spalle, allungando le mani ad afferrare l'orsacchiotto per stringerselo al petto mentre risalivano le scale fino al loft al terzo piano, puntando all'ala medica con passo spedito cercando con lo sguardo la testa bionda di zia Yelena. 

Circa una settimana prima l'Agente Belova era stata inviata a Chicago, era giunta una segnalazione sospetta da una clinica delle Holt Industries, l'informatore anonimo nominava un patogeno pericoloso nel reparto di malattie infettive ed avevano inviato una delle due Vedove Nere a controllare… peccato che del patogeno non si era più saputo nulla e la donna era stata ritrovata quattro giorni dopo a girovagare in periferia in un profondo stato confusionale – era stata Natasha a trovarla dopo settantadue ore di silenzio radio, portandola di corsa al Complesso per capire a cosa fosse dovuto lo sbalzo biochimico, la febbre anomala e la totale amnesia della sorella. Banner ci aveva provato ma non era riuscito a strappare nemmeno una mezza teoria plausibile per spiegare cosa fosse successo alla seconda Vedova, nel frattempo James aveva preso l'iniziativa e si era armato fino ai denti riprendendo la pista abbandonata dalla cognata nel punto esatto in cui la memoria di Yelena iniziava a deteriorarsi, ma dopo trentasei ore in cui avevano ricevuto solamente il primo aggiornamento dopo le prime dodici mandando in fumo i due seguenti, i livelli ansiogeni di Natasha ormai toccavano vette inaudite nonostante si sforzasse di nasconderlo e Kobik non poteva fare altro se non cercare nel suo piccolo di sedare gli incubi della propria mamma – la notte prima si era arrampicata sul materasso matrimoniale e si era rannicchiata contro la schiena di Natasha facendo attenzione a non svegliarla, reni contro reni per drenare via tutti gli incubi che urlavano attraverso i muri impedendole di chiudere occhio sulle proprie pareti verdi, calmando la donna ed addormentandosi a sua volta con il naso affondato nel cuscino del proprio papà e tenendosi Baloo stretto al petto. 

«Che giorno è? Giovedì?» brontola Yelena di punto in bianco, socchiudendo un occhio per prendere nota dell'intrusione da parte della sorella e la nipote, afferrandosi le tempie reprimendo una smorfia dopo essersi rigirata nella branda dell'infermeria ed aver fulminato l'elettrocardiogramma con un moto di profondo fastidio. «Non li reggo proprio i giovedì.»

«Noto.» commenta atona Natasha mordicchiandosi le labbra, trattenendo a stento le domande pressanti che Kobik poteva quasi vederle agitarsi sottopelle – Ci sono novità? Non ricordi ancora nulla? Hai la febbre? Ti prego, ti supplico, dammi qualcosa su cui lavorare… 

«Nat.» esordisce il dottor Banner varcando la soglia, l'espressione stanca e tirata di chi aveva almeno mille domande da tre risposte inconcludenti l'una a rimbalzargli nella scatola cranica, cadendo con lo sguardo su Kobik mentre i propri occhi cerulei intercettano i referti dei nuovi esami eseguiti su zia Yelena. «Ehi K, tutto bene a scuola?» 

«Tutto benissimo.» ribatte spiccia cogliendo la punta di nervosismo di Bruce e la perenne virgola arrabbiata che contrassegnava la presenza latente di Hulk, cercando frenetica una via d'uscita alle quattro onde emotivamente anomale che le si stavano scagliando contro in quel preciso istante… lasciando morire sul nascere l'impulso di cercare il porto sicuro di zio Steve confinato nel Centro Operativo ad un corridoio, una rampa di scale ed un ballatoio di distanza, adeguandosi alle dita possessive della sua mamma che erano giunte egoiste a ghermirla per usala come anestetico inconscio ai propri timori. 

«L'hai trovata una soluzione Banner? La febbre mi sta uccidendo… non ricordo più quand'è stata l'ultima volta che ce l'ho avuta per tre giorni di fila.» mugugna un lamento Yelena, issandosi seduta puntellandosi ai gomiti. 

«È in calo, domani dovrebbe scomparire del tutto… il fattore anomalo è che non c'è nulla che la giustifichi.» spiega Bruce affrettandosi a pulire le lenti degli occhiali con un lembo del camice, tradendo una punta di nervosismo che non passa inosservata a nessuna delle tre spie presenti – due di professione e la più piccola in addestramento –, aspettando che l'uomo si schiarisca la voce per portare a termine la spiegazione sollecitato dal sopracciglio arcuato di Natasha. «Ho isolato il patogeno e ho già somministrato gli antibiotici, ma in condizioni normali il siero avrebbe dovuto bruciare i batteri al primo contatto… sei entrata ed uscita dai laboratori di Allan Holt fisicamente sana come un pesce Yelena, gli antibiotici non sarebbero dovuti essere necessari per principio considerata la mutazione genetica dei super-umani.»

Kobik, dall'alto del proprio DNA inesistente e biologicamente strutturato con particelle d'energia cosmica ordinate per deteriorarsi di anno in anno con cicli di tempo umani, sapeva per esperienza personale che le mutazioni genetiche terrestri non erano tutte uguali. A scuola ne aveva un esempio ad ogni angolo, ma in linea di massima il Professor Xavier le aveva spiegato che potevano raggrupparsi in tre ceppi in base al fattore scatenante – terrigenesi, mutazione e sperimentazione [2] – e dato che circa la sua intera famiglia adottiva rientrava nell'ultima categoria, il Dottor Banner aveva deciso di conseguire la quarta laurea della propria carriera scientifica specializzandosi in biochimica ed ormai sapeva in linea di massima come curare ogni singolo membro degli Avengers con un infinitesimale margine d'errore. 

«Allan Holt?» Natasha spezza il ritmo della conversazione di punto in bianco, curvando in direzione dell'unico elemento a lei sconosciuto, fiutando aria di sospetto assottigliando lo sguardo mentre Kobik capta una punta di diffidenza nella sfera emotiva del Dottore. «È nuovo?» 

«Forse per te, nel mio ambiente è una delle menti più illustri della medicina contemporanea.» spiega Bruce per fugare ogni dubbio, ma senza riscuotere alcun tipo di riconoscimento nei propri uditori. «Le sue ricerche in campo genetico hanno portato a cure mediche avanzate e vaccini per patologie a cui fino a qualche anno fa non c’era cura…» 

«Un filantropo con una laurea in pratica.» lo stronca la donna, riducendo la scoperta ai minimi termini. «Tony che ne pensa?» 

«Pensa che sia un egocentrico che promuove finto buonismo.» le concede Bruce, se si era sentito offeso per la brusca richiesta dell'opinione del collega non l'aveva dato a vedere, consapevole che Stark avesse un radar buono quanto quello di Romanov per fiutare i problemi. «Gli ha negato un paio di finanziamenti anni addietro, non si fida più ad investire su nessuno dopo-...» 

«-... dopo il disastro con l’AIM, capito.» lo anticipa Natasha, senza farsi troppi problemi nel monopolizzare la conversazione, placando l'ansia latente che Kobik non riusciva ad assorbire con il maggior numero di informazioni che poteva reperire nell'immediato. «Holt dove ha trovato i soldi?» 

«Oscorp, a quanto pare. Harry, il figlio di Norman, sta portando avanti l’azienda da quando Osborn Sr è morto.» replica asciutto il Dottor Banner, evitando di sbilanciarsi troppo in merito alla tempesta mediatica che Hill aveva prontamente placato sul nascere quando un Peter dalla tenuta lacera e lurida era atterrato sul tetto del Complesso a notte fonda attivando l'allarme. «Steve e Sharon lo stanno tenendo d’occhio, diciamo pure “per sicurezza”.» 

Natasha annuisce pensierosa, rompendo le righe lanciandosi in una chiacchierata con Yelena ricca di gossip con cui distrarsi dalla preoccupazione di fondo, lasciando libera Kobik di auto-inviarsi da zio Steve per carpire i tasselli mancanti che la donna per ora non voleva ancora conoscere, smaterializzandosi dall'ala medica e ricomponendosi al Centro Operativo senza il minimo preavviso, facendo andare di traverso il caffè a Capitan America. 

«Ehi, Kobik.» la saluta l'uomo dopo essere riuscito a riprendere fiato, voltandosi facendo cenno di volerla sollevare da terra una volta chiuse alcune schermate olografiche. «Salta su, ti faccio vedere una cosa.»

Kobik rinuncia a spiccare il volo in maniera autonoma, preferendo di gran lunga gustarsi la coccola calda dello zio, avvinghiandosi al suo busto con le gambe e sporgendosi con le dita curiose in direzione di una finestra pop-up sul quale si muoveva un puntino lampeggiante. 

«Non ha ancora chiamato, ma Bucky sta bene… o almeno, è dove dovrebbe essere. Sei qui per questo, no?» afferma l'uomo puntando l'indice contro la piccola spia gialla che pulsa ritmica sul pannello olografico, mentre Kobik corre con lo sguardo al bordo della schermata identificando gli indici di grandezza in scala di una planimetria, leggendo la dicitura che identificava il luogo come uno dei laboratori di ricerca delle Holt Industries collocati a Chicago. «Durante l'ultima manutenzione Tony ha innestato un microchip nella protesi, così noi sappiamo sempre dove dobbiamo andare a recuperarlo in caso di emergenza.»

«Ma questa si chiama violazione della privacy ed è una di quelle cose che non andrebbero mai fatte.» interviene Natasha varcando la soglia del Centro Operativo, puntando un indice perentorio contro Kobik per sottolineare il concetto, a discapito del sorrisetto colpevole che le incornicia le labbra. «Papà non deve scoprirlo mai, altrimenti fa in modo di togliersi il localizzatore e sparisce dal radar di Mamma, chiaro моя дорогая

La punta di colpa macerata nel sollievo di zio Steve diventa un chiaro campanello d'allarme di quanto Capitan America disapprovi la scelta di innestare un microchip nella protesi del fratello trattandolo alla stregua di un cane di razza, registrando tuttavia una spiccata ondata di sollievo scaturire dal fascio di nervi tesi della sua mamma dopo giorni interi in balia dei soliti pensieri morbosi alla sola vista della lucina intermittente, catalogando l'infrazione al pari del dispositivo che le rilevava le pulsazioni cardiache ed i livelli di tossicità del sangue ogni volta che Natasha indossava i Morsi ai polsi, inviando direttamente i dati al cellulare di Bucky all'insaputa della moglie – il concetto di "privacy", tra i suoi genitori adottivi almeno, era talmente labile che Kobik trovava "carino" il fatto che i due pretendessero di fingere di rispettarlo, tentando di spiegarle al contempo quando il loro comportamento abitudinario fosse in realtà profondamente sbagliato. 

«Chiaro.» conferma Kobik con un breve cenno della testa, memore della discussione con zio Steve in merito al bisogno quasi fisiologico della sua mamma di avere il controllo della situazione e l'altrettanto urgente necessità del suo papà di sapere in salvo Natasha, asserendo che finché le informazioni personali di ogni Avengers – tipo le allergie, il colore delle mutande e la quantità di caffè e proteine ingurgitate prima di pranzo – restavano dentro le mura del Complesso tutti erano più che felici di avere due hard-disk umani a coprire loro le spalle. 

«Dici che sta bene?» indaga riluttante Natasha, approcciandosi a Steve con la stessa spavalderia con cui si chiedevano solitamente le previsioni del tempo, nascondendo magistralmente la nota di apprensione che marca il suo accento slavo più del solito. 

«Dico che sta bene.» la asseconda l'uomo per mera solidarietà, con decisamente meno maestria nel fingere di credere davvero nelle parole appena espresse, affrettandosi a cambiare argomento posando Kobik a terra. «Te lo ricordi che domenica siete a pranzo da noi, vero? Sharon mi ha chiesto se puoi occuparti tu del dolce.»

«Certo, nessun problema.» annuisce la donna, sollevandosi sulle punte dei piedi per scoccare un bacio sulla guancia di Steve prima di allungare una mano in direzione della bimba, sottintendendo la volontà di fare ritorno a casa. 

Era ormai tradizione consolidata che la prima domenica del mese zio Steve ospitasse James ed addendi a pranzo, era un'occasione come un'altra per fingere di comportarsi come una famiglia normale – Kobik sospettava fosse il pretesto scovato dal suo papà per ristabilire una sottospecie di routine sostitutiva ai picnic mensili sulla riva della Senna che a lei mancavano terribilmente –, godendosi appieno un intero pomeriggio di sacrosanta pace con tutti e otto i dispositivi spenti, sia i cellulari che i cercapersone, ed il televisore sintonizzato su una partita a caso di baseball o NBA. Kobik supponeva che il bisogno intrinseco di una "routine" da parte dei suoi genitori fosse una scusa per colmare il divario di occasioni andate perse negli ultimi sette decenni, trovando estremamente buffa la cocciutaggine dei due nel consolidare certe abitudini solo "per lei" quando ai suoi stessi occhi era palese che ogni singolo gesto fosse "per loro", con l'unica variante che lei si incastrava sempre nel mezzo – ciò non significava che le volessero meno bene o la considerassero "superflua", ma Kobik era abbastanza convinta che Natasha non li trascinava a Coney Island il 10 marzo perché lei desiderava fare un giro sugli autoscontri o sulle montagne russe, come era abbastanza certa di poter far tranquillamente a meno della favola dello Schiaccianoci a Natale, in qualsiasi forma James gliela presentasse perché a lei la storia piaceva da impazzire. 

Erano piccole abitudini che sommate insieme formavano una routine quasi monotona, ma che faceva da contropalco alle settimane adrenaliniche e fuori dall'ordinario che scandivano le loro giornate al ritmo della suoneria dei cellulari e dei cercapersone – mangiare il pollo alla cantonese sul divano davanti a Netflix ogni giovedì sera diventava quasi rassicurante se lo si osservava sotto una determinata ottica, soprattutto se Natasha era in preda ad una malcelata crisi nevrotica e si divertiva a cancellarla dipingendo loro le unghie con lo smalto, spazzolando ed intrecciando i capelli di Kobik in acconciature ogni volta sempre più elaborate. 

«Talia, è la settima volta che mi metti lo smalto sull'alluce.» interviene Kobik sollevando lo sguardo dal proprio piede al volto della donna, la quale si interrompe a metà del gesto con la boccetta dello smalto sospesa tra loro, scrollando le spalle in un cenno di noncuranza talmente repentino da far quasi sciogliere il nodo all'asciugamano che le raccoglieva i capelli ancora umidi dalla doccia. 

«Con sette passate non dovresti scheggiarlo subito, tutto qui.» si giustifica Natasha chiudendo la boccetta ed issandosi da terra, spazzolandosi i pantaloni del pigiama mentre leva lo sguardo all'orologio appeso alla parete della cucina. «Aspetta che si asciughi lo smalto e poi si fila dritti a nanna, okay? Io ti raggiungo quando ho finito di sistemarmi.»

Kobik annuisce guadagnando un bacio sulla fronte, scollandosi dal divano in pelle e spegnendo il televisore qualche minuto dopo, avviandosi in punta di piedi fino alla propria camera compiendo una virata costretta in direzione del bagno quando Natasha strepita un "denti" da sotto il rumore del phon, tradita dal riflesso catturato dallo specchio mentre tentava di attraversare la soglia con fare furtivo. 

«Avanti, snuda le fauci.» pretende Natasha sollevandole il mento con due dita una volta riposto spazzolino e dentifricio al loro posto, annuendo soddisfatta prima di chinarsi a raccoglierla dal pavimento per trascinarla di peso fino alla sponda del suo letto, sdraiandosi sul ciglio del materasso stringendosela al petto – James e Natasha la stavano pian piano disabituando alle incursioni sul lettone e alla loro presenza costante finché Kobik non cedeva al sonno nel proprio giaciglio, ma c'erano volte in cui venivano meno ai loro stessi ordini per il semplice fatto che non c'era l'altro a scaldare la metà vuota del loro materasso, usando spesso e volentieri la scusa che "mamma pantera si preoccupava a morte quando papà giaguaro non c'era" e viceversa. 

«Puoi chiederlo, se vuoi.» afferma Kobik di punto in bianco a metà di uno sbadiglio, facendo corrugare le sopracciglia di Natasha in una espressione interrogativa, sbalzando la lancetta dell'ansia alle stelle e causando un acquazzone con i fiocchi nel frattempo. 

«Lo senti, vero?» chiede riluttante la donna, ascoltando il crepitio dei fulmini in arrivo come conferma implicita alla propria domanda e puntando lo sguardo alla lucina notturna che gettava ombre soffuse lungo le pareti verdi fino al soffitto. 

«Starti vicino è come nuotare in un mare in burrasca, ti percepisco anche attraverso i muri… e di conseguenza non riesco a percepire papà.» ammette la bimba dopo l'ennesimo tentativo a vuoto, nonostante negli ultimi venti minuti si fosse concentrata al massimo ad occhi chiusi percorrendo chilometri nello spazio figurato estendendo la propria firma energetica ben oltre lo Stato del New Jersey, ma dell'impulso vitale di James non ne aveva captato nemmeno l'ombra… in compenso le ondate emotive di Natasha si infrangevano impetuose contro tutti i muri di casa, spingendo la piccola a chiedersi insofferente perché i super-umani dovessero per forza percepire il mondo amplificato e non la versione a bassa frequenza a cui generalmente sopravvivevano tutti gli altri comuni mortali – era stancante, a Kobik a volte girava quasi la testa… e fuori, di conseguenza, pioveva. 

« < Mi dispiace tesoro, è che-... > »

« < Lo so perché sei preoccupata, lo capisco… papà non è rimasto mai così tanto lontano da casa in silenzio finora > .» la anticipa Kobik in russo adeguandosi al vocabolario in corso con uno scarto di difficoltà minimo, contemplando il silenzio della sua mamma che si limita a stringersela al petto ed intimarle di dormire, appisolandosi qualche minuto dopo cullata dal ticchettio della pioggia contro le tegole del tetto.

Ciò che la sveglia non è di certo il telefono, il tramestio in salotto o gli schiocchi sonori del temporale, ma la bomba atomica che esplode nella camera da letto dall’altra parte del corridoio, obbligando Kobik ad armarsi di Bucky Bear per farsi coraggio ed avventurarsi in cucina a vedere cosa diavolo sia capitato, trovando Natasha vestita di tutto punto in tenuta da combattimento che sparava ordini a salve all’auricolare già infilato all’orecchio, placandosi congelata sul posto a metà arsenale assemblato alla vista della bambina confusa che si affaccia alla soglia del salotto.

«Sta arrivando zio Steve a prenderti, la mamma deve andare via.» tenta invano di tranquillizzarla la donna, mentre la piccola scocca uno sguardo veloce all’orologio appeso in cucina deducendo l’unica ipotesi plausibile che giustificasse una Vedova Nera armata fino ai denti ed in procinto di sfidare il temporale uscendo dalla porta di casa alle tre di notte.

«Talia… cosa è successo a Papo?» chiede in punta di voce Kobik, rendendo appena udibile la domanda, agitandosi per non riuscire a scalfire il muro emotivo dietro al quale Natasha si stava riparando per non soccombere, iniziando a far tremare i vetri dell’intera casa per riflesso inconscio, turbata dal picchiettare costante della pioggia nonostante fosse lei per prima a causarla.

«Non lo so ancora, probabilmente ha la febbre. Ho solo una posizione GPS su cui lavorare.» si affretta a giustificarsi Natasha, cadendo a carponi dinanzi a lei afferrandole le guance per asciugarle i lucciconi con i pollici, aprendosi in un sorriso teso che si sforzava di mostrarsi incoraggiante, placando il tremore all'intelaiatura delle finestre. «Devo andare a prenderlo e riportarlo a casa, tutto qui.» 

«Perché?» sussurra la bambina, stringendo convulsamente la zampa dell’orsacchiotto.

«Perché non è nelle condizioni di tornarci con le proprie gambe, a quanto pare.» afferma Natasha, celando per sé gran parte delle informazioni, spingendo Kobik a porsi le domande giuste al momento sbagliato – James riusciva a guidare anche senza braccio sinistro, lo sapeva, l’aveva visto tenere il volante con le ginocchia mentre cambiava le marce con la destra… non poteva guidare se aveva una gamba fratturata, ma poteva zoppicare fino alla prima sede dello SHIELD in zona, quindi se non poteva trascinarsi fino al primo Centro Operativo voleva dire che non riusciva nemmeno a reggersi in piedi o aveva paura di essere seguito, attaccato... ucciso.

«Non gli hai parlato…» deduce Kobik mentre il terremoto telecinetico aumenta di intensità e diminuisce nel raggio d’azione, spostando il divano di un paio di metri e rischiando di far precipitare il televisore a terra frantumando i cristalli liquidi dello schermo nell’impatto, tentando invano di razionalizzare ciò che non percepiva colmandolo con supposizioni campate per aria, captando con la coda dell’occhio la pioggia battente fuori dalle finestre che stava trasformando la strada in fiumi – forse con l’asfalto ridotto ad uno scivolo dell’acquapark non era sicuro guidare senza un arto, forse era solo per quel motivo se era Natasha quella che si stava muovendo per recuperarlo… anche se ciò non giustificava le armi, senza calcolare che il numero salvato nelle chiamate d’emergenza di James era quello della sua mamma e non quello di Sam come da accordi d’ufficio.

«No. GPS, te l'ho detto.» smorza il sorriso Natasha mostrandole sullo schermo il puntatore di Maps, palesando la tensione a Kobik facendole capire la serietà della situazione che non implicava lo spazio per i suoi capricci. «Puoi far smettere di piovere? Mamma vorrebbe pestare il piede sull'acceleratore.»

Il ticchettio della pioggia cessa quasi all'istante, venendo premiata con un abbraccio soffocante ed un bacio sulla fronte, interrompendo il contatto al suono del campanello. 

«Ti sei calmata, K? Perché se ricomincia il diluvio abbiamo un problema, sono qui in moto.» esordisce Steve varcando la soglia puntando l'attenzione direttamente su Kobik, i capelli umidi ed i vestiti fradici. «Fino a trenta secondi fa pioveva solamente nel vostro quartiere, non è scesa nemmeno una goccia a Manhattan per tutta la notte. Giusto per.»

«Ops.» si stringe tra le spalle Kobik mentre Natasha leva gli occhi al cielo, annotando mentalmente di aver mandato a rotoli la striscia positiva di assenza di "anomalie" degli ultimi tre mesi, a discapito della situazione già di per sé inconsueta. «Scusa…» 

«Nessun problema.» la giustifica Steve con una scrollata di spalle, tenendo la porta aperta a Natasha mentre quest'ultima si carica il borsone in spalla ed afferra in corsa le chiavi dell'auto. «Non fare nulla di avventato, capito?» 

«Ah-a.» mugugna la donna saltando a piè pari i tre gradini d'entrata, brandendo le chiavi come fossero un'arma accendendo i fanali e sgommando via lungo la strada nel giro di un minuto netto – quindi no, James non aveva inviato la sua posizione GPS a Natasha solo perché aveva la "febbre" e non poteva fare l'autostop, lasciando sfuggire al cielo un paio di brontoli ed un tuono fragoroso che illumina le nubi. 

«Kobik.» la richiama Steve con lo sguardo puntato al temporale in arrivo, inclinando la testa verso il basso incontrando i suoi occhi cerulei da cucciolo spaventato. «Va tutto bene, okay? Davvero.» 

«O-... OKay» mormora la bimba respirando a fondo, scacciando via i rombi dei tuoni mentre stritola la zampa di Bucky Bear per farsi coraggio. 

«Vuoi tornare a dormire qui nel tuo letto o andiamo a Brooklyn?» la interroga l'uomo squadrandola dall'alto in basso come se si aspettasse di vederla scoppiare in lacrime da un momento all'altro visto che la pioggia era ufficialmente terminata all'esterno, togliendosi le scarpe facendo leva sui talloni ed abbandonandole all'ingresso al suo desiderio di rimanere. «In questo caso vorrei un paio di asciugamani ed un cambio di vestiti, mi vai a prendere qualcosa da mettere dall'armadio di papà, per favore?» 

Kobik in tutta risposta schiocca le dita materializzando il richiesto direttamente tra le mani dello zio, seguendolo con lo sguardo mentre si avviava verso la porta del bagno, spostando il divano di nuovo al suo posto una volta fuori dalla supervisione di Steve, accoccolandosi contro i cuscini stringendo l'orsacchiotto di peluche tra le braccia, crollando incontro al bracciolo mentre accendeva il televisore sulla CNN per tentare di capire cosa gli adulti non le stessero dicendo, ormai troppo sveglia ed agitata per pretendere di tornare a dormire – niente incendi dolosi, sparatorie o "fughe di gas" a Chicago e zone limitrofe, in compenso era scoppiato un incendio in California, il Presidente Ellis aveva rilasciato un'intervista in mattinata, nell'ultima ora si era verificato un maxi-arresto nel Queens per opera di Peter ed ora stavano trasmettendo il reportage della cerimonia indetta dal sindaco di L.A. nel pomeriggio, il quale tesseva le lodi degli Young Avengers in favore di camera per i servizi resi alla città nelle ultime settimane, sorridendo divertita nel vedere Kate inchinarsi alla folla con fare esibizionista alle spalle di un Elijah particolarmente fiero del proprio operato mentre Cassie, Thomas e Riri se la ridevano di gusto al successo riscosso dall'amica nel dare spettacolo, distogliendo l'attenzione dallo sguardo esasperato di Teddy e Billy che confabulavano in un angolo del palchetto. 

«Devo fare un discorsetto a tutti e sette quando tornano a New York.» esordisce Steve alle sue spalle, fresco di cambio e con sguardo fisso allo schermo del televisore, afferrandole le caviglie con una mano sola sollevandole per farsi spazio sul divano, finendo per posarsi i piedi nudi di Kobik in grembo come se nulla fosse. «Carino lo smalto, ha un bel colore.»

«Perché la ramanzina? A me sembra si stiano solo divertendo.» replica la bimba rigirandosi sul divano come un pesce fuor d'acqua, spiazzata dal contesto abitudinario ma dai soggetti insoliti, riportando il discorso in campi neutri. «Che c'è di male nel divertirsi?» 

«Fuori dalle mura di casa abbiamo tutti un certo comportamento da mantenere… è lo stesso motivo per cui tu non puoi uscire di qui con i capelli bianchi, giocare con la telecinesi in mezzo alla strada o provocare… acquazzoni geolocalizzati perché ti senti triste.» ribatte l'uomo spigliato mente Kobik mette su il broncio, nonostante afferri il concetto fondante dietro la predica – zio Steve aveva il permesso di riprenderla, per gentile concessione di James che a volte si pentiva di essere più permissivo di quanto fosse lecito. «Possiamo sembrare spaventosi agli occhi delle persone che non ci conoscono, e se vogliamo rispetto dobbiamo essere i primi a dimostrarlo.»

«Mama e Papo si divertono.» ribatte Kobik cocciuta, unicamente per rispondere con lingua affilata all'editto emanato dallo zio, che a discapito di tutto e tutti continuava a tenere in piedi l'intera baracca da quando Stark si era ritirato in pensione. 

«Mama e Papo non ricevono onorificenze da nessun Sindaco, prendono ordini direttamente da Fury e da Ellis.» asserisce Steve senza demordere, indicando il televisore a supporto della propria tesi. «Si divertono a farsi sparare addosso, motivo per cui la CNN non parlerà mai di loro.»

«Non ho comunque sonno.» brontola Kobik punta sul vivo replicando al suggerimento inespresso, distogliendo lo sguardo dallo schermo iniziando a giocherellare con l'orlo della divisa rossa e blu dell'orsetto, richiamando l'attenzione dello zio sulla stoffa. 

«Quello dove l'hai trovato? Non ne vedevo uno dal '44.» ride Steve puntando lo sguardo sul Bucky Bear che lei si stava stringendo al petto. «Baloo che fine ha fatto?» 

«È arrivato stamattina al Complesso con la posta… e Bucky-Bear mi piace di più di Baloo.» spiega stringendosi tra le spalle con un gesto di noncuranza. 

«Sappi che sparisce appena Bucky rimette piede dentro casa.» ci tiene a sottolineare Steve con un sorriso malcelato sulle labbra. «Lo detesta.»

«Per questo Talia me l'ha fatto tenere e non l'ha rivenduto subito su eBay.» confessa Kobik divertita, facendo scoppiare a ridere Steve di nuovo mentre quest'ultimo chiede retorico dove Romanov reperisse la volontà e le forze per trovare sempre nuovi pretesti per cui bisticciare con James, requisendo il controllo del telecomando trovando il canale di Cartoon Network nel frattempo. 

Kobik non sa a che ora imprecisata della notte "Billy e Mandy" abbiano perso la loro attrattiva facendola precipitare nel mondo dei sogni, ma il svegliarsi raggomitolata sul divano sotto una coperta leggera con il profumo di uova e pancetta lasciate a sfrigolare in padella rientrava al quarto posto nella sua personale classifica di "amabili novità".

«'Giorno, è quasi pronto da mangiare.» annuncia Steve ad alta voce dalla cucina quando avverte il rumore dei cuscini precipitare a terra, incespicando assonnata fino al tavolo ed issandosi sulla sedia nel momento esatto in cui lo zio le piazza il piatto sotto il naso con aria soddisfatta. «La tua colazione è felicissima di vederti.»

Kobik sopprime una risata sentita di fronte alla faccina sorridente formata dalle due uova sode e dal bacon, punzecchiando la pancetta abbrustolita con fare svogliato. 

«Non è una buona giornata.»

«Così migliora almeno un pochino?» chiede Steve piazzandole davanti lo schermo del cellulare aperto sulla chat con Natasha, ingrandendo la foto di James addormentato sulla branda del Quinjet. «Tra un ora e mezza atterrano al Complesso.»

«Quindi è davvero tutto okay stavolta.» si stupisce la piccola, palesando la diffidenza che la inseguiva dalla sera prima. 

«Mangia, vestiti e poi ci facciamo un bel giro in moto fino all'Upstate.» la liquida lo zio senza darle conferma, requisendole il cellulare prima che lei possa notare qualche dettaglio sconveniente, sedando la propria paranoia fidandosi della calma piatta che si rifletteva negli occhi sereni di Steve – è questione di attimi prima che Kobik ripulisca il piatto fino a farlo risplendere come uno specchio, catapultandosi in camera arraffando i primi quattro stracci che le capitano in mano quando apre il proprio armadio, presentandosi sulla soglia di casa alla velocità della luce vestita di tutto punto con tanto di scarpe allacciate perfettamente con il velcro, protendendo le mani in direzione del secondo casco che Steve conservava nella sella della Harley. 

Forse il problema è che suo zio era quello che sapeva gestire meglio le proprie emozioni a differenza del resto della sua famiglia adottiva, emanando un'aura alimentata a colpi di speranza ed ottimismo che consumava tutti i suoi demoni prima che provassero a raggiungere la superficie… e, a conti fatti, è sicuramente quello il motivo per cui Kobik si sente tradita nel profondo quando percepisce il cataclisma che imperversa nell'ala medica solo una volta raggiunto il parcheggio interrato del Complesso due ore dopo, materializzandosi quattro piani più in alto nel giro di un battito di ciglia, piombando nel bel mezzo della confusione più totale. 

Steve era stato veloce nel requisirle il telefono perché non notasse la cannula della flebo ed i muscoli contratti dagli spasmi che scuotevano James dalla testa ai piedi… il quale ora gridava spaventato dai fantasmi generati dalla febbre alta, demoni così caotici che Kobik riusciva a vederli anche senza entrargli nella testa, appiattendosi contro il muro per non inciampare nelle ombre di uomini in camice armati di aghi e bisturi che si precipitavano incontro al tavolo operatorio per fare suo padre a fette – il Dottor Banner nel frattempo ragionava ad alta voce chiedendosi come fosse umanamente possibile tollerare la febbre a quarantadue gradi, spingendo a forza James contro il lettino mentre le vene del collo e degli avambracci gli si coloravano di verde smeraldo, individuando una Natasha agitata intenta a preparare i sedativi all'altro lato della stanza… e Kobik reagisce d'impulso, saltando in avanti riassembrandosi a carponi sopra lo stomaco di James, contravvenendo agli ordini di stare alla larga dal suo cervello sguazzandoci dentro fino a trovare il pulsante di spegnimento, dissolvendo all'istante i fantasmi incorporei creati dalla psicosi trovando il volto della sua mamma nella moltitudine scomparsa urlando furente che ciò che aveva appena visto non era solo "febbre". 

«Shh, va tutto bene. Va tutto bene, adesso.» sussurra Natasha con le labbra premute al suo orecchio dopo aver attraversato la stanza di corsa per abbracciarla, coprendole le mani con le proprie dopo avergliele chiuse a pugno per farla smettere di fremere, bisbigliandole parole dolci fino a quando anche i vetri delle finestre avevano smesso di tremare. «< Cosa hai visto, моя дорогая >?» 

« < Aghi. Tanti, tanti aghi. > » era stata l'unica cosa che Kobik era riuscita a bisbigliare con voce ancora venata dal panico, interrompendosi quando la mano destra di James si àncora al polso di Natasha ed inizia a chiamarla brontolando nel sonno indotto con tono agitato, il respiro nuovamente irregolare come se fosse in atto una seconda crisi nonostante lei fosse intervenuta per "spegnerlo" manualmente solo qualche minuto prima. «Talia…»

«Lo so. Va tutto bene Kobik, davvero.» afferma la donna accarezzandole una guancia con la mano libera, spezzando il contatto visivo dopo aver ottenuto un suo breve cenno della testa, sentendosi prelevare di peso da Bruce mentre Natasha si china su James premendo la fronte contro la sua. «Shh, sono qui Yasha. < Calmatiriconoscimi >

Kobik vede con estrema precisione il momento esatto in cui James avverte il profumo di Natasha, rilassandosi di colpo ed aumentando la presa al suo polso per non lasciarsi sfuggire il contatto da sotto i polpastrelli di carne – viveva con loro ormai da tre anni, ma la bimba continuava a non capacitarsi degli effetti calmanti della fragranza della sua mamma sul suo papà, con quel mix narcotizzante ed ipnotico di lavanda e vaniglia, condito con due gocce di Chanel… i suoi genitori adottivi ci scherzavano sopra a volte, Natasha si vantava sempre di profumare come la "donna più bella del mondo", sorridendo deliziata quando James ribadiva il fatto che quel primato le si addiceva comunque anche nel caso lei si fosse trascinata dietro l'olezzo di una discarica, beccandosi un calcio agli stinchi ogni volta che si lasciava sfuggire la proposta di una doccia condivisa per far fronte al problema del tanfo in presenza della figlia. 

C'erano volute un paio di ore prima che Bruce scoprisse che avevano iniettato a James una dose di anticoagulanti tale da impedire la rimarginazione delle ferite, rivelando lo scempio di cerotti e bende che gli ricoprivano la schiena quando zio Steve aveva aiutato il dottore a sfilargli la maglia a peso morto, disinfettando i fori dei prelievi lungo la colonna vertebrale ed in corrispondenza delle vene principali, sospirando tutti sollevati quando il vaccino al patogeno estrapolato da Yelena un paio di giorni prima aveva iniziato a fare effetto ripristinando pian piano i tessuti – Natasha a distanza di ore continuava a non capire come il marito fosse riuscito ad uscire a calci e morsi dal laboratorio, avviare la chiamata d'emergenza e rifugiarsi in un edificio sicuro finché non era arrivata lei a tirarlo in salvo… considerate le condizioni in cui versava, forse la risposta alle sue domande era l'adrenalina, oppure il merito era da attribuire solamente alla testa dura di James. 

Natasha, Steve e chiunque aveva avuto la tempra di provare a litigare con una bimba di sette anni – infuriata con i suddetti adulti e preoccupata a morte per l'uomo che, in quel preciso istante, considerava più come un dio che un padre –, avevano fallito miseramente nel vano tentativo di farla uscire dall'infermeria, gettando tutti le armi quando Natasha aveva finalmente ceduto a patto che "facesse la brava" e Kobik, fiera ed imbattuta, era finita per trascorrere l'intera giornata appollaiata ai piedi del letto di James a fare la guardia – ai demoni che dormivano sotto il leggero velo del sonno, alle ombre dei fantasmi che popolavano i ricordi più recenti, ai mostri sotto il letto veri e immaginari, ma soprattutto agli aghi e le fiale di Bruce. 

Era ormai notte fonda quando Kobik si era ufficialmente acclimatata contro il fianco destro di James, l'orecchio premuto contro il suo sterno ed il braccio libero di circondargli il busto senza scontrarsi con l'arto di metallo – Natasha gli aveva tolto la protesi ancora a bordo del Quinjet, Bruce non gliela aveva rimessa per non incorrere a possibili complicanze –, cullata dalla rinnovata calma piatta della sua mamma, addormentata nella poltrona affianco alla branda, speculare allo stato di pace narcotica in cui naufragava il suo papà, privo di qualsiasi tipo di incubo per merito suo che ne rimuoveva ogni traccia prima ancora che se ne potesse formare uno. 

Kobik viaggiava già in un limbo di dubbia dormiveglia quando il gomito sotto la sua spalla si era piegato ed una mano callosa era giunta assonnata a pettinarle la frangetta, precipitando in uno stato di sonno profondo quando James rinviene giusto il tempo per premerle le labbra contro la fronte augurandole la buonanotte – se si concentra Kobik può illudersi di essere ancora tra le pareti azzurre della propria cameretta a Parigi, sotto una serena costellazione di plastica luminescente… ma la fantasia appena formulata le scivola come acqua tra le dita, inghiottita da un'onda soporifera. 





 

Note:

1. X-men citati: Scott Summer AKA Ciclope, Clarice Ferguson AKA Blink, Hank McCoy AKA Bestia e Charles Xavier. Logan (Wolverine) si è guadagnato l'epiteto di "zio" ancora nel '46 da Natasha quando sono scappati dal Dipartimento X la prima volta, Kobik si adatta di conseguenza. 

2. Specifichiamo le manipolazioni genetiche una volta per tutte: si definiscono "mutanti" coloro che in situazioni di stress o squilibri emotivi innescano il "gene x", presente nel corredo genetico già alla nascita, il quale può attivarsi come no (è pur vero che esiste una scuola di mutanti, ma in genere se uno non viene traumatizzato da piccolo può vivere la sua intera vita convinto di essere un semplice essere umano). Il ceppo degli Inumani invece nasce dall'esposizione alla "terrigenesi", una sottospecie di gas che se viene assimilato correttamente dall’organismo dona capacità “super”, oppure può uccidere all'istante se uno ha la sfortuna di avere un sistema immunitario debole (Quake, Yo-yo, Black Bolt e Medusa, per farvi alcuni nomi). Poi ci sono i "potenziati" che diventano "super" dopo essere entrati in contatto con sieri, parassiti, patogeni, radiazioni (circa tutti gli Avengers e i F4). Una condizione clinica non preclude le altre, tipo i gemelli Maximoff sono sia "potenziati" sia "mutanti", in breve, i test in laboratorio hanno scatenato il gene x. 

   
 
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