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Autore: DanceLikeAnHippogriff    09/10/2020    0 recensioni
Una normalissima gita in mezzo alla natura condurrà quattro studenti universitari in uno strano anfratto di mondo, fin troppo vicini a una realtà che non dovrebbe poter esistere nella nostra dimensione.
Genere: Angst, Comico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tirarono un sospiro di sollievo quando i rami del boschetto si diradarono, permettendo agli ultimi raggi di sole di abbagliarli. Si presero un momento per assaporare il loro ritorno alla civiltà: erano sbucati in un piccolo porto e il rumore delle macchine si sentiva forte e chiaro, non più attutito come durante la discesa.

Si rimisero di nuovo in cammino seguendo il cartello che segnalava “Portopiccolo”, costeggiando un muro d’edera che si estendeva fino agli alberi che costellavano l’inizio del pendio da dove erano scesi poco prima. Era una visione surreale, un’onda verde e selvaggia che stringeva in una morsa lenta e inesorabile roccia e radici e tronchi, come a voler inglobare la realtà stessa. Il gruppo si mosse in reverenziale silenzio davanti a quello spettacolo, mormorando qualche parola su come sembrasse un portale per raggiungere mondi incredibili e sconosciuti.

Girata l’ultima curva, con il rumore delle onde che lambivano la spiaggia di sassi nelle orecchie, si ritrovarono davanti la strana cittadina di Portopiccolo. Risultato di un desiderio di voler riutilizzare una cava abbandonata, le case si perdevano a perdita d’occhio inerpicate lungo la montagna, scavata come se un gigante avesse avuto voglia di assaggiare la costa e se ne fosse andato, deluso. Ciò che rimaneva, era Portopiccolo. Case ammassate, viuzze tortuose e simmetriche, barche a vela ormeggiate a un porticciolo. Il tutto aveva un’aria terribilmente asettica.

Il silenzio venne interrotto solo da una sgommata improvvisa, e i quattro si tolsero dalla strada con un urletto per evitare di essere investiti da un macchinone nero che si allontanò in tutta fretta, sparendo dietro la curva.

Poi, l’unico rumore tornò ad essere quello delle onde del mare, intervallato di tanto in tanto con lo stridio di un gabbiano solitario.

Di tacito accordo, il gruppetto si diresse verso le case seguendo la strada, decisi ormai ad esplorare quel posto ora che ci erano arrivati dopo tanto camminare. E poi, il sole li stava per abbandonare e sentivano un bisogno sempre più pressante di chiedere informazioni per tornare alla strada principale. Per quanto il paesaggio fosse indubbiamente bello, non li stuzzicava l’idea di rimanere bloccati in un posto che non conoscevano. Non quando avevano in programma una cena così appetitosa e l’appuntamento di San Valentino a quattro più soddisfacente della storia!

La strada passò gradualmente da cemento a lastroni di pietra liscia e immacolata, e Federica puntò a passo sicuro verso la piazza che iniziava ad aprirsi di fronte ai loro. Dove c’è una piazza ci sono negozi e dove ci sono negozi ci sono persone. Se non clienti, almeno commessi. Perché, di fatto, sembrava che quel posto fosse nient’altro che un guscio vuoto. A eccezion fatta per la macchina che se l’era filata a tutta birra poco prima, non avevano ancora incrociato una singola persona.

Lanciarono un’occhiata distratta agli alti alberi maestri delle barche, dritti e fieri nella loro perfezione immacolata, che si stagliavano bianchi contro il cielo in fiamme. La loro presenza li rassicurava. In qualche modo dovevano pur essere arrivate lì quelle barche, quindi c’era speranza che i proprietari, una volta trovati, avrebbero saputo indirizzarli verso la loro tanto agognata Trieste.

Antonia puntò il cartello che indicava la piazza e ridacchiò: “Questa piazza si chiama Piazza. E quella via? L’avete vista?” Indicò una via porticata che si perdeva alla loro destra, portando al lungomare. “Si chiama Porticato!”

“Che noiosi…” Le fece eco Federica, guardandosi intorno. “I ricchi non sanno proprio divertirsi. Tutto apparenza e niente sostanza. Questo posto ne è l’esempio lampante.” Scrollò le spalle, sospirando, e si sistemò lo zaino sulle spalle con un piccolo saltello.

Attraversarono la piazzetta e si fermarono davanti a un piccolo bar, la cui vetrata illuminata gettava ora un rettangolo di luce aranciata sulla pietra bianca. La signorina all’interno rivolse loro un sorriso smagliante, sventolando una mano in saluto.

“Come posso aiutarvi, ragazze?” Si poggiò con i gomiti al bancone, sfoggiando un sorriso ancora più luminoso di quello precedente.

“Volevamo sapere come potevamo tornare alla strada principale da qui.” Le spiegò Federica.

“Semplicissimo. Abbiamo un ascensore che porta fino all’ultimo piano del parcheggio. Da lì, si sale a piedi e si raggiunge la strada. Questione di pochi minuti.” Per buona misura, inclinò leggermente la testa di lato in un gesto che doveva risultare rassicurante, indicando loro la direzione dell’ascensore con la punta del dito. “E potrete tornarvene a casa senza problemi.” Poggiò lo straccio che aveva nell’altra mano e si affannò per uscire, le guance gonfie in maniera quasi teatrale. “Ecco, ecco, scusatemi. Da quella parte, vedete? Potete anche prendere le scale, sono oltre l’ascensore, ma vi consiglio caldamente di prendere l’ascensore vista la vostra situazione.” Accompagnò le ultime parole con un’occhiata eloquente, ma nessuna di loro capì a cosa si stesse riferendo. All’ennesimo sorriso melenso, la tentazione di distogliere lo sguardo da lei era ormai forte.

Quindi, si limitarono ad annuire e ringraziarono la commessa, avviandosi verso la direzione loro indicata. Già pregustavano la meravigliosa sensazione di relax alle gambe quando si sarebbero sedute in autobus.

Rachele si fermò di botto, gli occhi sbarrati.

“Ma Gabriele dov’è?”

***

Passò la mano sulle pareti ruvide degli abitati, le gambe che lo spingevano a salire in alto, sempre più in alto, guidandolo attraverso vicoli e strade che la sua mente non conosceva. Ma il suo corpo, stranamente, sì. La cosa non fece nascere alcun tipo di domanda dentro di lui. Si limitò a seguire quel filo invisibile che sembrava tirarlo dall’ombelico, riavvolgendolo per portarlo alla matassa, alla sua origine.

Si sentiva preso come da una malata euforia che cresceva in lui, ribollendo come schiuma, annebbiandogli il buon senso. Era sordo a ogni stimolo, le dita che tracciavano linee invisibili sui muri non sembravano percepire più la realtà. Era staccato da tutto. Era tutto.

Fece scivolare la mano vicino a innumerevoli campanelli tutti uguali, tutti senza nome, tutti nuovi, tutti terribilmente vuoti. Ogni passo era uguale, ogni via era uguale, ogni casa era uguale. Anche lui era lo stesso?

Sentì un brivido percorrergli la spina dorsale e accoccolarsi alla base della nuca. Il sole gli abbracciò il corpo con gli ultimi raggi morenti, spegnendosi nel mare.

Un sorriso beato gli si dipinse sulle labbra ed esalò un sospiro di liberazione, i passi che lo portavano inesorabili verso il bordo della terrazza panoramica. Forse, abbandonarsi a quell’impulso era l’unica via d’uscita.

***

“GABRIELE!” Urlò Antonia, e prese la rincorsa tirandogli uno scappellotto in volo.

“Gaaaab, ma si può sapere dov’eri finito e come ci sei arrivato qui?!” Esclamò Rach, raggiungendo gli amici sulla terrazza. “Ti abbiamo cercato dappertutto.”

“Avvertire no, eh?” Borbottò Federica, uscendo per ultima dall’ascensore, che aveva aperto le porte proprio sulla terrazza.

“Volevo scattare qualche foto col tramonto.” Disse Gab, come se fosse una spiegazione più che ovvia per la sua sparizione improvvisa. “E poi volevo tornare indietro per andare a vedere il porto. E poi mi sarebbe piaciuto passare anche per di là, secondo me ci farei delle foto bellissime.”

“Scordatelo.” Disse Fede, incrociando le braccia al petto. “Il sole è tramontato e tra poco farà buio e la tipa del negozio ci ha detto che comunque ci si mette un po’ a risalire a piedi, anche con l’ascensore.”

“Ah, c’era un ascensore?” Gabriele sbatté le palpebre, lo sguardo leggermente annebbiato.

“C’era un cartello ENORME con scritto ‘ascensore’, Gab, mi sembra strano che tu non l’abbia visto.” Ribatté Anto.

“È più bello farsela a piedi.” Sorrise lui, serafico.

“Beh, adesso che ti abbiamo ritrovato, capretta sperduta, possiamo anche iniziare a tornare, no? Ho fame…” Si lamentò Rach, iniziando a trascinarsi verso l’ascensore.

“Giusto, non ho voglia di perdere altro tempo in questo posto. È così vuoto e pulito e ordinato…” Disse Anto, fingendo un conato di vomito. Poi, poco prima di salire, aggiunse: “E quella signora era fin troppo gentile.”

Federica annuì, pensosa, e premette il bottone del quarto piano, l’ultimo. “Era decisamente strana.”

Le porte si richiusero alle loro spalle con un rumore ovattato e l’ascensore iniziò a salire, ronzando lievemente. La breve ascesa venne accompagnata da una serie di bip sommessi la cui provenienza non riuscirono a indentificare. Scesero in silenzio, guardandosi attorno cauti. Ogni persona un bip.

A quanto pareva, il quarto piano si apriva sul parcheggio coperto. Peccato che le uscite fossero sbarrate da grandi saracinesche di ferro. Da lì non sarebbero sicuramente potuti uscire. I quattro si scambiarono occhiate tra l’irritato e lo sconsolato e si arresero a tornare verso l’ascensore per fare un nuovo tentativo nei piani inferiori. Avrebbero dovuto camminare più a lungo, forse, ma almeno avrebbero raggiunto la strada principale. Dalla saracinesca, infatti, si intravedeva il percorso che portava su per la vecchia cava fino a sopra la costa.

Rachele pigiò il bottone di chiamata, che si illuminò di un pallido arancione. Ma le porte non si aprirono.

La ragazza sbatté le palpebre, confusa. “Reghi, ma… non dovrebbe essere già qui se siamo scesi poco fa?”

“Forse l’ha chiamato qualcuno?” Propose Gabriele.

Un brivido serpeggiò nel gruppo. L’eventualità che ci fosse qualcun altro in quell’enorme parcheggio immerso nella penombra non era qualcosa che le loro menti volevano considerare al momento. Per buona misura, Rachele pigiò di nuovo il bottone nell’infantile speranza di riuscire a velocizzare l’arrivo di quella tanto sospirata lattina semovente. Come previsto, non servì a niente. I cavi continuavano a ronzare incessanti e loro rimanevano bloccati in quel parcheggio senza via d’uscita.

“Anche se dovessimo rimanere qui, non è poi così male.” Esordì Gab, scrollando le spalle. “A me non dispiace come posto.”

“Ma scherzi?” Risposero le tre quasi in coro, girandosi verso di lui.

“È ordinato, silenzioso ed esteticamente bello.” Si giustificò Gab.

“Sei un alieno come loro, Gab.” Federica assottigliò lo sguardo, guardinga. “È l’unica spiegazione possibile. Come ti potrebbe piacere questo posto, altrimenti?”

Rachele e Antonia si scambiarono un’occhiata di assenso e riportarono lo sguardo sull’amico, che le fissava con una strana calma nel volto. Una calma così penetrante. Così glaciale. Ci si poteva quasi perdere. Ci si poteva quasi lasciar convincere da quelle parole. Da quel sorriso così gentile.

Poi, l’ascensore arrivò e infranse quell’atmosfera con un ding.

 


 

 

Note dell'autrice: Nonostante le mie azioni dicano il contrario, non ho affatto abbandonato questo mini-progetto...! Infatti, eccomi con il TERZO capitolo di questa storiella, aggiornata giusto in tempo per il MESE DI HALLOWEEN <3

Spero che vi siate gustati la lettura...!

  
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