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Autore: Aerius    16/10/2020    1 recensioni
"La scultura quindi si divise a metà, per poi rientrare totalmente nella roccia, sparendo completamente e lasciando solo i due scintillanti occhi di stalhrim che spandevano una luce sanguigna nella sala interna, ampia e con enormi stalattiti e stalagmiti che come colonne aprivano una strada di pietra verso un altare. E su quell’altare, vi era un sarcofago intagliato nella roccia con volute e triskele e draghi che si intrecciavano in un arabesco meraviglioso lungo i lati e sopra di esso. Davanti, un pesante menhir con rune antiche che la luce mistica del Dunmer illuminò debolmente mentre il rumore dell’acqua e della condensa era l’unico udibile in quel luogo sotterraneo. Ed in quel silenzio, il rumore di passi pesanti e stivali di ferro si fece più vicino."
[ Prima storia che pubblico nella sezione, personaggi originali con solo accenni/rimandi ad altri personaggi ricorrenti nella saga! Si svolge idealmente in un periodo successivo all'avvento dei Draghi e del Sangue di Drago! Auguro a tutti buona lettura! ]
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry
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Note dell'Autore:
 Breve introduzione doverosa, soprattutto per via della Lore immensa che circonda questa serie di videogame che, personalmente, ho sempre amato! 
 Tuttavia non è assolutamente mia intenzione in questa sede essere troppo rigido sugli eventi canonici, che ho talvolta preferito piegare ai fini di una narrazione più scorrevole e piacevole (o almeno così spero!) e per costruire attorno ai due personaggi principale una storia organica senza dovermi inceppare per quello o l'altro motivo!
 Inoltre, sebbene talvolta faccia riferimento a personaggi ricorrenti nella serie, non sono assolutamente da prendersi IC, anzi, ne ho dato una versione piuttosto romanzata e talvolta persino parziale! Lo stesso vale per eventi storici o salienti, anche in questo caso talvolta parzialmente modificati ai fini di una narrazione piacevole! Nulla di ciò che ho scritto è da considerare canon, ma solo una mia personale interpretazione!
 Per il resto, ci tengo a precisare che il personaggio di Nerissa, uno dei due protagonisti di questa storia, non mi appartiene e ringrazio il suo creatore della gentile concessione per il suo utilizzo!


 Detto ciò, buona lettura!





4 Era – Anno 291
Con un gesto gentile, la Sciamana afferrò il polso della Khajiit ed auscultò il cuore ruotando una delle grandi orecchie da felino verso il torace. Contò i battiti, mormorandone il numero a labbra chiuse. Quindi alzò una mano e andò a tastare il collo e l’addome, in cerca di sintomi e certezze che apparentemente solo lei poteva vedere.
Poi si rialzò dalla posizione accucciata dove si trovava, spolverando via quel poco di sabbia che le si era appiccicata sulle ginocchia ed uscì dalla tenda di pelli, chiudendo i lembi dietro di sé.
All’esterno, seduto su una roccia a braccia incrociate, attendeva un Dunmer con un’espressione risoluta sul viso giovane e grigio. Gli occhi rossi scrutavano l’anziana sapiente di fronte a lui, appena uscita dalla tenda, occhi su cui gravavano molti più anni che non in quelli sottili e felini della Sciamana che ora si avvicinava cautamente all’elfo.
«Non ha nulla, Jo’Zephyr.» rivelò la Khajiit, scuotendo le spalle.
L’elfo si incupì «Ieri a caccia ha avuto un malore.» rivelò, con il tono di chi ripete quell’informazione per l’ennesima volta «All’altezza del cuore. E al momento di dare il colpo di grazia, il suo braccio è vacillato e per poco non si trafiggeva una zampa.»
La Sciamana emise un sospiro, che suonò simile ad un basso miagolio, e si avvicinò al bivacco al centro del campo, sedendosi di fronte al fuoco.
L’accampamento era grande, almeno una ventina di tende di ogni misura, alcune talmente piccole da farci stare al massimo uno o due occupanti, altre abbastanza grandi da contenerne una trentina con facilità, costruite con pelli sostenute da tralicci di legno e paletti in metallo ormai consumato dal tempo.
Da una saccoccia alla vita, la Sciamana prese alcune erbe che gettò nel fuoco. Un aroma gradevole si sparse nell’aria. Il Dunmer continuava a guardarla, come in cerca di altre risposte.
«Che vuoi che ti dica, Ahnurr’Zephyr?» chiese lei con un sospiro sconfortato.
«La verità.» rispose lui, alzandosi in piedi.
«La sai già, la verità.» gli rispose lei, con un ghigno triste «A volte… penso che voi Mer non viviate più a lungo di noi, no… semplicemente il vostro tempo su Nirn è dilatato.» la Khajiit ridacchiò ancora «La vostra infanzia e adolescenza dura di più.»
L’elfo ringhiò, infastidito «Di norma, gli enigmi mi stimolano, Ra’Kendra…» mormorò, fissandola con espressione ferma e gelida «…ma non ora. »
L’altra emise un lungo e seccato mormorio indistinto. Sembrava gli costasse estrema fatica dire quelle parole.
«Sta invecchiando.» disse la Sciamana, seccamente «Ha novant’anni, che ti aspettavi?»


«Mi aspettavo meno guardie.» ammise il Dunmer, gettando un’occhiata oltre il bordo. Dal suo nascondiglio privilegiato sul tetto, poteva notare ogni movimento dei soldati disposti sul piccolo cortile di ciottoli e marmo sotto di lui. La sua fonte lo aveva informato di quattro soldati di pattuglia lungo i quattro porticati del cortile, ma lì ne contava almeno otto.
Se prima considerava di passare di soppiatto sotto il naso dei soldati, ora stava pianificando qualcosa di simile ad un diversivo. Un ribaltamento di piani che ai suoi complici non sarebbe piaciuto affatto.
Arretrò con attenzione senza far rumore sulle tegole, per riunirsi agli altri due che lo attendevano qualche metro più indietro, nascondendo la loro impazienza dietro i cappucci grigi con il simbolo alato della Gilda dei Ladri visibile su di essi. Un terzo elemento era due metri più indietro ancora, riconoscibile per la pezza rossa con una mano nera impressa su di essa cucita all’altezza del cuore.
Sempre silenzioso e distante almeno un paio di metri da loro, l’Assassino non faceva caso alle occhiate di malcelato disprezzo o paura che i due Ladri talvolta gli rivolgevano. Sembrava perfettamente a suo agio relegato in un angolo della loro piccola e strana banda.
«Ci sono almeno sei soldati che pattugliano il porticato, tre fermi agli angoli verso nord, altri tre che si muovono lungo i lati.» li informò Zephyr, con un sussurro. Il Dunmer si guardava attorno in ogni momento, anche in una zona di apparente calma come quella.
Nessuno va mai a controllare i tetti.
«Altri due sono fermi di fronte all’ingresso della sala grande.» terminò di parlare, per poi osservare le reazioni sui visi degli altri tre.
La Ladra ringhiò infastidita sotto il cappuccio. Era un’Argoniana rude e diretta, e per questo il Dunmer non si stupì quando la sentì dire una feroce bestemmia in Jel, l’attuale linguaggio parlato a Black Marsh.
«E noi ovviamente dobbiamo passare per la sala grande, vero?» mormorò l’Argoniana con voce raschiante e cupa, emettendo lampi d’odio verso Zephyr che annuì senza far caso a quelle occhiate omicide.
L’altro Ladro, un Khajiit sottile della stirpe Suthay, sorrise sotto la maschera, sebbene senza divertimento «R’Jerzi crede che la sua compagna sia troppo pretenziosa. Ti lamenti sempre, sia quando è troppo facile, che quando è troppo difficile.»
L’Argoniana emise un verso sottile, un sibilo violento e feroce verso il Khajiit.
«Silenzio.» ringhiò Zephyr «Garantito che se verremo scoperti a causa dei vostri battibecchi, la Gilda ne verrà informata e il vostro onore infangato molto prima che il boia vi spicchi la testa dal collo.» spiegò, con calma glaciale «Ricordatemi perché Volpe Grigia mi ha affibbiato proprio voi due, fra i tanti agenti che aveva a disposizione.»
Il Khajiit sorrise, mostrando un’ampia chiostra di zanne lucide sotto il cappuccio oscuro «Perché R’Jerzi è il miglior scassinatore della Gilda, ovviamente, oltre che il più bello.» si vantò, con un sussurro seguito da un lieve rumore di fusa «E perché la lucertola qui è brava a trovare le porte.» aggiunse, come se fosse una cosa di poco conto e totalmente superflua.
L’Argoniana ringhiò di nuovo «Sono la più preparata su passaggi segreti e nascosti che potrai mai conoscere, imbecille!»
Con un movimento perfettamente sincronizzato e contemporaneo, il Dunmer schiaffeggiò entrambi i quali lo guardarono con espressione esterrefatta.
«Mai speso meglio i miei soldi.» borbottò, per poi voltarsi verso la terza figura fino ad ora rimasta in disparte. L’Assassino faceva onore al suo retaggio, silenzioso e perfettamente immobile, invisibile per chiunque, forse persino per loro.
«Quanti ne puoi uccidere senza farti scoprire?» chiese all’agente della Confraternita Oscura il quale gli rivolse un’occhiata gelida da sotto il cappuccio nero. Era un umano con profondi occhi azzurri e pelle estremamente pallida, ma quale fosse il suo retaggio era difficile immaginarlo, poiché era poca la pelle visibile e teneva capelli e sopracciglia accuratamente coperte nell’ombra del cappuccio.
Rivolse a malapena un’occhiata alla corte interna visibile dal tetto, poi tornò a voltarsi verso il Dunmer, emettendo il suo giudizio con voce bassa e profonda «Tre. Poi un quarto scoprirebbe il cadavere del primo e si renderebbero conto della mia presenza. A quel punto la loro disposizione potrebbe cambiare e non posso garantire che il mio operato non metta in allarme l’intero edificio.»
Annuendo, Zephyr chiuse gli occhi tornando ad osservare il cortile sottostante «Voglio che uccidi i due di guardia alla porta.» decretò infine «R’Jerzi e Scorre-con-la-Luna verranno con te. Scortali all’interno dell’edificio. Io mi occuperò del diversivo.»
«E se la porta è chiusa?» domandò l’Assassino, senza battere ciglio. Era quasi anomalo quanto a lungo riuscisse a fissare una persona senza dover chiudere gli occhi una sola volta.
«Le chiavi le dovrebbero avere i due di guardia.» analizzò rapidamente «E se così non fosse, hai il miglior scassinatore della Gilda dei Ladri con te. Quello che conta è che voi arriviate alla sala grande. Una volta dentro, aspettatemi.»
Si alzò in piedi, estraendo alcune ampolle dalla cintura e dirigendosi verso il bordo del tetto «Avete i vostri ordini, ora datevi da fare.» quindi un piccolo salto e atterrò nel cortile sottostante. Nessun rumore dalle guardie, nessuna gutturale parola in Nordico. Nessuno lo aveva notato.
Silenziosi come le ombre che erano addestrati ad essere, i due Ladri e l’Assassino scivolarono oltre, discendendo in assoluto silenzio nell’acciottolato sottostante e rapidamente rifugiandosi nelle arcate di legno che delimitavano il cortile, intagliate con draghi e complessi simboli e rune, com’era nella tradizione Nord, mentre alte mura di pietra ora si alzavano attorno a loro.
I passi pesanti degli stivali di ferro delle guardie iniziarono a scandire il silenzio della notte e divennero come un orologio mentale nella testa delle tre ombre che rapide iniziarono a muoversi secondo la consumata pratica del silenzio e dei movimento eseguiti all’ombra di altri gesti. Divennero le ombre di quelle guardie, visibili appena dietro la coda dell’occhio eppure per questo invisibili a chiunque.
Superarono il cortile, passo dopo passo, dietro le schiene delle guardie, ampie e coperte da spesse armature, finché l’ombra più nera fra i tre si distaccò da loro, iniziando a strisciare lungo il muro, e nel momento in cui altri sei paia d’occhi ignari si voltavano da un’altra parte, l’ombra si alzò, saltò, e in assoluto e inquietante silenzio piantò due coltelli sul retro dei colli delle due guardie alla porta.
E in quel momento, si udì un boato terribile provenire dalla direzione opposta, in prossimità di quelli che erano gli alloggi delle guardie, che rapide si voltarono in direzione del frastuono ed imbracciarono le armi.
«Tu e tu!» disse una guardia, con voce pesante velata d’ansia «Rimanete nel cortile. Gli altri, con me!» alzò l’arma al cielo, seguito dagli altri tre, che andarono con lui, lasciandolo solo due guardie nel cortile.
E all’improvviso, una delle due guardie emise un gorgoglìo strozzato, ed un’ampia ferita gli si aprì sul collo. Provò a portarsi una mano alla giugulare, vanamente per tamponare, ma non fece in tempo che crollò a terra. In quel momento, l’incantesimo illusorio cadde, mostrando alle sue spalle il Dunmer con la lama della katana sporca di sangue.
Troppo lentamente l’ultima guardia rimasta si era accorta di ciò che era accaduto. Si era voltata verso Zephyr, alzando il braccio che reggeva la spada e tirando il fiato per chiamare aiuto, ma una freccia gli si impiantò saldamente sulla tempia e cadde a terra con un tonfo sordo.
A poca distanza, l’Assassino ripose l’arco che aveva estratto non appena le guardie erano andate via.
«Avevo detto tre, mi sembra.» disse soltanto rialzandosi in piedi insieme ai due Ladri «Non sia mai che venga meno ai doni che il Padre Crudele mi ha concesso.»
«A me è sufficiente che non si facciano variazioni con il prezzo stipulato con il tuo Oratore.» fu l’unico commento del Dunmer, mentre varcò la porta, aperta dai due Ladri.
Scorre-con-la-Luna provò a guardare nel cortile, ora lurido del sangue delle quattro guardie morte, nervosa «Cos’era quel rumore? Come li hai distratti?»
«Non ti deve interessare.» disse soltanto Zephyr, proseguendo oltre e guardandosi attorno: la sala grande aveva pavimenti di pietra grigia, grandi volte in legno e ampi arazzi che scendevano dai lati, mentre in mezzo erano ordinati cinque lunghi tavoli e panche, al momento vuoti, e sopra ogni cosa un trono di pietra con ornamenti d’argento a foggia di draghi e mostri, demoni e lupi.
«Ringrazia la tua fortuna che Jarl Solvi Manto della Tempesta al momento non si trova qui. Le guardie sarebbero state dieci volte tante.» commentò, con un sorriso sarcastico sul viso grigio «Ora datevi da fare. L’entrata sotterranea che ci interessa si trova qui. Trovatela e apritela. Dopo, siete tutti liberi di andarvene via. Avrete fatto ciò per cui vi ho pagati.»


4 Era – Anno 291
I primi raggi del cocente sole del deserto fecero capolino dalle dune, già cambiate nel corso di quella singola nottata. Il deserto era sempre in mutamento e in movimento, e poteva facilmente cambiare da un momento all’altro, dal giorno alla notte. E così le dune che avevi visto il giorno prima erano solo ombre e la disposizione era in realtà molto differente.
A volte si chiedeva come facessero i Khajiit ad orientarsi in un territorio simile senza strumentazione, solo ad intuito. Lui ci riusciva solo con una bussola e un paio di accorgimenti magici.
Quella notte, il Dunmer non aveva dormito. Era rimasto a vegliare su Nerissa, seduto in un angolo della tenda, dopo averle posato sul dorso un paio di pellicce.
Aveva ascoltato il suo respiro debole e roco, i movimenti del petto e della schiena più lenti e stanchi, affaticati. E sapeva bene che era così da molto tempo… ma allora perché lo notava solo ora? Perché solo adesso, ripensando agli ultimi mesi, se non addirittura anni, vedeva quei gesti affaticati che lei si sforzava di mascherare? Quei movimenti una volta semplici, come costruire una tenda o accendere un fuoco, che ora eseguiva con terribile fatica?
E lui non aveva visto nulla, cieco di fronte all’illusione della Nerissa che aveva sempre visto giovane e amato come tale. Era troppo difficile ormai pensare ad una vita senza di lei e vederla in quello stato, anziana e non più vitale come un tempo gli stringeva il cuore.
«Il momento sta arrivando…» mormorò, chiudendo gli occhi e portandosi una mano sul viso.
«Shal’Zephyr?» lo chiamò una voce bassa.
Il Dunmer riaprì immediatamente gli occhi rossi e si avvicinò al giaciglio su cui stava riposando la Khajiit. Che cosa assurda... fino a l’altro ieri, non aveva notato nulla, non aveva visto la pelliccia ingrigita dagli anni, le rughe attorno agli occhi e la mandibola, la pelle leggermente rugosa delle mani e delle braccia, gli occhi verdi, una volta brillanti e vivi, ora più spenti e stanchi... era rimasto cieco di fronte all’avanzare dell’età.
E si odiò per questo, perché aveva giurato che sarebbe stato pronto, preparato. Che quando fosse giunto il momento, lo avrebbe accettato con serenità.
Balle.
Nessuno è mai pronto per questo momento, e lui non faceva eccezione.
«Dimmi, Ner’Isha.» le rispose, sedendosi accanto a lei ed accarezzandole il muso e il capo. Lei si accoccolò sotto le coperte, afferrando quella mano fra le sue.
Il cuore del Dunmer si strinse vedendo le mani da anziana della Khajiit stringersi attorno alle sue, ancora giovani, forti e vigorose.
«Un po’ d’acqua.» fu la richiesta di lei. Rapido, Zephyr le passò una delle borracce vicine e la accostò alla sua bocca. Dopo aver bevuto, la Khajiit tornò a distendersi con un sospiro appagato.
«Così non va bene…» mormorò lei, tenendo stretta a sé la mano del Dunmer ed accarezzandola con movimenti lunghi e dolci.
Zephyr inarcò un sopracciglio, senza comprendere «Cosa intendi?»
Lei sorrise, triste «Sto invecchiando… non si vede? Non credo potremo più viaggiare insieme.»
«Ho studiato un po’ di… magia di Recupero, potrei darti la forza per…» provò lui, sforzandosi di mantenere un’espressione controllata, ma lei lo interruppe.
«Shal’Zephyr, io non…»
«E anche alchimia, posso distillare delle pozioni, dei ricostituenti che ti rimetteranno in forze…» continuò lui, senza ascoltarla.
«Zephyr!» lo riprese, bruscamente, con un basso ringhio. L’elfo si zittì, mentre l’anziana Khajiit tornava a calmarsi e distendersi.
«Nahr.» fu la sentenza «Non è naturale, non è… quello che voglio.» mormorò lei, con voce bassa, stringendosi un po’ di più a lui «Non credevo nemmeno… che sarei vissuta così tanto a lungo. Pensavo che sarei morta molto prima, in… battaglia.» ammise, ridacchiando debolmente.
Il Dunmer rimase in silenzio, ascoltandola con attenzione.
«Ma… noi due siamo troppo in gamba. Mi hai tenuta in vita tu, tutti questi anni. Hai sempre guardato dove io non potevo, hai neutralizzato ogni minaccia invisibile a miei occhi e a mio olfatto…» annuì, come se fosse cosciente di una qualche verità che sfuggiva al Dunmer «Se non fosse stato per te, sarei morta da tempo.»
«E allora… cos’è che vuoi?» le chiese lui, stringendole la mano.
Lei gli rivolse uno sguardo carico di amarezza. Sorrideva, ma era l’espressione più triste e struggente che le avesse mai visto fare.
«Quello che ho detto. Voglio morire in battaglia.»


La lastra di pietra si richiuse dietro il Dunmer. Sebbene uno strato di roccia li separasse, poteva ancora udire i due Ladri bisticciare su come uscire dalla fortezza più sorvegliata e militarizzata di Skyrim dove lui li aveva appena condotti. L’Assassino invece probabilmente se ne era già andato, probabilmente – e sperava con tutto il cuore – a completare la seconda parte del contratto per cui lo aveva ingaggiato.
Poi rumori sopra di lui, le guardie che fanno irruzione nella sala grande e i due Ladri colti con le mani nel sacco. Urla, soprattutto di soldati che ora sanno a chi rivolgere la rabbia per i compagni morti poco prima nel cortile antistante.
E poi ovviamente un nome, il suo nome, pronunciato da entrambi i Ladri spaventati, insieme alle indicazioni, molto complesse e frettolose, su come inseguirlo.
Zephyr emise una terrificante bestemmia fra i denti, quindi scese frettolosamente le scale, pronunciando alcune parole arcane, quindi con uno schiocco di dita fece apparire un globo di innocua luce accanto a sé che lo seguì piazzandosi attorno a lui all’altezza della spalla.
Il cunicolo che stava percorrendo era scavato nella nuda roccia, con appena dei gradini intagliati a stento dove posava con attenzione i piedi. Li sentiva terribilmente scivolosi e coperti di muschio, inoltre le pareti attorno a lui trasudavano condensa e rendevano l’atmosfera umida e pesante. Ma il Dunmer notava che sotto la patina di umido e le gocce che cadevano in piccoli ruscelli dalle pareti, qualcuno aveva lavorato quella pietra, creando incisioni che ormai l’erosione infinita dell’acqua aveva cancellato quasi del tutto.
Con un grugnito infastidito si costrinse a proseguire, sentendo la temperatura calare bruscamente man mano che scendeva nelle profondità di quel luogo. Si rialzò il bavero del manto di pelliccia che aveva sulle spalle sul viso e proseguì, un passo alla volta. Alle sue spalle, sentì il distinto rumore della porta di pietra che si riapriva, quindi rumori di stivali di metallo che iniziavano a scendere i scivolosi gradini di pietra, seguiti da pesanti imprecazioni e minacce in Nordico.
Il Dunmer fece una smorfia di preoccupazione, quindi proseguì ma solo per fermarsi ad un grande portale di pietra a cui lo scultore aveva dato la forma di un enorme viso.
Alzando la luce mistica, Zephyr riuscì ad illuminare interamente il portale, che mostrava un volto fiero dai chiari tratti Nordici, con una grande barba che scendeva fino a toccare la terra e occhi severi su cui erano stati incastonate due gemme di stalhrim.
Rimane in contemplazione per un momento, ammirando quello che era a tutti gli effetti un’opera d’arte, un capolavoro probabilmente di origine Nedic, su cui non si era mai posato occhio Mer… almeno fino ad ora.
Alle sue spalle i rumori di metallo e stivali iniziavano diventare insistenti e vicini, i soldati nel scendere si urtavano e cadevano, troppo larghi nelle loro armature di ferro e acciaio per passare agilmente come aveva fatto lui, nella sua lucida armatura di malachite, comoda e leggera come una veste.
Cercando di ignorare l’ansia e la fretta che i rumori gli instillavano, da una tasca interna prese un piccolo rotolo di pelle che svolse di fronte a sé, al cui interno era riposto un piccolo pezzo di pergamena consumato e malconcio su cui erano riportate alcune rune.
Lentamente e scandendo bene ogni singola sillaba, il Dunmer iniziò a pronunciarle, compiendo alcuni segni nell’aria, rune appartenenti alla tradizione dei Sacerdoti delle Sale dei Morti, impregnando ogni gesto di energia magica che scintillò nell’aria per alcuni istanti prima di svanire, glifo dopo glifo. Erano parole oscure, grevi, grezze, appartenenti ad un’epoca primordiale dove i linguaggi erano più semplici, anche quelli dei Mer.
Gli occhi di stalhrim della porta si illuminarono, pregni ancora di magicka dopo millenni. Il Dunmer gettò a terra la pergamena, ormai inutile, per poi tirare fuori un coltello e slacciare i bracciali dell’armatura, tirandosi su le maniche.
Poi prese un respiro profondo, chiuse gli occhi e affondò la lama nella pelle grigia degli avambracci, iniziando lentamente ad incidersi la pelle, carvando rune nella carne, e ad ogni gesto, corrispondeva una parola e un’invocazione in una lingua che non gli interessava capire completamente.
Infine, posò le braccia sanguinanti là dove erano state incise le labbra del ciclopico viso. Gli occhi di ghiaccio indistruttibile si tinsero di magicka rossa, quindi con un rombo di pietra il corridoio iniziò a tremare, pietre caddero e grandi crepe si aprirono lungo i lati, mentre l’acqua della condensa si univa in rivoli che scendevano in quelle nuove aperture.
La scultura quindi si divise a metà, per poi rientrare totalmente nella roccia, sparendo completamente e lasciando solo i due scintillanti occhi di stalhrim che spandevano una luce sanguigna nella sala interna, ampia e con enormi stalattiti e stalagmiti che come colonne aprivano una strada di pietra verso un altare.
E su quell’altare, vi era un sarcofago intagliato nella roccia con volute e triskele e draghi che si intrecciavano in un arabesco meraviglioso lungo i lati e sopra di esso. Davanti, un pesante menhir con rune antiche che la luce mistica del Dunmer illuminò debolmente mentre il rumore dell’acqua e della condensa era l’unico udibile in quel luogo sotterraneo.
Ed in quel silenzio, il rumore di passi pesanti e stivali di ferro si fece più vicino.
Rapido, superò il menhir, avvicinandosi alla tomba. Sopra il sarcofago, era stata incisa la figura di un guerriero nordico, scolpita rozzamente e tuttavia era chiaro chi fosse.
«Allontanati!» gridò una voce all’ingresso della sala. Zephyr alzò gli occhi rossi dalla tomba, contando non meno di sei uomini sotto la luce rossa emessa dalle gemme di stalhrim. Rapido, si posizionò dietro il sarcofago di pietra mentre cinque di loro estraevano gli archi ed incoccavano una freccia.
«Allontanati immediatamente!» ripeté la voce del sesto uomo, ferma e severa. Dai vestiti eleganti e dalla cerchio dorato che portava sulla fronte, Zephyr intuì la sua identità.
«Jarl Solvi Manto della Tempesta.» lo riconobbe, con un sorrisetto di divertimento sul viso grigio «Non siete attento.»
Lo Jarl fece un gesto con la mano ai suoi uomini che rimasero in posizione con gli archi tesi, mentre lentamente avanzava lungo l’arcata di pietra costeggiata dalle ciclopiche colonne di stalattiti con gli occhi fissi sull’elfo «Non lo sono, dici? Eppure ti conosco. Mia nonna mi parlò di te.»
«Ah, ma certo… anche se non ebbi mai l’onore di conosce l’Orsa del Nord.» replicò Zephyr, da dietro il sarcofago, in piedi e con una mano poggiata sulla tomba, con gli occhi fissi in quelli di Solvi «Deve aver sentito parlare di me. Ma comunque rimanete molto disattento, Jarl Solvi.»
L’uomo di fronte a lui fece una smorfia d’odio verso il Dunmer «Dopo quello che avete fatto a Whiterun e alla sua amata cugina? Molto più che solo ‘sentito parlare’.»
Un rumore, di roccia che cade, si udì nella caverna. Gli uomini borbottarono, Zephyr semplicemente alzò gli occhi, ma senza muoversi.
«Sta crollando. Se ci seguirete fuori di qui senza tante storie…» iniziò a proporre lo Jarl, con un respiro pesante «…vi concederò una morte misericordiosa, e non schiacciato da massi e pietre.»
Il Dunmer sorrise, poi ridacchiò e infine scoppiò in una fragorosa risata di puro scherno «Oh, per Azura… voi Nord siete ottimi guerrieri ed altrettanto ottimi idioti. Non siete attento.» ripeté ancora, mentre il sorriso si fece affilato come una spada «Sapete dove siamo, qui?» Zephyr indicò il menhir inciso di rune antichissime «Quelle sono rune Nedic, di un dialetto risalente ad Atmora. Sapete cosa dicono?»
Lo Jarl e i soldati lo guardarono spaesati, forse più per il repentino cambio di discorso che per effettivo interesse.
«L’iscrizione dice: “Onore all’abbattitore di giganti, onore allo sterminatore di elfi, onore al primo Re di Skyrim. Che la sua ascia mai sia sazia del sangue sporco di magia, che le sue lacrime siano sempre minori dei nemici da lui abbattuti. Cinque volte cento volte onore all’ultimo Condottiero di Atmora”.» concluse, sorridendo ampiamente «Sotto il vostro bel palazzone di Windhelm avevate la tomba contenente le lacrime nere di Ysgramor, quelle versate quando vide che gli elfi avevano trucidato il suo popolo. Questo non è un sarcofago.» rivelò, indicando la roccia incisa dietro cui si era nascosto «E’ un forziere. Al suo interno sono riposte le sue nere Lacrime d’Ossidiana, cinquecento, una per ogni Compagno caduto in battaglia.»
A quella rivelazione, vide il terrore misto a stupore dipingersi sul viso degli umani, tutti e cinque, che con un gesto unico si inginocchiarono di fronte a quello che era praticamente un sacrario, reliquie del loro lontano passato. Un altro rumore di rocce, più possente, interruppe quella contemplazione.
«Stupido. Continui a non essere attento.» disse l’elfo oscuro, ora senza alcun sorriso «Pensi che ad Ysgramor interessassero gli inchini e le riverenze?» con un gesto brusco, scardinò il coperchio del forziere di pietra «Ciò che contava era il valore di un uomo. E in quell’Era, il modo migliore per mostrare valore agli occhi di Ysgramor, era offrirgli sangue di elfo.»
Di nuovo, movimenti della roccia, calcinacci e pietre iniziarono a piovere dal soffitto.
«Ed io l’ho fatto. Ho bagnato le sue labbra con il mio sangue, proprio poco fa, pronunciando le antiche formule propiziatorie dei morti. Voi, invece?» inarcò un sopracciglio, osservando quegli uomini come si fa con degli scarafaggi «Vi siete precipitati qui dentro senza chiedere il permesso. Non siete stati attenti.»
Pesanti pezzi di roccia iniziarono a cadere dal soffitto, crepando il terreno e facendo oscillare le colonne di stalattiti. Rapido, Zephyr prese qualcosa dal forziere, per poi intascarselo ed arretrare lentamente verso il fondo della caverna, osservando con un ampio sorriso e gli occhi rossi luminosi la distruzione in atto.
Altri massi caddero, sentì le urla degli uomini che disperati cercavano di riguadagnare l’uscita, sentì le urla dei soldati e delle loro armature schiacciate, sentì le urla di Solvi mentre roccia e pietra lo colpivano senza pietà. E l’unico elfo della sala, ironicamente, era salvo dietro quell’altare che a sua volta veniva ricoperto di pietra e roccia, rendendo per sempre inaccessibile il suo contenuto.
Tranne per quel singolo pezzo preso dal Dunmer che rapido si voltò e con un gesto della mano aprì uno squarcio nell’aria che attraversò sparendo definitivamente da quel luogo. Poi la sala crollò su sé stessa e non se ne ebbe più traccia, né di chi vi era al suo interno.


4 Era – Anno 291
La sera di nuovo iniziò a calare sull’accampamento. Nessuno si era ancora mosso, probabilmente il Clan sarebbe rimasto in quel luogo ancora per molto tempo, per sfruttare la selvaggina presente, molto poca in quella stagione. Dovevano nutrirsi quando potevano, per non rischiare di restare senza scorte di cibo.
Ma il Dunmer non aveva partecipato a quelle attività. Si era alzato e allontanato dal giaciglio di Nerissa non appena aveva udito quella sua ultima richiesta, sordo alle suppliche di lei di tornare indietro, e si era seduto di fronte al fuoco, rimanendo davanti ad esso per tutto il giorno, senza muoversi di lì, immobile come una statua di pietra. Nessuno si avvicinò per tutta la giornata, solo quando il cielo iniziò a scurirsi e il freddo della notte prese il posto del calore cocente del sole la Sciamana si sedette accanto al Dunmer.
«L’ha detto anche a te, allora.» mormorò la Khajiit, voltandosi verso di lui.
Zephyr emise uno sbuffo, senza guardarla «Non ne voglio parlare.»
«Ti sembra davvero tanto strano? E’ una guerriera.» Kendra fece un gesto di noncuranza con la mano «Mi sembra lecito che abbia desideri simili.»
«Non sono cose che si possano pianificare.» ringhiò il Dunmer «Né… dire.»
«Sei così tanto avverso alla morte, Jo’Zephyr?» chiese la Khajiit, inarcando un sopracciglio.
«Non alla… morte!» il Dunmer respinse quelle parole con fastidio «Per Azura, se solo tu potessi immaginare tutte le volte che io e tua madre ci siamo trovati in pericolo!» poi un respiro, chiuse gli occhi ritrovando la calma «…No. Piuttosto credo di essere avverso alla mia vita.»
Il vento notturno sollevò piccoli strali di sabbia che tentarono, senza successo, di spegnere il piccolo bivacco che bruciava al centro dell’accampamento.
«Che vuoi dire?» domandò ancora Kendra, non capendo.
«Sin da quando l’ho conosciuta sapevo che questo momento sarebbe arrivato, se fossimo sopravvissuti tanto a lungo.» rivelò, cupo in viso, il consueto bagliore negli occhi rossi spento e ridotto ad un tizzone «E pensavo di essere pronto, credevo di… essere pronto a lasciarla andare e continuare per conto mio…»
Un brivido attraversò la spina dorsale dell’elfo oscuro «Ma non così. Tu non hai udito tutto, Ra’Kendra…»
La Khajiit gli rivolse un’occhiata confusa, gli occhi felini, rossi come i suoi, erano curiosi e perplessi.
«Vuole che sia io a ucciderla.» mormorò il Dunmer, con un filo di voce appena percettibile «Vuole un ultimo, grande, meraviglioso combattimento con un avversario altrettanto abile.»


Da distante, il Dunmer vedeva il caos nelle strade di Windhelm, una pira di fumo che si alzava nel cielo notturno, seguito da urla di uomini e rumori di problemi nelle strade. Non aveva idea di che problemi poteva aver provocato, sicuramente la mancanza di uno Jarl avrebbe inciso sulla città, ma francamente non gli interessava.
Si strinse il manto di pelliccia sulle spalle, procedendo quindi a sud verso Kynesgrove, seguendo il familiare sentiero che aveva percorso infinite volte, solcato da infiniti passi.
Sapeva che ci avrebbe messo molto meno tempo se fosse andato a cavallo, ma in tanti decenni si era sempre rifiutato di utilizzarne uno.
Il sentiero da innevato che era iniziò ad assumere toni più verdeggianti, la neve e il gelo iniziarono una lenta ritirata lasciando il posto ad erba ed alberi con foglie marroncine. In lontananza vide le luci della taverna comparire in cima ad un basso pendio. Il vento gli soffiò in faccia i rumori di canzoni e grida di gioia generate da idromele e birra che lo fecero affrettare sui suoi passi.
Un’ora più tardi si ritrovò seduto di fronte al focolare della taverna di Kynesgrove con davanti a sé un buon piatto di zuppa ed un boccale di shein, con ancora addosso il freddo dell’esterno. Appena fuori dalla locanda, neve ed erba si contendevano alla pari il terreno e le chiome degli alberi. E le temperature si sarebbero abbassate ancora di più durante la notte.
Non poteva permettersi di viaggiare in quelle condizioni.
«Quanto per una stanza?» domandò all’oste, quando gli passò vicino portando vassoi di carne e birra.
L’oste grugnì, non molto felice di dover ospitare un Dunmer, retaggio che non era mai svanito nei Nord «Venti septim.»
Con un movimento della mano, Zephyr posò due monete da dieci septim sul bancone «Andrò via presto, domani mattina.»
«Sarà meglio.» grugnì di nuovo l’uomo, prendendo il denaro e andandosene.
Ovviamente non poteva rimanere lì. Ovviamente sarebbero giunte delle guardie a cercare un elfo oscuro sospetto. Ovviamente quei due Ladri avevano parlato ed ovviamente erano rimaste guardie all’esterno del passaggio di pietra. Troppo comodo sperare che fossero tutti morti nella caverna delle lacrime di Ysgramor. Le cose non erano mai così facili.


Il sole non era ancora sorto che le orme del Dunmer sulla neve già si allontanavano dalla taverna di Kynesgrove, dirigendosi deciso verso il fortilizio abbandonato di Morvunskar a poca distanza.
Abbandonato da anni, nessuno ci metteva più piede dopo che l’ultimo Dovahkiin entrò e fece una strage terrificante, uscendone poi con una staffa dai poteri terrificanti e il sangue di un’intera setta di maghi nelle mani e nei capelli. Da allora, è diventato un luogo infestato persino per i praticanti di arti arcane.
Quando ci si avvicinava, si potevano vedere e udire figure spettrali sugli spalti, che inducevano la gente ad andare via, gridando contro di loro, allontanandoli. Li vide anche Zephyr quando andò più vicino, già vicino alla porta costellata di vecchie trappole diversi spettri comparvero attorno a lui, intimandogli di andarsene, minacciandolo. Alcuni lo attaccarono, ma tutto quello che fecero fu passargli attraverso lasciandogli nient’altro che una sensazione di gelo.
Il Dunmer li scacciò infastidito con un gesto della mano «Andatevene.» disse solo, cupo e determinato.
Attraversò il cortile interno, silenzioso tranne che per le voci degli spettri e dei passi ovattati sulla neve fresca che nessuno in anni aveva mai calpestato. La porta interna era incrostata di ghiaccio, su di essa erano visibili i segni di un’antica battaglia avvenuta più di un secolo prima.
Con un gesto ed una parola stridente in daedrico, dalla mano dell’elfo venne generato una vampata di fiamme che abbatté con fragore la porta di legno. Un raggio di luce inondò l’interno della sala mentre con l’altra mano evocava la familiare sfera di luce illusoria che concesse altra luce.
E all’interno di Morvunskar, cadaveri. Erano scheletri ormai, sparsi come bambole rotte nella stanza, con addosso stracci di quelle che erano vesti arcane, sui pavimenti erano ancora visibili cerchi magici incisi e tracciati con gessi ed altre sostanze simili, vecchi e ormai obsoleti rituali di evocazione.
«Non so cosa cerchi qui, mortale.» disse uno spettro, il primo che non urlava e non gridava «Ma non lo troverai qui. Vattene e lasciaci alla nostra miseria.»
Era uno sforzo ignorarli, capiva perché gli uomini erano spaventati. Ma da tempo la sua anima si era raggrinzita abbastanza da ignorare senza battere ciglio il terrore provocato da illusioni e voci fantasma. Costui tuttavia sembrava ragionevole: era il fantasma di un vecchio, con addosso abiti cenciosi, quelli con qui era stato ucciso probabilmente. Lo sguardo era compassionevole e distante, una di quelle poche volte in cui l’elfo ammise di trovarsi di fronte a qualcuno di più anziano e saggio di lui.
«Cerco ciò che vi sta ancorando qui.» gli rispose, senza vacillare «Il rituale. Il passaggio.»
Gli occhi del vecchio si oscurarono «Lo stregone Naris il Malvagio aveva creato un portale per l’Oblivion. Ma non lo controllava. Per questo aveva messo me e altri tre potenti maghi a guardia. Fino a quando non è arrivato il Dovahkiin.» il vecchio sorrise tristemente, guardando il Dunmer negli occhi «Era ubriaco e ci ha comunque trucidati tutti. Sei qui per distruggerlo?»
Gli occhi rossi del Dunmer brillarono «E’ ancora attivo, quindi?»
«In parte. Può essere usato solo per un altro viaggio.» decretò il fantasma «Poi sparirà e tutti noi con esso.»
«Non capisco… perché allontanate la gente allora? Se qualcuno lo usasse, sareste liberi.» fece notare il Dunmer, non capendo.
«Perché non cadano in tentazione come abbiamo fatto noi.» spiegò il vecchio fantasma «Non siamo stupidi. Non permetteremo che altri facciano il nostro errore.»
Zephyr strinse i pugni, facendo scricchiolare il cuoio dei guanti «Non puoi fermarmi.»
Il fantasma semplicemente sorrise un’ultima volta, quindi svanì.


4 Era – Anno 291
Il deserto si stava muovendo, la sabbia si alzava in ampie e alte volute spinta dal vento che durante la mattinata aveva colpito l’accampamento dei Khamsin.
Rapidamente, i Khajiit del clan avevano iniziato a mettere altre protezioni sulle tende presenti ed innalzandone altre per contenere altri membri della tribù che usualmente dormivano all’esterno, come Pahmar e Cathay.
La tempesta di sabbia era ancora bassa e debole, il vento correva sulle dune ancora senza generare vortici e ondate di sabbia, ma Zephyr sapeva che rapidamente sarebbe salita in un crescendo di violenza e forza. Con il viso coperto dalla sabbia con una sciarpa e occhiali in chitina, stava aiutando ad erigere i rinforzi delle tende su cui intesseva incantesimi di legame per impedire ai tralicci ed ai paletti di venire spazzati via.
Nulla che non avesse già affrontato in passato, un pericolo comune nel deserto a cui i Khajiit nomadi erano avezzi da tempo.
Sapeva che il suo aiuto era superfluo, sapeva che ogni incantesimo gettato per puro scrupolo su ogni tenda per reggerla meglio al terreno era inutile. Illudeva sé stesso dandosi altri compiti da fare, cercando altre cose con cui impegnare la mente, in qualsiasi modo potesse.
Fece solo una pausa, per condividere le prede che i cacciatori avevano catturato con il resto del Clan. Era stata necessaria pazienza e tempo, oltre che innumerevoli prove di fiducia da parte sua per poter essere ben accetto. Poco importava che lui fosse il compagno di vita della loro Capoclan, lei per sua stessa affermazione non imponeva nulla.
Quindi non poteva imporre nemmeno che lui fosse ben accolto e per questo l’ha ringraziata perché solo così riuscì a mettersi davvero alla prova di fronte a loro, a guadagnarsi un posto in quella tribù giorno dopo giorno, rendendosi utile se non addirittura indispensabile.
E tuttavia vide di nuovo la sua stoltezza riflessa nei visi felini che lo circondavano, visi di individui che ha visto nascere, che ha visto crescere fino a diventare ragazzi, giovani adulti ed infine Khajiit maturi che ora stavano dividendo con lui il pasto.
E lui?
Zephyr non era cambiato. Lo stesso Dunmer imperscrutabile, lo stesso carattere ombroso ma bonario, una figura immutabile nel tempo, un punto fisso di quel popolo di nomadi con più anni della loro Sciamana più rispettata e saggia, eppure non altrettanto maturo.
Come aveva fatto a non accorgersene prima?
«Jo’Zephyr?» lo chiamò una voce alle sue spalle.
Il Dunmer si rese conto in quel momento di essere seduto a terra, con la schiena posata contro un palo piantato a terra che sorreggeva il simbolo della tribù.
Davanti a lui Kendra lo osservava con espressione timida. Sua figlia era nata, cresciuta sotto i suoi stessi occhi, era diventata sciamana e poi persino madre a sua volta e addirittura nonna ormai da diversi anni.
E ancora non si era posto alcuna domanda. Aveva lasciato andare le cose com’erano, aggrappandosi al momento presente senza badare a quello che sarebbe venuto dopo. Una cosa che Nerissa stessa gli aveva insegnato, ma non si era reso conto dei rischi di una scelta simile.
«Fado’Ner’Isha vorrebbe parlarti.» gli disse, cercando di guardare negli occhi rossi tormentati di suo padre che si ostinava al silenzio degli sguardi sfuggenti.
«Domani la tribù si rimetterà in marcia.» disse invece il Dunmer, rialzandosi in piedi «Raggiungeremo l’oasi di River Keep. Lì parleremo. Fino ad allora, falla riposare.»
«E’ irrequieta, sempre più.» replicò la Khajiit, irritata «Sei l’unico che la può calmare. Sta’ con lei adesso che puoi, altrimenti lo rimpiangerai.»
La mano del Dunmer si strinse fino a far sbiancare le nocche e i denti si strinsero, digrignandosi in un ringhio silenzioso. Poi si voltò di scatto, dando le spalle alla figlia e allontanandosi a grandi passi.


I corridoi del forte di Morvunskar, nonostante fossero passati decenni, portava su di sé ancora i segni del passaggio del suo ultimo conquistatore, sui pavimenti erano rimaste larghe macchie di sangue là dove erano riversi scheletri di maghi con ancora stracci addosso rovinati dal tempo e dagli insetti, alcuni muri presentavano strane sbrecciature di colpi terribili portati con armi enormi, macchie di bruciatura sulla pietra, tavoli divelti e grate di metallo spezzate.
In giro erano sparse ossa di piccoli animali, ma anche delle persone utilizzate dai maghi per i loro esperimenti. Prigionieri o servitori? Forse erano persino già morti quando la furia dell’ultimo Dovahkiin si abbatté su quel luogo.
Zephyr scese delle scale che portavano ad un ampio spazio inferiore, una caverna di roccia entro cui era stata costruita un’enorme stanza sotterranea con enormi colonne che reggevano il soffitto. Sui muri erano ancora visibili tracce di trappole ormai scattate o arrugginite dagli anni.
Davanti a lui, una grande scala di pietra grezza si alzava verso un evidente altare con grandi bracieri ai lati ormai spenti. Il Dunmer iniziò a salirla, poi schioccò le dita e fiamme si levarono dalla sua mano, andando a ridare calore e luce alle braci fredde.
La luce nuovamente inondò quel luogo ed un tenue calore ridiede un po’ di vita all’elfo oscuro che infine arrivò di fronte all’altare. Su di esso, qualcuno aveva inciso un grande cerchio, di non meno tre metri di diametro, con un altro cerchio al suo interno e nello spazio fra i due erano state incise rune daedriche che ancora brillavano violacee. C’era potere in esse e il Dunmer ne sorrise.
Da una tasca prese un gessetto bianco e tracciò un terzo cerchio esterno agli altri due su cui iscrisse nuove rune, mormorando a bassa voce un incantesimo. Il cerchio bianco brillò solo per un momento prima che il Dunmer riponesse il gesso e si posizionasse in ginocchio al centro dei tre cerchi concentrici.
Il vecchio fantasma ricomparve al suo fianco «Desisti, te ne prego.»
Zephyr non lo ascoltò e dalla sacca prese un grande involto da cui estrasse tre grandi pietre dell’anima che posizionò con attenzione ai lati formando un perfetto triangolo equilatero. Poi tirò fuori un osso, un barattolo con all’interno un cuore ancora pulsante ed una scaglia grossa quanto un piccolo scudo.
Il fantasma sgranò gli occhi «Sono anime daedriche. Tre Dremora Valkynaz della guardia personale di Mehrunes Dagon. E quelle… sono parti di drago.» analizzò rapidamente mentre il suo ectoplasma aveva un sussulto di terrore «Un osso, una scaglia e un cuore… che stai cercando di fare, elfo?»
Il Dunmer non rispose, invece iniziò a tracciare altri cerchi più piccoli, sei cerchi che contenessero al loro interno le tre gemme e i tre resti di drago, tutti costellati di rune sia daedriche che altre sconosciute al fantasma, poi un altro cerchio che racchiudesse e collegasse gli altri tre, anch’esso circoscritto in un linguaggio che il vecchio spirito non aveva mai visto né aveva idea di cosa dicesse.
Poi Zephyr rialzò lo sguardo e pronunciò una singola parola «Apriti.»
Fu come se l’aria fosse improvvisamente risucchiata dall’ambiente, lo spazio di fronte agli occhi dei due si distorse e si piegò su sé stesso mentre energie daedriche venivano sprigionate, ma senza che venisse aperto alcun portale. Infine, l’elfo prese da una tasca altri due oggetti: il primo era un cubo-puzzle Dwemer, ma era stato modificato in modi che il fantasma non riusciva ad intendere, lo sentiva ticchettare all’interno e vedeva ingranaggi alieni girare lungo i lati; il secondo era invece un piccolo involto arrotolato di pelle da cui tuttavia sentiva provenire una sensazione di estremo disagio.
Il cubo venne posato al centro degli altri sei oggetti, mentre l’involto venne aperto davanti agli occhi del Dunmer, e finalmente il fantasma lo vide.
Zephyr teneva in mano un’Antica Pergamena che brillava di luce ultramondana più luminosa e brillante di tutti i bracieri accesi nella stanza.
«Nel sacrario di Ysgramor non c’erano lacrime nere.» rivelò mentre gli occhi rossi rilucevano di ambizione «C’era questa, l’Antica Pergamena di Atmora. Ysgramor sapeva, aveva sempre saputo a cosa il suo popolo sarebbe andato incontro su Tamriel, sapeva a cosa stava condannando i suoi cinquecento compagni. E per questo pianse.» di fronte a lui il portale si distorse, emettendo ancora più energia, e spostandosi nell’aria esattamente sopra il cubo Dwemer «Perché sapeva anche che non poteva fare nulla per impedirlo. E’ il suo rimpianto e la sua gloria, le sue vere lacrime di sangue e dolore.»
Il fantasma era allibito di fronte alla follia a cui stava facendo da spettatore. E davanti ai suoi occhi, vide il Dunmer dare fuoco all’Antica Pergamena e gettarla nella distorsione spaziale di fronte a sé.
«No!» urlò mentre la sua forma spiritica vibrava di terrore «Cos’hai fatto!»
Gli occhi rossi dell’elfo si illuminarono di lucida follia «Qualcosa di nuovo.»


4 Era – Anno 291
Da alcune ore il Clan Khamsin si era messo in viaggio. Il campo era stato smontato e i Khajiit si erano avviati lungo le antiche vie di passaggio che collegavano le oasi del deserto di Elsweyr, percorse dai loro nonni prima di loro e dai nonni dei loro nonni, fino a poter tranquillamente risalire alla Prima Era quando il primo Khamsin posò zampa sulle calde sabbie del deserto.
Composto da un centinaio di elementi, il Clan si era incolonnato in una lunga fila che si allungava fra le dune.
I cacciatori aprivano la strada con il capo cacciatore come guida. Poco dietro venivano le donne che si occupavano dei cuccioli, gli animali da soma, i Pahmar, poi gli sciamani ed infine più indietro di tutti i cacciatori anziani che si occupavano della retroguardia. In questi spostamenti, Zephyr aveva sempre ricoperto un ruolo di fiancheggiamento, fuori dalla fila per scrutare ai lati insieme ad altri elementi scelti. Una volta era un compito che condivideva con Nerissa, ma ora lei si trovava fra gli Sciamani, insieme alla figlia Kendra.
Sebbene fosse ancora di nome la Capoclan, per via delle sue condizioni il ruolo era ricoperto informalmente dall’attuale capo dei cacciatori che apriva la fila e a le non dispiaceva, gli permetteva di focalizzare la sua attenzione altrove, come ad esempio su quel testardo Dunmer che si era scelta come compagno.
In quel momento lo stava osservando camminare a decine di metri di distanza dalla colonna, avanti a lei e con in mano i suoi strani strumenti di navigazione che non comprendeva, senza voltarsi nemmeno una volta verso di lei. Un’irrequietudine a cui non sapeva dare voce le animava il petto, rendendola silenziosa ma dandole un’ansia che semplicemente non le apparteneva.
Non c’era più tempo. E Zephyr doveva decidere.
«Ha promesso che una volta arrivati alla prossima oasi ti darà una risposta.» le disse Kendra, accanto a lei. Nerissa addosso aveva la sua armatura e le sue armi, come sempre. Aveva fermamente rifiutato di essere trasportata sui carri delle tende o sugli animali da soma, come gli altri infermi e anziani del Clan. Nonostante fosse probabilmente la Khajiit più anziana del Clan, superata forse dal grande sciamano del Clan, mostrava una vitalità ed una forza di spirito e d’animo che nulla aveva da invidiare ai membri più giovani. La sua falcata era forte e le zampe fendevano la sabbia con sicurezza lasciando indietro la retroguardia e persino la stessa figlia.
Eppure lo sentiva. Nonostante la sua dimostrazione di forza e vita, nonostante la sua energia, sentiva che non era come una volta. Il suo tempo stava finendo, ma lo accettava serenamente. E temeva che il suo compagno non riuscisse a fare altrettanto. Ma doveva.
«Ho paura della risposta.» ammise, con le orecchie basse e gli occhi verdi velati di tristezza.
La figlia fece una smorfia sul muso grigio «In tanti anni, non ti ha mai negato niente. Accetterà.»
Nerissa inarcò un sopracciglio «O forse proprio per questo dirà no solo questa volta.»


«Che questo abominio cessi adesso!» decretò una voce possente. Un vento terribile si alzò all’interno della caverna di Morvunskar, ululò terribilmente smuovendo ossa, catene e pietre in pari misura e costringendo il Dunmer in ginocchio. Ma il suo congegno continuava la sua opera.
Una fiamma nera e rossa si alzò dalla scalinata che portava all’altare, accanto ad un’altra fiamma, più grande e ruggente di sole fiamme nere che lasciava dietro di sé un solco terribile, ed accanto ad esse una terza fiamma, azzurra e gialla, luminosa a suo modo.
Insieme, queste tre grandi fiamme percorsero la scalinata dell’altare, mentre il vento spirava impetuoso generando fulmini e scariche di energia che colpivano le pareti e le colonne di quel luogo, facendolo tremare.
Poi dalle fiamme emersero tre individui, il primo appariva come un Dremora comune, con tuttavia dei tatuaggi sul viso rosso e nero, ed occhi sanguigni brillanti di ira e rabbia, il secondo era invece un possente Xivilai dal torso nudo su cui erano stati tracciati brillanti simboli daedrici neri e viola che brillavano nella luce crepuscolare presente, ed infine il terzo era un Crepuscolo Alato, ma più altero e nobile, con il marchio della Luna e delle Stelle inciso nelle ali membranose.
«In ginocchio, mortale!» riprese la voce possente e Zephyr poté unicamente obbedire. Accanto a lui, lo spirito del vecchio mago si era prostrato in ginocchio, fino a poggiare la fronte a terra.
«In ginocchio…» disse ancora, mentre le tre presenze daedriche che abitavano quelle forme giunsero di fronte all’altare «…di fronte alla somma presenza di Sanguine, Mehrunes Dagon e Azura!»
Il Dunmer pensò che il sangue gli si fosse appena fermato contemporaneamente in tutto il corpo, cuore e intestino compresi. Le gambe divennero molli e sudore freddo scese dalle tempie perché di fronte a lui vi erano tre avatar di tre differenti Principi Daedrici che parlavano a lui attraverso la bocca e i gesti dei loro sottoposti.
«Depredi ciò che mi appartiene, mortale!» accusò il Dremora dagli occhi sanguigni «Non esiste colpa più grande che prendere da chi spontaneamente dona divertimento e gioia!»
«E non di meno dopo aver razziato non una, ma ben tre delle anime più nobili e forti al mio servizio!» rombò lo Xivilai i cui simboli sul corpo iniziarono a brillare cupamente e le fiamme attorno a lui diventavano più grandi, bruciando i gradini «Ho trucidato divinità per molto meno.»
«Desisti dal tuo oscuro scopo, figlio.» pronunciò il Crepuscolo Alato con i simboli del Luna e delle Stelle luminosi sulle grandi ali, circonfuso della luce del sole che tramonta «Ciò che vuoi compiere non porterà nulla di buono a nessuno. Nemmeno a te.»
Zephyr strinse i denti e i pugni fino a far sbiancare le nocche. Quindi nel rombo del vento e della tempesta in corso le cui nubi iniziavano a correre lungo i muri in un terribile vortice, lentamente si rialzò in piedi con la sensazione di essere meno di una foglia di fronte a quelle tre entità.
E lo era. Anche l’Arcimago più potente di Nirn è un rametto in balia dei venti in confronto ad un Principe Daedrico, quindi lui cosa poteva sperare di fare?
Eppure anche una foglia può decidere come cadere.
«Io non mi fermerò.» pronunciò con decisione, alzando gli occhi rossi in quelli ultraterreni delle tre entità «Fate del vostro peggio, ma non mi fermerò. Sono andato troppo oltre per tornare indietro ormai.»
Il Crepuscolo Alato mostrò un’espressione di estremo dispiacere, le ali giunte a preghiera di fronte a lei «Non farlo, figlio.»
Il Dunmer distolse lo sguardo da lei, quasi con dolore «Ti amo, come un figlio ama sua madre, mia signora Azura, ed ho seguito con sincerità i tuoi insegnamenti.» affermò con un pesante sospiro «Ora non chiedermi di rinnegarli. Perché sai il motivo di tutto questo.»
E a malincuore, il Daedra arretrò, distogliendo lo sguardo, la fiamma bianca che illuminava i suoi occhia ora spenta.
Con un ruggito terribile gli altri due Daedra si lanciarono contro il Dunmer, e le fiamme avanzarono con loro divorando tutto ciò che toccavano, e in quel momento il cerchio bianco di gesso si illuminò di una malsana luce verde.
Le rune aliene incise dal Dunmer parimenti iniziarono ad emettere luce ed un suono terribile come se stessero pronunciando sé stesse e i due Principi vennero fermati bruscamente da una parete invisibile delimitata da quel circolo, insieme alle loro fiamme che ne iniziarono a lambire il limite senza poterlo superare. E la rabbia, terribile e feroce, era visibile sui volti demoniaci e negli occhi illuminati dall’ira più cupa.
«Zephyr degli Oretheran! Lo stesso Signore della Sottomissione si complimenterà con me quando vedrà in cosa ti avrò ridotto!» ruggì l’avatar di Mehrunes mentre le sua fiamme oscure si alzavano verso l’alto in un falò impetuoso.
Invece il Dremora semplicemente si avvicinò al limite del circolo, quanto bastava per essere direttamente faccia a faccia con il Dunmer «Mi riprenderò ciò che è mio, piccolo elfo.» disse, con voce estremamente calma e distaccata, un paradosso per un essere come Sanguine «E il prezzo sarà alto, più di quanto saresti stato disposto a scommettere.» I suoi occhi sanguigni brillarono cupi e minacciosi.
«Le vostre minacce sono vento, per me.» replicò l’elfo, al riparo del circolo verdastro che continuava a brillare «Sapevo sareste giunti, divinità silenziose che si svegliano solo quando qualcuno tocca ciò che ritenete vostro. Quindi mi sono tutelato, rivolgendomi al più abile e furbo di voi.» infilò una mano nel mantello di pelliccia, estraendo un libro che mostrò ai due Principi Daedrici, un libro ben strano che sembrava essere stato rilegato con diversi pezzi di pelle, diversi fra di loro e malamente cuciti insieme.
Da dietro le spalle di Zephyr, un lungo tentacolo nero e viscoso si allungò avvolgendosi attorno al libro, per poi essere ritirato dietro l’elfo e sparire definitivamente. Alle sue spalle una voce ultraterrena, lenta e pesante pronunciò «Il debito è stato saldato.»
Entrambi gli avatar dei Principi arretrarono di un passo, riconoscendo l’entità con cui avevano a che fare.
«Io mi riprenderò ciò che è mio. Nulla è cambiato.» decretò Sanguine, facendo stridere le unghie della mano sulla barriera mistica.
«La protezione dell’infame seppia non ti risparmierà la mia vendetta!» ruggì Mehrunes Dagon, schiantando con una fiammata nera il pugno sul muro verdastro.
Con un sorriso triste, Azura posò il palmo della mano sulla superficie invisibile «Non approvo ciò che fai, e comprenderai il tuo errore prima di quanto immagini.» profetizzò, ma senza fare nulla per fermarlo.
La distorsione spaziale dietro le spalle dell’elfo in prossimità del dispositivo Dwemer infine iniziò a farsi sempre più piccola, quasi appena un’anomalia fino a sparire definitivamente. Le gemme dell’anima erano diventate polvere usate nel processo e così anche le parti del drago, ora nient’altro che sabbia bianca. L’unica cosa vibrante di potere era il congegno che il Dunmer prese in mano.
Il cubo continuava a ticchettare cupamente mentre la distorsione nello spazio ora sembrava contenuta in quel piccolo oggetto.
«Addio, Principi. Non mi vedrete mai più.» poi alzò il cubo pregno di energia e di un potere mai visto prima su Nirn, lo spazio si piegò attorno a lui, si distorse in onde sempre più forti e grandi, quindi sparì cancellando la sua esistenza da quel mondo.


4 Era – Anno 291
In mezzo alle dune grigie, dove il vento smetteva di correre violento, vi era una grande oasi con un ampio lago d’acqua dolce circondato da palme, cespugli ed una discreta macchia boscosa che ospitava una fauna densa a sufficienza da dare cibo anche a Clan dieci volte più grandi dei Khamsin.
River Keep era così chiamata per via del fiume che vi scorreva in mezzo, che giungeva da una fonte nell’entroterra per poi gettarsi in mare, diverse decine di miglia a monte. Era considerata un’oasi di confine e spesso anche il luogo dove raramente i Clan del deserto si riunivano per decidere le sorti della loro terra.
Non appena i Khamsin si erano fermati ed eretto nuovamente le tende in posizione sicura, Nerissa si diresse con decisione in direzione del Dunmer che tuttavia non riuscì a vedere da nessuna parte. Era sparito, sebbene per l’intero viaggio lo avesse visto fiancheggiare la colonna del Clan e non lo avesse perso di vista un solo momento.
Ma adesso? Si era come volatilizzato. Provò ad annusare l’aria, drizzò le orecchie in direzione dell’oasi, cercando di cogliere anche solo mezzo frammento della presenza del Dunmer, analizzò con attenzione il terreno e le tracce, ma nulla sembrava tradire la presenza dell’elfo.
Provò a chiedere al Clan, a chi potesse averlo visto, e negli occhi di tutti vide una sorta di quieto stupore dato che come lei erano convinti di averlo visto per tutto il tempo a fiancheggiare la colonna in viaggio.
Dopo, era semplicemente svanito e le cose da fare erano troppe per dare attenzione ad un solo elemento.
«Tal’Kendra!» chiamò allora, raggiungendo il circolo di tende degli sciamani «Zephyr è qui?»
Spesso il Dunmer si intratteneva con i saggi del Clan, parlando di cose che lei non comprendeva appieno. Quindi poteva trovarsi lì.
La figlia scosse la testa, guardandola con espressione confusa «Quando ci siamo avvicinati all’oasi, l’ho visto raggiunge la cima della colonna, per una ricognizione, forse…» le disse, per poi chiederle «Perché?»
Nerissa ringhiò, mostrando i denti «Hai detto che arrivati, lui parlava e decideva. Ora lui sparito.» nonostante l’ira, era visibile una feroce delusione negli occhi stanchi della Khajiit.
Kendra sorrise tristemente, perché in fondo era comunque figlia di suo padre, figlia di un Dunmer e quindi comprendeva la distorta logica dietro quella scelta di non farsi trovare, sebbene non la sostenesse.
Fece segno a sua madre di seguirla, per poi avvicinarsi al fuoco da campo che era stato eretto al centro del circolo di tende, indicando a gesti altre due sciamane, ed insieme si sedettero in cerchio attorno alle fiamme.
Insieme, come un’unica voce, le tre sciamane iniziarono ad intonare un canto, più antico del deserto stesso, quando ancora le Ossa della Terra camminavano su Nirn. La sabbia e le piante riverberarono attorno a loro e le fiamme divennero blu mentre gli occhi delle tre sapienti impegnate nel rituale brillarono di luce ultraterrena.
«Lo vedo.» rivelò Kendra «Non è su Nirn.»


Di scatto, Zephyr si voltò all’indietro e alzò una mano nell’aria, tracciando un singolo segno: un circolo mistico di energia rossastra comparve nell’aria, circonfuso di rune «Và via.»


Kendra cadde all’indietro dalla posizione seduta in cui si trovava, ma rapidamente si rimise in posizione.
«Ci respinge. Non vuole farsi trovare.» rivelò con ancora il corpo fremente di energia «Ma non può respingerci all’infinito.»
Di nuovo il canto venne intonato, le sabbie rotearono attorno a loro, spargendosi fra le tende.


Con un ringhio infastidito, il Dunmer si morse il dito, facendo uscire del sangue, quindi tracciò due rune, una per ciascun polso, ed una terza sul petto, quindi un segno di protezione sulla fronte. Infine, alzando al cielo i polsi, intonò un canto di sparizione…


che si sovrappose a quello della figlia, che stremata cercava di non perdere il contatto. Sentiva il canto del padre, e non credeva fosse così forte. Sapeva di essere meno abile come maga di lui, ma che il Dunmer fosse addirittura più abile di un circolo completo non lo avrebbe mai pensato.
«Ahnurr’Zephyr…» provò a chiamarlo, forzando quel debole contatto che andava via via dissipandosi sempre più «…Non farlo. E’ un errore. Lo rimpiangerai.»


Dall’altra parte del Mundus, il Dunmer guardò un orizzonte alieno con espressione risoluta mentre mostruosi Daedra camminavano accanto a lui come se non esistesse su roccia e sabbia nera che faceva crescere strane piante di un malsano verde luminescente.
«Ne ho fatti tanti, zalrishajiit. Ma non posso fare altrimenti.»


Con un ruggito, Nerissa si avvicinò alla figlia, posandole una mano sulla spalla «Puoi mandare un messaggio?»
Kendra annuì, il viso contratto per la concentrazione necessaria. Con lei, le altre sciamane erano quasi svenute dallo sforzo di mantenere quel flebile contatto sempre più debole.
«Zephyr.» pronunciò per la prima volta senza alcun suffisso, con la rabbia che traspariva dalla voce.


In un regno distante nello spazio e nel tempo, il Dunmer cessò il canto ed emise un profondo respiro.


Non poteva vederlo, ma lo sentiva, lo sentiva che era lì, come aveva sempre sentito ogni suo battito del cuore da quel momento a Skyrim, legati in modi che la magia non poteva spiegare.
«Un anno, Zephyr. Io dà a te un anno di tempo per fare ciò che chiedo, per darmi ciò che chiedo. Poi io giura che mia morte non sarà mai più tuo problema.»
Il silenzio accolse quell’affermazione, quindi continuò «Questo giorno, fra un anno, io sarò a River Keep. Aspetterò fino a che sole non tramonta. Poi sarà tardi.»
Di nuovo, solo il silenzio e il rumore della sabbia che scorreva in circolo. Poi anche quel suono svanì e Kendra emise un lungo respiro insieme alle altre due sciamane che si rialzarono lentamente e con fatica.
«Il contatto è stato interrotto.» le disse la figlia «Ma ha udito ogni cosa.»
Nerissa semplicemente annuì con espressione stanca e affaticata «Vado a stendermi.» disse soltanto, con gli occhi verdi spenti.
«Fado…»
«Non voglio obbligare Shal’Zephyr a nulla. Aspetterò.» gli occhi verdi si strinsero pericolosamente «Poi, mia prossima battaglia sarà ultima.»


Come mai quel ricordo gli tornava in mente ora mentre lo spazio e il tempo ruotavano e tempestavano attorno a lui come un terrificante mare in tempesta? Perché proprio quel momento fra i tanti che potevano tormentargli la mente, proprio quello in cui risiedeva uno dei suoi più grandi rimpianti?
Ci doveva essere in atto un qualche genere di giustizia divina che veniva a tormentarlo nel suo momento di massima difficoltà. Poiché per perdersi nei ricordi e nei rimpianti del passato non poteva esserci momento più sbagliato di quello.
Il luogo dove si trovava ora non poteva essere descritto da parole umane o elfiche: un vorticare infinito di luce che si piegava in angoli non euclidei in onde prive di dimensioni si apriva davanti ai suoi occhi, ciclopiche o microscopiche mareggiate di energia esotica in un mare di stelle che tuonava attorno a lui, per poi sparire oltre un orizzonte degli eventi che i suoi occhi semplicemente non potevano concepire come vista.
E l’unico punto fisso in quel disastro cosmico era il congegno Dwemer che brillava di luce solida e che era stretto nella mano dell’elfo. Solo grazie a quel congegno era riuscito a mantenere concretezza stabilendo uno spazio di realtà individuale attorno alla sua figura.
Tuoni terrificanti si scatenavano a pochi millimetri dal suo viso, fulmini grandi come draghi e scariche di energia esotica mai vista prima saettavano attorno a lui mentre digitava freneticamente sul congegno rigirandolo abilmente fra le mani. L’aura di realtà si condensò attorno a lui, fungendo da deflettore per quelle scariche di energia.
Il sudore imperlò la sua fronte: non era giunto dove voleva, qualcosa era andato storto e i suoi calcoli non si erano rivelati corretti alla luce di quello spazio apparentemente infinito privo di una sua concretezza. Non aveva idea di dove fosse finito, né come andarsene, sebbene era sicuro che la chiave fosse lo stesso congegno che ce lo aveva portato.
Forse era quello che Azura voleva dirgli, quando lo avvisò dell’errore. Aveva sbagliato e non se ne era reso conto, ed in quel momento era troppo tardi per tornare indietro.
I patti erano stati siglati, le offese erano state commesse, il cubo infine caricato. Ed eccolo il risultato della sua grande ambizione: un grande mare di niente, dove persino la realtà collassava, dove anche solo guardarsi attorno portava al collasso della mente, un luogo che non era nessun luogo e nessun tempo e che arrogantemente aveva pensato di usare a suo vantaggio.
E tutto per rimediare al solo errore commesso di cui si pentiva, che aveva rimpianto per decenni e che da adesso in poi lo avrebbe tormentato in eterno. Chissà se sarebbe mai morto in un luogo simile e chissà se, anche se morto, la sua anima sarebbe ascesa come le altre.
«Nel mio cercare di riunirci, forse ci ho resi ancora più distanti di prima.» mormorò, guardando il cubo scintillante stretto nella mano «Che ironia.»
«Strana ironia la tua, elfo.» replicò una voce che strappò un grido di sorpresa all’elfo e per poco non gli fece perdere la presa sul congegno.
Alle sue spalle era comparso un uomo anziano, un umano dalla pelle chiara con capelli bianchi che scendevano lunghi fino alle spalle e una lunga barba ben curata. Addosso aveva una veste da mago sbrindellata ed una staffa di legno da cui pendevano alcuni amuleti. Zephyr non faticò a riconoscere il mago fantasma di Morvunskar, ora tuttavia ben più solido e concreto di quando lo vide nella roccaforte abbandonata.
«Oh non farci caso. Qui il tempo non esiste, è come se fossi vivo e morto nel medesimo istante.» gli spiegò, intuendo il suo dubbio «Una sensazione piuttosto strana, a dire il vero.»
«Sei tu Naris il Malvagio.» riconobbe solo ora il Dunmer, stringendo gli occhi.
Il mago sorrise tristemente «Ti credevo più scaltro. Ero convinto ci saresti arrivato prima. O semplicemente non ti interessava.» si mise a sedere a mezz’aria, apparentemente immune al disastro dimensionale e cosmico che si stava verificando attorno a loro «Tuttavia… si. Io condussi la congrega di maghi in quella roccaforte, io aprii il portale per il Boschetto Nebbioso, un piccolo sottoregno nell’immenso dominio di Sanguine. E infine… io affrontai il Sangue di Drago quando, sbronzo marcio, si presentò alla nostra porta.»
«Chissà perché non sono sorpreso.» borbottò il Dunmer.
Il vecchio mago strinse gli occhi, aggrottando la fronte «Fu brutale. Ci uccise tutti solo per entrare nel mio portale e riemergerne con un artefatto di incredibile potere. Poi usò un Thu’um per legare ogni anima a quel luogo e a quella magia. E così fu, poco importa che fosse fuori di senno per l’alcool.»
«Però eri libero.» disse l’elfo, non capendo il perché di quella scelta «Nel momento in cui ho utilizzato il portale, quando ne ho risucchiato la forza e il potere, il Boschetto Nebbioso è scomparso e tu potevi finalmente andartene, proseguire oltre. Perché hai scelto di seguirmi?»
Il vecchio lo osservò con rassegnata tristezza «Perché sono un mago. Ero curioso.» ammise «Ho visto quello che hai fatto, gli oggetti che hai riunito ed osservato il rituale che hai evocato. Le possibilità mi elettrizzavano, il potere che avevi raccolto in quel luogo, dove risiedeva il mio capolavoro, era semplicemente incalcolabile. Quindi la curiosità di cosa avresti fatto con tale potere mi divorava.»
«Si, beh… non è stato sufficiente. Ho fallito.» replicò Zephyr, secco.
«Tutti i nuovi incantesimi falliscono al primo tentativo.» lo rimproverò Naris, puntandolo con il dito «Lo sai bene anche tu.»
«Hai visto anche tu cos’ho dovuto fare per eseguirlo, le forze che ho disturbato. Non avevo tempo o possibilità di un incantesimo di prova.» rispose l’elfo con un ringhio infastidito «E portali come quello creato da te sono rari su Nirn.»
Il mago sorrise «Allora sei fortunato che io sia qui. Ho compreso il tuo disegno, il tuo intento.» con un dito toccò il congegno Dwemer che ancora brillava di luce propria «E ti aiuterò.»
«A che scopo?»
«Mi hai portato esattamente dove volevo giungere. Un posto al di là dello spazio e del tempo, dove meditare in eterno. Non so cosa potrò mai fare qui… ma sono curioso di scoprirlo.» rispose, con un ampio sorriso ambizioso «Se fossi anche tu nella delicata condizione in cui io mi trovo, sentiresti le correnti di magicka impetuose che scorrono attorno a noi in ogni direzione, più forti di qualsiasi altra mai percepita, su Nirn o nell’Oblivion.»
Il Dunmer rimase in silenzio. Non lo entusiasmava l’idea di lasciare lì uno come Naris, non aveva idea di cose fosse davvero capace, come avrebbe potuto usare il potere che vibrava violento intorno a loro. Ma non aveva scelta, e in tutta franchezza nemmeno gli importava. Il suo scopo era un altro che non preoccuparsi ancora del mondo.
«Aiutami, allora.» una richiesta che suonava come una supplica.
Naris sorrise, trionfante «Allora ascoltami bene: ti sei costruito un bel dispositivo lì, un cubo-puzzle Dwemer di cui, scommetto, conosci ogni funzione e che hai pesantemente modificato con tecnologia Clockwork. Non so come te la sia procurata, ma hai praticamente costruito un dispositivo di calibrazione spazio-temporale. Giusto?»
L’elfo annuì, colpito dalle capacità del mago di fronte a lui. O forse semplicemente era più anziano e vecchio, e quindi più esperto.
«Volevi avere una sorta di bussola universale per non perderti, che successivamente hai caricato di energia per permetterti anche di usarla come mezzo di trasporto. Astuto, non lo nego, ma hai sbagliato in una sola cosa.» gli fece notare con malcelata soddisfazione «Hai dato per scontata la natura della realtà, del tempo e dello spazio. Non ti sei soffermato a pensare con attenzione a cosa fossero e come funzionassero. Hai presunto che il tempo scorresse e lo spazio semplicemente esistesse senza renderti conto che entrambi sono in realtà complesse illusioni.»
Gli occhi del mago ebbero una scintilla di soddisfazione quando videro l’espressione dell’elfo farsi sempre più comprensiva del terrificante errore da lui commesso. Ora si rendeva conto su cosa Azura lo stava davvero mettendo in guardia.
«Lo spazio, quello che davvero conta, è quello presente fra Aedra e Daedra, fra Anu e Padomay, fra Sithis e Auriel. E il tempo è l’elemento coesivo di ogni grande entità del cosmo. Ogni cosa, ogni evento, è immanente e si verifica nel medesimo istante. Il tempo non esiste.» decretò infine il mago «E’ l’illusione di Akatosh con cui ha permesso ai mortali di avere una vita serena. Non siamo in grado di vedere la realtà delle cose. Solo i draghi, figli del Divino, possono.»
«Io… ho cercato di navigare attraverso un’illusione.» comprese Zephyr, scioccato «Ma in realtà… il mare stesso è un’illusione. Non è un mare.» le sue dita si mossero sul dispositivo, ruotando ingranaggi e rendendo la luce ancora più forte «E’ un deserto.» il dispositivo Dwemer si aprì, per poi richiudersi e diventare una sfera che si posò sul palmo della mano dell’elfo «Grazie, Naris.»
«Vattene di qui, elfo.» rise il mago umano, tornando a sedersi nel vuoto «E magari un giorno ritorna, e raccontami se infine hai trovato ciò che cercavi!»
La luce concreta e solida del cubo si fece accecante «Spero proprio di no, perché allora vorrà dire che ho fallito. Addio, grande mago.»
Poi un suono di ingranaggi che ruotano e il rintocco di una campana distante. Poi con un ultimo lampo di energia, Zephyr svanì e nuovamente l’unico rumore furono fulmini ed energie più potenti di qualsiasi altra.
«Mph… sarà una lunga attesa.» mormorò l’anziano mago, guardandosi attorno sconfortato «Odio mentire.»


4 Era – Anno 292
Nerissa e sua figlia Kendra giunsero in una tiepida giornata di sole a River Keep e si fermarono sulla riva del lago per montare la tenda ed accendere un piccolo fuoco. Poi si disposero sul limitare dell’acqua per gettare un paio di lenze e sperare che abboccasse qualche pesce per delle prede fresche.
Poi il vento iniziò ad alzarsi e piazzarono due paraventi per limitare la sabbia sul bivacco e sulle loro razioni. Altri Khajiit vennero e andarono via nel corso della giornata, nessuno si trattenne nell’oasi le cui uniche occupanti fisse furono le due Khajiit che per tutto il tempo non dissero una sola parola, non parlarono fra di loro e non rivolsero la parola ai viaggiatori che talvolta passavano per il loro campo. E nessuno di loro si fermava, colti da un terribile disagio improvviso nel dividere un fuoco da campo con quelle due presenze silenziose.
Con calma e pratica maturata da una vita, la Khajiit più anziana iniziò a lucidare le armi e l’armatura con un panno, un movimento ripetuto e infinito che, anche se inutile, la aiutava a distrarsi e a svuotare la mente.
Ormai da un anno, Zephyr era letteralmente sparito da Nirn. Un paio di volte Kendra aveva ritentato l’incantesimo di localizzazione, ma fallendo miseramente, persino con un circolo più ampio di sciamane, ma il Dunmer sembrava troppo scaltro per cadere nel loro incantesimo.
Eppure talvolta Nerissa lo aveva sentito, ad un soffio di distanza da lei, a volte in mezzo ad una città, a volte nelle terre selvagge e spesso, troppo spesso, appena prima di svegliarsi. Il ricordo di un odore familiare aleggiava davanti al suo naso in quel momento che risiede fra il sogno e la veglia…
Ma a posteriori, le era facile relegare tutto ciò alla terribile nostalgia che stava provando. Non era mai passato così tanto tempo senza vedersi da quando si conoscevano. Talvolta capitava di separarsi, ma mai per più di qualche settimana, al massimo un mese.
Un anno era impensabile, l’aveva messa alla prova più di quanto potesse sospettare o immaginare, e solo il pensiero di quel giorno le aveva permesso di andare avanti.
A zampe incrociate, con la coda che si muoveva a scatti alle sue spalle e le orecchie basse di un predatore che attende la preda, il suo sguardo era posato sull’orizzonte sabbioso di fronte a sé. Avrebbe atteso fino all’ora concordata, usando tutta la pazienza di cui era capace.
La pietra da cote percorse lentamente l’intera lunghezza della spada.
Pregò Alkosh che il Dunmer mantenesse quell’impegno, perché sarebbe stata letteralmente l’ultima volta che si sarebbero visti. E voleva quella memoria, quell’ultima, per quanto terribile memoria e il giusto coronamento della sua vita.
Poteva comprendere il dramma nel cuore dell’elfo, lo conosceva a sufficienza da riuscire a capire... ma allora perché lui non capiva lei?


Le ore passarono, il sole si alzò, giunse al suo zenith illuminando e scaldando la sabbia e l’acqua del lago su cui Kendra spesso si ripuliva e sciacquava il viso e il pelo come suo padre le aveva insegnato. Al contrario di sua madre, che si puliva con la lingua come gran parte dei Khajiit del Clan, Kendra aveva imparato ad amare l’acqua, covando in cuor suo il desiderio di poter navigare un giorno.
Poi il sole iniziò a scendere, spandendo raggi solari obliqui attraverso il fogliame delle palme sotto cui le due Khajiit riposarono pigramente, come è solitamente costume dei grandi felini, nelle posizioni più rilassate possibili.
Si risvegliarono quando il sole iniziò a toccare l’orizzonte ed iniziare a dipingerlo di rosso. Nubi sparse iniziarono a comparire in cielo e ad ingrigirsi. Nerissa prese l’armatura di stalhrim, calcandosela addosso e chiudendo le cinghie, si agganciò il cinturone con i due foderi delle spade daedriche e a grandi passi uscì dall’accampamento, dirigendosi in una conca vicina scavata nella roccia.
La figlia la seguì dopo aver recuperato il bastone da sciamana. Iniziò a recitare un breve incantesimo di luce che sparse in tutta la zona una volta che il sole, piano piano, sparì sotto l’orizzonte lasciando solo un alone rosa e rosso del suo passaggio.
La giornata era trascorsa e di Zephyr nemmeno l’ombra. Il cuore iniziò a battere più forte nel petto di Nerissa, una sensazione di ansia che semplicemente le era totalmente estranea le nacque nel petto, il pelo delle mani iniziò a sudare e la coda alle sue spalle si muoveva nervosa così come le orecchie, sempre basse.
Gli occhi verdi scandagliarono con invidiabile precisione i dintorni. Anche se anziana, era stata benedetta da una vista pressoché perfetta.
La poca luce solare rimasta svanì, il chiarore rosso scomparve oltre l’orizzonte, lasciando un infinito e meraviglioso cielo stellato su cui qualche nube viaggiava, pigra e silenziosa. E silenziose restavano anche le due Khajiit, mentre le ore passavano. E più il tempo passava, più Nerissa era irrequieta, stringendo i pugni fino quasi a far risaltare il bianco delle nocche sulla pelliccia nera.
Il silenzio persisteva e il tempo continuava a passare, inesorabile, un silenzio irreale come se persino gli animali del deserto stessero tacendo, consci di quel momento delicato.
Impercettibilmente, Nerissa iniziò a tremare, ma non per il freddo che, in mancanza del sole, era terribile nel deserto di Elsweyr. Ma erano Khajiit del Clan Khamsin, non era cosa che li impensierisse. Il freddo che stava nascendo nel cuore di Nerissa, invece, era decine di migliaia di volte più terribile.
«Fado…» mormorò sua figlia dietro di lei «…è ora. Le stelle sono in posizione, è mezzanotte.»
Nerissa non si mosse, ma tremava, terribilmente. Anziana e tremante, scoprì i denti in un ringhio silenzioso, ma i suoi occhi verdi mostravano vera e autentica disperazione.
Cadde in ginocchio sul terreno, smuovendo un po’ di sabbia posando i palmi a terra per sostenersi, e lacrime calde caddero dai suoi occhi sul terreno aspro.
Perché ne era sicura, non era una speranza la sua, ma la sicurezza adamantina che il Dunmer sarebbe venuto, almeno per vederla un’ultima volta, anche solo per dirlo che no, non poteva, non l’avrebbe uccisa.
L’avrebbe accettato, più dell’assoluta assenza. Perché era stata chiara, quella era l’ultima occasione in cui lui avrebbe potuto vederla. Poi avrebbe cercato il destino che ogni guerriero anela.
Sentì dietro di sé sua figlia poggiargli una mano sulla spalla «Rientriamo, possiamo aspettarlo ancora…» provò a dire, ma Nerissa nemmeno sentì quelle parole.
«Va’ via.» disse soltanto, senza nemmeno voltarsi «Lasciami sola.»
Kendra arretrò come se si fosse bruciata la mano. La guardò un’ultima volta con espressione triste, sentiva la disperazione del genitore in ginocchio davanti a lei, avrebbe voluto aiutarla… ma più in là di così non poteva andare.
«Ti aspetto in tenda.» disse solo, sapendo di mentire a lei e a sé stessa.
L’altra non gli rispose e Kendra semplicemente se ne andò, in cuor suo sapendo di star facendo un terribile errore.


Non seppe dopo quanto Nerissa rialzò lo sguardo davanti a sé. Erano poche le lacrime versate per chi per una vita non ne ha mai versata alcuna. Aveva appena pianto per l’unica persona cui pensava potesse mai farlo.
Ancora in ginocchio, prese una spada estraendola lentamente dal fodero. La costellazione del Guerriero brillava limpida in cielo sopra di lei, formata da stelle rossastre ben visibili nel cielo notturno. Non poteva esserci momento migliore per porre fine ad una vita dedicata al combattimento.
Per spada lei era nata, per spada lei era cresciuta. E allora, nel cielo di Azurah della Notte, con il migliore degli auspici del Guerriero, per spada sarebbe morta, così com’era consuetudine, così com’era giusto che fosse.
Ed aveva paura ed eccitazione allo stesso tempo, perché solo adesso si rendeva conto di quanto egoistico fosse il suo desiderio e di quanto Zephyr potesse essersi sentito disperato al pensiero di porre fine alla vita di chi amava sopra ogni altra cosa.
Ma ora che importava? Prima di lui, lei era sola e libera. Era giusto che morisse come tale.
Sola.
E libera.
Uno squarcio di energia bianchissima si aprì all’improvviso davanti alla Khajiit, un’energia incredibile che la fece cadere a terra per la sorpresa, nascendo dall’aria come un fiore bianco da un terreno fertile. Ed in quella luce avanzò una figura sostenendo nella mano una sfera lucente, fonte di quella meraviglia che emetteva raggi di luce che si dipanavano come una ragnatela attorno a lei, scavando solchi brillanti nell’aria e nella sabbia.
Poi tutto divenne più tenue, la luce si ritirò, lo squarcio si richiuse, e tutto ciò che rimase fu la figura che ne era emersa.
E Nerissa non poteva sbagliarsi perché aveva sentito l’odore della figura per decenni, avendola accanto a sé per la stragrande maggioranza della sua vita, nei suoi sogni e sentendola anche quando non c’era.
Perché era una parte di lei più importante di quanto lo fossero la solitudine e la libertà.
Zephyr le sorrideva debolmente, per poi gettare la sfera spenta di lato, ormai disinteressato a quell’oggetto. Non ne aveva più bisogno.
«Scusa il ritardo.» mormorò, con gli occhi semichiusi, occhi stanchi e anziani «Aspettavo che Kendra se ne andasse.»


Nerissa non capiva: l’odore era il suo, era lui, ma allo stesso tempo non poteva essere Zephyr. Davanti a lei c’era un Dunmer anziano, con lunghi capelli bianchi, una barba curata ma bianca anch’essa così come ormai bianche erano anche le sopracciglia, la pelle grigia che ricordava liscia e giovane, era solcata dalle profonde rughe dell’età e gli occhi rossi una volta brillanti e vivi ora erano opachi e spenti dalla stanchezza della vecchiaia.
«Ho viaggiato un po’.» spiegò con voce bassa e roca «Più di quanto avrei dovuto, forse. Più a lungo e più in largo di quanto potresti immaginare.»
Anche le vesti che indossava e le armi che portava erano differenti: aveva un’armatura nera apparentemente leggera con vesti blu e bianche, ed una katana di chiara fattura Akaviri, pendente dal cinturone. Appesa all’elsa vide la zanna di drago che lei gli donò decenni prima, come pegno.
Ma era lui. Lo sentiva, lo vedeva e l’istinto le stava urlando che non c’era inganno. Zephyr alla fine era venuto.
Si rialzò e gli si gettò al collo stringendolo come non aveva potuto fare per un lungo anno. L’elfo la prese al volo, stringendola a sua volta e sospirando di sollievo.
«Scusa se… non sono venuto prima.» disse ancora, ad occhi chiusi «Ma c’era una cosa che dovevo fare. Che sto ancora facendo.»
La Khajiit si staccò leggermente da lui, guardandolo «Sei… vecchio. Molto vecchio.»
«Ho cinquecentosessantatrè anni.» replicò lui con un sorriso compassionevole.
L’altra sgranò gli occhi «Come…? Perché?»
Le mani del Dunmer le accarezzarono le spalle e le braccia, sentendo sotto i guanti la pelliccia nera per quella che sapeva essere l’ultima volta. Poi le prese le mani fra le sue, osservandole con attenzione: erano mani anziane, ma forti, che ancora sapevano reggere una spada con vigore.
«Perché sapevo di non poterti dare ciò che cercavi.» le rivelò, con amarezza «Non sono abile come te, Ner’Isha. Sei una delle guerriere più valenti che siano mai comparse su Tamriel, non te ne sei resa mai conto. Sei un genio della spada ed anche adesso, con novant’anni sulle spalle, rimani inarrivabile per uno come me che non è bravo in nulla.»
«Shal’Zephyr, tu…» provò a dire lei, ma l’altro la zittì con un gesto della mano.
«E’ così. Non avevo alcuna speranza di darti ciò che cercavi, una morte gloriosa in combattimento, né avevo il cuore per farlo. Così… ho deciso di andarmene, semplicemente. Viaggiare, fare esperienze, visitare maestri, confrontarmi con altri guerrieri e con altre guerre.» le raccontò, mentre gli occhi si velavano al ricordo.
«Quella sfera di luce…» e le indicò l’artefatto a terra «…mi ha permesso di ampliare le mie esperienze ancora di più. Ho viaggiato e visto luoghi ed eventi che puoi solo immaginare, guerre talmente violente che il sangue aveva sostituito il fango, combattimenti talmente raffinati da rasentare l’impossibile, duelli sostenuti a fil di spada in luoghi dove era difficile persino respirare. E tutto questo…» concluse stringendole le mani fra le sue «…per te. Tu me lo hai chiesto ed io l’ho fatto. Darti un ultimo grande, meraviglioso combattimento con un avversario abile quanto te.»
In quel momento, ogni pensiero di disperazione, ogni dubbio nutrito sull’amore del Dunmer, svanì totalmente. Raramente comprendeva quando l’altro gli parlava di magia e cose simili, ma questa volta aveva compreso quanto bastava: lei aveva passato solo un anno in sua assenza, ma Zephyr aveva trascorso secoli senza di lei, e con il solo scopo di tornare infine, esattamente quando lei gli ha detto di farlo, e darle esattamente ciò che gli ha chiesto.
Secoli. E in tutto quel tempo, Zephyr non l’aveva dimenticata, si era invece migliorato e affinato le sue tecniche, ricordandola ogni giorno della sua vita, al solo scopo di essere lì, in quel preciso momento, solo per lei.
Allungò il muso verso il viso grigio del Dunmer baciandolo con una passione che non sentiva da molto tempo stringendo il corpo magro fra le mani, abbracciandolo come non aveva potuto fare in un anno di assenza «Shal’Zephyr…» mormorò, con la voce roca per l’emozione «…grazie.»
La mano del Dunmer le accarezzò dolcemente il muso e la nuca, e lei gli strusciò il viso contro le dita com’era solita fare.
«Pronta?» le chiese soltanto.
La Khajiit inalò l’odore dell’elfo un’ultima volta, poi si staccò da lui e con un gesto secco contemporaneamente estrasse le due lame daedriche che brillarono di un riflesso rossastro due splendide sciabole finemente intarsiate sul cui pomolo erano state appesi due amuleti dedicati ad Alkosh, il Dio Drago dei gatti, ovvero un artiglio e una zanna entrambi appartenenti ad un drago da lei abbattuto anni prima.
Con un movimento elegante il Dunmer fece lo stesso, facendo volteggiare una sottile lama di stalhrim di antica forgiatura Akaviri nella mano destra, mentre attorno alla sinistra comparve un alone chiaro di magia che ricoprì il suo avambraccio, modellandosi sulla forma di un piccolo scudo, non più grande di un buckler, con meravigliose decorazioni di viticci e foglie su di esso.
Lentamente, si misero in posizione l’uno di fronte all’altro. Non servivano parole, si conoscevano troppo bene per averne davvero bisogno in un simile frangente.
Il corpo seminudo della Khajiit si piegò leggermente con le gambe flesse pronte a scattare, posizionando le due lame di fronte a sé, illuminate dalla luce delle stelle che donava al metallo una luminescenza rossastra mentre il Dunmer alzava il braccio destro dello scudo magico di fronte a sé alzando la lama di ghiaccio sopra la testa.
Poi, con un movimento sincrono, scattarono in avanti l’uno contro l’altro. Una spada daedrica si abbatté violentemente contro lo scudo di magia facendo sprizzare scintille azzurre che caddero a terra bruciando la sabbia mentre le altre due spade risuonarono l’una contro l’altra.
Con un rotazione del busto di centottanta gradi e roteando le agili zampe inferiori, la Khajiit staccò la spada dallo scontro con quella del Dunmer per schiantare anche la seconda arma contro lo scudo mistico, un impatto tale che per poco non fece inginocchiare l’elfo a terra che rapidamente tentò un affondo dritto contro il costato dei Nerissa che agilmente scartò di lato, spostandosi di profilo.
Con un gioco di zampe, la Khajiit completò la giravolta togliendo le spade dallo scudo ed eseguendo due fendenti consecutivi all’altezza del viso dell’elfo che stringendo i denti arretrò di scatto frapponendo la spada di stalhrim e usandone l’impeto per allontanarsi dalla portata delle spade della felina.
Che sciocco era stato, pensare che la tecnica accumulata in secoli potesse eguagliare se non anche superare l’istinto di una guerriera nata come Nerissa. Lui era solo un elfo comune mentre lei era letteralmente il risultato definitivo dell’istinto, del talento e del duro lavoro, la summa assoluta di questi tre principi.
Ed ora, anche se novantenne, potenzialmente decrepita, rimaneva comunque una delle guerriere più letali e mortali di Nirn.
«Sono stato via troppo a lungo, temo.» ammise, rimettendosi in posizione «Non ricordavo quelle mosse.»
L’altra scrollò le spalle, facendo volteggiare nuovamente le due sciabole demoniache «Non le avevo mai eseguite infatti.»
Il Dunmer strinse il pugno sinistro e lo scudo mistico riacquistò energia brillando luminoso. Nerissa era un genio tale nel combattimento istintivo da poter effettivamente eseguire mosse mai compiute prime, non era una persona comune come lui che aveva necessità di allenarsi e ripetere la stessa tecnica ancora e ancora e ancora, al fine di memorizzarla.
Sperava con tutto sé stesso di essere in grado di tenere fede alla promessa.
L’elfo scattò in avanti con la mano rivolta all’indietro nell’intento di portare un’ampia spazzata davanti a sé, un fendente largo, chiaramente una finta e il principio di una sequenza combinata di attacchi. L’altra iniziò già ad arretrare all’indietro con una zampa, ma all’ultimo la presa sulla katana cambiò, portandone il filo verso l’alto ed eseguendo invece un fendente verticale. Rapide, le due sciabole della Khajiit si disposero a croce sopra la sua testa intercettando il colpo con un fragore di scintille, poi spostò il corpo di lato contemporaneamente ritirando la spada di destra ed abbassandola in un fendente obliquo che il Dunmer schivò lasciando passare la lama accanto a sé ad un passo dalla sua pancia, solo per portare lo scudo magico in avanti e con esso tirare un colpo secco al muso della felina che arretrò di scatto.
Un ringhio secco da Nerissa, l’elfo vide i suoi occhi assottigliarsi pericolosamente come quelli di un animale da preda, il pelo ingrigito arruffarsi, gli artigli farsi più visibili su mani e zampe, e i denti scoprirsi un poco un ampio e terribile sorriso. L’ultimo.
La Khajiit letteralmente balzò in avanti, con le lame levate in fendente doppio che il Dunmer parò solo per vedere le spade daedriche balenargli alla sua destra. Si voltò di scatto, piegando il polso e facendo scattare la katana in avanti deflettendo il doppio attacco.
L’istante successivo sentì una spada colpire lo scudo incrinandolo terribilmente e il morso del ferro al fianco sinistro. Un taglio si era aperto sulla veste blu, macchiandola di sangue.
L’altra si fece indietro, dandogli la schiena, sprezzante, e facendo ondeggiare la coda come una gatta che gioca.
Rapido si rimise in posizione, conscio che era un taglio da nulla. Era solo il primo sangue e non era il suo obiettivo.
Lei ancora gli dava la schiena, ma non osava attaccarla, sapeva che era una trappola, in realtà stava tracciando la sua posizione con l’odore e l’udito. Avrebbe anticipato il suo attacco ancora prima di iniziare ad eseguirlo. Ma se rimaneva chiuso in difesa, la sua sarebbe stata una lenta e terribile agonia, destinato ad essere sconfitto taglietto dopo taglietto…
Nerissa si voltò di scatto, con gli occhi verdi affilati e offuscati dal furore della battaglia in corso per lanciarsi nuovamente contro di lui, mulinando le due spade come un vortice tagliente. Il Dunmer alzò lo scudo, iniziando a deflettere colpo dopo colpo, contrastando la spada della felina con la sua ogni volta che si avvicinava troppo al fianco destro. Altri tagli si aprirono sulla spalla destra, sulla gamba sinistra e sul costato, tutti e tre superficiali, ma sanguinanti e dolorosi.
Un altro doppio attacco venne portato al suo ventre, ma l’elfo lo defletté via con un gesto brusco della katana. Con un balzo, la felina seguì l’impeto, evitando agilmente il colpo di scudo alla schiena e girandosi a mezz’aria lasciandogli un quarto taglio sulla gamba destra, all’altezza di ginocchio.
Gocce di sangue ormai imbrattavano la sabbia sotto l’elfo, sottili e insignificanti, ma… tante. E dolorose. Tristemente, si rese conto che non poteva vincere. Tutto si riduceva a resistere il più a lungo possibile, nella speranza di portare un singolo colpo mortale, ma altresì era conscio che non sarebbe mai accaduto.
Nerissa era troppo abile, troppo veloce, lo eclissava sotto ogni aspetto, forza, precisione, velocità, istinto… non aveva tecnica, di alcun genere, ma non ne aveva mai avuto bisogno. Aveva fatto del suo istinto la sua tecnica.
Fu a quel punto che l’elfo capì cosa andava fatto.
Con uno schiocco di dita, lo scudo mistico svanì nell’aria disperdendosi in scintille, quindi prese la katana a due mani assumendo la posa Akaviri definita “chudan-no-kamae”: leggermente di profilo, saldo sulle gambe, schiena rilassata e perpendicolare al terreno, la katana alta di fronte a sé. Gli occhi rossi, decisi e seri, erano fissi in quelli verdi ebbri di furia combattiva di Nerissa che rapida allargò le lame di fronte a sé.
Una scia rossa brillante la seguì quando scattò in avanti, generata dal lucore che le stelle riflettevano sul metallo delle spade daedriche, trasportata da quella furia che l’aveva sempre colta in quei momenti. La terra si svelleva ad ogni sua zampata in avanti mentre il Dunmer l’attendeva il silenzio e immobile con la spada levata di fronte a sé, la fronte corrugata per la concentrazione.
Furia e fuoco e sangue contro calma e gelo e spirito.
Poi le lame cozzarono l’una contro l’altra, un lampo rosso e azzurro, scintille che diventarono scariche di energia ed uno scambio di colpi talmente rapido da non essere visibile. Ciò che fu visibile fu solo il risultato, le due sciabole demoniache piantante nel costato del Dunmer e la lama di ghiaccio che trapassava il petto della Khajiit.
Zephyr tossì emettendo sangue che cadde a terra, lasciando la presa sulla spada con mani tremanti già sporche del sangue di Nerissa che scendeva dalla ferita e dalla mascella. Allo stesso modo, lei lasciò la presa sulle spade, sorridendo tristemente e con uno sforzo alzò le braccia abbracciando debolmente il Dunmer a sé.
Le gambe cedettero ad entrambi e caddero in ginocchio sulla sabbia soffice, il respiro ormai corto e breve, il sangue che lentamente ma inesorabilmente si allargava sotto di loro, mescolato insieme.
Alzarono gli occhi, rispecchiandosi in quelli dell’altro, sorridendo come due ragazzini. Erano anziani e provati da una vita di battaglie e il respiro mancava loro ad ogni istante, eppure non potevano fare a meno di guardarsi e sorridere, come a volersi incoraggiare a vicenda.
Gli occhi verdi di Nerissa ora erano limpidi e luminosi, si era sollevato quel velo di nebbia sanguinaria lasciando la persona che l’elfo aveva amato per decenni e secoli, per cui aveva compiuto quel lungo e terribile percorso, una vita dedicata a quello scopo, e tutto solo per avere quello che hanno gli umani: vivere e infine morire insieme alla persona che si ama.
Avrebbe potuto farlo prima, ma doveva vivere la sua vita appieno e completamente per comprendere davvero come fare.
«Avresti potuto schivarlo.» mormorò Zephyr, con un filo di voce. Un altro colpo di tosse, le spade gli trasmettevano dolori atroci e terrificanti a cui non sapeva dare voce o nome.
Nerissa gli accarezzò dolcemente il viso grigio, rispecchiandosi in esso. Erano entrambi anziani e vecchi, avevano vissuto tutti e due una vita piena, sebbene in modi diversi. Non voleva questo per Zephyr, avrebbe sinceramente voluto che dopo di lei, lui continuasse la sua vita, ancora lunga e ricca di eventi.
L’aveva fatto, ma solo per dedicarle quella sua ultima fatica e adempiere al suo desiderio. Una parte di lei desiderava la libertà del Dunmer, così lei aveva sempre esercitato la sua, e tuttavia si rendeva conto che, forse, era quella la libertà di Zephyr: lui aveva liberamente scelto come vivere la sua vita. E aveva deciso di farlo in nome di chi ha amato di più, dedicandole i suoi ultimi istanti di vita.
«Anche tu.» rispose la Khajiit, accarezzandogli i capelli.
Per qualche motivo, al Dunmer venne da ridere «Siamo due vecchi idioti.» mormorò accarezzandole il muso per l’ultima volta. Poi la mano cadde, gli occhi rossi si appannarono e l’ultimo respiro venne esalato.
Nerissa abbracciò il corpo dell’amato, per poi distenderlo a terra. Lo guardò fino alla fine, mentre sentiva le forze venirle sempre meno e la macchia di sangue si allargava sempre di più sotto di lei.
«Grazie, Jo’Zephyr.» mormorò, con gli occhi lucidi, distendendosi accanto al corpo dell’elfo con il muso posato sul suo collo. Poi chiuse gli occhi, addormentandosi su di lui come tante volte aveva fatto nei loro fuochi da campo, a Skyrim dove tutto era iniziato.
Ner’Isha Khamsin “Lama di Ossidiana” morì prima del sorgere del sole.
  
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