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Autore: Gaia Bessie    20/10/2020    1 recensioni
What if?:Asahi non è mai tornato in squadra.
[Epilogo: Quando si smussano gli scogli]
Io ti aspetto, te lo prometto.
[Long-fic di 15 capitoli | AsaNoya, Suga/Shimizu, accenni di KageHina | Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Seconda classificata al contest "Canon compliant? I think not!" indetto da Maiko_chan sul forum di EFP | Partecipa al "Gioco di scrittura" del Gruppo FB Caffé e Calderotti]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara, Yuu Nishinoya
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ringrazio chiunque leggerà questa storia. Prossimo aggiornamento: 24 ottobre.
 
2. Cera che cola

 
Il sognatore è al suo tavolino: è nella sua stanza: accende la sua lampada.
Accende una candela.
Accende la sua bugia
(Gaston Bachelard)

 
L'assenza affievolisce le passioni mediocri e aumenta le grandi, come il vento spegne le candele e ravviva il fuoco
(François de La Rochefoucauld)
 
 
Ci sono candele accese su un fiume che sfregia Tokyo come l’ennesima ferita: ogni estate, quello squarcio s’illumina di una dolcissima luce aranciata, che ha il sapore della speranza. Novembre non è il periodo giusto per il Tōrō4, ma è il momento dell’anno che maggior speranza richiede: così, pur non avendo corsi d’acqua a disposizione, ogni sera Shimizu si siede di fronte alla finestra di camera sua e accende una candela nel buio che la circonda.
In questo modo, la notte diviene solamente l’ennesimo fumo acre e bruciato, che cela un manto trapuntato di stelle. Lei rimane lì, a guardare la luna che pallidamente prova a illuminare tutto il cielo da sola: non può farcela, ma continua a tentare.
Allo stesso modo, Shimizu vive nella consapevolezza che non può costringere qualcuno a riamarla, ma può continuare a provare. Può continuare a guardarlo di nascosto, mentre ride, si fa rimproverare da Daichi e a sua volte rimprovera Nishinoya, Tanaka e Hinata – a volte persino Kageyama – comportandosi come un fratello maggiore.
Kiyoko vorrebbe essere egoista, e desiderare di rompere quell’armonia, ma non ci riesce: lei lo sa, perché Suga la guarda e non dice una parola, ma china il capo e arrossisce in silenzio. Perché, la maggior parte delle volte, la guarda e tace come se non  avesse risposte da darle quando lei gli rivolge la parola.
Sugawara non muoverà mai un passo verso di lei, che rimarrà a guardarlo sulla sponda sbagliata del fiume, domandandosi se sia possibile nuotarvi dentro o se il freddo la ucciderebbe.
Così, ogni sera, ogni martedì ricordato da Nishinoya, Shimizu si avvicina al davanzale della propria finestra e accende una candela che rischiara la notte. E, per qualche ora, la luna non dovrà illuminare il mondo da sola.
Ma, quando la flebile fiammella si spegne, il buio se ne mangia i colori e la forma tramutandola nell’ennesimo oggetto senza scopo o colore. Immersa nell’oscurità della propria camera, si domanda se non sia questo che Sugawara pensa della propria infatuazione per lei: che non sia altro che l’ennesimo attaccamento insensato da sperimentare, che potrebbe rivelarsi distruttivo per la squadra – cui sicuramente tiene più di lei.
E Kiyoko si trascina a un allenamento dietro l’altro, senza smettere la maschera di calma e quiete che indossa ma, nel vedere Suga che evita il suo sguardo o non lo ricambia, le trema il cuore. Perché il palleggiatore salta, esulta, ride con i suoi compagni ma, lei, non la guarda mai.
È ancora presto per attendere l’arrivo dell’estate ma le candele sulla sua finestra sono solamente l’ennesimo desiderio abbandonato lungo il fiume e, allora, la voglia di vederne colare la cera sul fondale è irresistibile.
 
***
 
«Perché non lo vai a trovare, se sei così preoccupato per lui?».
Per Shōyō il mondo è semplice, colorato e pieno di emozioni: è fuori dal suo raggio di comprensione, perché Azumane possa aver deciso di abbandonare la squadra, o perché Nishinoya tentenni così tanto di fronte a quella sua improvvisa assenza. La pallavolo dovrebbe essere un motivo sufficiente – no, di più: essere l’asso dovrebbe esserlo – per convincere Asahi Azumane a ritornare ad allenarsi.
«Non può di certo presentarsi così a casa sua, senza una spiegazione, solamente per dirgli ciao» lo rimbecca Kageyama, secco. «Idiota».
Hinata è già pronto a rispondergli a tono ma, poi, osserva il viso del libero e non riesce a far fuoriuscire le parole. Perché Noya si guarda i piedi e, se solamente alzasse il viso, si accorgerebbero tutti che potrebbe quasi essere sul punto di piangere.
Kageyama sospira, pensando che è a malapena pomeriggio e lui non è fisicamente pronto a una crisi di pianto.
«Non è così difficile» cerca di rassicurarlo. «Basterebbe portagli i compiti» continua l’alzatore, con ovvietà. «Qualcuno dovrà pur farlo, prima o poi, tanto vale che sia tu ad andare. Così potresti vedere come sta».
«Non so chi è stato incaricato di portarglieli» mormora Nihsinoya, atono. «Dovrei chiedere in giro e poi, io…».
Qualcuno gli picchietta la spalla, costringendolo a voltarsi e a venire investito dallo smagliante sorriso di Sugawara. L’alzatore ha in mano un quadernetto nero, che agita davanti al viso dei suoi compagni di squadra.
«Penso – letteralmente – di essere il vostro uomo» ride. «Perché, vedete, ho io i compiti per Asahi».
«Potevi anche dirlo in maniera meno ambigua, non credi?» borbotta Tsukishima, alle sue spalle. «Penso di essere il vostro uomo? Davvero, Suga?».
Nishinoya non esita a prendere il quaderno dalle mani del proprio compagno di squadra, tenendolo stretto a sé quasi come si trattasse di un tesoro. O di un desiderio colato via dalla cera di una candela per ustionargli le mani. E forse anche il cuore.
«Suga-san!» strilla, guardando l’alzatore. «Grazie mille!».
Sugawara sorride dolcemente ma, dietro di sé, percepisce con indefinibile chiarezza gli occhi di Kiyoko Shimizu trapassargli la schiena, passando dalle scapole per afferrargli il cuore.
«Di niente!» risponde. «E saluta Asahi da parte mia e di Daichi e digli… che questa palestra, questa squadra, sono ancora casa sua».
Nishinoya annuisce, mentre si affretta a uscire dalla palestra. Casa sua. Asahi probabilmente direbbe di non conoscere il significato di quella parola, pur di rimanere sepolto nel suo mondo di calma artefatta in cui s’è rifuggiato.
Ma, riflette, Sugawara ha ragione: è ora che Asahi torni a casa.
 
***
 
Casa di Asahi suona di vuoto.
Le tapparelle sono abbassate, non vi è nemmeno una luce accesa, né si ode alcun movimento tra le pareti. È una casa di fantasmi, pensa Noya con un brivido, fantasmi che hanno preso con loro anche lo schiacciatore, impedendogli di scappar via. Ma, quando suona il campanello, inghiottendo la paura per gli spettri, è Asahi ad affacciarsi dalla finestra.
«Nishinoya?» domanda, incredulo. «Cosa ci fai qui?».
Noya nota con orrore che Azumane indossa ancora il  pigiama e ha i capelli spettinati e sporchi, persino una macchia di curry gli decora la maglia. Vorrebbe domandargli cosa gli sia successo: è pomeriggio inoltrato – troppo presto per andare a dormire e troppo tardi per svegliarsi – ma lo schiacciatore ha un’aria così stanca e turbata che, ancora una volta, al libero mancano le parole.
«Ti ho portato i compiti» dice, infine, aspettando che Asahi si decida a scendere per aprirgli la porta. «Doveva farlo Suga, ma ha detto che potevo andare io, perché… volevo vederti. Sei sparito da una settimana e…».
Asahi sospira, passando una mano tra i capelli sciolti. «Scendo subito» esala, senza convinzione. «Aspettami un attimo, arrivo».
Dopo pochi attimi, la porta si apre lentamente. Da vicino, Azumane sembra ancora più stanco ed esasperato di quanto a Noya non fosse sembrato, dalla finestra.
«Asahi-san» borbotta, senza convinzione. «Cosa ti è successo?».
Lo schiacciatore abbassa lo sguardo sulla maglia macchiata e i pantaloni del pigiama, sui propri piedi nudi, come se non avesse realizzato di aver aperto a Noya in quelle condizioni. Ma, se solamente potesse guardarsi in volto, capirebbe: perché un fantasma stanco e con cerchi scuri sotto gli occhi gli restituirebbe lo sguardo, spaventandolo a morte.
«Ho solamente dormito male» risponde, infine. «Vieni, entra. Preparo del tè».
Nishinoya lo segue, silenziosamente, nella viscere di quella casa buia ed estranea: Asahi cammina piano, come se ogni passo pesasse in maniera indescrivibile, fino alla cucina.
«Siediti pure» mormora, indicandogli il tavolo. «Arrivo subito».
«Asahi» lo chiama, Noya, con una serietà che turba il suo interlocutore. «Cosa ti sta succedendo?».
Perché sei così apatico, vorrebbe domandargli, perché sono giorni che non vieni a scuola, che mi eviti, che non riesco a trovarti?
Perché Nishinoya ha cercato Asahi in ogni ombra, in ogni passo e persino nella luce riflessa del sole, ma non l’ha trovato mai.
«Te l’ho detto» risponde Azumane, porgendo al ragazzo una tazza di té. «Ho solamente dormito male».
«Per una settimana?» domanda il libero, perplesso. «Sei letteralmente sparito per giorni e oggi è…».
È martedì. Ma non riesce a dirlo, perché Asahi guarda fuori dalla finestra come se tra le nuvole vi fosse una risposta alle domande di Noya, e non dice una parola.
È dimagrito, nota Yū con orrore. In una settimana quanto peso potrà aver perso? Forse la sua è solamente suggestione, ma lo schiacciatore sembra già meno imponente: magari non sta mangiando come dovrebbe o magari – si domanda con orrore, guardandolo sedersi, affaticato – non sta mangiando e basta.
«Lo so, è di nuovo martedì» risponde Asahi, laconico. «Non pensavo saresti venuto fin qui per ricordarmelo».
«No!» strilla Noya, il volto contorto dalla delusione. «Oggi è il primo giorno in cui riesco a vederti, a sapere che ci sei ancora. Da una settimana».
Azumane lo guarda e sembra non comprendere, così sorride lievemente e scuote il capo, quasi come si sentisse in dovere di consolarlo.
«Conta qualcosa per davvero?» gli domanda. «Scommetto che sei stato in compagnia di Tanaka, o di Hinata. Non penso che la squadra ti abbia lasciato solo, sono… sono tuoi amici».
Yū lo guarda, è così deluso da far male. «Certo che conta» risponde. «Per me contavi».
Asahi sospira, guardando la propria tazza di tè, e non si rende nemmeno conto che Nishinoya ha usato un verbo al passato.
 
***
 
«Suga-san» Nishinoya lo chiama, sebbene sembri totalmente privo della sua solita energia. «Domani, per favore, fammi avere di nuovo i compiti per Asahi. Glieli porto io, se per te va bene».
Sugawara annuisce, senza convinzione. Noya l’ha dipinta in faccia, quella delusione devastante, quell’insoddisfazione: gli è rimasta della doratura sulle mani, come farà a sciacquarla via di lì? O, forse, non è doratura ma è ectoplasma e lui ha parlato con uno spettro che ha preso il posto di Azumane.
Perché quell’essere con cui ha bevuto il tè, si dice, non può essere Asahi: l’ha visto stanco, sfiduciato, ma mai così depresso. Così ostile nei suoi confronti. E, sul finire, Azumane non è nemmeno riuscito ad ascoltarlo, mentre Noya cercava di convincerlo a tornare a casa.
«Sei sicuro?» domanda Suga, sorridendo. «Posso andare io, se tu non te la senti».
Ma Nishinoya sorride e ha il fuoco nello sguardo: non una candela che si scioglie dolcemente, o una brace sul punto di spegnersi, no. Ha un incendio che gli marchia l’iride di una determinazione incontattabile, che Suga non comprende ma ammira silenziosamente.
«Finché non mi dirà di andarmene» risponde Noya, piano. «Io continuerò a chiedergli di tornare qui, con me».
Il palleggiatore vorrebbe metterlo in guardia: più grosso è l’incendio e più cenere si lascia dietro, ma non riesce – non riesce – a dire a Yū che solamente nelle favole si è in grado di salvare qualcuno. Che, nella realtà, non esistono salvataggi miracolosi. Solamente Asahi può uscire di casa e tornare a vivere ma, questo, Noya non lo comprende.
Suga vorrebbe dirgli tutto questo, ma viene interrotto da Shimizu che lentamente si avvicina a loro, porgendo qualcosa al libero. È una candela.
 
 
***
 
«Kiyoko» la chiama, così piano da rischiare di non essere udito, sulla via verso casa. «Io… posso accompagnarti a casa? Vorrei parlare con te, se… se sei d’accordo».
Lei non maschera la sorpresa e annuisce, spaesata, mentre prendono a camminare insieme, nella strada ombrosa e deserta – e i passi rimbombano in quel silenzio strano, e innaturale, finché Suga non la guarda e sospira, stanco.
«Io…» comincia, incerto. «L’ho capito, a un certo punto, che dovevo dirtelo. Che non potevo più semplicemente ignorarti e…».
«Cosa?» domanda lei, perplessa. Ma una lucina caldissima, forse l’ennesima candela semi-sciolta, ha cominciato a intiepidirle il cuore.
«Lo sai» mormora Suga, con la voce che fatica ad uscire. «Io… non sono bravo a parlare, non con te. Ma quello che sto cercando di dirti è che…».
Si passa una mano in fronte: Sugawara è bravissimo a incoraggiare i compagni di squadra, a tirare fuori il meglio di loro, a essere il perfetto vice di Daichi ma, quando si ritrova davanti Shimizu, perde le parole.
«Tu mi piaci» esala, infine, come se stesse finalmente respirando per la prima volta. «E mi piaci da quando eravamo al primo anno, prima di… di Tanaka, Nishinoya e tutto il resto».
A lei s’è fermato il cuore, così che a stento riesce a guardarlo negli occhi, ma le è rimasta abbastanza forza per allungare le mani e prendere quelle di lui. Suga sorride e – per la prima volta, da quando lo conosce – non si scosta, sebbene arrossisca comunque e abbassi lo sguardo, imbarazzato.
«Ma non m’importa» sussurra lui, piano. «Perché voglio stare con te… se anche tu lo vuoi, perché… oh, scusami, ho implicato che, io…».
Shimizu ride, con una delicatezza che lo spiazza, come ogni volta che accade. «Sì» dice, semplicemente. «Anch’io lo voglio».
Suga spalanca gli occhi, quasi come faticasse a crederci: basterebbe solamente un piccolo passo in avanti, per azzerare la distanza tra di loro, per ripararsi dal vento gelido di novembre con il semplice contatto tra pelle e pelle. Ha la tentazione di arretrare, ma Shimizu lo osserva con una tale aspettativa che non riesce a cedere alla sua parte meno coraggiosa, così compie inaspettatamente quell’unico passo.
Se la mangia, quella distanza, la brucia viva, la alza via come la palla verso lo schiacciatore e si ritrova gli occhi di lei – l’ennesima marina – puntati sul volto.
«Si può sapere cosa state facendo?» strilla Hinata, trascinando a piedi la propria bicicletta. «Non dovete andare a casa? Suga guarda che domani dobbiamo allenarci!».
Il rumore di un colpo attutito li scuote, costringendoli a voltarsi verso Shōyō, intento a massaggiarsi il capo, e Kageyama. L’alzatore ha ancora la mano alzata, pronta a colpire nuovamente il centrale con forza.
«Sei un idiota, Hinata» sibila, prima di chinarsi leggermente in avanti, in un cenno di saluto, e afferrare Shōyō per il colletto della divisa. «Noi adesso andiamo via, Suga-san. A domani».
Kiyoko ride, nuovamente. Suga rimane a fissarla, incantato.
 
***
 
«Asahi-san!» il giorno dopo, Noya si presenta nuovamente a casa di Azumane. «Ti ho portato i compiti, sono sempre quelli di Suga!».
Ma, questa volta, Asahi non risponde immediatamente e, quando finalmente va ad aprirgli la porta, ha un vistoso taglio sulla mascella. Yū non riesce a non guardarlo, come ipnotizzato, quella striscia di sangue secco che deforma il volto dello schiacciatore in un secondo – unico – inquietante sorriso. Tende la mano, vorrebbe toccarlo, vedere se sta bene – ma Asahi fa un passo indietro, turbato.
«Cosa hai combinato?» domanda Noya, perplesso. «Hai sbagliato a raderti? Pensavo avessi imparato, ormai».
Ma la barba di Asahi è sempre lì, più incolta del giorno prima, a contornare quello squarcio: se Noya potesse toccarlo, quello certamente riprenderebbe a sanguinare, macchiandogli le dita.
Il pensiero che possa essersi tagliato di proposito non lo sfiora, come potrebbe? Ha una tale fiducia in Asahi da non poter contemplare il pensiero che si possa voler ferire con le proprie mani.
«Sì, esatto» risponde Azumane, secco. «Io… ero distratto, sono così stanco che è difficile ragionare lucidamente».
Lo dice con un tono tale che a Noya, per un momento, s’infrange il cuore in un coro di sussurri: Asahi è stanco, stanco per davvero, ma non è solo l’insonnia. È qualcosa di più profondo, di più esistenziale, è stanco come la fiammella che erode l’ultima parte della candela, prima di spegnersi definitivamente.
Perché sono belli, i lumini, ma alla fine si spegneranno tutti quanti alla prima ventata di gelo o al primo schizzo d’acqua – s’è spento, Asahi? Ed è stato vento o acqua, a inzuppargli le ossa di quel tacito dispiacere?
«Dimmi cosa posso fare» mormora Nishinoya, piano. «Io… non so cosa fare, se tu non me lo dici. Quindi, ti prego, aiutami. Come posso aiutarti se tu non mi dici come?».
Ad Asahi si scioglie lo sguardo in un minuscolo sorriso mentre, quasi senza accorgersene, sfiora leggermente il braccio di Noya. Il libero sobbalza, come se quel tocco fosse fuoco o cera bollente, confuso.
«Non dire niente» sussurra Asahi, con un filo di voce. «Possiamo semplicemente rimanere in silenzio, per un po’?».
Yū vorrebbe dire che non possono, perché ci sono silenzi affilati più delle parole, silenzi che spaesano, silenzi che riscaldano fino a sciogliere. Ma come potrebbe dirlo ad Asahi, che ha uno sguardo talmente stanco – disperato – che fa più male dell’ennesimo inutile silenzio?
«Certo» mormora, senza convinzione. «Silenzio. Ho capito. Ma, se solamente tu parlassi con me, forse allora…».
Vorrebbe aggiungere qualcosa, dirgli che lo aiuterà, che lo tirerà su e ricostruirà da zero, ma Azumane gli lancia uno sguardo indecifrabile. E, lentamente, si porta un dito alle labbra.
Shh.
 
***
 
Quella sera, Shimizu si avvicina al balcone per guardare il cielo terso e trapuntato di stelle: è così limpido che, per una sera solamente, la luna non sembra più sconfitta nel proprio compito di rischiarare tutta la notte.
Quella sera, Shimizu si rende conto di non avere più niente per cui pregare, tra le mura della propria casa: Sugawara le ha sorriso, davanti alla porta di casa, come non faceva da tempo o, forse, come non aveva mai fatto prima.
Le ha detto, in un sussurro dolosamente spaventato, che non gl’importa della spaccatura che creerà nella squadra. Che forse ferirà Noya e Tanaka ma che, se davvero sono suoi amici come dicono, sapranno perdonarlo: Nishinoya perdona giornalmente Azumane, che s’è perso in un’annichilente apatia, quindi come potrebbe rifiutarsi di fare lo stesso con lui?
Lei ha risposto che sarà semplice, perdonare. E, silenziosamente, ha pensato che è così perché lui potrebbe essere in grado di amarla per sé, per Nishinoya e anche per Tanaka.
Per quella sera solamente, il cielo non avrà bisogno di una candela: Shimizu riesce a trovare abbastanza luce dentro di sé.


 
4Ho preso spunto dalle poche conoscenze di cultura giapponese che ho, parlavo di questa cerimonia


 
   
 
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