15
FENRIR
Thorntown.
Sua
madre la prese in braccio e la sollevò perché
Emma potesse raggiungere il ramo
più basso dell’albero di mele e cogliere uno dei
frutti gialli.
“Guardate,
madre.”
Mary
Margaret sorrise. “É molto bella, Emma.”
“Sì,
è gialla. Mi piace il giallo, madre.”
“Allora
dirò alla servitù di raccogliere altre mele
gialle. Tutte quelle che troveranno.”
“Posso
mangiarla?”
“Ma
certo. Aspetta, togliamo la buccia, prima.”
Nel
mangiare la sua mela Emma si sporcò il viso con il succo
appiccicoso. Mary
Margaret glielo tolse e rise, divertita. Poi si chinò per
posarle un bacio tra
i capelli biondi.
Emma
si destò di
soprassalto.
Il
sogno, che più che un
sogno era un lontano ricordo, stava già scivolando via. Le
rimase impresso,
però, il sorriso dolce di sua madre e il tocco fra i
capelli.
Che
cos’è che mi ha svegliata?
I
cavalieri dormivano.
Galahad si mosse sotto il mantello che aveva usato come coperta.
Agravain,
nonostante tutto il parlare di fantasmi, russava leggermente, ma non
era colpa
sua se si era drizzata a sedere di scatto, con il cuore che batteva
all’impazzata. La pioggia, che aveva tempestato il tetto
dell’abitazione di
fortuna che lei e i cavalieri avevano trovato a Thorntown, era cessata.
Un pallido
chiarore penetrava dalle crepe nella porta di legno. Forse stava
albeggiando.
Emma
scostò le coperte,
indossò il suo mantello e allacciò il fodero con
la spada intorno alla vita.
Poi, cercando di non fare rumore, uscì all’aria
aperta, richiudendo subito la
porta alle sue spalle.
In
cielo vedeva ancora la
falce di luna che faceva capolino tra le nuvole grigie, mentre il cielo
si
schiariva. Una vaga foschia ricopriva il paesaggio.
Un
rumore. Dal retro.
Dove c’erano le stalle. Un ringhio basso, seguito da qualche
ansito.
Emma
si irrigidì e mise
mano alla spada. Camminando rasente il muro, si diresse verso le
stalle.
Un
altro ringhio. Unghie
che graffiavano il legno. Un tonfo. Nitriti nervosi.
“Magari
nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma.”
Emma
continuò a muoversi,
passo dopo passo. Silenziosa. Stringeva Narsil così forte da
sbiancarsi le
nocche.
“Sarei
più preoccupato se non
provassi paura. Perché l’uomo che non sente la
paura è un folle.”
Gliel’aveva
detto
Merlino, non molto tempo prima. Era stata l’unica volta che
il druido aveva
parlato di sé con lei.
“Ho
anche paura. E non dovrei.” gli
aveva detto Emma. “Dovrei essere
pronta a combattere.”
“La
paura. Sarei più preoccupato se
non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la
paura è un folle. Chi è in
balia di essa e fugge è un codardo. Ma tu continui a fare
ciò che va fatto.
Questo è coraggio.”
Emma
continuò ad
avanzare.
Il
lupo grigio fermo
davanti alle porte della stalla la vide subito. Era girato verso di
lei, quando
Emma si sporse per vedere cosa stesse succedendo.
L’animale
era ferito ad
una zampa, sanguinava ed era evidentemente sofferente e affamato. Ed
era molto
più grande di un lupo comune, con due sciabole che
scintillavano nella luce del
mattino al posto dei normali denti da lupo e ardenti occhi di brace che
seguivano ogni suo movimento. Dalla bocca scese un rivolo di bava.
Ringhiò
contro di lei.
Un
Fenrir!
Il
bisogno di cibo
l’aveva spinto fino a lì. Aveva percepito
l’odore dei cavalli e aveva cercato
di entrare nella stalla. Doveva essere anche debole, perché
in caso contrario
avrebbe già fatto a pezzi la porta. Emma non aveva idea di
come avesse potuto
fare, quella bestia magra, ad entrare là dentro e a
prendersi anche solo uno
dei cavalli. Maximus era robusto, ancora giovane e impetuoso. Gli altri
cavalli
erano tutti addestrati e, soprattutto, veloci e ben nutriti. Quella
bestia
doveva essere disperata. Ed era anche solo.
Emma
strinse l’elsa di
Narsil e lo guardò fissò negli occhi. Uno stormo
di uccelli neri si alzò in
volo.
Il
Fenrir si avventò su
Emma. Lei estrasse subito la spada e la fece roteare, mentre scartava
di lato.
Un lungo guaito di dolore, quando la lama ferì
l’animale di striscio, ad un
fianco. Emma si voltò subito verso il lupo, puntandogli
contro la spada. Quello
si girò, imbestialito, per fronteggiarla ancora. Fece
qualche passo avanti.
Emma indietreggiò di due. L’animale
raspò il terreno con gli artigli e spiccò
un altro balzo; lei lo ferì ancora. Schizzò altro
sangue e il Fenrir guaì.
Roteò un paio di volte su se stesso, come disorientato
dall’ultimo colpo
ricevuto e poi scosse la testa più volte, gettando bava
ovunque. Nella stalla
c’era un certo trambusto. Nitriti e rumori di zoccoli che
sbattevano sulle assi
di legno.
Poi
un ululato, in
lontananza, distrasse l’animale, che drizzò le
orecchie e rimase in ascolto. Emma
non lo perse di vista.
Infine,
ringhiando, corse
via, sparendo in mezzo alla boscaglia e lasciando sull’erba
le tracce del suo
sangue.
Emma
sentiva il cuore
pulsare forte nel petto. Chiuse gli occhi per qualche istante, poi
rinfoderò la
spada e si diresse verso le stalle. Voleva entrare e assicurarsi che i
cavalli
stessero bene.
Aprì
le porte della
stalla. Nell’istante in cui lo fece, uno zoccolo si
abbatté sul legno della
porta.
Un
lampo bianco.
Ebbe
appena il tempo di
scansarsi. Il suo cavallo si impennò, nitrendo impazzito e
sbuffando. Solo per
miracolo Emma riuscì ad afferrarlo per le redini. Strinse
forte. Maximus
s’impennò di nuovo, scuotendo il capo e tirando
per liberarsi dalla sua presa.
I suoi occhi erano folli di paura. Rotearono mostrando solo il bianco.
-
Maximus! Calmo! – gridò
Emma.
-
Che succede, per gli
inferi?! – Le giunse la voce di Agravain.
-
Emma! – urlò Galahad.
-
I cavalli! Correte! –
gridò Gawain.
Il
destriero non si
calmò. S’impennò una terza volta,
dopodiché partì al galoppo. Emma
riuscì ad
afferrare il pomo della sella con la mano libera.
Da
qualche parte, a ovest.
“Andrò
avanti, in esplorazione. Cercherò di... di capire quanto
siano abili. Con la
magia. E cercherò di... di farmi un’idea del loro
esercito. Elaborerò un piano.
E quel piano sarà perfetto, una volta che saprò
chi sono veramente i miei
nemici.”
“Queste
sono parole sagge, Maestà.”
Aveva
fatto ciò che le
aveva chiesto di fare Tremotino. Era andata avanti, in esplorazione.
-
Maestà, non è sicuro. –
le aveva detto uno dei suoi soldati, quando aveva esposto la sua idea.
-
Lo è, invece. So quello
che faccio.
-
So che lo sapete. Ma
mancano ancora parecchie leghe al regno del sud.
-
Devo avvicinarmi da
sola, soldato. Si tratta solo di andare in avanscoperta. Ho bisogno di
sapere
come agire prima di farlo sul serio. Non appena avrò un
piano, riceverete un
mio messaggio.
L’indecisione
serpeggiò
nel gruppetto.
-
Ci vorranno giorni
prima che facciate ritorno. – le aveva fatto notare Jim
Halloway, come se lei
ne avesse avuto bisogno.
-
Non sapete badare a voi
stessi, per caso?
Il
giovane che gli stava
sempre appiccicato, Will, aveva fatto un passo avanti e aveva aperto la
bocca
per dire qualcosa, ma Jim aveva sollevato una mano, agitandola.
-
Naturalmente sì, Vostra
Maestà. E sappiamo anche quanto Voi siate potente. Ma
è sempre meglio, con il
dovuto rispetto, che ci sia qualcuno a guardarvi le spalle.
-
Lasciate che almeno uno
di noi Vi accompagni, Maestà. – aveva proposto un
altro soldato, chinando
leggermente il capo. – Scegliete Voi chi, ma Vi prego di
darmi retta. Diversi
giorni di cammino Vi separano da quel luogo e i boschi sono infidi.
-
Forse non ci siamo
capiti, soldato. Il mio è un ordine. Dovete aspettare qui!
– Regina era montata
in sella a Rocinante, afferrando le redini e preparandosi a partire.
Non voleva
nessuno tra i piedi. Avrebbe percorso tutte le leghe che la separavano
da
Anatlon e poi avrebbe usato un sortilegio per cambiare il suo aspetto.
In quel
modo avrebbe potuto avvicinarsi indisturbata e capire che cosa
l’aspettasse.
Inoltre quella era una faccenda personale: si trattava della sua
vendetta!
Sarebbe stata lei, la prima a mettere gli occhi su Anatlon, su Snowing
Castle.
Erano anni che aspettava e voleva essere sola quando fosse accaduto.
-
Il consigliere
Tremotino ci ha raccomandato di proteggervi, Maestà.
– provò a replicare,
intimorito, un terzo soldato, strascicando i piedi sull’erba.
-
Lo avete fatto. Adesso
tocca a me. Vado avanti, soldato. Tornerò presto.
-
Ma, mia regina, noi...
-
Ora basta! Si dice Vostra
Maestà! – Regina aveva appoggiato una
mano sull’elsa di Stormbringer. I
suoi occhi si erano colorati di viola. Il viola aveva preso a girare
furiosamente. Le iridi non erano più iridi, ma buchi pieni
di energia che
vorticava. I soldati avevano fatto, tutti, qualche passo indietro.
– Io sono la
regina e voi farete ciò che io vi comando! Se non eseguirete
l’ordine, ci
saranno delle conseguenze! E vi assicuro che le conseguenze potrebbero
essere
molto spiacevoli.
I
soldati si erano
inchinati al suo cospetto e avevano promesso che avrebbero eseguito i
suoi
ordini. Non si sarebbero mossi da lì.
E
ora cos’era successo?
Era
successo che si era
persa. Non aveva idea di dove si trovasse.
La
circondavano cespugli,
tronchi nodosi e spogli, fossi, pozze su cui aleggiavano nugoli di
mosche,
qualche albero contorto e vecchio. Il terreno era pianeggiante, ma non
c’erano
sentieri. Quello che aveva seguito e che le avevano indicato anche i
suoi soldati,
avrebbe dovuto esserci ancora, a quel punto. E invece non lo vedeva
più. Non
sentiva più il rumore delle acque del fiume che avevano
costeggiato. Forse era
arrivata ad un bivio senza rendersene conto e aveva preso la strada
sbagliata,
una strada che l’aveva condotta in una zona paludosa e
deserta.
Maledizione.
Respirò
a fondo per
escludere qualsiasi emozione negativa. Aveva perso
l’orientamento, ma non
doveva farsi prendere dal panico. Avrebbe ritrovato la strada.
Se
avessi portato qualcosa appartenuto ad uno dei miei soldati avrei
potuto fare
un incantesimo di localizzazione e tornare indietro...
Ma
non aveva niente,
quindi doveva cavarsela da sola.
Da
qualche parte, a ovest.
Non
sapeva bene quanto
tempo fosse passato da quando si era aggrappata alla sella del suo
cavallo
imbizzarrito ed era stata trascinata in una lunga corsa.
Ad
un certo punto, quando
aveva ormai percorso diverse leghe, Emma era riuscita a vincere la sua
lotta
con Max e il cavallo, dando retta alla sua voce, si era calmato. Aveva
rallentato il passo, proseguendo al trotto per un po’ e
infine si era fermato,
sfinito, sbuffando furiosamente e scuotendo la testa.
Emma
smontò e accarezzò
il destriero.
-
Va tutto bene, Maximus.
– sussurrò Emma. – Ora è
tutto a posto.
Subito
dovette
rimangiarsi le parole appena pronunciate perché, guardandosi
intorno, si rese
conto di non sapere bene dove si trovasse. Il sole si era spostato nel
cielo e
aveva diradato la foschia che si era formata quella mattina. Era una
zona
pianeggiante e paludosa; pozze di acqua stagnante e rivoletti tra le
pietre.
Alberi alti e nodosi, sparsi qui e là. Nugoli di insetti che
già le bazzicavano
intorno alla ricerca di sangue da succhiare. Nessun sentiero,
ovviamente. Era
ben lontana dalla nota Via del Re e, a quanto sembrava, era lontana
anche da
qualsiasi villaggio abitato. L’ovest era pieno di zone
paludose e difficilmente
praticabili. Ed Emma era finita proprio in mezzo ad una di quelle
paludi.
Si
mette male.
Doveva
capire dove si trovasse.
Se
i cavalieri sono sulle mie tracce, forse è meglio che
rimanga qui. Se mi
allontano, rischio di non ritrovarli.
Ma
il terreno intorno a
lei era un terreno paludoso. Un vero pantano anche a causa del
temporale di
quella notte. Le tracce lasciate da Max nell’ultimo tratto
stavano già
svanendo. Sarebbe stato molto complicato, per i cavalieri, ritrovarla.
Aveva
percorso diverse leghe.
No.
Decise di muoversi.
Decise di cercare qualcosa che potesse indicarle in che zona era
finita.
Emma
prese le briglie e
si incamminò, con Max che la seguiva, tranquillamente. Lo
spavento era passato,
ormai.
Dannazione
a quel Fenrir!
La
nota positiva era che,
legati alla sella, aveva ancora delle sacche con del cibo, erbe
medicinali e un
piccolo otre pieno d’acqua. Le sarebbero bastati per qualche
giorno. Doveva
razionare le provviste, ma non sarebbe stato un problema.
“Ma
sempre i piedi che han tanto vagato,
tornano
infine al tetto bramato”, aveva
cantato Agravain solo il giorno
precedente.
Vagare
era proprio la parola giusta. I suoi piedi avrebbero avuto il
loro bel vagare, ne era convinta.
Attraversò
una macchia
d’alberi, rovi, cespugli spinosi e sterpi, aprendosi la
strada con la spada per
evitare che le spine la pungessero o pungessero Max. Procedeva senza
fretta,
guardinga, attenta alle pozze profonde e ai pantani, si guardava
intorno e tendeva
le orecchie ad ogni minimo rumore. Raggiunse uno stretto fiumiciattolo.
Tra le
canne e i giunchi, un asse di legno marcio, largo un paio di spanne,
collegava
le due sponde.
Non
ebbe bisogno di
attraversarlo, fortunatamente. Il paesaggio si era aperto davanti ai
suoi occhi
ed Emma vide ciò che cercava, qualcosa che la
aiutò a capire dove si trovava:
l’Arduo Colle. Era molto peggio di quanto immaginasse,
perché, anche se l’Arduo
Colle era ancora ad una lega di distanza, lei si trovava da questa parte, non oltre il colle, dove
la zona paludosa lasciava spazio al lago di Inis Witrin, da molti
chiamato la
Porta di Avalon.
Emma
era nella Grande
Palude.
L’aveva
vista segnata
sulla mappa che Artù aveva dispiegato sulla Tavola Rotonda.
Non c’era niente in
quel posto. O meglio, da qualche parte, qualcosa... qualcuno
c’era. Se avesse
esplorato meglio la zona avrebbe trovato delle casette improvvisate che
appartenevano ai cosiddetti Uomini Paludosi; reietti, vagabondi, gente
che non
aveva più un luogo a cui tornare né tantomeno
un’identità, persone che
campavano pescando rospi, anguille e sanguisughe, raccogliendo bacche
commestibili o erbe che poi venivano rivendute a qualche miserabile
mercante delle
città più vicine.
E
ora?
Il
Lago di Inis Witrin.
La Porta di Avalon...
Le
tornò in mente la sua
conversazione con Morgana.
“Ma
ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui
potresti
pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad
Avalon.”
Ma
non ebbe il tempo di rifletterci
sopra, perché dalla macchia d’alberi che aveva
oltrepassato poco prima sbucò
qualcuno. Dapprima Emma udì il rumore di una lama che
tagliava cespugli e rovi.
Poi un’imprecazione. Una voce femminile. Il nitrito basso di
un cavallo.
Un
Paludoso?
Emma
non sapeva quanto
forti fossero quelle persone. Sicuramente avevano armi per difendersi.
Armi
rubate. Armi forgiate con le loro mani. Se un tempo erano stati dei
combattenti, dei cavalieri o dei semplici soldati, erano in grado di
difendersi.
Emma
mise mano all’elsa.
Maximus nitrì, nervoso.
Infine
comparve una
donna.
Sbigottita,
Emma rimase
là, a fissarla.
La
donna indossava una
robusta armatura nera e impugnava una lunga spada la cui elsa era
altrettanto
nera. I capelli erano corti e scuri e l’espressione
corrucciata del viso
decisamente attraente lasciava intuire che anche lei si fosse persa.
Teneva per
le briglie un bel cavallo, anche lui abbigliato più o meno
come la padrona:
sella scura, sottopancia e arcione neri.
Non
può essere...
Emma
credette davvero di
essere piombata in un sogno allucinato. Era successo tutto troppo in
fretta.
Forse la sua mente stava reagendo nel modo sbagliato alla perdita
dell’orientamento; forse era caduta da cavallo e giaceva
svenuta da qualche
parte.
La
donna la vide e sbarrò
gli occhi, stringendo saldamente la spada in pugno. Non
parlò. Si limitò a
guardarla.
No,
non sto sognando. Tutto questo sta accadendo veramente.
Regina.
La
donna era Regina, la
sovrana del regno di Mehlinus. Non l’aveva mai vista ma non
avrebbe mai potuto
non riconoscerla; non solo perché gliel’avevano
descritta, ma anche... per via
dello stemma. Sul petto, incisa sull’armatura,
c’era la testa di una pantera
con le fauci spalancate. La spilla che chiudeva il mantello alla base
del collo
aveva la medesima forma. Aveva un portamento elegante, regale, anche se
era
vestita come un cavaliere. E quella spada... quella spada era
Stormbringer, la Tempestosa.
La spada della regina del nord. Solo lei avrebbe potuto impugnarla. Non
se ne
separava mai. Merlino l’aveva disegnata, basandosi sulle
proprie visioni.
-
Chi siete? – domandò
Regina, puntando la spada nella sua direzione, ma restando a distanza.
Emma
strinse il pugno.
Aveva la bocca secca e il cuore in tumulto. Nella sua testa si facevano
largo
le immagini più dolorose della sua vita: Snowing Castle che
bruciava, le fiamme
che divoravano il castello, la gente che urlava, i corpi sparsi per il
giardino
sul retro del castello, suo padre che uccideva l’uomo che
voleva spaccarle la
testa con la sua ascia, David che la consegnava a Graham, Narsil...
Le
ultime parole.
“Presto
verrà il tuo momento. Lo so. Non può essere
altrimenti. Allora tornerai e tutto
questo sarà tuo! Tutto! Il trono che ti appartiene di
diritto sarà tuo! Le
terre saranno tue! I miei uomini saranno tuoi!”
Il
dolore nei suoi occhi.
Lo stemma... il melo, che una volta era il simbolo della regina del
nord, che
sventolava, che capeggiava sugli scudi, sulle armature.
“Un
giorno, quando sarai abbastanza forte, tornerai. Vendicherai me e tua
madre. Il
regno sarà tuo! Ma adesso devi andare con Graham. Se rimani
qui, morirai e
tutto sarà davvero perduto! Fallo per me, figlia
mia.”
Furiosa,
Emma sguainò la
spada.