Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: kanagawa    27/11/2020    0 recensioni
La seconda volta che Kenny incontra Uri, non è stato in grado di riconoscerlo, perché il tempo e la memoria sono scivolati via dalle sue membra come granelli attraverso una clessidra, lasciando il solco di un vuoto che echeggia nello spazio e vibra incompreso.
Kenny ritrova la strada per tornare da lui, quella coordinata impressa nelle sue stesse vene, corridoi invisibili tracciati da prima che venisse al mondo...
Kenny tenta nuovamente di ucciderlo e, questa volta, Uri gli chiede perdono.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenny Ackerman, Kuchel Ackerman, Levi Ackerman, Rod Reiss, Uri Reiss
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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‘Amavo vostro padre.’

La sola cosa che non avrebbe dovuto confessare. La sola verità che gli fu concesso, non una giustificazione, non una richiesta di pietà.

‘No... Tu non hai il diritto di dirlo!!’

Il viso del giovane principe si scosse violentemente, sfregiato dalla furia e dal dolore. Aveva i suoi occhi.

Incatenato contro la parete umida, il tremore di una torcia a illuminarlo, un corpo menomato in attesa di giudizio. 

L’eco delle catene sussultò piano, ruggine su pietra. Erano soli dentro la cella. 

In quell’istante, aveva sentito l’impulso di ucciderlo con le sue mani, l’uomo che gli aveva sottratto suo padre, per tutta la vita, in tutti i modi possibili...

Ma dietro quelle sbarre, erano in due ad essere stati condannati quel giorno.


 

Aveva esitato. All’ultimo, non ebbe la forza di dargli il colpo di grazia.

Si fece sorprendere quando il figlio del Re irruppe, lo scagliò da una parte e divorò suo padre. 

Non ne aveva avuto più la forza, quando si era reso conto che non aveva più senso continuare a combattere... che lui stava morendo.

Aveva vinto la battaglia. Ma aveva perso tutto. 

Si lasciò catturare...

Il Re, allora, lo maledisse: il suo sangue si sarebbe legato per sempre al destino di questo mondo che lui stesso aveva creato e lui ne avrebbe vissuto il dolore ancora, e ancora, e ancora... Finché gli stessi pilastri che lo sorreggevano non fossero crollati e il mondo con essi. 

Questa guerra non sarebbe mai finita.


 

Anno 845, il Wall Maria fu violato per la prima volta nella storia dell’umanità, costringendo un quinto della popolazione a rifugiarsi nelle due cinta murarie interne. 

Come un sogno durato cent’anni, l’umanità si risvegliò bruscamente, accorgendosi di quanto impotente fosse dinanzi al potere dei giganti e, al tempo stesso, apprendendo una forza che non aveva mai sospettato di possedere dentro di sé...

Era il grido della speranza che si levava dalla pira del mondo in fiamme, la libertà che si riscuoteva dalle proprie catene.


 

.......
 

Le guardie alle scale si mettono sull’attenti. L’uomo con l’impermeabile si rimette il cappello in testa, assicurandosi di occultare più parti possibile del viso per non farsi riconoscere, e prosegue la discesa. A ogni gradino, la luce diurna della superficie si fa sempre più rada e l’odore della muffa e dell’umidità più persistente. 
Le luci di quella città divorata dall’oscurità riflettono bagliori spettrali. Lungo i vicoli degradati, più di uno spacciatore tenta di approcciarlo nell’intento di smerciare una dose di coderoin, di cui si viene solitamente a cercare laggiù.
Giunge di fronte a un saloon dall’aria decaduta e vi accede spingendo le porte che restano a cigolare dietro di lui con un tetro ritornello. 
Il locale pare deserto, cocci di vetro cosparsi su tutto il pavimento reso appiccicoso dai liquori delle bottiglie frantumate e le sedie rovesciate fanno pensare al passaggio di un uragano o, più probabilmente, una rissa appena consumatasi al suo interno. C’è un uomo che dorme in fondo al locale, stravaccato su una sedia sgangherata, i tacchi degli stivali buttati sul tavolo e il cappello tirato sugli occhi che ricopre interamente il viso. Resta con le braccia serrate mentre l’avventore si avvicina e non accenna a muoversi finché non si ferma a pochi passi da lui. 
Solo allora il forestiero si leva il cappello, sotto la cui tesa si rivela il profilo pingue di Lord Reiss. 
“È stato più difficile del previsto trovarti...” 
Una voce replica da sotto il fedora di feltro grigio, con intonazione bassa e ovattata. “Non si direbbe.” 
“Kenny Ackerman.”
Solleva la destra per scoperchiarsi il viso e il cappello scivola via stancamente. Il lucido sulla chioma corvina non è brillantina ma unto, la barba incolta di settimane ripercorre la forma della sua mandibola. Non ha un buon odore e Rod ne resta a debita distanza di respiro. 
“A cosa devo l’onore?” 
Il suo alito sa di parecchi bicchieri di whisky e bourbon, lo sguardo più ubriaco delle parole con cui gli si rivolge; resta in bilico sulla sedia solo per non sfracellare a terra nel caso si fosse mosso, e non pare averne la forza al momento, tantomeno per mettergli le mani addosso come chiaramente avrebbe voluto... 
Rod Reiss lancia sul tavolo di fronte a lui un fascio di quotidiano che recava sottobraccio. 
“Parliamo di affari.”
Kenny lo fissa di traverso. Gli occhi scivolano sulla prima pagina - Attacco a Trost, la raffigurazione di un titano tra i palazzi attira la sua attenzione. Lo sguardo blu ghiaccio di Kenny ritorna sull’altro, ma non si dicono altro.
“È ora che tu torni, Kenny.”

 

....
 

Il sole sta tramontando. Sulle pianure, una ferita gigantesca deturpa il paesaggio, esponendo il ventre della terra. Nell’aria c’è odore di sangue. 
Scosse dal vento, le fronde silvestri mugghiano piegandosi sopra di lui. Il cielo si tinge lentamente di gradazioni rossastre, ma lui non riesce più a vederlo... La vista comincia ad offuscarsi.
Dalla prateria, giungono due soldati.

“Stai morendo, vecchio?”

Una risata, arida, desolante. “A te cosa sembra?”



 

In un futuro non lontano, questo mondo cadrà in rovina... 

 

Tanto tempo fa Uri gli raccontò una storia.

 

Tu credi nella violenza, non è così?

 

Non ricorda bene di cosa parlasse... Era la storia assurda di un re e un cavaliere.

 

Io volevo solo... creare un paradiso.

 

Racconti di un regno lontano e di un sogno folle, bellissimo...



 

Lo ricorda sempre circondato dai bambini. 
Gli piaceva leggere per loro, ne aveva scritti lui stesso e pubblicati sotto falso nome, di fiabe e libri per bambini. 
Nei suoi racconti, il mondo è un posto vasto e stupefacente, pieno di creature misteriose e luoghi fantastici. 
Mostri rocciosi che sputano cenere e fiamme, campi ricoperti di granelli dorati come il miele, un enorme lago salato fin dove occhio riesce a vedere... Vi è luce e vi è anche oscurità, in questo universo meraviglioso che ha creato per loro, affinché la sua voce possa guidarli lungo i sentieri dell’anima che i suoi piccoli eroi percorrono per riuscire a tornare a casa, affrontando mille avventure, con il cuore colmo di speranza e umiltà. 
Negli ultimi istanti della sua vita, avrebbe voluto sentire ancora una volta una delle sue storie strambe. Avrebbe voluto andarsene, con la voce di Uri che le racconta, come quando usava farlo per i suoi bambini... 


Gli diceva sempre di essere vecchio, e lo detestava ogni volta.
Non ha dubbi che da giovane possa essere stato un uomo attraente. Molto attraente. Gli sarebbe piaciuto avere almeno un suo ritratto da custodire, ma dubita che Rod ne sarebbe stato felice al pensiero...
A essere pesati su di lui, però, non erano stati i suoi anni - ne aveva giusto un paio più di lui - bensì quel velo impalpabile calato perennemente sul suo viso, drappeggiato di quella malinconia intraducibile, traslucida, che gli impediva di intravvedere i colori un tempo vibranti della sua fuggente giovinezza, restituendo ai suoi occhi un’impressione confusa e stropicciata...
Si erano incontrati esattamente a metà strada, lui e Uri, troppo tardi ormai per crogiolarsi nell’esuberanza della gioventù e troppo presto ancora per sospirare le disillusioni della vecchiaia: non prima, non dopo, e non sarebbero potuti esistere altrimenti. Due anime incapaci di comprendersi. Senza arrivare mai a toccarsi davvero, si erano appartenuti e accettati per ciò che erano, nel modo in cui erano, facendoselo bastare.
Gli disse che potevano essere tutto ciò che volevano, che una definizione non sarebbe servita a rendere differente ciò che provava...
Di questa felicità rubacchiata al tempo, Kenny non osa parlare. Lui gli ha dato la parte migliore di sé.

L’epoca in cui cadde Wall Maria, Uri era già scomparso. 
Il suo ritratto se l’è preso lo stesso, trafugato dallo scrittoio di Rod nel magione dei Reiss, un piccolo acquarello a grandezza di un palmo. Kenny ce l’ha sempre nella tasca interna della sua giacca, accanto al suo pugnale.

 

 

....

 

L’hanno sistemato in un’ala silenziosa del palazzo, il più distante possibile dall’area frequentata dalla famiglia, dove passa le sue giornate immobilizzato a letto, consumando i suoi pasti in solitudine, lontano da occhi indiscreti.
Ci sono sempre un paio di mocciosi che si affacciano a sbirciare alla sua porta, puntualmente redarguiti dalla balia che viene a tirarli via, strepitando a bassa voce: “non dovete venire qua!” 
Le medicazioni vengono cambiate una volta ogni due per evitare le infezioni. Non ricorda quando ha cominciato a farlo da solo, prima che riprendesse conoscenza se ne è occupata una cameriera, la stessa che viene a portargli la cena.
Poi una sera, dopo essersi tolto le bende, intingendo un panno in una bacinella d’acqua tiepida per lavarsi, gli capita di intravvedere l’ombra di Uri che lo osserva da quella porta socchiusa, con un candelabro in mano: gli ha rivolto lo sguardo da sopra una spalla, spogliato dalla cintola in sù che espone una schiena deturpata di innumerevoli tagli e vecchie cuciture... e lui, in silenzio, ha chiuso la porta.
Le fasciature sono servite a tenere in sede le costole incrinate. La morsa del gigante doveva avergli lacerato il torace, compromettendo gli organi interni senza tuttavia ucciderlo, quando lui si era divincolato in preda al panico farneticando inarticolate volgarità, per le quali suo fratello gli avrebbe piantato volentieri una pallottola in testa. 
Invece di lasciarlo moribondo in mezzo alla campagna, avevano deciso di portarlo a casa e curarlo finché non fosse stato in grado di strisciare via sui suoi piedi.
Non è stata pietà. Uri ne è semplicemente incuriosito. Un farabutto dei bassifondi, l’uomo che è venuto a ucciderlo, spinto da chissà quale pretesto nebuloso...

La definizione di “gigante” - un tempo simbolo di forza e potere assoluto - in questi ultimi cento anni, è divenuto sinonimo di terrore e oppressione. 
Lui è l’ultima persona al mondo che avrebbe dovuto desiderarlo, il potere. 
In questa oscurità ribollente, il coltello è stato la sua unica fede. 
Per lungo tempo, vi si è aggrappato per restare a galla e non soccombere alla follia. Un barlume di ordine nel caos dilagante di questo mondo.
Eppure ciò che si è ritrovato dinanzi, quel giorno, non è stato il potere... Kenny non ne conosce il nome, ma ne riconosce il terrore...

“Tienilo fermo, Uri!” 
Rod Reiss - quel maiale flaccido, gli avrebbe sparato davvero, se il fratello minore non lo avesse intimato di farsi da parte in quel momento. 
Uri è uscito dal bozzolo fumante del titano e si è messo in ginocchio, il coltello conficcato nel polso ma nessuna inflessione di dolore in viso, prostrandosi davanti a lui.
Un misero pregiudicato e il sovrano di queste Mura.
In quel momento non trova nemmeno le parole per imprecare. Kenny ne resta tramortito, sballottato come di fronte a un crimine sacro e il calcio di un fucile lo colpisce alla nuca...

Quando si risveglia è notte fonda. 
Credeva lo avrebbero gettato in una cella, dopo il suo fallito attentato; si aspettava le piastrelle fredde, non un materasso morbido... 
Ci mette un po’ ad abituare la vista al buio. Dalla stanza riemergono sagome di mobili e un tavolo rotondo, ma non riesce a vedere molto da quella prospettiva...
Sussulta, quando si accorge di un’ombra accanto a sé. 
Due opali dalle striature gelide lo scrutano dall’alto, catturando i pallidi raggi lunari, come se galleggiassero nell’oscurità. I pensieri virano veloci al pugnale che tiene in tasca.
Istintivamente strattona le mani e capisce di essere ammanettato alle sbarre del letto. 
“Oh-òh..." sogghigna, per non soccombere al panico. "Sono qui per i tuoi sporchi giochetti, vedo... È così che piace a voi aristocratici!” È un’istinto al pericolo quello che sente strisciare in fondo alle budella e gli fa parlare a sproposito. 
Sente una mano posarsi fredda lungo il suo zigomo, il peso del pollice abbozzare una carezza. Kenny deglutisce inavvertitamente, la pelle d’oca cosparsa lungo le sue braccia immobili. 
Uri lo fissa a lungo, lì al buio, non dice una parola. È fottutamente inquietante. Quando finalmente le sue dita si distaccano, lui scivola via sui suoi passi e lascia la stanza.
Una striscia di luce sotto la porta. Voci in corridoio, i toni accesi ma ovattati...
 

"Perché l'hai portato qui? Qui ci sono i bambini! Non pensi a..."

"I bambini non corrono alcun rischio, Rod."

"È un criminale, Uri! Diamolo alla Gendarmeria Centrale, ci penseranno loro!"

 

Per tutta la notte Kenny ripensa a quegli occhi terrificanti, e il barlume di malinconia che vi ha scorto in fondo, senza nome...
È l’unica volta che Uri lo toccherà. 


 

La sua pazzia è lucida, ma non è cinica. 
Forse gli piace solo giocare a fare dio, o l’arbitro di un gioco a cui è in fondo indifferente, avere il privilegio di assistere a uno spettacolo fuori norma, a cui non sarebbe in teoria ammesso e che non potrà in alcun modo influenzare. Forse l’occupazione di dio non è poi tanto diverso...
Avrebbe voluto cambiare le regole del gioco per una volta - il potere è un gioco - e far andare le cose per il verso giusto, per una volta.
Questo mondo gli dà terribilmente sui nervi. E lui ne è l’incarnazione più vicina. Eppure Kenny non si sente folle, solo annoiato.
Uccidere è un mestiere ben pagato, ma gli dà noie. Togliere una vita può salvare delle altre, ma questo non è stato il suo caso. Ha fatto fuori i gendarmi che cercavano di prenderlo, solo perché non gli andava di crepare... E ci hanno provato in tanti.
L’essere famoso di questi tempi gli ha giovato il rispetto del vicinato. E se è riuscito a sopravvivere lo deve a quei dannati porci della capitale, l’arte non si vende facilmente, men che meno a chi non se ne intende. 
Uno di questi committenti, un certo gentiluomo molto influente e molto in alto, era il tizio che gli aveva spifferato il segreto di Stato in un anonimo frangente di ubriachezza. Era, perché il suo segreto di certo è durato più di lui. 
Non ha saputo che farsene all’inizio, un affare del genere - la sua conoscenza ed enorme portata - poteva fruttare solo due cose: vendere l’informazione al miglior offerente e attirarsi la morte addosso, o tenerla per sé e aspettare che vengano a ucciderlo per tappargli la bocca, dopo che qualcun altro avrà parlato prima di lui. 
Perciò ha scelto di agire prima...
È andato a cercare la morte in faccia, per farla fuori prima che possa trovarlo. 
In realtà, è stata una pessima idea. Non è andata come aveva pianificato, nulla è andata come aveva pianificato. La morte gli è apparsa con la faccia di Uri, ma non l’ha voluto con sé. La morte si è piegata di fronte a lui e gli ha permesso di vivere, a lui, che di vite ne ha sottratte così tante.
Non è sembrato logico né equilibrato come equazione, e si è reso conto di non avere una risposta a questo. Probabilmente è fottuto in ogni caso, anche senza saperlo; non che questo cambi qualcosa...
Il punto è che lui è vivo, ed è riuscito a scamparla ancora una volta, nonostante ci abbiano provato in tanti. Resta solo da capire perché è successo, perché è sopravvissuto. È una domanda che non si era mai posto prima.

 

.....
 

La prima notte, Kenny sogna un palazzo dai portici dipinti di ocra, immerso in un giardinaggio esotico pieno di piante mai viste e il sole che pare rendere trasparente ogni foglia e ogni petalo...
Al risveglio ogni cosa svanisce nella luce e resta solo un dolore ignoto e familiare che gli perfora il respiro. 
Si rende conto di averlo già sognato, molto, molto tempo fa...

 

Ha provato a fuggire una volta, ma non ha fatto molta strada prima di collassare ed è rimasto appeso al cornicione di una finestra al secondo piano, finché qualcuno della casa non è passato e ha avuto l’intuito di sollevare lo sguardo... Uri è giunto più tardi in camicia da notte, dopo che il valletto è andato a chiamarlo, in cortile, dove lo ha sorpreso ancora in quella posizione patetica e gli ha domandato gentilmente se poteva scendere, per favore...
Non è mai stato un vero prigioniero a casa Reiss, un modesto maniero di dodici stanze, con un personale di sette servitori più il giardiniere, circondato da alberi di ulivo e un lungo viale di tigli che conduce all’ingresso.
La tenuta dei Reiss si trova a nord di Wall Rose, su un grande appezzamento di fertile terra coltivata, tra fattorie e pascoli interrotti da macchie di faggi e betulle; ogni anno, la gente del luogo viene a lavorare per loro durante le stagioni della mietitura e della semina.   
Quando è stato abbastanza in forze da riuscire a rimettersi seduto, senza il rischio di sputare un polmone nel tentativo di sedare i colpi di tosse che tradiscono ogni suo maledetto respiro - e si è accorto che gli hanno tolto le manette - ha cominciato a gironzolare per la casa curiosando tra le stanze. Le giornate cominciano presto in villa. Alle cinque i garzoni accendono il fuoco e mettono a bollire l’acqua, la governante scende più tardi per aprire le imposte e permettere alle domestiche di riassettare prima che sia servita la colazione.
La mattina lui scende le scale con la camicia mezza sbottonata. Passa per le cucine dove stanno sfornando il pane, le cuoche indaffarate a preparare la carne fredda e il porridge di avena, arraffa una pera dal cesto riposto sul tavolo a cui dà un morso e fa colazione strada facendo... 
Si prende la libertà di aprire i cassetti della credenza nel salone, ripassandosi il servizio di argenteria - certe vecchie abitudini.. - e si mette in tasca un cucchiaino intagliato, mentre gli occhi vigili di un marmocchio lo puntano da dietro lo schienale di un divano, su cui se ne sta aggrappato con le sue piccole dita. 
"Che cosa fai?" Urklyn Reiss, otto anni, lo fissa con infantile curiosità e un’insistenza che lo irritano. 
Kenny lo punta con il pollice, "è tuo?" chiede a Uri, riferendosi al bambino alle sue spalle.
“No, è di Rod” replica lui, che con la coda dell’occhio ne coglie le azioni furtive, ignorandole deliberatamente... Le gambe accavallate, Uri siede a un’estremità del divano, il mento adagiato tra le nocche della sinistra con cui si regge pigramente e gira la pagina di un libro che Kenny non vede. La camicia di lino bianco che indossa gli va enorme, raccolta tutta dentro la cintola dei pantaloni scuri che gli fasciano le gambe risaltandone la lunghezza e sui fianchi la magrezza... Crede sia sprezzo aristocratico, quella sorta di naturale eleganza che sembra indossare in ogni movimento e ogni sguardo, ma che non ha niente a che vedere con l’etichetta o stronzate simili... Si chiede se sia naturale, il colore così insolito dei suoi capelli, un biondo cenere che a volte riflette bagliori argentei e fa pensare alla luce delle stelle...
Si schiarisce la gola per riempire la mancanza di dialogo. Mentre lascia la stanza, Kenny scorge un leggero sogghigno agli angoli del suo profilo...

Da giovane Uri scappò di casa per andare a un ballo in maschera della capitale. Quella sera, Rod lo vide danzare con una ragazza in un vaporoso abito bianco e lo trovò bellissimo...
Rod Reiss aveva sposato la ragazza con cui suo fratello aveva ballato insieme, dispensando una nidiata di quattro pargoli per la famiglia - e la signora al tempo era in dolce attesa del quinto - tra cui Frieda, la primogenita ed erede del casato, dal temperamento vibrante e intrepido, che più di tutti ha ereditato certi tratti caratteriali dello zio, diversamente dai suoi fratelli.
Uri non è mai stato solo uno specchio d’acqua liscio e placido, per quelli che lo hanno conosciuto veramente, e Rod è il primo a saperlo...
“Al di là dei sette mari, dove dimorava la dea Sole, c’era una terra chiamata Hizuru. Laggiù, ogni primavera, la neve cadeva dagli alberi di sakura e l’aria si tingeva di tonalità rosa e bianca come le guance di una cortigiana. I fiochi che si posavano a terra non si scioglievano mai, accumulandosi in soffici colline color pesca, e quelli che galleggiavano sull’acqua viaggiavano lentamente fino all’oceano...”
I bambini restano ore ad ascoltarlo, gli occhi rapiti, baluginanti delle sue parole. Uri descrive paesaggi incantati, plasmando vividamente ogni dettaglio e immagine come se fossero il proseguimento di un sogno trafugato alla notte. 
Abel ha tre anni e non capisce proprio tutto, se ne sta aggrappata al suo grembo come al solito, avvalendosi del privilegio di essere l’ultima nata - è la sola ad avere la chioma color grano della madre. Frieda abbraccia Dirk che le siede tra le gambe incrociate sopra il tappeto, e Urklyn accanto a lei la imita. 
Quando dice qualcosa di buffo, sente le loro risate diffondersi in modo soffuso dietro quella porta.
E poi c’è lui, al di là del muro, adagiato contro la parete, una mano riposta sul ginocchio sollevato e l’altra gamba distesa sul legno scuro che ripercorre il corridoio assolato, con aria di chi non sa se restare o andarsene... Perché non riesce a smettere di ascoltare quella voce dal timbro basso e ovattato, e l’aria del pomeriggio odora di bucato steso al sole...
“Stupidi mocciosi...”

È tarda mattinata. Nel cortile fangoso passeggiano delle dannate oche che un pezzente si premura di nutrire. Le note di un pianoforte danzano attraverso le stanze. Il tavolo della colazione appena consumata è ancora da sparecchiare.
In casa la servitù è ridotta al minimo. Per avere il potere che hanno, i Reiss vivono in maniera modesta e per niente appariscente; si tengono lontani dai gala di ballo e passano le giornate leggendo o ricamando o andando a cavalcare... una fottuta noia.
La pace che prova e trova per la prima volta in questi luoghi, permeati della sua presenza in ogni parte, calda e gentile, e lo fa stare bene... 
Non riesce a dare un nome a questo sentimento. Non sa che cosa sia, o se sia giusto e lecito provarlo... è piuttosto una sorta di commozione, che gli fa comprimere la gola in un nodo doloroso. Ma Kenny non ricorda come si piange.

Kenny... 

Kenny... avrai una sorellina, lo sai?

[Dicevi di non essere stato capace di creare un paradiso dentro queste mura... e lo hai fatto per me, sebbene non ne fossi consapevole...]

[Perdonami, se sono sempre scappato, Uri...]

Chiude gli occhi e cerca di dimenticare il sangue e la violenza. 
Scava in fondo e trova oscurità - frammenti di strade, edifici diroccati, un soffitto costellato di stalattiti. 
Si tuffa e scava ancora, lasciandosi sfiorare dai detriti di ricordi che nuotano controcorrente, e ancora più a fondo dell’oscurità... una luce galleggia, fioca e fragile, come quella di una lucciola; non le ha mai viste, lui, le lucciole.
Una mano che gli accarezza i capelli, una voce gentile lo chiama a sé, con una forza più grande della vita che gli scorre dentro, intonando una melodia senza parole...
Sta correndo. Non pensa ad altro. Corre per diversi isolati inseguito dai mercanti armati, per un trancio di viveri. Si accascia contro il muro in un vicolo buio, il fiato agitato, il corpo pesante... Riuscirà a sopravvivere, almeno fino a domani. Il cibo che si è procurato è duro e cattivo, ma lo addenta senza pensarci...
Perché è dovuto nascere in questo mondo? Perché un bambino deve chiedersi se ha diritto di venire al mondo?
I deboli soccombono, i forti resistono. È la sola giustizia che conosce. La sola fede che prega per restare lucido in questa immensità cieca e sconsiderata.
Kenny non si permette di fare domande. Non si permette di sapere. Se dubita, ha perso. Se perde, la morte non tarderà a giungere... 
Perciò soffoca quelle sensazioni in fondo al cuore, ancor prima di riuscire a dare loro respiro. Così riuscirà a sopravvivere, si ripete, almeno per un altro giorno... 
E potrà amare, solo quando la morte lo verrà a cercare.


Uri sta spazzolando un cavallo nelle scuderie. Gli capita di vederlo durante un giro intorno alla proprietà. 
Ormai si è rimesso abbastanza da potersela svignare nel cuore della notte con qualche refurtiva, ma il pensiero non lo sfiora nemmeno.
 “È un bel cavallo.” 
Kenny si appoggia di schiena alla porta del box, le braccia incrociate. Lo osserva allungare un pugno di foraggio estratto da un sacco che il puledro rumina con delicatezza direttamente dalla sua mano, un baio giovane dall’aria mansueta. Osa una carezza sul collo dell’animale, sentendo il sangue pulsare caldo sotto i polpastrelli. “Sarebbe un buon cavallo da corsa.” 
Uri non gli presta attenzione. Il suo silenzio invita involontariamente lo sguardo a ripiegare sulla sua figura esile - e Kenny vorrebbe ignorare il modo in cui quei pantaloni da cavallerizzo gli ricadono lungo la curva dei fianchi magri...
“Come mai non ne hai avuti di tuoi?” gli domanda ancora. “Di mocciosi, voglio dire, perché non ti sei mai sposato?” Non gli interessa davvero saperlo. Cerca solo un pretesto vago per approcciarlo, non vuole che la conversazione termini così, sebbene non sia mai iniziata in realtà... 
“Beh”, scrolla le spalle, “in fondo non sei poi così... sai...”Nella parentesi indeterminata che sussegue si guadagna uno sguardo da parte dell’altro che si volta e resta a fissarlo blandamente... E allora Kenny si rende conto di non sapere cosa dire, cominciando a sentire ogni sprazzo di spavalderia venirgli meno, come ogni volta che lui lo squadra in quel modo, con quegli occhi tremendi e al tempo stesso indifferenti, per secondi che paiono decadi interi... 
Kenny schiaccia le arcate dentali e le fa stridere per il nervosismo, affettando un’espressione tra sofferto e stizzito. “Quello che intendevo, è che sei Lord Reiss dopotutto!” Il suo timbro ridicolmente alto fa fremere più di un cavallo nella stalla - vorrebbe solo dire che è bellissimo, ma non conosce che complimenti volgari. “Le donne devono aver fatto la fila per averti nel loro letto!” - anche gli uomini, ma decide di tenersi il pensiero per sé. 
Uri lo guarda oltraggiato, le sue iridi si espandono all’inverosimile, le labbra appena dischiuse.
Kenny impreca internamente. 

Non sei così male... Era solo questo che voleva dirgli. 



La porta della sua stanza si apre di colpo facendolo sobbalzare dal letto. È alba, il sole non è nemmeno sorto. 
Kenny porta d’istinto la destra alla cintola, ma poi si ricorda di essere disarmato... “Vestiti, andiamo a fare una passeggiata.” La voce di Uri, imperativa e incolore. 
Che cazzo... Kenny gli lancia un’occhiata sconvolta, restando seduto sul letto, il capo ancora spettinato.
Vorrebbe mandarlo a quel paese.

È la prima volta che gli mostra il lago.

Sellano i cavalli ed escono nella nebbiolina leggera del mattino, percorrendo i pascoli addormentati, con il sole che fa capolino illuminando i bordi scuri delle cordigliere a est.
Il terreno è irregolare, non c’è ombra del bestiame. L’aria gelida odora di erba bruciata e si insinua fin nelle ossa.
“Dove hai imparato a cavalcare?” Uri dà distrattamente voce ad un quesito sospeso nella sua mente, mentre lo sbircia con la coda dell’occhio, sorprendendosi nel scoprire la posizione che ha assunto nel frattempo: con il tallone dello stivale ripiegato sul ginocchio opposto, senza accennare il minimo tremore in cima alla sella su cui se ne sta a proprio agio come un grosso condor accovacciato su di un ramo traballante, le mani intanto impegnate ad arrotolarsi del tabacco in un involto di carta; non ha idea di dove possa esserselo procurato - probabilmente corrompendo uno dei garzoni più giovani della fattoria - e la cosa sembra divertirlo più del dovuto... 
“Non credi che sia un po’ tardi per chiedermelo?”, replica il moro con una smorfia che non è un sorriso, chiudendo il filtro tra i molari di sopra e di sotto, per avere le mani libere di setacciare il trench in cerca dei fiammiferi... “Alle corse, comunque”, soggiunge a posteriori, prima che si udisse l’abrasione della capocchia contro il pacchetto.
Le stesse corse clandestine che aveva proibito due anni fa con un editto reale, ritenendole pratiche disdicevoli - nonché crudele per i cavalli - ma che segretamente si tengono ancora in qualche circuito sotterraneo per il divertimento degli aristocratici...
Con la conca della mano ripara la fiamma dal vento portandola vicino al viso. Trattiene il fiammifero in quella posizione per qualche secondo, finché i filamenti di tabacco non si animano di minuscole trame incandescenti, e infine lo scuote all’aria prima di lasciarlo andare insieme al vento.
Ne aspira una generosa boccata - Uri lo sta ancora guardando - e il sollievo immediato sembra fargli socchiudere le palpebre, godendosi l’istante, mentre una nuvola di fumo si disperde dalle sue narici.
Non ha idea di che sapore abbia quella sigaretta - probabilmente un effluvio corroborante di catrame - non gli sono permessi certi vizi degradanti e insalubri; Uri non sembra provarne disgusto, ma non ha nemmeno voglia di scoprirlo…
“Perché hai voluto risparmiarmi la vita?” La questione giunge improvvisa e lo sorprende nelle sue elucubrazioni puerili. 
Ormai il nome dell’informatore dovrebbe essere stato fatto e spedito alla Gendarmeria centrale, Kenny non si spiega per quale motivo lo trattiene ancora - ci sono certamente modi migliori per divertirsi con un prigioniero che portarlo a spasso in sella a un cavallo - ma non vorrebbe nemmeno essere congedato tanto presto…
Uri tira a se le redini per rallentare l’andatura del suo baio e portarsi al passo con l’altro. “E tu, perché volevi uccidermi?” domanda con infida disinvoltura.
Il più alto sospira una smorfia insieme a un lungo filamento di fumo, posando la mano che sorregge la sigaretta sul pomo della sella, mentre abbassa lo sguardo. Oh, altroché se lo sa… ma nemmeno lui sembra aver voglia di elargire spiegazioni oggi, perciò risponde con un’alzata di spalla e un “touché”, capitolando blandamente.
Il profilo delle colline disegna delicate onde sovrapposte, distribuendosi su differenti gradazioni di verde a seconda di come la luce le colpisce.
Uri fissa di fronte a se, verso un punto indistinto all’orizzonte, ma senza vederlo realmente. “Forse perché,” bisbiglia incerto, quasi si stesse rivolgendo a se stesso, “mi ricordi qualcuno che conoscevo, tanto tempo fa…” Nell’azzurro atavico delle sue iridi affiorano impercettibili detriti di sole, quasi fosse un cristallo grezzo mosso in controluce.
Se Kenny si fosse voltato in quell’istante, vi avrebbe intravvisto la medesima tristezza ineffabile di quella notte… Ma anche in quel caso non avrebbe saputo dare un senso alle sue parole. “Doveva essere un tipo tremendo,” ha asserito invece, quasi fosse stato un elogio, ma senza farne trasparire il tono.
Il fiato di Uri deflagra in una risata trasparente in quel momento, le spalle scosse lievemente. “Oh, lo era!” 
Il suo profilo libra leggero al vento, fragile, prezioso, l’eritema delle guance arrossate dalle correnti gelide: per un secondo, l’impressione del suo sorriso resta sospesa nella sua mente, lasciando un’impronta calda e luminosa dietro le sue palpebre...


Hanno lasciato i cavalli ai margini del bosco per costeggiare a piedi il riva lago ghiaioso. Banchi di nebbia sfiorano il pelo d’acqua cristallina che lascia intravedere foreste di alghe fluttuanti, sulla superficie immobile galleggiano silenziosi stormi di anatre, in sosta lungo il tragitto della migrazione verso luoghi al di là delle Mura.
“Kenny, tu sai cosa sono gli angeli?” 
Uri cammina di fronte a lui, intrecciando le mani con fare fanciullesco dietro la schiena, mentre stringono i guanti da fantino che si è levato insieme al frustino. Le suole dei loro stivali sfregano contro la ghiaia umida, echeggiando brevemente lungo il tratto di sponde cosparse di tronchi che la corrente ha riportato a riva.
“...Gli angeli sono frammenti di dio, emanazioni di luce e energia. Sulle loro schiene solcavano grandi ali bianche con cui si dispiegavano in volo nei cieli. Poi un giorno, gli angeli smisero di volare... sai perché?” 
Si volta, e i suoi passi allentano per poi arrestarsi davanti a lui. E Kenny si ferma di riflesso, con le mani nei passanti dei pantaloni macchiati e una camicia troppo leggera, lo supera di due spanne e Uri sembra un ragazzino al confronto. 
“Perché scelsero di amare, rinunciando alla loro immortalità per diventare umani.”
Kenny non lo sa. 
Le poche cose che conosce sull’origine della sua stirpe le ha apprese dai discorsi deliranti di suo nonno - tipo eccentrico, mai stato del tutto lucido nemmeno in gioventù. 
Una parte di lui, in fondo, le ha sempre credute fiabette per bambini, le storie che Uri raccontava, non prendendole mai seriamente, e Uri non ha mai preteso che lo facesse...
Kenny ha sempre saputo la verità, l’ha portato dentro di sé per tutta la vita, ma non è mai stato in grado di comprenderla.
Nel corso degli anni, avrebbe pensato spesso a quel posto e alle conversazioni avute con Uri sulle rive del lago. Non ha mai voluto ritornarci, preferendo serbare il ricordo di ciò che è stato, come in quel preciso istante - Uri che passeggia di fronte a lui con le mani riunite dietro la schiena come un adolescente e il sole tra i capelli - senza che nulla possa mutare... E quell’immagine è la sola verità a cui abbia mai voluto credere.
“Che cosa desideri veramente, Kenny?”
Gli occhi di Uri si riversano nei suoi, penetrandolo quasi con prepotenza e aprendosi una strada verso il suo cuore, senza difesa né timore - proprio come quel giorno, su quel prato incendiato dai bagliori del tramonto - e gli pare di annegarci dentro e ardere al tempo stesso... 
“Pensavi che, uccidermi, ti avrebbe reso più forte?”  

La sua daga non ha lasciato il minimo segno su quel braccio esile, come se la violenza dell’acciaio che gli ha trafitto le carni e reciso i tendini fosse stata solo dell’acqua gettata contro una roccia.
Il re delle Mura.
Ha creduto che Uri Reiss fosse l’essere più potente di questo mondo, perché lui è libero
Libero, come lo può essere un carceriere in una gabbia di schiavi, poiché questa libertà è ciò che sancisce la vera essenza del suo potere, così come la forza di potervi rinunciare.
Ma si è sempre sbagliato... 

Uri non è estraneo a sentimenti come odio, emozioni elementari come rabbia o gelosia, e in lui c’è tutto questo - in maggiore misura - ombra e luce coesistono non proprio in perfetta armonia. 
È più umano di quanti non ne possano meritare la definizione, sotto quel manto di luce e sacralità, si permette di dubitare, di sbagliare. Conosce il perdono. Per gli altri sopratutto, ma non per se stesso.
Conosce la paura e la teme, quanto solo temerebbe se stesso e la verità che porta occluso dentro di lui.Se predica amore e pace, è perché non è riuscito a sentirli dentro di sé, dove c’è un uragano di violenza e oscurità che non si è mai placcato, da secoli e secoli, e continua tuttora ad infuriarsi...
È un rumore di vetro in frantumi, gli stormi di schegge che turbinano intorno a lui e lo accerchiano dentro una campana di oscurità paralizzante... Le voci gli sussurrano di volontà assoggettate, di catene di dolore e sangue, di tradimenti e fratricidi sui quali è stato eretto il mondo... Le mille vite che lo hanno preceduto e continuano a rivivere nei suoi occhi, come un contrappasso infernale, senza fine...
Uri cerca solo di restare a galla, per quanto umanamente possibile, per quanto fragile e illusorio sia quel sostegno che l’amore gli offre.
E se ogni tanto finisce per dimenticare chi è, Kenny è sempre lì a ricordarglielo. Così che abbia sempre un albero di cinismo a cui aggrapparsi, in quel vortice di pensieri dove la sua personalità viene schiacciata e sprofonda inesorabile. 
Ed in questo, ripone tutta la sua fede.

.....

La mattina dopo, quando Uri si alza per andare ad imbrigliare il cavallo, trova qualcuno ad aspettarlo di fronte alla stalla.

All’ombra del fedora si snuda un sorriso furbo, appena accennato, il tacco di uno stivale agganciato alla staccionata davanti cui poggia e la braccia incrociate al petto.
Come lo vede, Kenny solleva la tesa con un tocco leggero delle dita, da cui riemerge il barlume grigio delle sue iridi. Non c’è bisogno di parlare. 
Lui gli passa accanto entrando nelle scuderie, senza degnargli di uno sguardo, e Kenny - morsicando il lembo inferiore delle labbra, la cui curva acuisce solamente, compiaciuto - lo segue a ruota.

Le loro cavalcate mattutine non sono mai state un segreto e non è stato difficile notarle.
Kenny gli ha racconta della vita che ha condotto nel distretto sotterraneo, dei suoi affari illeciti, senza risparmiarsi in volgarità e dose di macabro, e Uri ne è sembrato in qualche modo affascinato - o forse è stato solo educato... 
Ma è il più delle volte che restano in silenzio, con solo il suono dei zoccoli sull’erba a farli compagnia.
Un giorno li sorprende un acquazzone a metà strada e, in attesa che il temporale cessasse, si rifugiano sotto la tettoia di un granaio.Uri lascia andare uno starnuto delicato, rabbrividendo nella sua camicia leggera. E Kenny gli lancia il proprio cappotto, senza dire una parola, facendolo atterrare malamente sul suo capo: è sporco e odora di fumo, ma Uri ci si stringe dentro con un piccolo sorriso.
La pioggia percuote le tegole, riempiendo il silenzio umido che sa di fieno e terra bagnata.
Quel pomeriggio Rod li vede tornare fradici, di corsa sotto la pioggia, e Uri che indossa ancora il suo soprabito.

 

Nelle lunghe settimane della sua permanenza alla villa non ha mai dovuto incrociare la vista del capofamiglia, il quale ha pensato bene di starsene alla larga. 
Uno di quei pomeriggi lo fa chiamare in biblioteca da un domestico. 
“Sai giocare a cricket, Ackerman?” domanda Rod Reiss, cordiale. Nessuna risposta da parte sua. “D’accordo... il biliardo, allora!” ritenta ancora.
Kenny si limita a inarcare un sopracciglio, indeciso se domandare delucidazioni o tirargli un pugno - semmai lo guarda ancora più storto.
La stanza è in penombra nonostante le finestre alte fino ai soffitti e l'aria lì dentro odora di stantio, di teste di cervi imbalsamate e sigari. Kenny se lo immagina in tempi più gloriosi riempirsi di grassi gentiluomini nelle ore lascive del dopocena, mentre sorseggiano brandi costosi speculando di politica e congratulandosi l'un altro in un miasma di fumo: un tempo quella stanza ospitava la cappella di famiglia, voluta dal nonno di Uri e Rod, dove peraltro non si celebrano più rituali da anni. 
Sotto il grande lampadario di ottone staziona un tavolo lungo e massiccio. Rod si fa aiutare per scoperchiare l'enorme telone steso sopra di esso e prepara il biliardo disponendo le biglie a triangolo. “Come vanno le tue ferite?” gli domanda, mentre ingessa flemmatico la punta della sua stecca, lo sguardo intento a studiare l'avversario dall'altra parte del riquadro verde... Come se non lo si capisse perfettamente solo guardandolo, pensa Kenny: non ha più l'ombra di una sola contusione in tutto il corpo, la quasi mostruosa rapidità con cui ha recuperato in quel breve lasso di tempo. Rod si china reggendo la stecca contro il bordo del tavolo e tira, aggiungendo a suo indirizzo, “mi spiace averti colpito, sai.” 
"Fatico a crederci, Reiss" sospira blandamente il più alto, mentre si posiziona per il proprio turno; Rod non è il solo a conoscere quel gioco - biliardo o qualunque altro genere gli venga in mente...
"È comprensibile." Gli sorride e annuisce con quegli occhi onesti fastidiosamente somiglianti a quelli del fratello minore. Kenny non replica alcunché.
Rod annuncia il numero della boccia che intende colpire, prendendo bene la mira, prima di mandarla dall’altra parte del tavolo facendola collidere due volte contro il perimetro del quadrilatero. “Le mie fonti mi dicono che vieni dai bassifondi di Mitras," ha continuato lui, "sei parecchio lontano da casa.” Sì, ha fatto giusto una capatina per compiere un regicidio - fallito peraltro. “E sei via da molto, immagino siano in pensiero per te i tuoi cari...” Rod vuole capire chi ha davanti, carpirgli qualche informazione di natura personale, qualche tratto del suo carattere, una debolezza...  
Se è questo il gioco a cui vogliamo giocare, Kenny pensa tra se e se, cercando di non roteare gli occhi all'ovvietà... "Non c’è problema, milord, non mi aspetta nessuno..." replica stoico, l'onorifico che suona come un insulto sulle sue labbra: a conti fatti, non è nemmeno una bugia. 
I colpi di stecca si alternano sopra il tavolo con ritmo serrato e crescente, rincorrendosi febbrilmente e ricalcando alla perfezione il ritmo delle battute che si susseguono caustiche nella conversazione come se nella stanza vi fosse in corso una battaglia a tutto campo, sia fisica che mentale.
“Mi sembra di capire che tu nutra, per così dire, un certo interesse per mio fratello...” 
“L’interesse potrebbe essere reciproco, ma non vorrei dare l’impressione sbagliata, Vostra... Grazia?”
“Sua Eccellenza è più che sufficiente,” gli concede magnanimo Rod, il tono quasi pedante e per nulla impressionabile. Ora vorrebbe davvero mandarlo a quel paese, anzi, decide di farlo e basta... “Che cazzo vuoi da me?” prorompe tutt'a un tratto Kenny, primo a cedere.
Rod si limita a posare la stecca davanti a sé e con calma studiata lo fissa in viso per qualche secondo. “Te ne devi andare,” alla fine gli dice, anzi comanda, il tono flemmatico ma perentorio di chi non ha mai dovuto chiedere nella vita. 
“Oh! E chi me lo ordina? Sua-- Pomposità Illustrissima?” Kenny replica con la sfacciataggine di un ragazzo, negli occhi un sorriso lapidario e velenoso.
Il contegno di Lord Reiss però non ne risente minimamente, si volta di trequarti pronto a congedarsi dalla sua ignobile vista. “Avrai un posto alla Gendarmeria Centrale.” 

Con questo, Rod chiude e vince la partita.

Non si piacciono e non fa nulla per nasconderlo. 
Ai suoi occhi, Kenny Ackerman non è altro che un insetto problematico che rischia di compromettere l’integrità di suo fratello, ed è solo per amore di Uri se non ha ancora ordinato la sua esecuzione.
La prudenza lo ha indotto a fare delle indagini sul suo conto, e il risultato è stato alquanto raccapricciante. Il suo nome, per quanto insigne di questi tempi, non è mai giunto a sporcare le bocche elette dei Reiss. Il passato di Kenny Ackerman è talmente intriso di sangue che non basterebbe una sola forca su cui appenderlo, per quante gole ha reciso nei sobborghi della capitale, e lui di collo ne ha uno solo... Uri non ha fatto una piega quando glielo ha riferito, con enfasi di particolari anatomici.
Non ha trovato soluzioni migliori per sbarazzarsene. I piani di Uri sono sempre stati nebulosi ai suoi occhi, per quanto tentasse di compenetrarli, Rod ha accettato a priori di non possedere l’umiltà necessaria...
Con sua sorpresa, Kenny ha accettato senza ribattere. 

 

Unità centrale della gendarmeria di Mitras, un corpo di soldati scelti, che nasce e vive per difendere il segreto delle Mura - in altre parole, sono i “mercenari di dio”. 
Sono l’equivalente di ciò che è stata un tempo la famiglia Ackerman per la corona, finché la corona stessa non aveva deciso di debellarla, cancellandone il nome dalla faccia della terra. Per 100 anni, i suoi membri hanno protetto la verità che si cela dietro al velo del terrore in cui l’Umanità è soggiogata. 
Esiste in realtà un elaborato rito di iniziazione che prevede digiuno e abluzioni - un novizio viene spogliato e rivestito nella tonaca cerimoniale e, rigorosamente bendato, viene condotto nel tempio per ricevere il battesimo dal tocco della spada del sovrano, che ne segna la rinascita come soldato di dio: a Kenny, però, fortunatamente sarà risparmiato tale incomodo... 
Lo stesso esercito non ne è a conoscenza, poiché la loro catena di comando è totalmente indipendente dalle alte sfere militari. 
Rod Reiss non si può definire esattamente un comandante delle forze armate, ma è a lui che si rivolge tutta la facciata pubblica, in quanto capofamiglia. Solo una ristretta cerchia conosce la vera identità del sovrano dentro le Mura, il che avrebbe garantito un ulteriore livello di protezione e segretezza per Uri Reiss - o almeno, in teoria... Il fatto che Kenny Ackerman respiri ancora e abbia ancora la facoltà di fare pensieri non propriamente consoni su Uri Reiss, la dice lunga sull’efficienza del sistema...
Kenny è nato dentro le Mura e non ha conosciuto altro che quel pugno di cielo in fondo al pozzo, non ha ricordi di quando la sua famiglia viveva ancora in superficie; da quando ha memoria, il mondo è sempre stato buio... Il rancore che potrebbe aver legato a doppio filo i suoi antenati alla famiglia reale non ha mai avuto attinenza diretta con la sua vita, ed è senz’altro esilarante il fatto che proprio un discendente degli Ackerman ne diventi membro, dopo un secolo di persecuzioni attuate nei loro confronti dallo stesso élite di gendarmi a cui si accinge a prestare giuramento...  
La sua sentenza è solo posticipata, per tutta la durata del servizio che avrebbe svolto sotto i Reiss godendo dell’immunità reale, ma Kenny ha anche altre mire in testa...

Uri si è accomiatato da lui accompagnandolo a piedi fino al cancello, dove gli restituisce il suo pugnale, quello che ha estratto dal suo polso e custodito per lui fino a quel momento.
Prima di salire sulla carrozza Kenny si è levato il cappello. Prende la mano di Uri nella sua, e stringendoglielo incerto vi posa sopra un bacio delicato, volatile, e - certo che Rod stia guardando, perfido e un poco puerile - piega il collo e si flette finché i loro occhi non si incontrano alla stessa altezza, imprimendo nell'atto tutta la sua devozione.
Un gesto spontaneo, d'altro canto, privo di malizia da parte sua, che cade dove le parole vengono a mancare e riempie lo spazio di pensieri che Kenny non si sente di pronunciare. In cuor suo spera che Uri pensi a lui mentre non ci sarà, si illude che lui possa aspettarlo. L’espressione di Uri resta come sempre labile e imperscrutabile, appena una traccia di sorpresa o interdizione, nulla più; non replica né si sottrae.
Kenny si rimette il cappello, toccandosi la falda in segno di congedo.

Mentre la carrozza traballa e si allontana lungo la via che lo porta alla Capitale reale, così come nei giorni turbolenti e totalmente bui che seguiranno la sua permanenza laggiù, Kenny ripensa a quella mano - a quando lo ha stretto, minuta nel suo palmo enorme al confronto, il peso flebile, ricordando le venature bluastre evidenziate sul dorso, la differenza di temperatura avvertita, tuttora formicolante sulle labbra... - in effetti, molto più spesso di quanto sarebbe stato opportuno ammettere...

 

......

 

Il cambiamento avviene in silenzio, in modo impercettibile.

Il mondo che nella sua perfetta armonia non sembra accorgersi dell’esplosione che sta avendo luogo dentro di lui, invertendo e mutando il decorso del suo sangue per sempre: la luce del crepuscolo, il bisbiglio degli insetti, l’odore di abeti trasportato dal vento, il suo cappello che giace da qualche parte riverso sull’erba - ogni dettaglio di quello stesso istante lo abbraccia, investendo lucidamente i suoi sensi e cauterizzandosi nei circuiti mnemonici - come i cocci di un mosaico frantumato che finalmente ritorna ad essere un tutt’uno nello specchio delle sue iridi...
Insieme a lui, sembra che il mondo intero si sia prostrato ai suoi piedi.
 

Tu forse non lo saprai mai. 

Ma tu mi avevi già salvato, Kenny... 

 

Fin dall’inizio, eri tu...


Uri ha le lacrime agli occhi, come se avvertisse il suo stesso dolore, un dolore che forse lui non è neppure cosciente di provare in quel momento. E di tutta questa umanità torbida, ingarbugliata e sofferente, è di un assassino il perdono che Uri chiede.

Kenny non sa come concederglielo, è l'ultima persona al mondo che potrebbe farlo - e ancora, è il solo che possa salvarlo da se stesso...

 

 

......
 

La sua partenza ha riportato quiete nella tenuta e più di una persona ne ha tratto sospiri di sollievo. 
Nessun accordo lo impegna a fare ritorno, ed è sottinteso che potesse anche sparire nel frattempo, come Rod si è prospettato che facesse... 
Due mesi più tardi, Kenny Ackerman ricompare nei pressi dei villaggi fuori Orvud, la sacca sulla spalla e gli stivali impantanati, in cammino lungo il sentiero per la dimora dei Reiss. 
È ancora una gelida mattina nebbiosa e il paesaggio rurale di Wall Rose giace nel suo silenzio algido, in quell’ora sacra e vuota che precede la venuta dell’alba. A ogni passo, il pensiero di Uri riemerge dalla notte e tocca il filo rosa-dorato dell’orizzonte con vivido chiarore. 
L’aria fa condensa intorno al suo respiro e Kenny si stringe intirizzito nel suo vecchio cappotto. Per la prima volta nella vita si scopre a desiderare qualcosa che non sia meramente il potere e le sue spire seducenti, qualcosa di cui non conosce ancora il nome né la forma, che è la vita stessa ma è anche la sua estinzione... 
Sa solo che Uri Reiss, ancora prima di esserne la cura, sarebbe stato la sua condanna.

 

".... Can you hear them sing?

You're some kind of heaven,

that's all that I need.


I found it in you..."

 

Uri riapre le palpebre sentendo freddo quella mattina.
Accantona le coperte e adagia i piedi nelle pantofole, sfilando lo scialle di lana da una sedia per adagiarselo sulle spalle. 
Fa per andare a scostare le tende come sua abitudine e nota un fiore blu sul davanzale. 
Apre le finestre e lo raccoglie con le sue dita infreddolite, ma là fuori non trova nessuno. Osserva il colore della piccola genziana che è solita crescere nelle sue terre, un sorriso che gli spunta sul viso ancora prima di sapere il motivo...





 



"Some kind of heaven", Hurts.  Di sopra il testo di cui prendo in prestito, me lo immagino come musica di coda.

Questa storia fa seguito a "Memoria del mondo", ambientata in un arco temporale precedente/contemporaneo alla creazione delle Mura, e non ha motivo di esistere, tranne quello di essere un omaggio alla Kenuri.







 

  
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