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Autore: _Lightning_    30/11/2020    1 recensioni
«Si dice che si nutrano di sogni. Qualunque cosa voglia dire.»
«Non intendo rimanere qui abbastanza a lungo da scoprirlo,» rispose Din, seccamente.
Cara smise di trafficare con la fondina del suo blaster e alzò lo sguardo, vedendolo fermo sul bordo della rampa d'uscita della Crest, come se fosse riluttante a mettere piede sul suolo muschioso e umido di Varchas. Il Bambino emise un flebile richiamo dal suo scomparto.
«Cos'ha che non va questo pianeta?»
Din soppresse un sospiro.
«Non mi piace e basta.» Avanzò all'esterno, gli stivali che affondavano nel sottobosco scuro e molle. «Chiamalo un presentimento.»

[CaraDin (slow-burn) // Mando&BabyYoda // Mild Horror // Angst // Hurt/Comfort // Whump]
Genere: Dark, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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Quando guardi l’Abisso
 
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4. La Torre di luce (I)



Raggiungere la torre si rivelò molto più semplice di quando si fosse aspettata, in un modo che la mise in allarme.

Dopo anni passati a gettarsi in caduta libera da navi malmesse su pianeti occupati, ad appena un colpo di blaster dalla morte, Cara aveva imparato a diffidare di tutto ciò che si risolveva senza presentare la minima difficoltà. Al momento la situazione le sembrava fin troppo tranquilla, e si trovò a ricadere nel vizio di mordersi l’interno della guancia e le labbra, un tic che credeva di aver abbandonato in seguito alla sua “pensione anticipata
. Evidentemente no.

Continuò ad aspettare nervosamente il suo compagno, ammantata nell’ombra di un passaggio a volta. Era riuscita a seminare le Guardie in uno dei suq inferiori, dopo molte deviazioni e dietrofront tra i suoi stretti, asfissianti cunicoli. Alla fine si era risolta a prendere “in prestito
 un lungo drappo colorato da uno dei banchi, celando così il suo aspetto e gli abiti da mercenaria.

Vi era ancora avvolta, con un lembo tirato su a coprirle il capo a mo’ di cappuccio. Era un inganno di per sé semplice, ma aveva funzionato. Da lontano, appariva come una delle tante donne Varchaasi intabarrate nelle loro lunghe vesti e mantelli decorati. Peccato per gli occhialoni, ma bastava tenere le testa china. In ogni caso, almeno lei non aveva inquietanti iridi lattee da nascondere. Batté le palpebre per scacciare quell’immagine, ormai impressa nelle sue retine.

Si mordicchiò di nuovo il labbro, facendo affiorare una gocciolina di sangue mentre scrutava il vicolo con occhi irrequieti. Era quasi del tutto deserto, se non per occasionali passanti troppo distratti per notarla. La torre-specchio si ergeva dall’altro lato, coi muri rossicci decorati da piastrelle arabescate e specchi dalle forme più disparate. Alcuni erano tondeggianti, altri più spigolosi; altri ancora sembravano composti da più specchi uniti tra loro, in modo da riflettere la luce in più direzioni, creando accecanti raggiere luminose. Ogni singolo specchio era racchiuso in cornici e sostegni dorati, spesso a foggia di viticci o edera.

Nel complesso, la struttura appariva a pari modo opulenta e solenne. In un certo senso, sembrava quasi vigile. Non riusciva ancora a scrollarsi dalle spalle l’impressione di essere osservata. Ora che era così vicina all’edificio, iniziava a rimpiangere la sua idea di attraversarlo, e le preoccupazioni di Din riguardo al profanare un suolo sacro contribuivano solo in minima parte a quel ripensamento. 

Semplicemente, qualcosa non le tornava. Non riusciva a pensare a nessun luogo di culto privo di ingressi, eppure non era riuscita a individuarne alcuno. Non in piena vista, almeno. La torre sembrava inespugnabile, più simile a una struttura difensiva o a una roccaforte. Aveva scartato anche l’opzione di scavalcare il muro del giardino: da vicino, aveva visto che era sormontato da filo spinato al plasma, pronto ad attivarsi al minimo tocco. Non erano ancora così disperati da rischiare di rimanere folgorati per raggiungere il loro obbiettivo.

Era riuscita a individuare un’unica, incerta via d’entrata durante la sua ricognizione veloce attorno alla base della torre: alcuni degli specchi più grandi sembravano essere mobili, e uno di essi era leggermente socchiuso. Dietro, sembrava aprirsi un passaggio vuoto, forse una finestra o un condotto d’areazione. Con la loro fortuna, era più probabile fosse quest’ultimo. Lo specchio era a circa quattro metri d’altezza, quindi avrebbero dovuto fare qualche acrobazia per raggiungerlo – magari sfruttando i tetti dirimpetto.

Ecco, in quel momento il jetpack sarebbe tornato utile, ma ovviamente Din aveva dovuto danneggiarlo in modo quasi irreparabile – altro motivo per cui quei diecimila crediti erano allettanti.

Gettò un’altra occhiata impaziente alla strada. Per Malachor, dove si era cacciato? Il limite dei venti minuti stava per scadere, e non sarebbe riuscita a nascondersi ancora a lungo dalle Guardie. Dubitava anche di averle seminate, e temeva la stessero pedinando, celate da quelle stesse ombre in cui aveva trovato riparo lei.

Si lanciò un fugace sguardo alle spalle, verso il vicolo invaso di rifiuti e cumuli di petali. Un rigagnolo di densi liquami color ruggine scorreva pigro nel canale di scolo, andando a riversarsi in un tombino bronzeo a un passo da lei. Il vicolo terminava in un piccolo cortile, sul quale si spalancavano alcune porte scrostate. Erano chiuse, in realtà, ma riusciva benissimo a immaginare delle figure acquattate là dietro, con le orecchie premute sul legno o gli occhi intenti a sbirciare dal buco della serratura.

Serrò le braccia ai gomiti e con esse i lembi del mantello, quasi potesse offrirle un’ulteriore protezione, più della corazza in durasteel che indossava subito sotto. Non si era mai sentita così paranoica, nemmeno durante le lunghe notti su Endor, quando il minimo fruscio poteva preannunciare morte certa. Al momento, l’unico suono che percepiva era quel costante ronzio, ma non sapeva dire se fosse suggestione o meno. A volte le sembrava provenire da dentro la propria testa.

Si rimproverò a quel pensiero: basta elucubrare in modo inquietante su qualunque cosa riguardasse gli insetti o altre creature disgustose, si impose. Fulminò con lo sguardo un’ape che svolazzava innocua lì accanto, indaffarata tra fiori e polline. Era ricoperta da una sottile polvere rossa e Cara si sentì aggrovigliare lo stomaco senza alcuna ragione apparente, se non istintivo ribrezzo. Distolse lo sguardo.

L’incedere di passi in avvicinamento la fece entrare di nuovo in tensione, ma si rilassò nel captare il lieve tintinnio metallico che li accompagnava. Finalmente.

Din scivolò sotto l’arco a colpo sicuro, avendola individuata tramite il localizzatore, o grazie alla visione termica, o semplicemente grazie ai suoi sensi allenati. Le sembrava molto più saldo sulle gambe, rispetto a prima, e ne fu sollevata.

«Ti dona,» commentò lui con una rara ombra scherzosa nella voce, accennando col mento al drappo viola in cui era avvolta. Lei lo guardò in cagnesco.

«Come va coi fiori?» ribatté secca, sfidandolo ad aggiungere altro sul suo aspetto insolito e decisamente poco guerriero.

«Gestibile,» rispose lui, tornando serio – almeno in apparenza, perché poteva percepire la presa in giro sulla punta della sua lingua. «Ho ricalibrato il filtro. Ora respiro meno ossigeno, ma anche meno polline e spore.»

«Se funziona, tanto meglio. Basta che non mi svieni addosso,» commentò, lei più bruscamente di quanto intendesse.

Lui tirò un poco all'indietro il busto, preso in contropiede, e poté giurare di vederlo battere con perplessità le palpebre dietro al beskar. Cara sospirò.

«Non hai idea di quanto stia detestando questo posto,» mise in chiaro, reindirizzando il suo scatto lontano da lui. «Entriamo in questa dannata torre.»

«Hai visto il condotto?» la assecondò lui, dopo aver accettato le sue goffe scuse con un cenno.

«Sì, e poteva davvero servirci il tuo jetpack. Dovremo rischiare l’osso del collo,» continuò, con un cenno poco entusiasta ai tetti circostanti.

Din lanciò un’occhiata allo specchio in questione, inclinando all’indietro la testa per osservarlo meglio. Poi, senza una parola, marciò a passo spedito nel bel mezzo della strada.

Come al solito, pensò lei. Odiava quando non la rendeva partecipe dei suoi piani, preferendo le azioni alle parole. Era un atteggiamento con cui lei stessa doveva fare i conti, essendo a sua volta abituata ad agire da sola, ma era certa di essere molto più prevedibile di lui, visto che non aveva un secchio di beskar in testa.

Lo seguì rassegnata, lasciando cadere a terra il mantello ormai inutile, nella speranza che nessun ignaro cittadino decidesse di passeggiare proprio in quella viuzza. Contava sul fatto che Din fosse in grado di monitorare la zona, grazie alle funzionalità del casco. Questi si arrestò proprio sotto allo specchio, poi fece mezzo passo indietro e prese la mira col polso. Il rampino scattò fuori dal suo alloggio nel parabraccio, sfiorando lo specchio... e mancandone la cornice interna di circa mezzo metro.

«Dank farrik,» imprecò tra i denti lui, mentre l’uncino rimbalzava contro il muro rischiando di aggrovigliarsi tra cornici e decorazioni, per poi afflosciarsi inutilmente ai suoi piedi.

Si riavvolse in automatico nel suo alloggio, frustando l’aria con un fischio, e Din si riposizionò, avvicinandosi un poco e cambiando angolazione.

«Aspetta,» lo fermò lei, piazzandosi con la schiena contro il muro della torre, e fece cenno a Din di avvicinarsi. «Il laccio è comunque troppo corto, ti alzo io. Sbrigati.»

Din sembrò riluttante. «Non sono esattamente leggero

Cara sbuffò con un sorrisetto. Trovava sempre divertente quando tentava di fare il gentiluomo, pur sapendo perfettamente che non ce n’era alcun bisogno, visto che erano tra guerrieri.

«Mando, ti ho portato a peso morto e svenuto lontano da uno scontro, con tanto di armatura addosso: penso di poterti prendere a cavalluccio per qualche secondo.»

Din sospirò, ma non mosse ulteriori obiezioni. Pochi istanti dopo era in piedi sulle sue spalle, cercando di mirare di nuovo al condotto. E sì, pesava davvero come un bantha, ma almeno stava cercando di appoggiarsi al muro e di non muoversi troppo. Lei tenne gli occhi fissi sul vicolo, sotto sforzo, aspettandosi di venire colti in flagrante da un momento all’altro. Le parve che il ronzio di sottofondo si fosse fatto più forte, ma lo ignorò.

Quando udì lo schiocco del laccio, seguito dal suono metallico dell’uncino che si agganciava al bersaglio, rilasciò un respiro sollevato.

«Preso,» esultò Din, aggrappandosi con entrambe le mani alla fune per saggiarne la tenuta, per poi piantare saldamente un piede contro il muro, cominciando l’ascesa.

Cara percepì la pressione abbandonare le sue spalle, e si accovacciò brevemente per sciogliere le ginocchia indolenzite. Guardò in alto: Din aveva già raggiunto lo specchio, e lo stava cautamente sollevando per rivelare il passaggio. Il raggio di luce riflesso si spostò a sua volta, e sperò che nessuno tenesse traccia di dove puntassero. Sorprendentemente, era davvero una finestra: un semplice passaggio occhieggiò sotto la superficie lucida, e colse un’aura dorata provenire dall’interno.

Din fece capolino oltre il davanzale, poi si assicurò che il laccio fosse ancora saldamente ancorato, sganciandolo dal proprio alloggio e lasciando che penzolasse verso di lei, rimanendo a circa due metri dalla sua testa. Le rivolse un segno di OK, poi scavalcò agilmente la cornice e sparì dall’altro lato.

Cara si affrettò a prendere la rincorsa, per poi raggiungere la corda sfruttando il muro come trampolino. Ringraziò i suoi robusti guanti di cuoio e afferrò la corda senza tagliarsi le mani, iniziando ad arrampicarsi con uno sbuffo. Accelerò il ritmo nel sentire del vociare concitato sotto di lei. Qualcuno gridò e, sebbene sembrasse ancora lontano, compì con fretta frenetica l’ultimo metro, scavalcando la finestra senza nemmeno guardare, fidandosi di Din e dell’assenza di avvertimenti da parte sua. Lasciò la presa dal davanzale e atterrò sul lucido pavimento d’ambra all’interno, sana e salva. 

Un solo pensiero le balenò in testa, non appena alzò lo sguardo e mise a fuoco i dintorni: non sarà facile.


 

 

Din la guardò, inclinando l’elmo in un’angolazione precisa, saccente, che poteva solo significare Io te l’avevo detto.

Lei quasi non lo notò, troppo presa a cercare di comprendere cosa stessero vedendo i suoi occhi – o meglio, cosa non stessero vedendo. Una parvenza di logica, per esempio. Il corridoio in cui si erano intrufolati era stranamente curvo e in discesa, interamente composto da enormi pannelli d’ambra. Ciò lo rendeva dorato in ogni sua singola parte in modo quasi doloroso alla vista, tanto che era difficile scorgere dove finisse il pavimento e iniziassero le pareti, e viceversa. 

Non c’erano mobili, né suppellettili: a decorare l’ambiente vi erano solo delle false colonne che dentellavano le pareti senza alcun criterio riconoscibile. Tralci d’edera erano incisi su ogni superficie piatta, e degli specchi sferici pendevano dal soffitto, riflettendo una luce di cui non riusciva a intuire la provenienza. Fissò quel tripudio dorato, stordita dall’assenza di qualunque altro colore.

«Forse... non è stata una buona idea,» si arrischiò a borbottare infine, suo malgrado.

«Già,» ribatté sbrigativo Din, girando su se stesso alla ricerca di un qualsiasi punto di riferimento che li indirizzasse verso l’uscita. «Dank farrik, non riesco nemmeno a pensare, qua dentro,» rinunciò con un verso frustrato, e lo vide armeggiare con i comandi esterni del suo visore. Quel riverbero costante doveva farlo uscire di testa.

«Andare in discesa mi sembra un buon inizio,» disse lei, picchiettando le nocche sul suo spallaccio, in un gesto d’invito, ma anche incoraggiante.

Lui sembrava di nuovo preso dal nervosismo, ma annuì comunque, seguendo il suo suggerimento. Estrassero entrambi in simultanea i blaster, come se si fossero letti nel pensiero: non erano al sicuro, lì dentro.

Il corridoio non era davvero in discesa, o meglio, non lo fu per molto. S’inclinò improvvisamente verso l’alto senza alcun preavviso, e impiegarono circa mezzo minuto per capire che non li avrebbe condotti da nessuna parte, solo più in alto. E dovevano andare verso la base della torre, se volevano sperare di uscirne. Fecero rapidamente dietrofront, ripercorrendo i propri passi, solo per ritrovarsi in un ampio salone circolare che di certo non avevano attraversato prima. Dei viticci decorativi ricoprivano le pareti, e c’era un sentore di gelsomino nell’aria, anche se non vi era traccia di fiori.

Si scambiarono uno sguardo perplesso, la presa sui blaster che si faceva più salda di minuto in minuto.

«Non siamo passati...»

«No,» confermò Cara scuotendo la testa mentre cercava di scorgere un qualsiasi dettaglio familiare, senza successo. «Non abbiamo nemmeno mai deviato.»

«Che razza di posto è?» bofonchiò Din, tra i denti, compiendo qualche passo senza una reale mèta.

«Non sono sicura di volerlo sapere,» ribatté seria lei, per poi puntare il blaster verso ciascuno dei quattro passaggi che si aprivano nel salone. «Da che parte?»

«Rangir, non credo faccia più differenza,» rispose lui, rapido, marciando di colpo verso quello più vicino.

Cara non conosceva molto Mando’a, ma quella parola suonò particolarmente feroce, anche se non gliel’aveva mai sentita usare. Il che voleva solo dire che non l’aveva mai visto così agitato. Lo seguì senza sollevare obiezioni, col suono dei loro stivali che squittivano sul pavimento levigato. Percepiva una sorta di molesta, crescente pressione dentro la sua testa. Le rendeva difficile concentrarsi, e lasciò di buon grado la guida al suo compagno, sperando che il fastidio si attenuasse man mano che si abituava al brillio ambrato che li circondava. 

Sentiva ancora quel ronzio, ma, adesso che erano al chiuso e senza api in vista, si convinse che fosse davvero solo la sua mente in vena di qualche brutto tiro. Anch’esso sembrava aumentare d’intensità, dandole l’impressione di avere un nugolo di api imbizzarrite in testa. Quasi le sentiva sbattere contro la scatola cranica. Percepì un’ondata fredda ghiacciarla da capo a piedi a quel pensiero, e si impose di soffocarlo prima che prendesse contorni troppo definiti.

Man mano che imboccavano sempre più corridoi e scale a caso, la loro leggera ansia iniziò a farsi più palpabile, espandendosi attorno a loro come una bolla opprimente, che cresceva e si solidificava con ogni passo falso e vicolo cieco che si parava loro davanti. Cara avvertì la propria concentrazione vacillare sempre più, e i movimenti di Din si fecero scattosi: si arrestava e cambiava direzione senza alcun preavviso, come un animale in gabbia.

L’intera torre non era altro che un diabolico labirinto che sfidava qualunque legge della fisica a lei conosciuta, e probabilmente anche altre a lei inconcepibili. I corridoi si avvitavano e intersecavano tra loro, seguendo direzioni e percorsi che in teoria non sarebbe stato possibile racchiudere nel limitato spazio della torre. Le scale erano ingannevoli, prive di senso, così come i muri, i pavimenti e i soffitti. 


Se da fuori era sembrata enorme, da dentro era immensa, e il loro piano di attraversarla da entrata ad uscita B andò in fumo. Non cera modo di proseguire in linea retta, né riuscirono nemmeno più a dirigersi verso il basso. Continuarono invece a salire, e salire e salire ancora, per poi scendere un paio di livelli, senza sapere se si stessero davvero avvicinando al piano terra, né se ciò fosse davvero un modo per uscire di lì. Sembrava che un architetto avesse stracciato in mille pezzi altrettanti progetti, per poi rimescolarne i frammenti e incollarli a caso tra loro, senza nemmeno preoccuparsi di voltarli dal lato giusto.

Non sapevano nemmeno quanto tempo fosse passato. A intuito, una dozzina di minuti, ma potevano benissimo essere ore. Non che guardare fuori da una finestra li avrebbe aiutati, ma non riuscirono nemmeno a trovarne una da cui calarsi all’esterno. 


E a coronare quella situazione assurda, era tutto così luminoso da far loro dolere gli occhi: un riverbero dorato permeava ogni angolo del complesso. Nessuna ombra in vista. Pannelli d’ambra ricoprivano le pareti, con una miriade di pagliuzze che rifrangevano la luce in un brillio costante, come onde di miele perennemente increspate dal vento. Era come essere intrappolati in un gigantesco alveare.

Aveva l’impressione che l’edificio si ricomponesse e rimescolasse sotto ai loro passi negando loro ogni via di fuga, quasi volesse trattenerli lì dentro per sfiancarli e divorarli lentamente.




 

 

Note:

-Rangir: all’inferno!
NB. C’è una citazione a The Haunting of Hill House sparsa nel capitolo... biscotti blu per chi la trova!


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
eccoci qui con un altro bel trip mentale, almeno spero. Anche se può non sembrare, ogni dettaglio ha un suo preciso significato, e non ci sono parti "inutili", quindi occhi aperti ;)
Il prossimo capitolo sarà decisamente più movimentato, per tutti i motivi più sbagliati, e spero di pubblicarlo in settimana, visto che è già pronto, sorprendentemente!

Grazie a tutti coloro che hanno letto e commentato fin qui, e non fatevi remore a lasciarmi un vostro parere: la storia è in tutto e per tutto un esperimento, e ogni riscontro è gradito ♥
A presto,

-Light-
   
 
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