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Autore: Gaia Bessie    09/12/2020    4 recensioni
E t’addormentavi in un letto di spine che penetravano la carne.
E ti svegliavi in un bagno di petali in fiore.
E il caffè era finito e la notte era ancora lunga.
E.
[ OS | AtsuHina e KageHina | Angst]ù
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Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 nella categoria "Miglior film d'animazione" indetti sul forum Ferisce più la penna
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fondi di caffè'
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Fondi di caffè

 
 
E t’addormentavi in un letto di spine che penetravano la carne.
E ti svegliavi in un bagno di petali in fiore.
E il caffè era finito e la notte era ancora lunga.
E.
 
 
T’addormenti con le coperte attorcigliate, stanche d’avvinghiarsi attorno al tuo corpo, e ti svegli con l’anima snudata dai suoi sguardi: perché Atsumu non guarda mai, non osserva il tuo viso assonnato, no, lui ti spoglia l’anima purissima con una singola occhiata. Ti priva della pelle, delle lenzuola, dei preconcetti e di ogni sorta di rimorso o rimpianto. E delle parole.
La mattina presto, quando vi alzate per correre in silenzio nei dintorni di casa, parole non ve ne sono mai. E il caffè è sempre finito, quando la mattina è appena cominciata e non vi sono respiri che ne giustifichino l’assenza, perché l’assenza si beve e si mangia come il latte macchiato a colazione – ed è macchiata e sporca l’esistenza stessa, pensi distrattamente, mentre lui ti sfiora l’anima con la punta delle dita.
È macchiata, sì che lo è. L’esistenza, macchiata delle sue dita le tue gambe, la tua vita, tutto di te è un marchio del suo passaggio. Atsumu è quella macchia in una giornata di sole, un’eclissi forse, che ti ombreggia la mente per ripararla, per proteggerla.
«Andiamo?» ti domanda, ha la bocca impastata di sonno e della colazione che ha lasciato per metà sul piatto.
Metà ora e metà dopo la corsa, per lui le cose belle devono sempre avere un prima e un dopo, solamente così ti rendi conto che sono belle per davvero: e, la colazione, lo è sicuramente. E forse anche tu, quando lo guardi e hai quella fame che lui t’ha tanto invidiato.
«Andiamo!» tu sei sempre entusiasta, sempre con la marcia ingranata, sempre.
Sempre un caffè nero e con due cucchiaini di zucchero, grazie, colazione americana con doppio bacon. Sempre un sorriso e la bocca piena di briciole di toast, tu la colazione la finisci sempre in un boccone o due – e fai uno spuntino dopo la corsa, perché le cose belle le ricerchi nel simile, e una banana dopo l’esercizio fisico è abbastanza buona da addolcire la mattinata.
Correte come se qualcuno vi stesse inseguendo, mettendocela tutta, anche quando le ginocchia iniziano a far male e il fiato manca, ma quanta mancanza v’è a questo mondo, prima di doversi preoccupare di quella del fiato?
«Sei sicuro?» ti domanda Atsumu, in un lampo di comprensione. «Oggi è…».
Oggi è il giorno macchiato e stracciato in cui la vita si svela per quel che è, ovvero la perversione di qualcuno più grande di voi che è spina, e petalo dolcissimo che sfiora un lago di calma, e caffè che si rovescia su una tovaglia immacolata.
Oggi è il giorno stracciato e macchiato in cui le sfilacciature dell’esistenza divengono palesi, e allora niente quadra più – i petali con le spine e il caffè con la tovaglia – e puoi solamente chinare il capo a lasciarti inumidire dalla pioggia. Qualcuno, sopra di te, sta piangendo sangue.
«Lo so che giorno è oggi» rispondi, allegro. «Oggi è mercoledì. Il giorno in cui facciamo i pancakes come spuntino!».
Atsumu ti lancia uno sguardo di dolorosa comprensione, mentre mette da parte il proprio caffelatte bevuto per metà e un bacon che non ha nemmeno toccato (le cose troppo buone per essere interrotte hanno una fine, ma mai un inizio). In lui è tutto dolorosamente chiaro, è doloroso quello sguardo, quelle mani che ti sfiorano i capelli, straziandoti l’anima a unghiate, mentre scuote il capo e la verità gli bacia le labbra. Anche se tu non vuoi.
Soprattutto se tu non vuoi.
È campione dei momenti sbagliati, Atsumu Miya, è campione di ogni tuo momento. Ogni singolo, inutile momento che vorresti dimenticare, obliare, e che lui è capace di rievocare con un respiro e uno sguardo.
Un caffè corretto per me, questa mattina, e un pancake con sciroppo d’acero: non c’è abbastanza dolcezza, nel vostro mondo, e quindi lui vi getta zucchero a palate come se fosse abbastanza per ricoprire il retrogusto amaro del rhum in un caffè che scorrettamente la vita ti pone davanti. Prendine un sorso, coraggio – forse dimenticherai il dimenticabile e l’indimenticabile, e allora Atsumu smetterà di osservarti come se le tue crepe rilucessero d’oro giallissimo.
«Shouyou» ti richiama, lui, godendosi un sorso extra di caffè. «Non farlo dire a me, tu lo sai che giorno è oggi».
Il giorno in cui ti svegli e non perché vuoi – e il sesso mattutino è una promessa che semplicemente non basta più a costringerti ad aprire gli occhi, famelico – ma perché è strisciante quel dolore che ti morde il cuore, staccandotene via metà. Tu glielo consenti, potresti mai dire di no?
La polvere è insidiosa, infetta le ferite, e tu per metà sei fatto di polvere di ossa e sentimenti, t’infetterai dopo ogni morso?
«Pancakes!» strilli, lanciandogli un’occhiata piena di avvertimento. «Io non ci vado proprio, a trovarlo».
Atsumu sospira, ti scompiglia i capelli con quella mano grande, affusolata, vi senti la cicatrice che s’è fatto mentre cercava di costruirti un regalo per Natale – una scatola dei ricordi dove c’era spazio per lui e anche per lui.
E s’è graffiato il palmo con una vite un po’ spanata, perché spanata e slargata è anche la voglia che hai di dimenticare, così immensa che come può aver pensato di rinchiuderla in una scatola dei ricordi? Con fotografie che non guardi, istantanee di sregolata mancanza, e fogli di carta che non sfiori con nostalgia.
Di lui ti sono rimaste solamente le sue fottute lettere – dettate e scritte con la grafia ordinata di Suga – e nient’altro.
«Ci andiamo insieme» ti ricorda Atsumu, con pazienza. «Dici così, ma ogni anno poi non vuoi…».
Lasciarlo.
Attorcigliato come le coperte, finito come il caffè e slargato e macchiato come l’esistenza stessa – la notte è, lo è per davvero, ancora lunga.
Tobio Kageyama vi respira attraverso, gelandola, sotto la terra smossa e poi pareggiata, sotto un blocco di pietra e una bara di legno. Sotto i loro sogni infranti.
Nascondi il volto nella tazza ma, questa volta, il caffè è finito per davvero.

 
***
 
Tazze vuote, un paesaggio che sbatte sul finestrino come se volesse guardarlo più da vicino, Atsumu odia guidare – ma è un giorno al mese in cui semplicemente prende le chiavi dell’auto e lo fa, perché lui è così silenzioso che un tragitto più lungo sarebbe semplicemente intollerabile.
Casa vostra è fatta in mezzo al verde, che l’incornicia come un sogno nel cassetto e in una scatola dei ricordi, e tutto è lontano da lì. Lo sono i rumori, forse anche il cielo è più difficile da sfiorare saltandoci vicino, e non v’è nulla che possa turbare la vostra serenità. Nemmeno un fantasma.
Eppure dita inconsistenti ti sfiorano, ti squarciano a metà, e un volto s’imprime in ogni paesaggio e in ogni finestrino. Oggi è il giorno in cui dovresti permetterti di ricordarlo, ma la memoria è fallace e dolorosa, la memoria è quella cosa che s’insinua nei fondi di caffè e nel sangue secco sulle spine di una rosa priva di petali.
«Stai calmo» t’impone Atsumu, il volto serenamente puntato lungo la strada. «Arriviamo entro cinque minuti».
Cinque minuti in cui respiri e il respiro ti soffoca, in cui parli e le parole ti spaccano i timpani e in cui pensi e i pensieri t’annegano il cuore in una pioggia di lacrime.
Puoi provare a dormire, ti suggerisce lui con dolcezza, chiudi gli occhi. Ma le palpebre sono velature imperfette su un mondo troppo luminoso e allora tu non dormi, immagini e rifletti, così tanto che la caffeina ti manda il cuore su di giri – e, forse, oggi si fermerà anche il tuo.
Si fermerà come il tempo condensato attorno alla decisione, dolorosa e insensata, d’aprire la scatola e pescarne una lettera. Qualcosa, qualcuno, qualcosa ti dice che è stata l’ultima.
Perché sa di ospedale, di Suga che piange sopra la carta e di una voce, calma e senza inclinazione, che detta parola dopo parola. A che servono, poi, le parole?
Sono mosche spiaccicate sul finestrino dell’esistenza, che puoi toccare e scoprire mezze vive e mezze morte sui tuoi polpastrelli.
Vivi, cresci, ama. Ti ha scritto così, Tobio, in un’ultima lettera indirizzata a te – no, a te e ad Atsumu. Perché tu sai solamente scappare, e questo te lo ha detto anche lui – e datata nel giorno che è anche oggi, il quindicidicembre dell’anno che era sei anni fa, ma tu (e Atsumu e la sua dannatissima automobile) non hai mai mancato un appuntamento.
Non te lo avrebbe mai permesso, ti dici, osservandolo mentre fischietta con aria disinvolta per una strada che sembra priva di inizio – ma che una fine l’ha eccome, ed è la tua.
«Quattro» commenta Atsumu, sfiorandoti il ginocchio con la punta delle dita. «Perché non chiudi gli occhi per un momento?».
Occhi chiusi, cuore spalancato su ante sanguinolente che urlano pensieri e parole – vivi, cresci, ama – e ti spingono a respirare con più urgenza del solito. La strada scivola in pendenza, tu vorresti solamente essere rimasto nel tuo fortino di lenzuola ad aspettare una giornata fatta di zucchero, di dolci, e il caffè che – inequivocabilmente amaro – è comunque finito, quindi ne avresti bevuto solamente un sorso minuscolo.
Il sedile è solamente l’ennesima cosa affilata e spinosa con cui dovrai confrontarti, ma punge e graffia e fa un male cane. Potresti sanguinare in tutta la macchina, sanguinare vita, crescita e forse persino amore.
Perché Atsumu sorride alla strada, e quel sorriso è la stessa serpentina della sigaretta, brucia vivo qualunque cosa tocchi. Tu non eri d’accordo, quando ha cominciato a fumare, perché qualcosa dentro di te ti diceva che.
Silenziosamente, un pensiero nato e neonato ti s’aggirava nella testa – che non volevi perdere anche lui, soprattutto lui.
«Tre» commenta, stringendo le mani sul volante come se la sua vita dipendesse da quel tragitto. «Vuoi fermarti a prendergli dei fiori?».
«No» rispondi, secco.
Tobio tutto spine, mai petalo, che graffia e s’aggrappa alla pelle e alla vita – che ironica gli s’è tolta in un respiro troppo pronunciato – e ti dice di fare la medesima cosa. Niente fiori per lui, niente spine, niente vita, niente crescita. E, alla fine, niente amore.
Perché dovresti dargli quel che ti è rimasto da vivere, da crescere e anche da amare e a te serve tutto questo, ti serve per il ragazzo che pazientemente da sei anni ti accompagna al cimitero come fosse solo l’ennesima gita di coppia in una domenica assolata.
«Due!» esclama Atsumu, con un sorriso triste. «Sicuro di non voler rimanere solo?».
Scuoti il capo. Solo, con lui, mai più: i fantasmi sono anime intrappolate, esattamente come la tua, e cosa succederebbe in caso di collisione?
Tu lo vuoi accanto, lo desideri come una stella cadente in una notte di nebbia, e lo vuoi in quel modo famelico che tanto lui aveva apprezzato di te, in un tempo che s’è spento e perso nella bruma di un meriggio infinito.
Lo vuoi, e lo vuoi perché è tuo ed è l’unica cosa che il fottuto universo d’abbia mai lasciato dopo averti portato via lui e allora: puoi amare due persone allo stesso modo, in tempi diversi, anche se il ricordo di uno dei due ti perseguita?
Atsumu sorride dolcemente e sembra dirti di sì ma, dentro di te, tu non ne sei nemmeno così sicuro.
Era meglio vivere voi due soli, crescere insieme e amarsi nell’ombra delle coperte attorcigliate su un letto che non è spina, ma nemmeno petalo. È questo che Tobio ha predisposto, quel che è accaduto ma tu, da qualche parte di te (ti senti in colpa).
Non c’è spazio per quello, dentro di te, eppure – qualcosa ti colpisce come un’idea sconnessa o un pensiero fulmineo: vivi, cresci, ama. Perché scriverti quella stupida lettera, lo avresti fatto comunque, pur di dimenticare, eppure.
(Eppure ne senti lo sguardo da dov’è voluto fuggire, nell’alto dei cieli, e t’osserva ridendo felice della tua stupida felicità. Il cielo è oscurato: per quel giorno, Tobio sarà pioggia).
«Uno».
 
***
 

Rabbia cieca, muta e sorda. Il riflesso dello specchio in una lapida troppo bianca, troppo estranea per essere la sua e che ti fa pensare che – in uno dei mondi possibili, in uno qualunque dei ripiegamenti dell’esistenza – Tobio sia ancora vivo e che ti stia aspettando, senza nemmeno chiederti di scegliere. E si squaglia, il dolore, punto da lucciole agonizzanti collassa sulle proprie fondamenta e ti lascia a raccogliere l’ennesima cucchiaiata di un niente bollente e grumoso.
Tobio ti osserva e, anche nella foto, ha sempre quello sguardo impossibile che tanto l’aveva illuminato quando era.
No, è ancora. Certo che è, la sostanza non è volatile, l’anima resta ancorata alle persone che ami – e per questo Atsumu ti guarda come se, cucito addosso, avessi un tradimento cucito ad arte da delle mani che non t’appartengono nemmeno più.
«Ti aspetto in macchina» ti sussurra, dandoti un bacio sulla tempia. «Ringrazialo da parte mia, io…».
Mi sto prendendo cura di te: ma oggi niente pancakes, e ti sei nuovamente scordato di comprare il caffè, e perché il letto è sempre sfatto?
Tu comprendi e taci, non lo implori di non lasciarti da solo con lui, come segretamente vorresti, e osservi quella lapide fredda e impersonale in attesa di risposte. Che non trovi, che non hai.
Rabbia sorda, muta e cieca. Vorresti gridare e sapere perché ti ha lasciato, perché s’è sciolto come candela e come pensiero di fronte alla luce di un sole morente.
E pensi davvero di poter avere una risposta, ti urla lui dalla tomba, le cose succedono perché succedono!
Te ne sei andato a basta, pensi, che vuoi di più? Hai forse il diritto di giudicarmi lì dove sei finito? Ma Tobio ride, e ride, e ride, e.
E.
E ti potresti addormentare in quella sofferenza spinosa, in quella sofferenza che è dolce come petalo di rosa, e la giornata è lunghissima senza caffè. Perché gli hai detto che poteva aspettarti in macchina? Mancanza, sciocca mancanza, è quella dipendenza che hai verso di lui.
Mancanza, dannata mancanza, è quell’amore sconclusionato e asimmetrico che provi per lui.
(Ed è fame, la tua, di un piatto zuccheroso che t’è stato promesso e che mai hai mangiato. Dopotutto si somigliano, ha commentato Nishinoya con semplicità, dopotutto si somigliano).
Ma te l’ha detto, no, te lo ha scritto lui di ricostruirti una vita nuova: di vivere come lui non farà mai più, di crescere e, soprattutto, di amare.
«Ti ho portato un caffè» Atsumu ti porge un grosso bicchiere di cartone, bollente, facendotelo stringere tra le mani come la tua personalissima benedizione. Lo è.
Un doppio americano per te, senza schiuma ma con una spolverata di cannella sopra, perché la vita è troppo sciapa per poter lesinare sulle spezie. Un cappuccino per Atsumu, che scivola silenziosamente al tuo fianco, sulla terra un po’ umida di pioggia.
(Quando ti sei seduto?).
Un doppio espresso per Tobio, che ti siede di fronte e ha l’espressione insolitamente preoccupata, corrucciata, e ti sta dicendo qualcosa.
Scappa.
Perché il cielo sembra sul punto di pianger sangue ed è dicembre, dove è finita la neve, dove sono le persone, dove sei tu?
«Grazie» sussurri, prendendo un sorso di caffè e cannella. «Quando possiamo tornare a casa?».
Atsumu sospira, carezzandoti il capo come fossi un bambino ansioso di aprire i propri regali di Natale (e non è ancora mezzanotte, sai?).
«Io non ci credo, che non hai niente da dirgli» commenta, osservando quella foto con aria corrucciata. Tobio gli restituisce uno sguardo annoiato, atono. «Ti conosce meglio di me, dopotutto».
Tu sospiri, trattenendo parole dure – e crudeli – sulla tomba della persona che hai amato di più al mondo. Dopo il ragazzo che ti prende la mano e se la porta alle labbra, come potesse riscaldarti l’anima con un soffio e un caffè speziato, e sorride.
Ma sono parole, e le parole escono come fiotti di sangue e malessere, nonostante tutto: t’ha bucato una spina, facendoti scoppiare in uno scroscio di pioggia gelida, mente Atsumu ti guarda e ha perso le parole.
«Non mi conosce più» sussurri, senza riuscire a guardarlo negli occhi. «Se voleva conoscermi, poteva combattere e rimanere».
«Sei ingiusto, Shouyou» ti risponde, lui, con una severità che deve tirarsi fuori a forza. «Le persone non ti abbandonano mai perché vogliono, al massimo lo fanno perché devono».
Era, doveva – che tragedia è l’usare un tempo al passato: e che tragedia è usare il dovere, perché non è dovere ma volere, e Tobio potrebbe volere ancora rimanere con te?
Tracanni quel che rimane del caffè, ti bruci la lingua: è un dolore minimo se pensi a quanto male farebbe coricarti in quella tomba, il letto di spine, con i petali muffiti di tutti i fiori che Atsumu vi ha lasciato contro la tua volontà. E il caffè è finito.
(E Tobio non li merita, i fiori).
«Possiamo andare a casa, adesso?» soffi, affamato, guardandolo con quei tuoi occhi impossibili. «Ho fame».
Di che fame si tratti lui non te lo domanda, ma sospira – stanco, esasperato, affamato – e posa un mazzo di fiori sulla terra umida di pioggia: forse, qualcuno sta piangendo per davvero, mentre tu mantieni gli occhi gloriosamente asciutti.
«Ti lascio qualche secondo per salutarlo» risponde Atsumu, chinando il capo. «Ti aspetto in macchina».
Tu annuisci, ma saluti da rivolgerne non ne dai: l’addio è l’anticamera dell’arrivederci, e hai salutato Tobio così tante volte che non sapresti dire quand’è stato che gli hai detto addio per davvero. Lui l’ha fatto, in una stupida lettera strappalacrime che violentemente t’ha strappato il cuore in un sussurro.
«Io non ti saluterò» sibili, con tono di sfida. «Altrimenti mi prenderesti in giro, quando ci rivedremo».
Perché l’aldilà è l’anticamera di un possibile che si affaccia nella tua vita con il sentore di una speranza mai sopita, mai espressa – e che Atsumu sa, lo sa come sa di avere te che gli dormi a fianco ogni notte.
A volte sussurri un nome, e lui smette di dormire, e va in cucina a cucinare la colazione anche se sono le tre del mattino.
È per questo che il caffè è sempre finito.
 
***


L’assali.
Quando lo baci, Atsumu sa sempre di caffè, e ha le occhiaie che sempre più presenti gli deformano il bel viso – sono la strascicatura delle sue notti insonni, una frantumaglia di sogni spezzati – e di promesse ancora integre.
Ma cosa vi è di integro in questa esistenza spezzata, spinosa, con cui devi fare i conti ogni singola mattina, quando il profumo di toast invade la casa?
Puoi svegliarti con il cuore dolorante, è il prezzo da pagare per l’ennesima salatura di quella ferita che ti squarcia l’anima già spogliata, già snudata, l’ennesima lacrima insapore che si perde in una salina di sentimenti. Ma farà comunque meno male, il tuo, di quello di lui.
Perché Atsumu passa le notti sveglio a domandarsi, a chiedersi, se non sia l’ennesima ripiegatura che stai cercando di dare alla tua vita e che sa inevitabilmente di caffè annacquato al rimpianto cieco – sordo, muto – che di nome fa Tobio Kageyama.
Ti ama davvero, ti dice, con tutto te stesso. E tu rispondi con entusiasmo, lo baci, lo assaggi, lo tocchi ma, dentro di te, qualcosa sta tremando.
Piccolo e indifeso urla, a squarciagola, a ogni bacio, a ogni assaggio e a ogni tocco che potrai mai sperimentare. Nudo e scorticato piange, ustionandosi di lacrime, e quando vai a vedere cosa vuole da te, ha un viso che conosci – il suo1 – e ti sussurra qualcosa.
Un goccio di caffè, per favore.
 
***
 
E ti svegliavi con quelle parole, in un letto di spine che penetrano la carne.
E ti riaddormentavi in un bagno di petali in fiore.
E Atsumu aveva finito il caffè mentre la notte era ancora infinita.
E.
 
E un goccio ancora, te ne prego.
 
 
 

Questa storia è un regalo.
Io non mi sento in grado di scrivere una AtsuHina decente, ma per Juriaka ci ho provato, e spero che il risultato non sia così terribile. Non sarà la mia ultima storia prima di Natale, ma non sono sicura di scrivere ancora qualcosa in questo Fandom così presto, ho bisogno di sperimentare cose nuove - chi vivrà, vedrà - quindi, nel mentre, buone feste a tutti.
Vi segnalo solamente due cosucce divertenti:

1Questo potete leggerlo come volete, non era mia intenzione specificare se fosse riferito ad Atsumu o a Tobio.

Seconda cosa, vi consiglio di rileggere la storia alla luce di queste considerazioni sul caffé e vedrete che tutto avrà finalmente senso, perdonatemi se lo dico solo ora.
Grazie per avermi letta.

Gaia
   
 
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