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Autore: chemist    11/12/2020    5 recensioni
Un talento irripetibile materializzatosi in una ragazzina prodigio, in sei figure differenti, in due colori opposti.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bianco & Nero

A nove anni, Elizabeth Harmon – per i più affezionati (e non erano in molti) Beth – non sapeva nulla di scacchi, anzi: non sapeva neanche che esistessero, per lei tutto iniziava e finiva in quello squallido orfanotrofio in cui i grembiuli delle bambine erano dello stesso colore – grigio, ovviamente – dei muri e del soffitto, e in cui ogni cosa, animata o inanimata che fosse, doveva essere identica e conforme a tutto il resto.
L’unica cosa ad avere un colore differente – un sapore differente – erano quelle buffe pillole verdi che le somministravano ogni mattina; e se non fosse stato per quelle, non avrebbe mai capito perché le altre non impazzivano come sentiva di star impazzendo lei.
Poi un bel giorno – no, non è vero: un giorno del cazzo, come tutti gli altri – il fato decise che toccava a lei scendere nel seminterrato per pulire i cancellini, e lì vide mr. Shaibel che spostava lentamente dei pezzi di legno su una tavoletta a quadratini bianchi e neri.
Fu così, esattamente così, che Beth Harmon cominciò ad essere…tante cose. 6, per la precisione.

Beth fu pedone quando per la prima volta Mr. Shaibel le concesse di sedersi di fronte a lui per giocare a scacchi. Perse dopo un paio di mosse, con un ‘matto del barbiere’ a detta del vecchio custode: non ci fu storia, era la sua prima partita, neanche sapeva cosa fosse un ‘matto’. Era soltanto un pedone, così piccolo e spaesato nel mezzo di qualcosa d’infinitamente più grande di lui, costretto ad avanzare a testa bassa.
I pedoni però sono strane creature: talmente insignificanti da scordarti di loro, ti sorprendono quando meno te lo aspetti, mangiando una tua pedina in diagonale o promettendo di arrivare, un passo alla volta, fino al bordo avversario, trasformandosi in qualcosa di straordinario e potente. E Beth, fin da quei pochi scambi con Mr. Shaibel, aveva dimostrato di avere qualcosa di diverso – una visione del campo perfetta nella sua semplicità. Un’artista essenziale.

Beth fu alfiere nelle sue prime sfide contro i fenomeni – Benny Watts e Borgov il sovietico – che catalizzavano l’attenzione di giornali e riviste da ben prima che lei si facesse un nome nei tornei. L’alfiere è una figura affascinante e terribile, elegantissima in quei movimenti in diagonale che sono anche la sua rovina, perché lo costringono a camminare solo sul bianco o solo sul nero fino a metterlo alle strette, quando una torre o una regina lo mangeranno crudelmente.
La ragazzina prodigio del Kentucky ha incantato esperti e appassionati in ogni fase intermedia, ma ha fallito l’atto conclusivo sia contro Benny – tanto buffo quanto accattivante con quel cappello e il look da cowboy -, sia contro Borgov – non è un uomo, è una macchina -, condannata dal suo stesso gioco insolente, estremo e spregiudicato…come un alfiere.
(Beth è stata alfiere anche quando la normalità – che orribile bestia – le impose di unirsi a quello stupido club scolastico per cercare di farsi amiche le sue coetanee, con cui non aveva assolutamente niente in comune: l’attrazione della scacchista in rampa di lancio è durata per un po', ma è bastato uno sciocco cliché, una piccolezza – una domanda sul sesso – a farla sentire di nuovo disarmata).

Beth fu torre quando Alma Wheatley – sua madre adottiva – morì a Città del Messico, spegnendosi nel suo letto d’albergo come una bianca candela dopo aver bruciato di passione per qualche giorno col suo amico – amante – messicano. Tutti, dal primo all’ultimo – persino mr. Wheatley, mai comportatosi come un vero padre – si aspettavano di vederla crollare – volevano vederla crollare -; non c’era alcuna ragione per cui, alla sua età, avrebbe dovuto diventare indipendente…come non c’è alcuna ragione per cui una torre debba svincolarsi dal dovere – l’obbligo – di restare indietro a proteggere il re, nell’attesa di sgretolarsi sotto i colpi nemici.
Eppure a volte le torri – con un arrocco, liberando lo spazio dagli ingombranti pedoni, o in chissà quanti altri modi – si spingono in avanti, si lasciano alle spalle gli affetti scomparsi (senza dimenticarli) e vanno a esplorare ciò che il futuro ha in serbo per loro. Beth ha comprato la casa che fu di sua madre, ha schivato, scacciato – schiacciato – gli sciacalli accorsi per azzannarla mentre la ferita ancora sanguinava, e ha reso omaggio ogni giorno a quella simpatica donna che sorseggiava birra mentre suonava divinamente il pianoforte, sconfiggendo la paura del palcoscenico.
(In questo fu letteralmente provvidenziale quel timido ragazzo, dal faccione buffo e con una conoscenza scolastica – forse anche troppo – degli scacchi, che risponde al nome di Harry Beltik).

Beth fu cavallo quando seppe rispondere “no” alle due donne che, in cambio dei finanziamenti necessari a portarla in Russia, le chiesero di condannare apertamente il comunismo, l’ateismo e qualsiasi altra forma di pensiero differente dalla loro. Il cavallo è un animale meraviglioso, nobile e leale, ma provate a mettergli sella e briglie e comincerà a scalciare, perché il cavallo è un animale libero – anche negli scacchi, dove fugge ad ogni logica, sprezzante del pericolo, ed è l’unica pedina che può scavalcare le altre.
Beth a Mosca ci sarebbe andata lo stesso, ma lo avrebbe fatto a modo suo, senza che qualcuno le mettesse in bocca parole non sue – senza che qualcuno le imponesse delle briglie per comandarla a piacimento.
(Fu cavallo anche quando Benny osò suggerirgli cosa doveva e non doveva fare, motivo per cui lo fu anche quando lui la pregò di restare – nonostante il cuore la stesse supplicando di dargli ascolto. Al diavolo ogni sella o cavalcatura: lei era un cavallo selvaggio).

Beth fu re in quella fiabesca serata moscovita in cui sconfisse il grande maestro Lucenko – un ex campione, un veterano, che ammirava profondamente e del quale aveva studiato forsennatamente ogni partita – dopo un aggiornamento doveroso ed un recupero formidabile. Lucenko la notte precedente aveva chiesto consigli a Borgov, quindi batterlo con il nero, dopo aver dovuto assorbire una situazione di svantaggio, fu come mandare un segnale anche a Borgov, alla sua gente, al mondo intero. Lei era lì perché meritava di esserci.
Ma per essere re non basta essere bravi; forse non basta neanche essere i più bravi in assoluto. Per essere re bisogna guadagnarsi l’approvazione e il rispetto dei grandi e soprattutto del popolo: e in tal caso, quando Lucenko si ritirò con un galante inchino, lasciandola poi alla folla esaltata che la aspettava fuori a caccia di autografi, a Beth parve davvero d’avere un intero regno ai suoi piedi.

Infine, Beth fu regina quando l’apoteosi della vittoria finale si cristallizzò in realtà in un istante muto e interminabile, quello in cui Borgov – l’inscalfibile, inarrivabile Borgov, incubo e mirino della sua folgorante carriera – le tese la mano destra, avvisandola – era talmente assorta da non averlo nemmeno realizzato – che non aveva senso continuare. Che ce l’aveva fatta.
La regina è il pezzo singolo più potente nel gioco degli scacchi: questo lo sanno tutti. È bella, mobile, rapida, crudele e temibile…ma la regina non sarebbe tutte queste cose se non avesse, a sorreggerla nei momenti bui, la fiducia e il sacrificio dei suoi fedeli sudditi. Quando la finale del torneo venne aggiornata dopo 40 mosse Beth non credeva di poter battere Borgov – era anzi convinta che, prima o poi, con un colpo di coda dei suoi l’avrebbe messa di nuovo con le spalle al muro, prendendosi tutti gli elogi e spingendola in un altro baratro -, ma Jolene, Townes, Benny, Harry, Matt e Mike – e infondo pure ogni altro rivale incontrato lungo il cammino, perché le avevano aperto gli occhi facendole capire in cosa poteva migliorare – erano lì ad aiutarla, ad incitarla, a sostenerla. Ognuno di loro l’aveva – in qualche modo – amata; per questo, quando Beth diede il fatidico scacco matto, dopo una sfida logorante tanto per lei quanto per Borgov – non è una macchina, è un uomo -, fu come se ci fossero anche tutti loro a ricevere l’omaggio del campione sconfitto – che sorrise, per la prima volta sorrise – a sancire la fine della battaglia.
La fine dell’attesa.
Era diventata regina. La regina degli scacchi.

A dirla tutta, contemporaneamente a queste cose, Beth è stata anche scacchiera.
È stata nero quando divenne – o meglio: accettò di divenire – schiava della sua dipendenza. Schiava dell’alcol e schiava delle pillole verdi che le alteravano i sensi, che le facevano vedere ogni mossa sua e dell’avversario con largo anticipo, che facevano muovere ogni cosa a velocità tripla…ma che l’avevano pure condotta sull’orlo di un’overdose quando aveva solo nove anni, l’avevano fatta sentire inadeguata nella sua crescente necessità di averne sempre di più, l’avevano fatta allontanare da coloro che contavano realmente qualcosa per lei.
Ma fortunatamente è stata anche bianco, quando capì che non c’era posto nella sua vita sia per la gloria che per gli eccessi – una delle due andava eliminata per sempre -, e che non voleva essere uno di quei talenti maledetti che ammaliano il mondo per poi distruggersi con le proprie mani. Si aiutò – e accettò di farsi aiutare -, tornò a respirare l’aria fresca e a farsi scaldare il viso dal sole; e fu ancora più bello quando depose per un po' la corona appena conquistata per giocare con quelle persone che le erano state descritte come burbere, incomprensibili e incompatibili, ma che non facevano altro che divertirsi e condividere gioiosamente il suo stesso amore: una scacchiera, 32 personaggi e un’infinità di storie da scrivere.
   
 
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