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Autore: Betta7    15/12/2020    7 recensioni
Liberamente ispirata a The family man.
La domanda che in quel momento mi attanagliava era… perché?
Perché, dopo tredici anni, tornare sui suoi passi e chiamarmi? Cosa voleva da me?
Non ero più io l’uomo che l’aveva salutata all’aeroporto, e neanche quel ragazzino che aveva aiutato a creare un rapporto con il padre e la sorella.
Non ero più io e non volevo esserlo in realtà.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Fuka Matsui/Funny, Sana Kurata/Rossana Smith, Shinichi Gomi/George | Coppie: Sana/Akito
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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19.09
- 1 -
Aveva questo modo di proteggere i suoi sentimenti sotto strati di cinismo e ironia: a volte ci riusciva così bene da farli languire nell'ombra finché erano perduti.”
Andrea De Caro.



 
 
La guardai rivestirsi mentre dietro di lei la città si imbiancava, raccolse le calze da terra e si sedette sul letto, allungando una gamba facendole poi scorrere sulle cosce. Aveva le spalle piene di piccoli nei, sembrava una mappa di stelle disegnate sulla sua pelle pallida.
«Sei sicura di non poter rimanere stanotte?»
Spostò i lunghi capelli neri su un lato prima di alzarsi la zip del vestito, quel movimento ipnotico mi fece pensare al momento in cui gliel’avevo sfilato.
«Te l’ho già detto, Akito. Domani è Natale, devo tornare a Osaka o i miei mi uccideranno.»
Solamente in quel momento mi resi conto di che giorno fosse.
«Natale?»
Lei annuì, tornando su quei tacchi vertiginosi che le avevo tolto solo qualche ora prima. «Natale.» ripeté «Tu non hai dei genitori da cui andare a cena?»
Scossi la testa, pensando a mio padre. Non lo sentivo ormai da settimane, con tutto il lavoro che l’azienda mi propinava mi ero ritrovato con l’acqua alla gola e avevo ignorato anche le mille chiamate di Natsumi.
Il fatto era che il Natale non era esattamente il mio periodo dell’anno preferito, perciò il mio ufficio in azienda era il luogo perfetto in cui rifugiarsi in quelle settimane piene di gente eccitata all’idea di passare le feste in famiglia.
«Adesso vado.»
Mako indossò il cappotto, afferrò la sua borsa dal pavimento, poi si piegò su di me e mi salutò con un bacio veloce. «Ci vediamo, Akito.»
Le sorrisi appena, sprofondando di nuovo tra le lenzuola quando sentii il tonfo della porta che si chiudeva.
Ma di voglia di dormire sembrava non esserci neanche l’ombra. Mi girai e rigirai nel letto, non ero più abituato a dormire in casa mia.
Avevo passato l’intero anno facendo la spola tra New York e Tokyo, trovando il modo di affiancare l’azienda per cui lavoravo ad una delle più importanti compagnie di assicurazione americane e, se il progetto fosse andato in porto, mi sarei ritrovato ad attuare una fusione da milioni di yen.
Afferrai il cellulare e guardai le ultime notizie della borsa. Dow Jones aveva perso lo 0,20%...
Spostai il secondo cuscino dietro alle mie spalle per mettermi seduto. Un pezzo di stoffa nero era messo in bella vista al centro del letto, mi piegai in avanti per afferrarlo.
Era la biancheria di Mako.
Un perizoma nero in pizzo, tipico di lei.  
Ci conoscevamo da poco tempo, l’avevo adocchiata in un bar in cui ero andato con Gomi e da qualche settimana ci incontravamo solo per bere una bottiglia di vino e poi finire a letto insieme nel mio attico in centro.  
Guardai l’orologio, erano le cinque del mattino. Sbuffai, ormai consapevole che non sarei più riuscito a chiudere occhio.
Pensai di prepararmi e andare direttamente a lavoro ma non mi sembrava il caso di presentarmi in ufficio alle sei, mi avrebbero preso per un folle stacanovista del cazzo.
Cosa che ero, ovviamente.
Il mio lavoro era praticamente tutto ciò che impegnava le mie giornate da ormai tredici anni e, a dirla tutta, la cosa non mi disturbava affatto.
La mia vita mi piaceva, mi alzavo ogni giorno soddisfatto dal solo fatto di poter guidare la mia Ferrari e bere champagne da centomila yen, avevo la consapevolezza di vivere una condizione privilegiata e amavo il lusso di cui mi circondavo.
Avevo sempre vissuto una vita modesta prima di avere il lavoro dei miei sogni, riuscendo a frequentare le migliori scuole grazie alle borse di studio, ma se tredici anni prima qualcuno mi avesse detto che sarei riuscito a vivere in un grattacielo al centro di Tokyo, avrei riso in faccia a quel qualcuno.
Se mi avessero detto che sarei partito per New York senza guardarmi indietro, lasciando tutta la mia vita a Tokyo, avrei risposto che non era possibile.
Ma tredici anni prima non sapevo quanto fossero importanti i soldi.
Decisi di alzarmi dal letto e allenarmi visto che ormai il sonno mi aveva abbandonato, perciò afferrai un asciugamano e mi diressi verso la mia palestra privata.
Attaccai la musica in diffusione e cominciai il mio allenamento solito. I muscoli cominciarono a bruciarmi sotto il peso del bilanciere, sentivo finalmente l’adrenalina pompare nelle vene, la stessa adrenalina che mi aveva tenuto sveglio e che non mi avrebbe abbandonato per tutta la giornata se non l’avessi sfogata da qualche parte.
Mako era andata via, perciò usare il sesso non era possibile, a meno che non avessi preso un numero a caso dalla mia agenda, perciò concentrai tutto su quei pesi, sentendo le braccia gonfiarsi velocemente.
Lasciai cadere i pesi per terra e mi diressi verso gli anelli per lavorare un po’ sugli affondi, mentre i Panic! At the disco riecheggiavano per la stanza.
Un gemito di frustrazione mi salì per la gola, finché non finii per gettare la testa all’indietro e appoggiarmi al muro, col fiatone.
Mi concentrai sul mio respiro, inspirando ed espirando, provando a far ritornare i miei battiti alla giusta velocità.
Guardai l’orologio e mi resi conto che dovevo prepararmi per andare al lavoro. Rimasi per un po’ sotto la doccia, cercando di sciogliere un po’ la tensione accumulata, per poi indossare il mio completo di Armani e chiamare il mio autista perché preparasse l’auto.
Ad arrivare in ufficio ci misi un secolo, la città era piena di gente intenta a comprare gli ultimi regali di Natale e la neve non aiutava di certo il traffico.
Quando arrivai al grattacielo della Maeda Society, andai dritto verso gli ascensori e, varcando la soglia del mio ufficio, venni sommerso dalle voci di tutti i miei dipendenti.
«Signor Hayama, dovremmo chiamare la Kelser per quel contratto d’acquisizione.»
«A che ora è la riunione?»
La mia segretaria strabuzzò gli occhi, guardandomi come se avessi avuto tre teste.
«Fra mezz’ora, dovrebbe firmare questi documenti che devono essere inviati alla commissione generale.»
Lasciai due sigle sui fogli che Tara mi passò sotto il naso e poi mi diressi verso il mio ufficio.
La mia routine giornaliera si svolgeva sempre così: Tara aveva sempre qualcosa da farmi firmare, Takaishi, il mio collaboratore, mi riempiva la testa di informazioni non necessarie e che conoscevo già alla perfezione.
La cosa che mi divertiva di più di quel teatrino che organizzava ogni mattina, tralasciando il fatto che non fosse nemmeno bravo a farlo, era che lo faceva per uno scopo ben preciso che, malauguratamente, non rientrava nei miei piani.
Non avrei considerato la sua promozione a dirigente neanche se mi avesse parcheggiato la macchina ogni giorno per un anno intero.
Feci scorrere le porte del mio ufficio lasciando fuori tutti, troppo impegnato a pensare alla riunione che avrei sostenuto di lì a poco, quando Tara fece praticamente irruzione nella stanza, chiudendo nuovamente la porta alle sue spalle.
«Signor Hayama, una persona ha chiamato per lei.»
«Tara» chiusi gli occhi, gettando la testa indietro sulla poltrona «Chi diavolo ti ha detto di entrare?»
Quando riaprii gli occhi la vidi indietreggiare. «Ormai sei entrata, che vuoi?»
«Una persona ha chiamato per lei.»
Sbuffai, annoiato. «Se non è una questione di vita o di morte non m’interessa. Ne riparliamo dopo la riunione.»
«Ma, signore…»
«Tara, vai fuori. Non è il momento.»
Il suo culo ondeggiò verso la porta, finalmente, cosa che mi permise di soffermarmi sulle sue curve. Dovevo farci un pensierino su quella ragazza.
Dopo aver preparato alcuni documenti glieli feci portare in sala conferenze e poi aspettai che si riunissero tutti lì.
L’adrenalina che gli affari mi portavano era una cosa a cui, a differenza di tutto il resto, non mi ero ancora del tutto abituato. Entravo in ufficio, ogni giorno, e non trovavo mai nulla di meglio di riuscire a sentirmi il padrone di quel piccolo regno che avevo conquistato con stage, tirocini sottopagati, con fatica e impegno.
Quando ero andato via da Tokyo non avevo considerato per anni l’idea di tornarci in pianta stabile, mi ero così abituato alla vita a New York che pensare di vivere di nuovo nella mia città mi sembrava impensabile. Mi era sempre mancata l’aria di casa, non avevo mai dimenticato come ci si sentisse a camminare per le vie della mia città durante l’Hanami, ma New York era così tanto vicina al mio modo di essere che avevo messo da parte quella punta di nostalgia e mi ero dato completamente all’azienda e al mio lavoro.
E negli anni ero stato sommerso da commenti sul fatto che non avessi mai una compagna fissa, vedevo colleghi formare famiglie e non li invidiavo per niente. Anzi, li guardavo con indifferenza, a volte provavo anche un po’ di pena per loro, schiacciati da un matrimonio il cui momento di massima eccitazione era la passeggiata domenicale al centro commerciale e la cena alla tipica trattoria di passaggio per tornare a casa, sempre la stessa, sempre allo stesso tavolo, sempre con lo stesso ordine. E sempre con le urla dei figli di sottofondo.
Io non riuscivo neanche a contemplare l’idea di una vita del genere, sentivo il cappio al collo al solo pensiero di chiudermi in una casa con sempre la stessa donna ad aspettarmi, che avrebbe voluto che le sussurrassi parole dolci prima del sesso. Non ero io quello.
Forse lo ero stato, nel mio lontano passato da uomo che credeva di essere innamorato, ma non lo sarei mai più diventato, perché ciò che avevo mi bastava.
Mi guardai intorno, passai la mano sul legno massiccio della mia scrivania e pensai che sì, era proprio vero. Ciò che avevo era tutto ciò che un uomo avrebbe potuto desiderare.
Mi alzai, dirigendomi verso la sala riunioni, pronto per concludere quell’affare da milioni di yen.
 
***
 

Ovviamente, l’acquisizione andò in porto come avevo previsto e, quando la call con New York terminò, mi complimentai con tutti e, considerando che era ormai passata l’ora di pranzo, li congedai mandandoli a scartare i regali di Natale, mentre io rimasi un altro po’ seduto alla scrivania, in attesa che il signor Kenzo, il metronotte, venisse a dirmi che dovevo tornare a casa visto che ero sempre l’ultimo ad uscire dall’ufficio.
Vedevo Tara all’esterno indaffarata a prendere le ultime cose per poi dirigersi anche lei verso l’uscita e, stavo quasi per dimenticarlo, la chiamai nel mio ufficio con l’interfono.
Aveva già indossato il cappotto, la borsa in spalla, la guardai da testa a piedi cercando di scacciare il pensiero che la mia mente formulò notando il tacco dodici che aveva indossato e quelle calze nere che ero certo fossero autoreggenti.
Scossi la testa quasi per distogliermi fisicamente da quell’immagine.
«Chi mi ha chiamato oggi?»
Lei sembrò ricordarsi tutto d’un tratto e si voltò andando alla sua scrivania, tornando indietro con un post-it giallo in cui, con una calligrafia da scolaretta, c’era scritto un numero e nome che conoscevo fin troppo bene.
Rimasi per un attimo interdetto leggendolo. Non la nominavo, né pensavo, se non sporadicamente, da molti anni ormai.
Capitava quando con Gomi rivangavamo le nostre glorie del passato, i periodi trascorsi da bulletti della scuola, la mia relazione importante che poi era finita perché ero volato dall’altra parte del mondo e forse crescere insieme non era stato abbastanza. Però poi la conversazione si arenava, finivamo per bere su quei discorsi profondi e dimenticavamo ciò che eravamo stati in passato.
Ciò che io ero stato in passato.
«Devo richiamare il numero che ha lasciato?»
Ci pensai per un secondo.
Ne avevo voglia?
Non c’era una risposta vera e propria a quella domanda. Sentivo una punta di curiosità, ma in realtà la cosa che più mi agghiacciò fu non provare nulla che somigliasse ad una vera emozione nel leggere il suo nome stampato su carta.
Mandai via con un cenno Tara, lei non se lo fece ripetere due volte ed uscì dall’ufficio a passo spedito.
Rimasi solo, con quel foglietto tra le mani e quel nome tra le labbra.
«Sana Kurata…» lo sussurrai a denti stretti, quasi non volendolo dire, pensando all’ultima volta che l’avevo vista, quella sera all’aeroporto.
Ti prego, non andare…
Me lo aveva chiesto lì, proprio davanti al gate, proprio quando ero ormai deciso a partire, per me, per la mia carriera.
Ti prego, scegli me… scegli noi…
E una parte di me era quasi stata convinta da quel luccichio che aveva negli occhi, le lacrime che le imperlavano le iridi, le mani che stringevano il mio maglione azzurro.
Il suo viso si perdeva un po’ nella mia memoria, avevo chiaro ancora dopo anni la sfumatura del colore dei suoi capelli, ma non ricordavo più perfettamente la forma del suo naso su cui ero solito passare un dito quando dormiva accanto a me. Avevo nelle mani ancora la sensazione della sua pelle, ma non ricordavo più il brivido che mi provocava toccarla.
Era strano. Era come se la mia mente avesse deliberatamente deciso di lasciare andare i ricordi che non riteneva essenziali, che io forse mi ero convinto non lo fossero.
I primi mesi a New York senza sentirla erano stati duri, avevo sentito la sua mancanza, ma l’ambizione, un po’ anche l’invidia perché lei creava una carriera sempre più importante, mentre io rimanevo sempre e soltanto “il fidanzato di”, aveva preso il sopravvento.
Ho un brutto presentimento… non salire su quell’aereo. Sento che appena prenderai il volo tutto questo… tutto questo sarà finito.
E, ragionando col senno di poi, aveva avuto ragione.
Il nostro rapporto era precipitato in poco tempo, non riuscivamo mai a far coincidere i nostri impegni, le cose si erano susseguite in modo così geometrico che non eravamo stati in grado di mantenere la promessa che c’eravamo fatti prima che io partissi.
Alla fine, la vita aveva preso le sue strade, lei era diventata un’attrice di fama internazionale, io gestivo una compagnia che mi dava parecchie soddisfazioni, avevamo avuto entrambi due percorsi abbastanza felici.
Almeno, il mio, lo era stato.
Lo era.
La domanda che in quel momento mi attanagliava era… perché?
Perché, dopo tredici anni, tornare sui suoi passi e chiamarmi? Cosa voleva da me?
Non ero più io l’uomo che l’aveva salutata all’aeroporto, e neanche quel ragazzino che aveva aiutato a creare un rapporto con il padre e la sorella.
Non ero più io e non volevo esserlo in realtà.
Abbandonai quel post-it sulla scrivania, lasciando andare anche qualsiasi ricordo avessi di lei e della nostra vita insieme, del momento esatto in cui le avevo voltato le spalle all’aeroporto e non ero più tornato sui miei passi.
Non ci pensai.
Non ci pensai nemmeno mentre uscivo dal palazzo a pomeriggio inoltrato, quando la città era ormai buia, illuminata solo dalle luminarie natalizie, nemmeno mentre entravo in un bar per comprare un pacco di caramelle alla menta — le mie preferite — e un caffè caldo, e nemmeno quando entrai in macchina per tornare a casa, chiamando nel frattempo il mio ristorante di fiducia perché mi consegnasse la cena in camera prima che arrivassi.
Avrei dovuto chiamare mio padre, ma non ne avevo voglia. Sapevo già cosa mi avrebbe detto, che avrei dovuto passare le feste con loro, che dovevo smetterla di lavorare così tanto e tutta una serie di cazzate messe in fila solo per farmi sentire in colpa.
La verità era che spesso volutamente evitavo anche solo di sentire qualcuno in giornate come quelle.
Mi annoiava. Se avessi chiamato Tsuyoshi, per esempio, sua figlia Kira mi avrebbe tenuto mezz’ora al telefono per dirmi quanto suo padre fosse impacciato a cambiare il pannolino a Toshio, il fratello. Oppure mi avrebbe riempito la testa delle ricette natalizie di Aya.
E io, a quelle frasi, non sapevo mai cosa rispondere. Dovevo ridere? Dirle che suo padre era davvero molto imbranato? Incazzarmi perché Tsuyoshi non riusciva a tenere il suo telefono in mano e lo passava sempre alla figlia?
Non lo sapevo, davvero.
Quindi stavo in silenzio, l’assecondavo, aspettavo il momento in cui sarei riuscito a parlare con il mio migliore amico e lasciavo correre il fatto che lo odiavo a morte quando mi metteva in quella situazione.
L’unico con cui non dovevo fingere era Gomi.
Pensai di chiamarlo per sapere i suoi programmi della serata, ma poi realizzai che sarebbe stato capace di portarmi qualche ragazza in casa e alcol a fiumi e io, quella sera, non avevo voglia né di scopare né di ubriacarmi.
Anche solo pensare a quella frase mi disturbò abbastanza. Perché non ne avevo voglia?
Una punta di fastidio mi colpì, ma non gli diedi abbastanza peso, sorseggiai il mio caffè e voltai l’angolo per imboccare la strada di casa.
La neve ai lati della strada era tantissima però fortunatamente non c’era traffico, almeno sarei arrivato a casa in tempo per iniziare il nuovo progetto che Usoi mi aveva affidato per poi crollare a letto.
Era già abbastanza tardi, guardai l’orologio di sfuggita, le 19.09, accelerai mentre il suono del mio cellulare mi distrasse per un attimo.
Un numero sconosciuto comparve sullo schermo, rimasi per un attimo a fissarlo per poi decidere di rispondere.
Mi spostai per un attimo verso il sedile vuoto del passeggero, poggiando il bicchiere di plastica e vedendo il mio caffè rovesciarsi miseramente sul sedile di pelle della mia auto da milioni di yen.
Mi venne spontaneo abbassarmi per afferrare il bicchiere ormai caduto per terra.
Fu una frazione di secondo.
L’odore del caffè che mi rimase nel naso.
Una chioma di capelli rossi che si materializzò davanti ai miei occhi.
Il rumore di un clacson.
Durò un secondo.
E cambiò tutto.

 





 


 
Gioie del mio cuore! Eccomi qui.
Non mi linciate. Il capitolo di CSACCO è quasi finito e lo pubblicherò a breve ma, rivedendo uno dei miei film preferiti, The family man, mi ha preso l’ispirazione ed ecco qui, una piccola storiella buttata lì, perché avevo bisogno di staccare un po’ dai miei personaggi complicati e andare a qualcosa di più leggero. Soprattutto perchè l’ultimo capitolo che ho scritto è stato davvero, davvero, davvero, uno dei più impegnativi per me.
Sono nervosissima. Perchè le mie T-girl (non posso dire il vero nome perchè qua ci ammazzano) non hanno letto in anteprima il capitolo e quindi lo leggeranno adesso e io senza di loro ho paura di pubblicare qualsiasi cosa ormai. Vi amo babies, lo sapete.
Niente, detto ciò vi abbandono e vi lascio alle recensioni, se vorrete lasciarne. Spero che l’idea vi piaccia e vi incuriosisca.
Ci vediamo dall’altra parte, che lì qualcuno bussa per venire a distruggere un amore :*
Bacio bacio bacio.
Roberta.
Ps: spero che le cose vi vadano bene, questa pandemia sta destabilizzando tutti e quindi vi mando un abbraccio ancora più grande.
 
   
 
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