Note
di introduzione.
Questa storia
si colloca
due anni dopo gli eventi di "Just us together". Un giorno
scriverò
anche le mille vicende accadute tra questi due anni. Buona lettura!
L’acqua fredda lo stava aiutando a calmarsi.
L’aria nella stanza era diventata catrame liquido nella sua
gola e sulle ossa
del suo sterno. Nel suo corpo troppe emozioni avevano cominciato a
vibrare in
maniera frenetica e a strappargli il respiro. La testa ovattata tra
pensieri
incoerenti. Le labbra asciutte e senza parole da articolare. Un
attacco
di panico.
Di scatto si era alzato dalla sedia e si era rinchiuso in cucina con la
scusa
di voler sistemare cibo e decorazioni. Era la Vigilia di
Natale.
Cosa avrebbe dovuto fare? Certamente non
avrebbe dovuto essere lì.
Si era aggrappato alla manopola del lavabo e aveva posizionato le
braccia sotto
il getto dell'acqua. Dopo aver posato la fronte contro l’anta
di legno aveva serrato
le palpebre con talmente tanta ansia da avere degli spasmi ai muscoli
del viso.
Respirare gli faceva ancora male e non sapeva come comportarsi.
Che stupido. Avrei dovuto immaginarlo.
Inarcò i polsi nel tentativo di placare il battere furioso
delle sue vene
ingrossate e di placare il dolore alle ossa delle sue dita.
Ruotò altre due
volte la manopola del rubinetto e l’acqua corse
giù come una cascata. Gli bagnò
la pelle e i polsini e la camicia e la cintura.
Le sue tempie erano dei carboni ardenti che pulsavano e che
strisciavano verso
la sua fronte e l’attaccatura dei capelli.
Dilaniavano e stringevano e sgretolavano.
Avrei dovuto prevederlo. Hux mi ha trascinato a questa stupida
festa non senza un motivo.
Non dovevano festeggiare il patetico Natale. Non dovevano festeggiare
il
fidanzamento ufficiale di Poe e Finn. E Rey non era in
un’altra città. Rey
era...
Si piegò - quasi un’involontaria
contrazione alla base della schiena
- e senza pensarci mise la testa sotto
l’acqua e poi la nuca, i
capelli, il collo.
Il suono della sua risata ancora nelle sue orecchie e nella sua testa e
nel suo
sangue. Poi il suo sguardo risentito. La sua schiena ritta e rigida con
il suo
corpo nascosto da un immenso maglione.
Rey. Lei era sempre stata a pochi passi. Pochi passi lontana
da lui.
Strinse il lavabo con delle nocche troppo bianche e respirò
con affanno.
L’acqua continuava ad insinuarsi nella sua gola e nelle sue
narici
costringendolo a tossire e a sbattere la fronte contro alcuni piatti
sporchi.
Le sue ciglia erano attaccate da sottili fili d’acqua che gli
impedivano di
osservare cosa esistesse ancora.
Di scatto girò tre volte la manopola dalla parte opposta e
la cascata smise di
inzuppargli i vestiti e di gocciolare sul pavimento della cucina.
Cosa ho sbagliato?
La sua testa era una cacofonia di domande spezzate e di urla angosciate.
Cosa? Cosa? Mi hai lasciato senza neanche una spiegazione.
Dovevamo essere
io e te.
Le vertigini capovolsero il suo mondo mentre le sue mani era diventate
cadaveriche nello sforzo di non lasciarlo cadere.
Soltanto io e te per sempre.
“Possiamo parlare?”
Con dolore intravide la sua figura confusa e tremolante. Lei era sulla
porta
della cucina. C’era rabbia nella sua postura e nel modo in
cui si proteggeva il
ventre e negli angoli delle labbra abbassati. E a lui non era concesso
sapere
come si erano trasformati in due estranei.
Sembra la maledizione del Natale.
Sei tu ad essere arrabbiata con me? Tu? Io sono stato lasciato con una
lettera.
Sono tornato in una casa vuota. Senza i tuoi vestiti
nell’armadio. La tua
valigia scomparsa. Fermo ad osservare una camera da letto svuotata.
Come se tu
non fossi mai esistita. Eri stata soltanto un sogno.
Un’illusione. Una follia.
Due anni prima si erano lasciati poco prima di Natale. Rey era stata
ferita a causa
sua - della sua vigliaccheria.
Aveva implorato il suo perdono. Anche dentro di lei aveva continuato a
chiederle scusa e senza mai fermarsi. Le aveva stretto i fianchi e si
era mosso
male e con una strana frenesia. Perdonami. Lo
aveva ripetuto
fino a quando non aveva perso la voce. Perdonami. Ti
amo. Perdonami.
Come era possibile?
Perché sei fuggita? Perché in questo
modo? Ho cercato una spiegazione. E ho
ottenuto poche parole su un foglietto spiegazzato.
Ho bisogno di tempo. Ecco cosa aveva
trovato. Ho bisogno di
tempo. Tornerò.
Ecco cosa mi sono meritato. Poche parole senza un senso. Poche
parole e
nessuna comprensione.
Con le dita si mosse alla cieca vicino al bordo del tavolo e prese uno
strofinaccio con cui tamponarsi gli occhi.
Gli parve di vedere Rey avvicinarsi e un gorgoglio caldo si diffuse
nella sua
pancia. Ancora non coordinava i suoi movimenti. Le sue domande si
formavano
stiracchiandosi nella sua mente obnubilata da un dolore acuto mischiato
a
desideri contrastanti. Una sensazione di nausea e di eccitazione che
incendiava
le sue arterie e gli sconquassava ogni muscolo senza permettergli di
compiere
un respiro completo. Panico tra i suoi pensieri attorcigliati e
delusione
nascosta tra le pieghe degli angoli bui della sua coscienza. Riusciva a
rendersi conto di poche cose. Come che lei era bella.
Bella. Sei sempre tanto bella.
E che delle stelle nere erano in grado di trafiggerlo al centro del
petto.
Delle schegge rosse gli dividevano il viso in una maschera di mille
crepe.
Distrutto tra grida disperate e agghiaccianti. Da solo.
Lui era solo. Loro due insieme non esistevano. Non
più. Mai più.
Ho bisogno di aria. Ho bisogno di calmarmi. Io non riesco a
vivere.
Desiderava cacciare via il suo torpore e baciarla fino ad avere sangue
sul
mento e sulla clavicola. Poi no. Forse
desiderava urlare con la
bocca premuta contro lo strofinaccio e con le unghie conficcate nel
cranio.
Inginocchiarsi e chiederle perdono di ogni suo peccato. Anche se non
sapeva
quale fosse l’ennesimo errore che aveva compiuto. La sua vita
era stata un
incessante scorrere di decenni in cui aveva implorato aiuto senza mai
ottenere
nulla. Soltanto persone che non gli avevano creduto. Soltanto porte
chiuse.
Forse era meglio distruggere la stanza e con ogni colpo eliminare la
nausea che
gli impastava il palato. Domandarle perdono. Alzarle il maglione e
sbottonarle
quei jeans e prenderla sulla porta con delle spinte forti e scoordinate
che lo
avrebbero riportato a casa. Lei lo avrebbe stretto e stretto e stretto e
gli avrebbe chiesto di non allontanarsi mai più.
Forse se rimango sepolto dentro di te potremmo smetterla di
vivere lontani -
di essere lontani anche se siamo nella stessa stanza.
Forse se ti ricordo cosa eravamo potresti voler tornare. Forse potresti
volermi
ancora. Forse smetteresti di guardarmi con tanto odio anche se sono un
mostro.
Forse dimenticheresti che sono un mostro. Forse mi accetteresti di
nuovo.
Forse.
“Perché non mi hai aspettato?”
La sua domanda ebbe il potere di fargli sentire il pavimento sotto i
piedi e
l’aria nella stanza. Strofinò via le lacrime dalle
guance e con immenso stupore
si rese conto che stava ancora respirando.
Non sto morendo.
Prima lo spazio aveva assunto delle sembianze sfocate e quasi
impalpabili -
come un caos aggrappato con le punte delle dita dei piedi ad
un’asse storto.
Mise a fuoco l’ambiente che lo circondava e distinse i suoni
della casa. Il
ronzio nelle sue orecchie se ne era andato e gli aveva lasciato la
testa
scombussolata.
Lui era insieme a Rey in una camera messa a soqquadro dal suo attacco
di
panico. La nebbia stava cominciando a diradarsi e ad abbandonarlo
gocciolante
in una cucina che non era neanche la sua.
Da due mesi aspettava il suo ritorno.
E lei si era nascosta a casa di Finn.
L’aveva creduta distante un oceano e invece erano stati
soltanto pochi isolati.
“Non ti ho aspettato?”
Gettò lo straccio sul tavolo e prese a massaggiarsi la
fronte con l’intento di
calmarsi. Non riusciva a placare la sensazione di essere stato preso in
giro - da chiunque.
La disperazione di averla lì e di non poterla toccare. Uno
strazio.
Che scopo aveva avuto tutta la sua sofferenza? Quale atto mostruoso
aveva
compiuto?
Due mesi prima ero l’uomo più felice e
fortunato del mondo. Avevo te. Tu eri
accanto a me in ogni momento della mia vita. La tua essenza era
costante. Mi
svegliavo e c’era il tuo viso vicino al mio. Potevo sporgermi
e baciarti e
abbracciarti. Mi sentivo bene. Stavo bene. Ti sentivo ovunque. Sul mio
petto e
tra le mie gambe. Sulla mia bocca e tra i miei pensieri. Invece adesso
sei
lontana e all’improvviso ti sei trasformata
un’altra volta in un miraggio. Non
posso più stringerti a me e dirti quanto ti amo. Non ha
senso. Anche se io ti
ho aspettato. Io ti ho sempre aspettato.
“Io non ti ho aspettato?”
Lei strinse le labbra e scosse la testa in maniera seccata. Perché
mi
odi tanto?
“So ogni cosa quindi smettila di usare questo tono con
me.”
Tentando di non scivolare si avvicinò di due passi a Rey e
alle sue braccia
ostinatamente conserte. I capelli erano raccolti in tre crocchie e il
suo volto
struccato gli mostrava profonde occhiaie viola terribilmente simili
alle sue.
Ma perché? Cosa sapeva? O cosa credeva di sapere? Lo stava
giudicando senza
chiedergli neanche un confronto e aveva deciso ogni cosa senza di lui?
Era forse diventata come i suoi genitori?
O come Luke?
La rabbia che aveva inutilmente cercato di sbriciolare si
rinvigorì ancora una
volta e gli oscurò la vista.
“E che cosa sai? Dimmelo. Dimmi
cosa pensi di sapere e
spiegami il motivo di tutto questo. Mi hai costretto a vivere dentro un
incubo
atroce. Sono due mesi che ti aspetto. Dimmi che cosa ho fatto di
talmente tanto
sbagliato da aver meritato di essere lasciato con un biglietto sul
cuscino.
Dimmelo.”
Stava ancora pronunciando l’ultima parola quando venne
spintonato. Rey aveva
scontrato le sue nocche contro il suo petto e non era riuscito a
smuoverlo. Si
spinse un’altra volta contro il suo corpo e lo
colpì con le mani strette a
pugno - e gli nascondeva uno sguardo colmo di
acredine e di
risentimento.
Quei pugni erano niente.
Erano le sue espressioni disgustate a pugnalargli l’addome e
a colpirlo con una
ferocia crudele. Il suo odio tanto evidente dagli occhi e dal modo in
cui le
spalle erano incassate. Il suo labbro inferiore tremolante e i suoi
occhi
arrossati da un groppo di lacrime che saliva ad ingrossarle la
gola. Insopportabile.
Non poteva restare immobile e guardarla soffrire. Avrebbe voluto
avvicinarsi a
lei. Tentare di aiutarla e di consolarla in qualche modo.
Ma non ebbe la possibilità di avvicinarsi. Le sue parole
ebbero il potere di
ancorarlo al suo posto. Di colpirlo a morte.
“Sei un mostro. Tu sai benissimo cosa hai fatto. E non
mentirmi. Io non ti
avevo lasciato. Ho scritto che sarei ritornata e che avevo bisogno di
trascorrere del tempo da sola e che dovevo capire una cosa. Tu sai
benissimo
che cosa hai scelto. Tu hai distrutto ogni cosa. Hai deciso di
distruggere
tutto e sei un mostro.”
Gli incideva il petto. Continuava a parlare e lo lasciava sanguinare
senza
alcuna pace. Riusciva soltanto a vedere le sue labbra arricciate da una
smorfia
di disgusto - sempre quando pronunciava la stessa parola.
Mostro.
Tu sei un mostro.
Mostro.
Gli sembrava di essere imprigionato in un mondo senza luce. Aveva la
testa
abbassata e guardava Rey dall’alto verso il basso mentre lei
gli riversava
contro tutta la sua rabbia e il suo dolore. Sentiva delle lacrime e del
muco
tra le pause delle sue frasi e nei momenti in cui respirava in maniera
agitata
e si portava il polso vicino al naso. Le rispose con la sua stessa voce
spezzata.
“Sì. Sono un mostro. Sì, lo sono. Sei
contenta o hai bisogno che lo urli? Sono
un mostro. Sono uno schifo d’uomo e non te l’ho mai
nascosto. Vuoi che lo
ripeta ancora? Sono un mostro e tu lo sapevi e hai detto di amarmi
comunque.
Sono un mostro e sono tutto il male del mondo. Ma tu avevi detto che
non ti
interessava e che mi amavi e che avresti amato soltanto me. E io ti ho
creduto
anche se non avrei dovuto farlo. Come avresti mai potuto amare
me?”
Lei nascose i suoi occhi con i dorsi delle mani e schiuse la bocca con
un
sorriso amaro che non gli piaceva e che odiava e che avrebbe voluto
dimenticare. Una tensione malsana lo spingeva ad allungare le dita
verso le sue
spalle o verso la sua guancia. Non riusciva a raggiungerla mai. Non era
in
grado di sentirla e di capirla. Era troppo.
E non conoscere il motivo rendeva ogni cosa peggiore. Lo privava di una
base
solida da cui cominciare a ritrovare la strada che lo avrebbe condotto
da lei.
Era perso. Perso in un labirinto di macerie.
“Io amavo soltanto te. Io sono un’idiota che
continua ad amare soltanto te.
Anche se tu hai dimostrato di non amarmi e che non sono niente e non
sono mai
stata importante. Sono il nulla.”
Ma non per me.
“Io non ti amo? Mi sono rinchiuso dentro casa ad aspettare
tue notizie. La
nostra casa, l’appartamento in cui abbiamo deciso di abitare
insieme da due
anni. Te lo ricordi? O hai dimenticato la strada ed era impossibile
tornare
anche soltanto una volta e spiegarmi che cosa stesse succedendo? Seduto
sul
divano ad aspettare una tua chiamata o almeno un altro messaggio. Ho
trascorso ogni
giorno piangendo e sperando di vederti aprire quella maledetta porta e
tornare
da me! Ma sono stato uno stupido ad aspettarti. Fin dal primo momento
in cui ti
ho vista sapevo che te ne saresti andata. I primi mesi insieme ho
vissuto con
il costante timore che il tempo stesse finendo. La mattina mi svegliavo
e mi
domandavo se l'attesa fosse finita e se era arrivato il giorno in cui
mi
avresti lasciato. Felice e lontana da me per sempre. Ci sono state
delle volte
in cui sono morto nell’attesa e ho sperato che accadesse
subito. E ci sono
state altre volte in cui ho pregato che tu non vedessi mai come
chiunque altro
avrebbe potuto offrirti una vita più bella di quella che
potevo offrirti io. Ma
tu restavi con me. Abbiamo vissuto delle difficoltà e tu sei
rimasta con me.
Hai conosciuto mio padre e sei rimasta con me. Ti ho raccontato tutto
del mio
passato e sei rimasta con me. Allora ho davvero pensato che saremmo
rimasti
insieme. Ho creduto che tu mi amassi. E nello stesso istante in cui ho
smesso
di avere paura tu te ne sei andata.”
Svelarle tutte le sensazioni che non era mai riuscito a sussurrare
neanche a se
stesso o che non aveva mai compreso ed analizzato gli
sradicò qualcosa dal
petto.
Respirava a fatica - come se gli avessero squarciato
l’addome e strappato
bruscamente ogni costola e stretto il cuore in una morsa di lame
ghiacciate.
Con le dita si aggrappò alla sua stessa camicia nel
tentativo di trovare un
appiglio al centro del suo sterno. La sua mano si chiuse vicino alla
sua
clavicola mentre la sua bocca era avvolta da abrasioni
dell’aria. Cosa doveva
fare?
Poteva uscire dalla stanza. Non ascoltarla. Allontanarsi da lei senza
chiedere
perdono. Non voltarsi indietro.
Ma non lo fece. Non avrebbe mai scelto di andarsene e di abbandonarla.
Non era
possibile.
Io ti prometto.
Lui aspettava lei.
Io ti prometto ora e sempre.
Lui avrebbe mantenuto la sua promessa.
Tu non sarai mai più sola.
“Per questo motivo hai deciso di non aspettarmi
più e di farmi del male?”
La sua voce agguantò le ossa della sua schiena e lo
costrinse ad aprire le
spalle incurvate. Si morse un labbro e rimase fermo al suo posto.
Perché non
poteva neanche abbracciarla?
“Che cosa ho fatto?”
Le braccia di Rey si sciolsero da sotto il suo seno e scivolarono lente
lungo i
suoi fianchi. Dovette inspirare diverse volte prima di riuscire a
rispondergli.
Quando gli rispose gli distrusse il mondo in milioni di miliardi di
buchi neri.
“Tu mi hai tradita.”
*****
In alcuni momenti Rey non ricordava il modo giusto in cui si
impugnavano le
posate. Le afferrava con un pugno e le dita non riuscivano a spostarsi
o ad
articolarsi tra gli spazi. Scuoteva la testa e faceva finta di nulla.
Aspettava
che il suo meschino attacco scomparisse e che i muscoli delle mani
ricordassero
che da sette anni avevano imparato ad utilizzare quegli utensili. Era
paziente.
Sapeva tutto riguardo all’aspettare.
Invece Ben era diverso. Lui soffriva in silenzio.
Da tre anni l’espressione persa di Rey gli mordeva sempre il
cuore fino a
recidere ogni singola coronaria. Gli colpiva il petto che sanguinava
copioso e
che gocciolava tra le sue costole e le ossa del suo sterno.
Si sporse verso di lei senza riuscire a fermarsi -
inaccettabile
vederla soffrire.
Le spostò il pugno chiuso intorno alla forchetta,
lo mosse dal centro verso
l’alto.
“Non c’è bisogno, adesso passa. Sono
capace di farcela.”
Le sue parole erano state bofonchiate con sottile ansia e frustrazione
e lui le
aveva baciato le nocche, scusandosi di essere intervenuto e di averla
offesa.
Lei lo aveva osservato di sottecchi e aveva accennato un debole sorriso
mentre
aveva continuato a giocare con il cibo cinese che avevano comprato.
Aveva fatto
rotolare ogni raviolo da un lato all’altro del suo piatto e
aveva stretto le
labbra in una linea dura.
L’aveva baciata.
Era - sempre - una necessità impossibile da fermare.
Ogni volta che scorgeva quella espressione sul suo viso era in
grado di
vedere i dieci anni che Rey aveva vissuto all’orfanotrofio e
le barbarie a cui
era stata sottoposta. Vedeva il modo in cui era stata costretta a
mangiare ogni
cibo soltanto con le mani, come se fosse un animale. Vedeva lo sguardo
perso di
una ragazzina quindicenne che - per la prima volta - utilizza forchetta
e
coltello.
Cosa sono? Come si chiamano? A che cosa servono?
Sapeva che ogni tanto la sua mente si perdeva nei ricordi e
che le sue dita
si bloccavano in un fermo immagine di anni che non avrebbe mai voluto
vivere.
A me sembra di affogare insieme a te.
Rey lo aveva baciato stringendo forte le posate e lui si era
spostato a
baciarle l’angolo della bocca e la guancia e la punta del
naso.
Quando l’aveva sentita ridere era riuscito a rilassarsi.
Rey gli aveva cercato di nuovo la bocca e lo aveva baciato a stampo in
mezzo
alle labbra. Gli aveva sussurrato un grazie.
E lui aveva pensato una cosa soltanto.
Domani. Domani te lo chiederò.
Aveva continuato ad osservarla mentre lei aveva ricominciato a
mangiare
riuscendo a non perdersi nel dedalo dei suoi incubi.
Domani ti chiederò di sposarmi.
Come avrebbe potuto immaginare che il giorno dopo si sarebbero
lasciati?
*****
Tu mi hai tradita.
Riuscire a ripeterlo nella sua mente gli era costato una parte di se
stesso.
Non poteva pensare al suo reale significato. Immaginarsi in una tale
intimità
con un’altra donna gli corrodeva l’anima fino a
ridurla a brandelli. E poi si
rese conto che Rey credeva realmente nella sua accusa e questa
consapevolezza
gli inflisse un dolore inumano. Gli sradicava la ragione dalla testa e
il cuore
dal petto.
Per un momento ebbe la certezza che le lacrime non sarebbero mai state
abbastanza e che non sarebbe riuscito a parlare mai più.
Rey riprese a spiegarsi con un tono di voce diverso. Non era agitato e
rancoroso. Era mortalmente calmo e atono - come una
ferita che sanguina
incessantemente colorando di rosso delle bende fresche e candide.
“Ero tornata a casa. Per due anni abbiamo dormito insieme
ogni notte e dopo
soltanto un giorno senza di te mi sembrava di impazzire. Riuscivo a
chiudere
gli occhi soltanto poche ore e mangiavo pochissimo. C’erano
incubi ad
aspettarmi e tanta stanchezza. Rivivevo una sensazione di vuoto che
ormai avevo
dimenticato. Mi mancavi troppo e non ho resistito lontana da te. Dentro
di me
c’era ancora tanta paura ma non era giusto continuare a
nascondermi. Cinque
giorni dopo la mia stupida fuga sono tornata a casa e sulla soglia
della tua
porta ho visto te. E poi lei. Zorii. Tu l’hai lasciata
entrare e non mi hai
visto. Ti ho guardato e ho detto il tuo nome e tu non mi hai neanche
sentito.
Ho aspettato un’ora seduta sulle scale. Niente.”
Tu mi hai tradita.
Così hai pensato che sia successo qualcosa tra me e Zorii?
Non riesce ancora a crederci. Non riesce a concepirlo. In questo modo
ogni sua
parola e ogni suo gesto non avevano mai avuto alcun reale significato.
Gli
stava svuotando il corpo e strappando i ricordi. Non aveva senso. Il
bruciore
all’addome non aveva motivo di esistere. Non esisteva
nulla. Erano
niente.
Avrebbe voluto ridere in maniera isterica e svegliarsi dal nuovo incubo
in cui
era stato scaraventato. Era necessariamente un incubo. La sua unica
speranza
era che una tale follia non fosse reale. Svegliarsi e sentire le dita
della
mano di Rey ancora intrecciate alle sue.
Noi non siamo questo e tu non puoi pensare che io sia un
mostro del genere.
Non puoi. No. Ti prego. No.
Delle vertigini ricominciarono ad appannargli la vista e ad ovattargli
l’udito.
Stava perdendo il controllo su se stesso.
“Sono tornata a casa di Finn e mi sono stesa sul letto con
ancora il cappotto
addosso a guardare il soffitto. Volevo chiamarti. Era la cosa giusta da
fare,
no? Essere matura. Confrontarmi con te. Ma avevo paura. Non so a che
ora mi
sono avvicinata al cellulare e ho visto che c’era un
messaggio di Zorii. È
stata molto gentile ad avvisarmi di aver fatto sesso con te e a
rassicurarmi che
non sarebbe successo un’altra volta. L’ha definita
la follia di una sola notte.
Ha voluto dirmi tanti dettagli. Mi ha anche scritto che ha trovato
molto
interessante la cicatrice che ti attraversa il petto e che non era
riuscita a
resistere dall’assaggiarla. Una donna con una grande classe.
Ha concluso
dicendo che sono una ragazzina con una grande fortuna e mi ha inviato
anche la
foto della nostra camera da letto. Le lenzuola ancora
disordinate.”
Ben non si mosse dal suo posto e non comprese subito la trasformazione
del suo
viso. Gli era sembrata incredula e spaesata un momento prima -
una
bambina senza una certezza a cui potersi
aggrappare nell’istante
più buio - e poi all’improvviso
il volto era stato deformato dalla
rabbia e dalla sofferenza.
“Tra tutte le donne con cui avresti potuto tradirmi hai
scelto Zorii. Lei. E
non mentirmi mai più dicendomi che mi hai
aspettata.”
La osservava. Non sentiva il borbottio del suo cuore. Non si rendeva
conto di
respirare male. Ascoltava soltanto il cicalio delle sue accuse e si
confondeva
tra le immagini dei suoi ricordi.
Ricordava il modo spontaneo in cui le sue dita erano solite
intrecciarsi alle
mani di Rey. La sensazione di tranquillità quando erano
sdraiati sul divano e
decidevano di guardare la televisione. Il modo in cui si muovevano
insieme. Lei
che stendeva le gambe sulle sue ginocchia e gli tracciava linee
immaginarie
sulle ossa dell’avambraccio. Lui che le toccava i capelli o
il viso. I momenti
in cui Rey si stancava del film e iniziava a stuzzicarlo mordendogli le
orecchie. Si era sempre vergognato delle sue orecchie.
A me piacciono. Glielo aveva sussurrato tra
i baci sul collo e
sulla nuca. A me piace tutto di te.
Le aveva creduto e si era sentito sereno. Felice di piacerle e di
essere
apprezzato. Gli era sempre importato di piacere soltanto a Rey. Non
aveva mai
desiderato nessun’altra. Glielo aveva detto. Glielo aveva
dimostrato.
Una voce ricominciò a tormentarlo nel profondo. Non
vali nulla.
“Cosa dovrei dirti adesso? Cosa ti aspetti?”
La sua voce era fioca. Non gli sembrava fosse sua. Ma non desiderava
riflettere. Qualcosa di cattivo gli bruciava le vene e gli inondava
l’addome
con una tale costanza da occludergli la gola da impastargli la lingua.
Un fuoco
caldo colava tra ogni spazio delle sue costole costringendolo a
piegarsi in
avanti. Era tutto troppo sfocato.
Si concentrava sulla sagoma delle venature di legno della porta oltre
il capo e
le alte crocchie di Rey. Tentava di arginare ogni suo scatto e di
calmarsi. Era
un’azione complessa. Davvero inutile.
Che senso aveva continuare a trattenersi?
“Il motivo.”
Lei aveva sussurrato con voce incredula e spaesata. Forse si stava
tormentando
le nocche. Si scorticava le mani con le unghie nei momenti in cui era
nervosa.
Un ennesimo colpo al cuore lo costrinse a boccheggiare quando comprese
che non
avrebbe abbassato le ciglia con l’intento di accertarsene e
di bloccare il suo
gesto.
La sua risposta era stata aria in grado di scuotere e contorcere del
fuoco
spento. Lingue biforcute che assumevano le sembianze di una treccia e
che
sfumavano tra il viola e l’arancio. Un caos che gli
scardinava ogni certezza e
che sbriciolava ogni ricordo.
Tu pensi questo di me?
Dopo tre anni. Dopo avermi conosciuto in ogni modo - e aver conosciuto
che
persona io sia senza dare importanza ad un nome legato ad
un’eredità scomoda.
Dopo tutte le mie dimostrazioni e l’amore che ho tentato di
darti in ogni forma
possibile. Tu pensi questo di me. Tu pensi che io sia capace di tradire
te e le
nostre promesse. Le nostre speranze. Sei la donna che io
desideravo
sposare e tu neanche lo sai. Ma dovresti saperlo. Anche se non mi ha
permesso
di chiedertelo e te ne sei andata prima. Dovresti saperlo.
Quando ho letto il tuo biglietto d’addio avevo tra le dita la
scatola
dell’anello che avevo scelto pensando a te. L’ho
stretta talmente tanto forte
da averla distrutta. Non pensavo che tu potessi ferirmi.
“Hai deciso tu ogni cosa. Scegli tu anche il
motivo.”
Devo andarmene via da qui.
“Non dici nulla?”
La voce di Rey si era spezzata ancora quando aveva pronunciato questa
domanda e
qualcosa gli disse che avrebbe dovuto pensarci e preoccuparsi. Non si
mosse.
Rey mi abbraccia quando io sono agitato. Mi bacia il collo e
mi stringe
forte.
Concentrato a non cadere in una diga di errori e di autocommiserazione.
Dovrei spiegarle la situazione e dirle che Zorii ha cercato di
ingannare
entrambi. Che non l’ho mai tradita. Mai potrei.
Troppo concentrato a respirare senza urlare.
Non ci riesco.
L’anno scorso Rey si era seduta sotto l’albero di
Natale e gli aveva detto di
essere lei il suo regalo. Lui aveva riso e aveva provato a toglierle il
pigiama
dicendo che doveva assolutamente scartare il suo regalo. Subito. Ma Rey
aveva
detto che bisognava aspettare mezzanotte. E poi
sarò tua. Sempre.
Non voglio riuscirci.
“Cosa devo dire? Cosa vuoi che dica?”
Fece un passo avanti e si morse il labbro superiore. Volse la testa
verso il
basso e la osservò.
Che senso ha provarci?
Dopo un secondo distolse lo sguardo e si resse allo schienale di una
sedia pur
di costringersi a provare dolore e a sentire le ossa spezzarsi e
trapassargli
la carne. Necessitava di qualche colpo al costato e di costole rotte.
Aveva
bisogno di un mondo oscuro e di tenebre che lo inghiottissero.
“Tu pensi che io sia colpevole. E quindi? Vuoi che lo ammetta
ad alta voce?
Devo dire che ti ho tradito e che sono andato a letto con Zorii? Che
ho scopato con
lei nel nostro letto? Vuoi che ti confermi che non ti ho aspettato e
che non ci
sono altre spiegazioni per le cose che hai visto e che ti hanno detto?
Tanto
hai deciso di condannarmi. Non valgo nulla. Le mie parole e le mie
promesse
cosa sono? Niente. Tutte le cose
che ho fatto pur di essere
degno di te? Sono niente. Che
senso ha parlarti? Sono stato soltanto
un idiota a illudermi di avere un valore per te
quando io sono niente. Lo
devo ripetere? Sarà sempre così. Sono io il
niente. Io a
pregare di essere degno di te e sperare di esserlo e crederlo per un
secondo e
poi ritrovarmi come sono sempre stato. Solo.”
Forse aveva urlato. Forse aveva gettato la sedia a terra e si era
coperto il
viso tra le mani e tra i capelli. Forse aveva colpito il tavolo e aveva
iniziato a piangere tra i conati di vomito. Non era sicuro di nulla.
Cercava un
senso soltanto con i forse.
“L’unica persona che ho mai desiderato in tutta la
mia esistenza sei tu. Non ho
mai voluto altro se non essere con te. Niente altro. Anche solo
guardarti e
sapere che tu sei felice e al sicuro. Sentirti ridere. Come puoi
pensare che io
possa ferirti tanto profondamente? Tradire tutto di me e te. Essere
un’altra
persona. Sono questo? Anche tu mi vedi in questo modo?”
Con il polso pressato sulle labbra assaporava un gusto acido di bile.
Immaginarsi ancora con un’altra donna gli strinse lo stomaco
con foga. Rendersi
conto di quanto fosse un mostro agli occhi di Rey ebbe il potere di
piegarlo in
due e di fermarlo.
Prese un respiro dal naso. E poi un altro. Un altro. Un altro ancora.
Ancora.
Un sapore amaro continuava ad impastargli la bocca e dei pugni allo
stomaco lo
costrinsero a muoversi con cautela. Con l’interno del suo
polso - con
le sue vene pulsanti ad un ritmo ingestibile
- pulì la
cortina dinanzi ai suoi occhi e intravide la sedia aperta in due ai
suoi piedi
e le scarpe di Rey e come le sue braccia erano strette intorno al suo
ventre.
Il suo collo arrossato e le sue lacrime e il suo sguardo -
troppo
sbagliato e troppo doloroso.
Rimase immobile ad osservare il suo viso e si costrinse a cercare un
equilibrio
tra le pieghe di una tempesta senza salvezza.
Rey odiava le urla.
Rey odiava la violenza.
Rey aveva paura.
Doveva interessarsi soltanto a questo. Ripeterselo in mente come una
cantilena
e comprendere cosa significava. Non importava quanto lui potesse essere
straziato e dilaniato.
Lei era - e lo sarebbe sempre stata - la
persona più
importante della sua esistenza.
E se Rey soffriva allora nulla aveva un senso. E niente era importante.
Un altro respiro. Un altro. Un altro ancora.
Lui doveva soltanto fermarsi e provare ad aiutarla in qualsiasi modo
possibile.
“Mi dispiace.”
Scavalcò la sedia e mise avanti le mani con i palmi aperti.
Lei sciolse le
braccia ma non si mosse dal suo posto.
Tese le dita verso le sue e Rey assunse una strana smorfia. Dovette
contare
ancora i respiri prima di riuscire a parlare.
“Mi dispiace. Sono... sono imperdonabile. Voglio solo sapere
se stai bene prima
di andarmene. Mi stai spaventando.”
Lei gli strinse l’indice e lui mosse un mezzo passo nella sua
direzione.
Comprese a mala pena la sua domanda sussurrata. Dovette inclinare il
capo e
avvicinare l’orecchio sinistro alle sue labbra.
“Vuoi andartene?”
Rey non gli lasciava la mano ma non lo guardava. E non poteva
biasimarla.
“Penso che adesso tu non voglia vedermi.”
Lei fece un passo verso di lui e con l’altra mano gli
sfiorò il mento e il
collo. Fu naturale seguire il tocco dei suoi polpastrelli. Aveva
bisogno del
suo calore.
“Io penso che tu non possa sopportare di stare con me. Ho
sbagliato tutto.
Adesso me ne rendo conto. E mi vergogno.”
Smise di sfiorarlo e si perse ad osservare i suoi piedi. Gli stringeva
ancora
le dita ma singhiozzava in silenzio e serrava i denti.
“Posso spiegarti.”
Sono stato incastrato. Non ti ho tradita. Posso dimostrartelo.
“No. Non dirmi nulla. Ho sbagliato tutto. Tutto. Tutto.”
Lui allargò le braccia nel gesto di stringerla e Rey scosse
il capo. Sussurrava
che non lo meritava. Che aveva distrutto ogni cosa. Che dentro se
stessa lo
sapeva. Lo aveva sempre saputo.
“Sapevo che non mi avresti mai tradita e che avrei dovuto
parlartene subito. Ma
era più semplice così, no? Non volevo fare i
conti con i miei errori e
ammettere di aver sbagliato tutto. Sono stata una codarda. Ho riversato
ogni
cosa su di te. Sono io a non meritarti. Non sono stata migliore dei
tuoi
genitori. Di Luke. Ti meriti di meglio.”
Non avrebbe nuovamente tollerato parole del genere. Rey piangeva e si
ostinava
ad avere il viso girato a destra.
Basta.
Lui immerse le dita tra i suoi capelli e le chiese di voltarsi. Le
concesse
pochi secondi e di rilassare i muscoli del collo. Con le sue mani
accompagnò i
movimenti del suo volto e poi abbassò le spalle e la
baciò. Fu poco accorto.
Baciò soltanto il suo labbro superiore e il naso mentre Rey
tratteneva respiro
e singhiozzi. Le chiese di non dirlo mai più. Di non
pensarlo. Di non lasciarlo.
Lei si alzò sulle punte dei piedi e gli baciò il
mento e tra le labbra e lì
rimase. Trattenne un altro singhiozzo e lo baciò con
dolcezza. Bocca contro
bocca gli chiedeva scusa.
Ti ho inflitto troppo male. Non perdonarmi. Io non mi
perdonerò.
Rey continuava a piangere. E lui sapeva che era grave. Che era male.
Rey non piangeva mai.
“Dimmelo. Perché? Rey,
perché?”
Io ti perdonerò sempre.
“Tu non li vuoi. Hai sempre detto di non volerne.
Sempre.”
Con i pollici cercava di cacciare il pianto dal viso di Rey ma gli
sembrava
un’impresa impossibile. Erano grosse lacrime che continuavano
a scivolare giù
dagli angoli dei suoi occhi e a cadere dalle sue ciglia. Le sue guance
gli
bagnavano le mani. Non sapeva come calmarla e un peso enorme prese a
tormentargli le vertebre e a sciogliergli ogni pensiero razionale.
“Cosa non ho mai voluto?”
Continuava ad accarezzarle il volto e in questo modo il suo polso rese
ovattati
i suoi singhiozzi e lamenti. Le labbra di Rey baciarono le sue vene
mentre
lacrime e muco imbrattavano i suoi polsini. A lui non importava -
voleva soltanto capire.
Desiderava che Rey stesse bene. Non sopportava che fosse disperata e
infelice.
Era un dolore fisico che gli prosciugava il sangue e le ossa.
“Ti prego. Parlami. Spiegami. Ti prego.”
Lei scosse il capo e si morse le labbra. Lui baciava la sua fronte e la
sua
tempia sinistra senza mai smettere di sussurrarle ti prego e di
racchiuderle il
viso tra le dita.
“Non esiste nulla che non possiamo affrontare. Ti giuro che
qualsiasi cosa sia
saremo insieme e che non sarai sola. Io sono qui, sono qui. Parla con
me. Rey,
ti amo, non esiste nulla che tu non possa dirmi. Siamo solo io e te. Io
e te
insieme.”
Rey si sporse a baciargli le labbra un secondo e poi tese il collo
all’indietro
come per riuscire a guardarlo meglio. Il suo corpo tremava di meno e il
suo
sguardo era più fermo. Deglutiva facendo rumore ma
c’era una forza dentro di
lei che non si sarebbe mai spenta. Era stata una ragazzina coraggiosa
ed era
cresciuta diventando una donna con uno spirito implacabile. Creava
punti di
equilibrio anche nei suoi momenti più bui -
come adesso tra le sue
braccia e tra le carezze dei suoi polpastrelli.
Rey schiuse le labbra con un’espressione di stupore e di
meraviglia
capovolgendo un’altra volta ogni base della sua esistenza.
Sentì il suo cuore
battere impazzito al livello della sua pancia.
Poi soltanto silenzio.
“Sono incinta.”
Angolo autrice.
Ciao a tutti! Non
completamente natalizio, vero? Vi prometto che ci sarà un
lieto fine. Vi
prometto anche che i due non hanno risolto così facilmente e
che nel prossimo
capitolo Rey spiegherà perfettamente le sue ragioni e cosa
l'ha spinta a
sbagliare tanto (dovrei scriverlo dal suo Pov, quindi Rey
sarà molto più
approfondita). Ringrazio infinitamente Koa e Hanna per i
tantissimi
consigli e la pazienza. Hanno riletto questa storia davvero molte volte.
Il paragrafo centrale in corsivo è un flashback, spero sia
comprensibile con
questa formattazione. Il riferimento alla prima volta che Ben e Rey si
sono
lasciati è un collegamento a "Just us together". Questa
storia
rappresenta un pò la conclusione di questo ciclo di AU, ma
vorrei in futuro
scrivere dei racconti precedenti a questa fine. Ho in mente da tanto il
primo
incontro Ben-Han-Rey. Ci riuscirò? Non lo so, ma spero
questa storia vi stia
piacendo e che vorrete leggere il prossimo capitolo. A presto e buone
feste :)