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Autore: _Lightning_    27/12/2020    4 recensioni
«Finisce sempre così.»
«Così come? Con tu che mi strappi i vestiti?»
Cara alza gli occhi al cielo, anche se le sue labbra s'inclinano per un istante verso l'alto, mentre Din sorride a tutto spiano sotto l'elmo.

[The Mandalorian // Cara/Din // Commedia // Christmas Fluff // Din!Whump // Maritombola 11 – Prompt 64]
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carasynthia Dune, Din Djarin
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Contesto: indefinito (post S1)
Genere: commedia, fluff
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, Grogu (menzionato)
Avvertimenti: what if?, lieve (?) OOC perché è Natale e dork-Mando è vita, Din!whump
Evento: Maritombola 11 indetta da Lande di Fandom – Prompt 64: "Non avrei dovuto chiamarti. Finisce sempre così."


 

 

 

«... è solo l’elmo?»

Din distingue chiaramente le parole, almeno alcune, ma non riesce a dare loro un senso. È arduo concentrarsi, con una scheggia metallica conficcata tra le costole e il sangue che stilla denso ad ogni suo respiro. La voce di Cara tradisce un’acuta nota d’allarme, ma la sua cadenza rimane ferma e stabile come la pressione che gli sta applicando sulla ferita. Il dolore è ovunque, sboccia nel suo costato, si dirama come un rampicante attraverso il petto e i polmoni e l’addome.

«Cosa?» riesce ad esalare, in un respiro che si gonfia di sangue.

Male. Il sangue in bocca è un male. È tutto ciò che riesce a formulare, deglutendo a fatica con una smorfia. Spera di essersi solo morso la lingua, ma sa che quel pezzo di metallo l’ha trapassato fin troppo vicino ai polmoni.

«L’armatura non fa parte del Credo, quindi te la posso togliere qui? Mando, ehi!»

Sente un forte pizzico sul collo e si riscuote con un sussulto, realizzando che si è quasi assopito. Anche questo è un male, con tutto il sangue che ha perso.

«Sì,» boccheggia poi, riuscendo a ricollegare ciò che gli ha chiesto.

Sarebbe quasi toccato dalla sua premura del tutto superflua – come se non l’avesse mai fatto, poi – se non fosse troppo occupato ad aggrapparsi alla propria vita con ogni residuo di volontà. D’istinto, cerca a tentoni l’aguzzo frammento di metallo piantato nelle sue carni, e ne sfiora l’estremità. Gli sfugge un sibilo tra i denti, mentre buchi neri accecanti gli esplodono davanti agli occhi. Le sue dita trovano la chiusura dello spesso strato protettivo sotto al beskar, e tentano di allentarla – falliscono miseramente, tremando come gelatina.

«T-tagliala e basta,» farfuglia, tra un brivido di freddo e uno di dolore.

Lei ci sta già pensando di sua iniziativa, troppo di fretta per trafficare con cinghie, lacci e ganci. Din sente la lama d’energia graffiargli la pelle, lasciando dietro di sé una spiacevole scia bruciante, ma penserà alle ustioni dopo, quando non sarà impegnato a non soffocare nel suo stesso sangue. Si sente la testa immersa in un liquido denso, freddo, e l’elmo gli preme contro il cranio, innaturalmente opprimente.

Cara taglia con decisione il tessuto robusto e temprato, seguendo il bordo della corazza frontale e separandola dalla manica, per poi sganciare la bandoliera e riuscire finalmente a ripiegare via dal suo petto la piastra in beskar, scoprendo la ferita in modo affatto indolore. L’aria gelida gli accappona la pelle esposta, ma è un bene – il freddo è un bene, rallenta l’emorragia. Cerca di inspirare a fondo l'aria invernale, per scacciare la sottile nebbiolina che sente salire dal fondo della propria mente, offuscandogli i pensieri.

A quel punto, sente Cara trattenere bruscamente il respiro, e sa che le sue possibilità di sopravvivenza sono appena precipitate. «Kriff, è più grave di quanto pensassi.»

Non il massimo del tatto, ma ormai ci è abituato. Din sospirerebbe, se ciò non rischiasse di far affondare ancor di più la scheggia nella carne, probabilmente ponendo fine alla sua carriera di cacciatore di taglie, oltre che alla sua vita. Sente Cara tamponare l’area della ferita con quello che crede sia il suo stesso mantello, per poi prendergli un polso e posizionargli con delicatezza pollice e indice a stringere la pelle attorno alla scheggia, chiudendo così i lembi della ferita. Din trasalisce, ma mantiene la presa, sapendo che è tutto ciò che gli sta impedendo di dissanguarsi.

«Fa abbastanza freddo, non sta sanguinando troppo. Non muoverti e mantieni la pressione – io vado a recuperare un paio di impacchi di bacta dalla Crest. Abbiamo ancora del bacta, vero?»

Parla così concitatamente che Din fatica a seguire la frase, ma la parola bacta è sinonimo di vita, e la vita è giusto ciò che ha un discreto interesse a preservare, in questo momento, quindi spicca sul sottofondo indistinto della sua voce. Annuisce, e il cervello gli sciacqua in testa come uno straccio bagnato. Percepisce Cara che gli sgancia il mantello dalle spalle, rimboccandoglielo addosso assieme all’armatura scomposta, capta un torno presto sussurrato, unito a una lieve stretta sul braccio, e poi la sua figura sparisce dalla sua visuale.

Adesso vede solo la tettoia sfondata del portico, che lascia filtrare spruzzate di fiocchi di neve. Si depositano a poco a poco sul suo elmo in ombre frastagliate. Il silenzio è irreale, attutito dalla massa innevata che circonda la baita – ormai un rudere devastato dall’esplosione, e l’unico suono è l’occasionare scricchiolio ligneo di qualche trave danneggiata, o il tintinnio di qualcosa che cade a terra all’interno. Il puzzo di bruciato filtra fin dentro l’elmo, e oltre il preponderante strato di duraplast e legno coglie anche una nota organica, stomachevole.

Socchiude gli occhi, cercando comunque di mantenere la presa su quelle sensazioni fisiche, sapendo che sono tutto ciò che lo àncora alla sua coscienza fluttuante. Si sente pesante. Poi leggero. Caldo, poi gelido. Cade a precipizio e poi si libra di nuovo verso l’alto. Stabilizza il proprio respiro, mantenendolo a un ritmo minimo ma regolare, muovendo appena il petto. L’aria filtra attraverso il modulatore in un raschio sottile. La scheggia metallica si fa sempre più fredda, la sente congelarsi sottopelle, e cerca di pensare che sia un bene, che farà da tappo. Stringe la presa fiacca delle sue dita, sentendole scivolare sullo strato di sangue.

Dank farrik, cerca di imprecare, ma finisce per pensarlo e basta, con tutta l’energia dirottata al semplice atto di respirare e tenere gli occhi aperti.

Cara gli aveva detto che quella era una taglia facile. Ma è sempre una taglia facile, finché all’improvviso non lo è più. Un trafficante di terzo livello come tanti altri – Leys Givad, un Clawdite negligente così sicuro delle sue capacità di mutaforma che era stato semplice da rintracciare, in modo quasi imbarazzante. Almeno, così gli aveva detto Cara. Dopotutto, era la sua taglia.

Avevano accettato taglie separate lì su Kijimi, come fanno spesso quando i crediti scarseggiano. Nulla di diverso dal solito.

Din aveva impiegato un giorno scarso per acciuffare il suo bersaglio sulle montagne circostanti la città – un bracconiere di bassa lega che non aveva opposto la minima resistenza. L’aveva piazzato nella carbonite ben prima del tramonto, per poi godersi qualche ora di riposo col piccolo facendolo scorrazzare per la valle innevata. Cara l’aveva chiamato poco dopo, dicendogli di raggiungerla in città così da festeggiare le loro taglie a suon di birra locale – sulla Crest, lontani da occhi indiscreti ovviamente. Era certa di concludere l’incarico entro sera.

Poi gli eventi avevano preso una piega ben più esplosiva. Letteralmente.

In sostanza, non Cara non aveva considerato la possibilità che quel Clawdite fosse un terrorista che mirava a rovesciare il nuovo governo ufficioso di Kijimi. E la bomba in miniatura che era riuscito a portarsi dietro l’aveva colta alla sprovvista. Din ha un rapporto decisamente pessimo con tutto ciò che esplode, e si era sentito gelare, quando Cara l’aveva chiamato per aggiornarlo sugli ultimi sviluppi – nell’esatto momento in cui atterrava con la Crest nella periferia boscosa di Kijimi City.

Quella che doveva essere una serata piacevole, passata a bere, giocare col piccolo, e rilassarsi nel tepore della Crest, si era ben presto trasformata in una frenetica caccia all’uomo attraverso i vicoli spiraleggianti della città, con la polizia locale nel panico che si era rivelata più d’intralcio che d’aiuto. Sono finiti a rincorrere Givad nell’estrema periferia, in un labirinto di boschetti selvaggi e crinali scoscesi. Din ancora non si spiega ancora come abbia fatto a raggiungere il terrorista tutto intero, senza ruzzolare in un crepaccio nascosto. Ha sicuramente rimediato ponendosi direttamente nel raggio dell
esplosione, con danni ben peggiori.

Un brivido lo riscuote, e sente la pelle formicolare man mano che si intorpidisce, col mantello sottile del tutto insufficientea scaldarlo. La mano comincia a scivolargli via dalla ferita, ma si impone di mantenere la presa.

Cerca di calcolare quanto tempo sia passato da quando Cara se n’è andata. Quella baita isolata, in cui è riuscito a mettere all’angolo Givad, è ad appena un klick dalla radura in cui ha fatto atterrare la Crest. Non dovrebbe volerci molto. Sa che non è passato così tanto tempo come crede, ed è stato ferito abbastanza spesso da sapere che ogni secondo si dilata drasticamente, in quelle situazioni.

Fermo, respira. L’emorragia è copiosa, ma rallentata del gelo, e non letale. Per ora. Conosce il proprio corpo: può resistere per altri minuti, possibilmente ore. Non è una morte rapida, quella. Cerca di lanciare un’occhiata alla ferita, inclinando rigidamente la testa, e individua il metallo aguzzo e irregolare che spunta dal suo costato di due centimetri buoni. Può solo sperare che la parte infissa nella carne sia più piccola. Il taglio è piccolo, ma profondo – il profilo netto della scheggia ha causato una ferita altrettanto netta. È positivo, cerca di ripetersi, ma intravede una parte più frastagliata nel punto in cui sprofonda sottopelle, e sa che estrarla non sarà un lavoro pulito. Ma starà bene.

È soprattutto sollevato di aver insistito per fare lui da avanguardia, mentre Cara aveva aggirato la baita per coprire l’uscita sul retro. Era stato lui a subire il pieno impatto dell’esplosione. Chiunque privo di uno strato di beskar sarebbe ridotto in condizioni molto peggiori – con danni interni, o magari l’osso del collo rotto, o crivellato dai detriti. Lui non era nemmeno entrato nell’edificio, quando la bomba era detonata probabilmente per sbaglio, e quel frammento di metallo staccatosi da un infisso era stato un puro colpo di sfortuna. Altrimenti, se la sarebbe cavata con qualche costola ammaccata, un po
’ di stordimento, e un mal di testa... invece, è costretto a rimanere immobile su quel portico sventrato, sotto la neve, con ogni respiro che rischia di perforargli un polmone.

Almeno respira. Cara è illesa, e il piccolo è al sicuro. Tra massimo un
’ora saranno sulla Crest, con una coperta addosso, il piccolo assopito tra loro, e una tazza di liquore bollente a scacciare via gelo e angosce. Si rifugia in quel tepore che ha appena evocato. Riaggiusta la mano sulla ferita, facendo una smorfia sotto l’elmo, dove la neve continua ad accumularsi oscurandogli la vista.

È stato peggio di così. Deve solo tener duro ancora per un po’.


 



Dopo quelli che gli sembrano un paio di millenni, sente il crocchiare di stivali nella neve, e si concede un lieve sospiro di sollievo nello stato di dormiveglia in cui si è lasciato scivolare. Riconoscerebbe i passi di Cara ovunque, e pochi istanti dopo è di nuovo al suo fianco, in ginocchio sul pavimento di legno. Il sottile strato di sangue ghiacciato scricchiola sotto la pressione.

«Non trovavo il medikit. Dovresti decisamente riordinare il magazzino,» esordisce, come se stessero placidamente conversando con un bicchiere di spotchka in mano. Din riesce comunque a percepire la linea tesa nella sua voce mentre rovista nella scatola di metallo. Poi si ferma di colpo e si volta verso di lui, spazzando via lo strato di neve dal suo visore in un gesto quasi convulso. «Din?»

Lui coglie il picco di panico che si insinua in quel richiamo, e affretta a rispondere con un mugugno, lottando per tener ferma la mandibola e impedire ai suoi denti di battere. Cara rilascia un respiro sollevato, per poi scostargli di dosso il mantello e ciò che resta della sua armatura. Gli tende la pelle sull’addome, vicino alla ferita, e Din sente con un sussulto un ago che la trapassa, spandendo un’ondata calda e formicolante.

«È solo procoagulante, non ho trovato gli antidolorifici,» gli spiega rapida, tornando a frugare nel medikit.

Gli scosta poi la mano dalla ferita che, ormai, riesce a malapena a percepire, ma che sta per diventare un inferno di dolore. Sa cosa lo aspetta, adesso, e avrebbe preferito illudersi che quello fosse antidolorifico. 

«E questo non sarà piacevole,» aggiunge infatti lei, schioccando la lingua mentre afferra con fermezza l’estremità della scheggia, cercando con delicatezza l’angolo giusto per estrarla senza causare altri danni.

Solo quel piccolo movimento quasi lo spedisce oltre l’orlo dell’incoscienza, e trattiene udibilmente il respiro. «Dank farrik–»

«Lo so. Scusa.» E poi la estrae di netto, senza alcun altro preavviso.

Un mare bianco sfrigola davanti ai suoi occhi. La sua testa scatta di riflesso all’indietro, impattando duramente col pavimento, e non trattiene un urlo soffocato quando la scheggia scivola fuori dalla piaga, sentendo con vivida chiarezza i bordi irregolari che lacerano muscoli e pelle – e poi è fuori, è finita, e sente la pressione di un impacco di bacta contro il fianco. L’orma fresca e lenitiva inizia ad allargarsi attorno e dentro la ferita, alla quale Cara la fa aderire con cura.

Il suo petto ancora si alza e abbassa come un mantice, ma sente il bacta che brucia e inizia a riparare i tessuti danneggiati. Sa che non può davvero sentirsi già così bene, ma accetta di buon grado quell’effetto placebo. Finalmente, il suo cervello cessa di essere una fanghiglia ghiacciata che gli si agita in testa, e riesce a scacciar via l’ombra pressante e molesta che dirottava ogni suo pensiero verso la ferita e il dolore, annebbiando tutto il resto.

Sospira con puro sollievo e cerca poi a tentoni Cara, visto che ha ancora gli occhi serrati. Lei incontra la sua mano a mezz
’aria, stringendola con forza. «Stai bene?»

«Vivrò,» mormora, o meglio bofonchia lui. «Facciamo solo in modo... che questa sia l’ultima volta che salto in aria.»

Lei si limita a risistemargli il mantello a mo’ di coperta con un secco sbuffare, stringendo la presa sulla sua mano, e Din immagina perfettamente cosa stia pensando. Non dev’essere facile per lei, vederlo di nuovo riverso a terra, insanguinato e intontito per via di un’esplosione.

Ruota la testa verso di lei e schiude appena le palpebre. Ha le guance arrossate, gli occhi accesi, euna miriade di fiocchi di neve impigliati tra i capelli scomposti e umidi, che sfuggono dal cappuccio bordato di pelliccia. Ha chiaramente corso come un fathier per arrivare in tempo, e quel pensiero gli strattona il petto in modo dolceamaro. Lui avrebbe fatto lo stesso – l’ha fatto.

«Non avrei dovuto chiamarti,» sbotta a quel punto lei, duramente.

Din batte le palpebre, rimanendo interdetto per un istante, e realizza che si sta colpevolizzando per ciò che è accaduto – come se l’avrebbe mai messo in pericolo volontariamente. Scuote con vigore la testa, ma lei continua, senza permettergli di replicare:

«Finisce sempre così.»

«Così come? Con tu che mi strappi i vestiti?»

Cara alza gli occhi al cielo, anche se le sue labbra s’inclinano per un istante verso l’alto, mentre Din sorride a tutto spiano sotto l’elmo, anche attraverso un’ondata di dolore residuo.

«Ti piacerebbe,» replica sfacciata, dandogli un paio di leggeri colpetti sull’elmo con le nocche. «Comunque, intendevo con io che ti salvo le chiappe,» aggiunge poi, già più allegra, probabilmente perché le sta dimostrando di non essere più in fin di vita.

«Credevo fosse il contrario. Mi hai chiamato tu per prima, no?» replica Din, senza trattenere quel sorriso che, lo sa, lei sente perfettamente, e si capisce dal modo in cui le si illumina il volto. «Sei contenta che io sia qui.»

«Qui? In una pozza di sangue? No, non direi che sono contenta,» ribatte lei, pragmatica, mentre lo aiuta a mettersi a sedere quando lui dà cenno di volerlo fare.

Gli sfuggono vari gemiti e un’imprecazione per la fitta lancinante al fianco, ma recupera a forza una sorta d’equilibrio, mentre la sua corazza e tuta stracciate si aprono sul davanti, lasciandolo mezzo nudo nel freddo. Cara gli piazza di nuovo il mantello addosso, sfregandogli le spalle scoperte per trasmettergli un po’ di calore.

«Ti devo un favore,» dice poi in fretta, stringendo la presa.

«Mi devi dei festeggiamenti,» ribatte lui, facendo scivolare goffamente la mano insensibile dietro alla sua nuca, premendole poi la fronte contro la propria.

Lei sorride e fa lo stesso, posando i palmi sul suo collo. «Possiamo lavorarci.»

Si concedono un momento per respirare assieme. Farlo è ormai qualcosa di naturale, e riesce sempre a riportare loro un po’ di quiete dopo una battaglia intensa. Si crogiolano semplicemente nella consapevolezza di essere entrambi vivi, ancora una volta. Non c’è nessuno in vista, ma non si arrischia a togliere l
’elmo. Tutto il resto può aspettare finché non saranno al sicuro sulla Crest, invisibili al mondo. Per ora, Cara si limita a lasciar scorrere le dita sotto l’orlo metallico, seguendo la linea della sua mandibola in una carezza, per poi ritrarsi con aria leggermente accigliata.

«Stai gelando, muoviamoci,» afferma poi, con la preoccupazione che si fa di nuovo strada sul suo volto.

Lui rabbrividisce, come a comando, e non contesta l’ovvio. Non vede l’ora di togliersi di dosso quel residuo d’armatura, tornare sulla sua nave e raggomitolarsi al caldo nella sua cuccetta per tre giorni di fila – possibilmente e probabilmente con Cara. Anche se faranno finta che sia solo per il freddo, così da scaldarsi a vicenda. Si divertono ancora a girare attorno a fatti ormai palesi, parole troppo grandi, e verità implicite che non hanno davvero bisogno di essere espresse ad alta voce. Non quando possono dirsi tutto ciò che vogliono con altri mezzi – come coprirsi costantemente le spalle e supportarsi fianco a fianco.

Quel pensiero gli ridà il briciolo di vigore che gli serve per rimettersi in piedi. O meglio, provarci, fallire e lasciare che sia Cara a issarlo quasi di peso, visto che le sue gambe sono più intirizzite di quelle di un ATAT impantanato. Cerca di ritrovare il proprio baricentro e riesce a tenersi in piedi, anche se il suo lato ferito pulsa di dolore smorzato. E il resto del corpo non è messo meglio – cadere dal sandcrawler dei Jawa è stato meno traumatico. Ha il presentimento che lui e Cara finiranno sul serio a scaldarsi a vicenda e basta, mentre lui collasserà dritto nel mondo dei sogni non appena sfiorerà il materasso. Sarà contento il piccolo, visto che adora accoccolarsi tra loro quando dormono.

In ogni caso, la sua unica priorità è allontanarsi da questo freddo. Si avvolge il mantello attorno al busto, cercando almeno di schermarsi dal vento. Sta per proporre di cercare una coperta dentro la baita pericolante, vagamente inquieto al pensiero dei resti che potrebbero rinvenire all’interno, quando all’improvviso Cara soffoca un singulto, in ciò che sembra una risata troncata sul nascere.

Si volta verso di lei, inclinando interrogativamente il capo di lato, e lei ricambia quello sguardo in modo colpevole, coprendosi la bocca col dorso di una mano.

«Sei... ridicolo,» sbotta poi, attraverso un’altra risatina, e fa un cenno col mento verso di lui.

Lui raddrizza le spalle risentito, di riflesso, per poi abbassare lo sguardo e prendere atto delle proprie condizioni: la parte frontale della tuta di volo è tagliata di netto, e il rettangolo di stoffa penzola non molto dignitosamente fino alle sue ginocchia, dove la corazza che vi è attaccata sbatacchia contro le piastre metalliche. Il suo busto è quasi del tutto nudo, se non per le maniche, di cui una strappata e tenuta assieme solo dal parapolso e dallo spallaccio metallico. La chiazza verde dell’impacco di bacta occupa il suo fianco, assieme alle linee rossastre e squadrate lasciate dalla vibrolama, in una sorta di disegno spigoloso. A coronare il tutto, spicca il suo elmo non esattamente discreto, e il mantello che svolazza attorno a lui in modo affatto regale.

Non è un bel vedere, glielo concede. «Mi ricorderò di portarmi una maglia di riserva, per la prossima volta che verrò fatto a brandelli da una carica sismica,» sbuffa, cercando di raccogliere la piastra della corazza per riagganciarla alla meglio; gli scivola però dai guanti mezzo congelati e ricade in avanti con un fracasso metallico che fa stringere gli occhi a Cara.

«Carica sismica... non essere tragico,» lo rimbrotta lei, avvicinandosi, con uno scatto divertito delle labbra nel vederlo tentare nuovamente di ricomporsi, stavolta tenendo con un braccio la corazza disarticolata contro il petto e con la mano il mantello, in una posa non molto elegante. «Almeno tu sei tutto intero, quindi possiamo festeggiare come da programma.»

Din inclina un poco la testa, incerto se dover interpretare quelle parole esattamente nel modo in cui le sta interpretando, o se è solo il suo cervello ancora semi ghiacciato a fare le bizze. «Festeggeremo quanto vorrai, dopo che mi sarò rimesso qualcosa addosso,» ribatte infine, in modo neutrale e aggrappandosi ancora ai vestiti e alla sua – poca – dignità.

«Dopo?» lo stuzzica lei, rivolgendogli un sorrisetto stavolta privo di fraintendimenti, mentre si fa scivolare il suo braccio sulle spalle offrendogli supporto.

Lui soffoca uno sbuffo divertito con un verso nasale. «Pensavo di essere ridicolo,» la rimbecca, cercando di suonare offeso, ma lei risponde con una risata piena, vivace.

«Solo perché non sei ancora abbastanza svestito.»

Din scuote la testa, per poi premerla delicatamente contro la sua tempia. Un velo bollente gli risale le guance sotto l’elmo, scaldato dal semplice fatto che entrambi non vedono l’ora di ritrovarsi e sentirsi dopo quella giornata fredda e interminabile. Le dà una spinta leggera col capo, trattenendo una risatina.

«Stasera offri tu da bere.»

Lei scrolla le spalle e si limita a stringerlo un po’ più forte, ricambiando il gesto. «Mi sembra giusto,» conclude, premendogli le labbra sotto al mento e guidandolo giù dal portico. Din sorride e le stringe giocoso la spalla, nella cosa più simile a un abbraccio che può darle in queste condizioni.

Poi si addentrano nella neve alta fianco a fianco, verso casa.



 




 



Note dell’Autrice:

Cosa? Cos’era quello? Fluff? ’nne so ’gnente, io. Non l’ho scritto io, ma il mio gatto, giuro.
Scherzi a parte, avevo voglia di un po’ di dolcezza natalizia... e qui c’è la neve, c’è il freddo e ci sono i nostri due idioti spaziali, quindi conta come Natale, ok? Pure se inizia in un bagno di sangue come mio solito :D Il titolo, d’altronde, è un blandissimo riferimento a "Un tranquillo week-end di paura", che vi aspettavate?

Comunque, ciò che succede sulla Crest rimane sulla Crest, chiaro? La verità è che non avevo alcuna intenzione di scriverli come coppia "stabilita", anzi, ma poi hanno iniziato a fare come volevano loro e li ho lasciati a briglia sciolta. È Natale! Stateci! E pensate che forse ci sarà un seguito diretto, se l'ispirazione mi assiste :D E tanto per dirvelo, a parte la citata mini-conclusione, che sarebbe più uno sfizio mio, la trama accennata qui del terrorista su Kijimi ha tutte le possibilità di diventare una bi-shot a parte con finale più "canonico", quindi già potrei avere del materiale. Ne avessi poco... :’)

E con questo, auguro buone feste a tutti voi ♥

K’oyacyi, ner vode!

-Light-

 

   
 
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