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Autore: D a k o t a    28/12/2020    4 recensioni
In cui Dean disobbedisce ad un ordine a caccia.
[teen!chester - John&Dean - 14!Dean]
"Dean cerca di tenere fermo lo sguardo sull’Impala non troppo oltre le spalle di suo padre e di respirare regolarmente. Si impone di mantenere un certo contegno per la prossima serie di rimproveri che verrà - non che si aspettasse altro, non dopo aver infranto la più importante fra le regole di casa."
[Scritta per l'Advent Calendar del gruppo facebbok Hurt/Comfort Italia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Jo, John Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solitudini

Aimez ceux que vous commandez. Mais sans le leur dire. “*

[Antoine De Saint-Exupery, Vol de nuit]

 

Dean cerca di tenere fermo lo sguardo sull’Impala non troppo oltre le spalle di suo padre e di respirare regolarmente. Si impone di mantenere un certo contegno per la prossima serie di rimproveri che verrà - non che si aspettasse altro, non dopo aver infranto la più importante fra le regole di casa.

“Da quando disobbedisci ad un ordine diretto, Dean?”

Sembra una di quelle domande a cui papà non vuole davvero una risposta. Lo è. Continua a concentrarsi sul suo respiro e ha la sensazione che quell’improvviso dolore lancinante nella gabbia toracica non sia dovuto solamente alla non troppo sorprendente incazzatura di suo padre e all’averlo deluso. L’unica cosa di cui può essere felice è che siano nel mezzo del nulla e che Sammy sia da Bobby e non abbia alcun modo di prendere le sue parti e dare vita ad un’ennesima faida familiare.

“Non ti avevo detto di aspettare? Non ti avevo detto di obbedire in qualsiasi circostanza? C’era qualcosa negli ordini che non avevi capito?”lo incalza ancora.

Si trova a deglutire. Quella invece sembra una domanda a cui papà vuole – pretende – una risposta.

“No, signore” risponde.

Ci vuole il massimo del suo autocontrollo perché quella risposta non esca come un rantolo di dolore e perché sia rispettosa al punto giusto, come papà la aspetta - dannazione, non c’è bisogno di scavarsi ulteriormente la fossa.

“Quindi hai deliberatamente disobbedito ad un ordine” conclude alla fine.

Non è una domanda, è una constatazione che si schianta contro di lui con la stessa durezza, che sembra rendere più acuto il dolore che gli avvolge la gabbia toracica.

“Sì, signore”

Il fatto che fosse preparato alla rabbia e a quel principio di delusione negli occhi di suo padre non significa che gli piaccia o gli faccia meno male. Aveva sparato a quel lupo mannaro con tutta la calma e la sicurezza del mondo, non appena aveva visto la belva disarmare John. Più o meno. Per puro dovere di cronaca, quel figlio di puttana era riuscito a sbatterlo contro un albero prima che premesse il grilletto, ma aveva comunque recuperato la pistola prima di papà e -

Sapeva perfettamente che nel mondo di John Winchester esisteva solo il bianco e nero, il giusto e lo sbagliato - e che ciò che andava contro gli ordini, come trovarsi nel mezzo di una colluttazione quando gli era stato detto di aspettare, era sbagliato. Ma sapeva ancora di più che quando si trattava della sua famiglia, nulla era davvero assoluto.

Stringe più forte la mascella. Prende un respiro e si chiede se stia andando in iperventilazione perché sarebbe davvero, davvero fottutamente magnifico svenire solo perché qualcuno ti sta sgridando. Ha la sensazione che più di qualche livido si stia formando sotto la sua maglietta, ma ha quattordici anni e non è davvero niente che non possa gestire.

“Mi aspetto di più da te, Dean. Se ti aspetti qualche complimento o pensi di avermi impressionato con questa mossa, ti sbagli di grosso” gli dice alla fine, e Dean ha la sensazione che uno schiaffo potrebbe fargli meno male. John lo guarda come se si aspettasse una qualsiasi protesta o disobbedienza, ma non c’è nessuna ribellione rimasta in suo figlio. Si avvicina lentamente a Dean. Per un attimo, il ragazzo riesce ad intravedere qualcosa nei suoi occhi che non sa decifrare. Gratitudine? Preoccupazione? Rabbia? Tutte le precedenti?

Qualsiasi sia la verità, quella finestra è già stata chiusa prima che lui possa capire. Suo padre gli si avvicina, appoggiandogli una mano sulla spalla, ed è lì che istintivamente indietreggia, non perché abbia paura, ma perché il suo peso sembra già abbastanza difficile da sostenere senza aggiungerne altro. E’ uno scostarsi impercettibile, ma non abbastanza impercettibile perché suo padre non se ne accorga.

“Sei ferito” osserva. Neanche questa è una domanda e il suo tono non si addolcisce; se possibile, diventa più duro nel vedere che si è persino fatto male disobbedendogli.

Suo figlio accenna una smorfia di calcolata nonchalance. Dopo una piccola pausa di silenzio, ci vuole poco perché Dean capisca che papà non si sta bevendo quella performance.

“Siediti” gli ordina semplicemente.

Il ragazzino esita sotto il suo sguardo, osando poi scostare un lembo della maglia per valutare il danno e scorgere un livido bluastro fra la quinta e la sesta costola a destra.

“Va tutto bene, papà. Non è niente” risponde troppo velocemente.

E’ una messa in scena, lo è davvero. Non è come se non stesse utilizzando tutto il fiato che gli rimane in corpo per affermare di stare bene, alla fine, ma papà ha fatto finta così tante volte di bersi i suoi sto bene, è tutto a posto che spera che si accontenti.

“Stai disobbedendo ad un ordine di nuovo, ragazzo?”

La minaccia sottesa a quella frase non è evidente come John l’aveva pensata, ma è sufficiente perché Dean obbedisca e si sieda sull’erba, alzando la maglietta. Suo padre si china poco dopo, percorrendo con una mano esperta il dorso della sua schiena. Notando il bernoccolo sulla parte posteriore della sua testa, prosegue oltre, tracciando il contorno delle sue costole, fino ad arrivare in corrispondenza dell’ematoma che aveva visto dall’altro lato, sull’addome di suo figlio. Lo sente irrigidirsi.

“Girati” gli ordina poi, per osservare meglio l’ematoma sul suo addome.

Per un solo istante incrocia gli occhi chiari di Dean, prima che il ragazzino torni a fissare il livido o qualsiasi altra cosa al di fuori di esso che non sia lui. Poggia delicatamente le dita sull’area interessata, mentre l’altra mano finisce fra i suoi capelli per un po’. A quel gesto, Dean chiude gli occhi e deve utilizzare tutto il suo autocontrollo per sopprimere un nodo alla gola.

“Va tutto bene, eh? Dovrei aggiungere il mentire alla lista di regole che hai infranto oggi?” lo incalza ancora, ma il tono non è più solido come quello del rimprovero di prima.

Per un lungo momento rimangono immobili e si limitano a guardarsi; gli occhi di Dean sono sfuggenti, quelli di John così immensi e fermi mentre cerca di non distogliere lo sguardo, di non mostrare la paura e il dolore che gli scivolano lungo la schiena paralizzata. La paura di chi ha visto suo figlio braccato, il dolore chi sa di essere la causa prima, la ragione per cui suo figlio era lì, in primo luogo.

“Prendi un respiro profondo, Dean” gli ordina.

Non si sorprende nemmeno un po’, quando nell’obbedire Dean geme e mastica un’imprecazione sottovoce. Dannazione. Sospira nel vederlo contorcersi.

“Hai un livido grosso quanto un uovo dietro la testa. Una concussione, forse” osserva, imponendosi un tono distaccato. “Costole rotte. Non credo che i tuoi polmoni siano collassati, ma potrebbe essere. Sicuramente quelle costole sono la causa delle difficoltà respiratorie. Fa dannatamente male, non è vero?”

Dean annuisce, sforzandosi di guardare suo padre. L’ espressione nel volto dell’uomo sembra impassibile, ma la tensione nella sua mascella è visibile. Poteva vedere dell’emozione, in quella contrazione.

“Va bene. Me lo merito, papà” esala alla fine, in un solo respiro.

Ed è tutto. John sbarra gli occhi a quelle parole, ma è solo un istante. Il suo sguardo si tinge appena di quella punta di tenerezza che raramente rivolge ai suoi figli, mentre la sua mano va sulla guancia del ragazzino per un momento per poi scivolare in una breve carezza – non una stretta – sulla sua spalla. Recupera subito il controllo perduto.

“Dobbiamo andare in ospedale per controllare i polmoni” afferma alla fine, con ritrovata compostezza.

Dean non può non aprire la bocca per protestare e dire qualcosa su come odi gli ospedali e come non ce ne sia bisogno.

“Dean, non ho i raggi X negli occhi e non era un suggerimento” lo anticipa John alla fine.

Un tremito di nervosismo e agitazione sembra scuotere il maggiore dei Winchester.

“E i servizi sociali?” chiede, rivolgendogli un altro sguardo ansioso.

Sono momenti di sguardi e di tocchi sfuggenti. Momenti di illusoria serenità e momenti di puro dolore; momenti in cui Dean lo guarda con quel luccichio negli occhi e quell’espressione per metà timorosa e per metà fiera del suo lavoro quando i suoi tiri vanno a segno e John sorride da lontano, scoccandogli un cenno di approvazione perché dire qualsiasi cosa sarebbe troppo. Sono momenti che cavalcano l’onda di un’esistenza in preda alla follia come la loro, un’esistenza che per non perdersi si racconta nella sua agenda. E poi ci sono momenti come quello, momenti in cui è solo un ragazzino spaventato e il peso di una guerra di cui sono artefici e vittime preme sulla loro schiena.

“Lascia che oggi sia io a preoccuparmi dei servizi sociali, ragazzino” lo zittisce.

Suo figlio gli lancia un’occhiata poco convinta, mentre cerca di rimettersi in piedi. Barcolla nel farlo, ma John lo afferra per un braccio prima che possa atterrare a terra, strappandogli un mugolio. Non può non pensare alla postura rigida di prima, a quanto dolore stava trattenendo.

“Dannazione, cerca almeno di non ricaderci sopra” borbotta, maledicendosi per il modo in cui quella frase esce fuori, più tagliente di come l’aveva pensata.

Dean abbozza un sorriso grave, senza rispondere. Un altro tentativo di camminare dopo, suo figlio quasi gli capitola addosso. Si piega su sé stesso, tremando e tossendo in cerca d’aria, scosso da singulti che sembrano attraversargli il corpo.

“Scusa, papà” borbotta, tra un colpo di tosse e l’altro, arrossendo appena.

John si lascia andare ad un grugnito, prima di afferrarlo e tirarselo in braccio, tenendo una mano all’altezza delle sue ginocchia e l’altra dietro il suo collo, come se pesasse ancora quanto Sammy. Fa attenzione a non fare nessun movimento brusco, a non fare più niente che possa spaventarlo, mentre l’avvolge fra le sue braccia. La protesta di Dean arriva immediatamente e non è del tutto inaspettata.

“Papà!Non ce n’è bisogno. E’ umiliante” sussurra contro la pelle della sua giacca. “Oh, andiamo. Se provi a raccontarlo a Sammy, lo negherò fino alla morte”

John gli lancia un’occhiata ammonitoria ed eloquente, mentre lo sente agitarsi contro il suo petto. Procede verso l’Impala.

“Consideralo parte della punizione” lo riprende bruscamente, anche se non è ben sicuro di come possa punirlo in quelle condizioni. “Cosa ti avevo detto riguardo a cosa sarebbe successo se ti fossi fatto male a caccia perché non mi avevi ascoltato?”

Suo figlio risponde con una smorfia perché ecco, sì, si ricorda.

“Qualcosa riguardo al prendermi a calci nel culo se mi fossi mai fatto prendere a calci nel culo a causa della mia stupidità?”

Suo padre si ferma, scrutandolo per un lungo istante prima di annuire.

“Già, qualcosa del genere” borbotta, riprendendo a camminare.

Nessuno dei due aggiunge altro. Fra di loro si estende un silenzio carico di disagio, che non è nulla a cui non siano abituati. Che, forse, è l’unica costante che suo figlio da una decina di anni conosce. E’ un silenzio che dura per secoli e millenni, in cui intere specie si estinguono e in cui decine di stelle sembrano morire, anche quando dura solo pochi minuti. E’ un silenzio che riduce loro stessi a due solitudini, che a volte si incrociano ma molto più spesso no, in un inesorabile conto alla rovescia.

John apre lo sportello con qualche difficoltà, attento a non procurare alcun dolore ulteriore al maggiore dei suoi figli. Nonostante ciò, nel cercare di aiutarlo a sdraiarsi, quasi non se lo ritrova nuovamente in braccio.

“Maledizione, fa dannatamente male da sdraiato” esclama alla fine, sentendo la necessità di giustificare quella reazione.

John alza un sopracciglio, contrariato, con una mano appoggiata allo sportello. Lo guarda fare fatica nel mettersi a sedere. Ne studia le forzature e le piccole smorfie di dolore, fino a quando Dean non si rivolge nuovamente a lui.

“Ehi, papà?” tenta alla fine, dopo aver preso coraggio. “Io, ecco...io non l’ho fatto per impressionarti”

L’occhiata che Dean gli lancia è talmente limpida da non fargli dubitare nemmeno per un attimo di quello che dice. E vorrebbe dirgli che va bene, che lo capisce – che un genitore esiste per questo, per coprire le fragilità di un figlio. Ma non nel loro universo.

“Lo so” gli concede, osservando il lampo di speranza che illumina suo figlio a quell’ammissione. “Ma non dovevi farlo e basta”

Prima che Dean possa rispondere, si chiude lo sportello alle spalle, per poi aprire quello anteriore dal lato del passeggero e cercare la morfina nel cruscotto, senza soffermarsi sul fatto che le persone normali in realtà non hanno le pasticche di morfina nel cruscotto. Passa la confezione dietro al ragazzo, che è riuscito in qualche modo a sedersi nel sedile posteriore.

“Dovrebbe tenere il dolore sotto controllo, fino a quando non arriviamo in ospedale” puntualizza, passandogliela.

Dean esita, prima di prenderla.

“Era passato troppo tempo da quando mi avevi detto di aspettare dieci minuti. Non me lo lascerebbero tenere se ti succedesse qualcosa” ricorda, e le parole sembrano incastrarsi fra la lingua, i denti e il nodo alla gola. Non c’è bisogno che John chieda chi o cosa non gli lascerebbero tenere. “Hai detto che era pericoloso e ho sentito il bisogno di esserci ancora di più. Non posso lasciare che qualche figlio di puttana distrugga la nostra famiglia così. Papà, lui ha..ha bisogno di te

C’è un “anche io ne ho bisognonascosto in quella frase, una precisazione che non osa pronunciare. Suo padre si lascia andare ad un respiro pesante, osservando la confezione di morfina ancora fra le sue mani. Gli lancia uno sguardo ammonitore, ma non è del tutto sicuro del fatto che non sia anche colpa sua, quello che sta raccontando.

“Dean, te lo dico un’ultima volta. Se non la prendi adesso, non voglio sentirti lamentare fino a quando non arriviamo in ospedale” lo sgrida ancora, anche se con suo figlio maggiore il problema è sempre stato quello contrario: non si lamentava, non si lamentava affatto.

Con un ultimo sospiro, Dean obbedisce. C’è un lieve e ben nascosto moto di orgoglio in John nel notare che suo figlio darebbe la vita per lui e per Sam. Gli passa dell’acqua, per aiutarlo ad ingoiare la compressa. Quando finalmente lo fa, John smette di affacciarsi dal sedile anteriore del passeggero e chiude lo sportello, per poi aprire quello del guidatore, sedersi e mettere in moto.

“Dean?” lo chiama, osservandolo per un attimo nello specchietto retrovisore.

Suo figlio lo guarda, in attesa.

“Non farlo mai più” rinforza, concludendo il rimprovero di prima.

Poi abbassa la voce per concludere.

“Ha più bisogno di te” aggiunge poi, sondando l’amarezza di quelle parole, del modo in cui cozzano fra la lingua e i denti.

Suo figlio si morde un labbro e non risponde. Ha ancora la sensazione che ogni respiro sia una tortura, eppure dopo quella frase non sembra più così importante.

 

 

 

 

 

*”Amate coloro che comandate, ma senza dirglielo”

 

NDA.

La frase che ho inserito all’inizio è una frase di Antoine De Saint-Exupery, contenuta all’interno del libro “Vol De Nuit”, il contesto in cui la frase viene utilizzata è quello dell’aviazione. Personalmente la trovo, con tutto l’angst del mondo, molto calzante per il rapporto fra John e Dean, quindi l’ho inserita. Le recensioni sono sempre gradite.

 

 

   
 
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