Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: RunOnGasoline    12/01/2021    0 recensioni
Sapete cosa si prova nel sentirsi diversi? Non capaci di integrarsi in questo mondo, popolato da anime egocentriche e indifferenti, non capaci di capirti.. e forse nemmeno tu ne sei davvero in grado. Un estraneo, fantasma di te stesso.
E' questo ciò che prova Levi, tornato per pochi giorni nella sua città natale e costretto a incontrare nuovamente vecchie conoscenze. Ma tra queste persone c'è anche Eren, col quale ha sempre condiviso un rapporto speciale, una amicizia che per Levi è sfociata in altro in un processo lento e graduale. Questo è il segreto che cova gelosamente.
E se decidesse che è arrivato il momento di cambiare, crescere?
A volte serve solo un po' di coraggio.
EreRi/RiRen
"Si sentì estraneo, una zavorra. Quasi un parassita, attaccato a un amore che non era il suo. E si odiava per questo. Quando Eren si voltò verso di lui, forse sentendo la sua schiena bruciare sotto lo sguardo intenso di Levi, questi posò nuovamente gli occhi sulla tovaglietta. Combatté l'istinto di accartocciarla e gettarla via, rinunciando alla propria idea. O, peggio ancora, l'istinto di afferrare Eren per il colletto della maglia e baciarlo lì davanti a tutti."
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Un altro passo



Levi osservò attraverso il vetro l'interno del locale. L'arredamento era molto semplice, ma riusciva comunque a trasmettere un senso di calma e serenità. I colori erano vivaci, e nonostante lo spazio ristretto i tavoli erano abbastanza lontani da garantire riservatezza. Fece vagare lo sguardo fin quando non individuò Eren tra le varie sagome all'interno della pizzeria. Inspirò. Espirò. Si fece forza e varcò la soglia. 

 

Venne investito dal chiacchiericcio delle persone sedute ai tavoli, impegnate in conversazioni vuote e sterili di emozioni. Cercò di instaurare un contatto visivo col ragazzo, incapace di fare un altro passo o un qualsiasi altro movimento. Rimase lì immobile, davanti all'ingresso, fin quando Eren non lo notò. Questi poggiò i tre piatti che aveva in mano su un tavolo vuoto e si diresse a grandi passi verso Levi.

 

— Quando sei tornato?, — gli chiese abbracciandolo con vigore.

— Un paio d'ore fa. Ma mi fermo solo per tre giorni, poi devo ripartire. Ho un esame importante e devo ripetere. 

— Vieni… Annie, faccio una pausa di cinque minuti. — La ragazza alla cassa gli rivolse un cenno disinteressato, mentre riportava gli occhi sul suo cellulare. Eren afferrò il polso di Levi, per poi trascinarlo verso un tavolo libero in fondo al locale. Una volta che si furono seduti, prese parola:

 

— Mi dispiace per tua mamma.  Ora come sta?

— Meglio. Non si è fatta troppo male; userà le stampelle per sei settimane.

— Se avete bisogno d'aiuto, chiamami.

— Tranquillo. Si fermerà anche zio da noi. A te invece come va?

— Molto bene. Domani mattina io e i ragazzi pensavamo di farci un giro, vuoi unirti a noi?

— No, sono molto occupato in questi giorni. Credo che mi limiterò a passare qui, e poi me ne andrò.

— Capisco, non preoccuparti.

 

Levi sapeva che l'altro fosse perfettamente conscio del fatto che non fosse per niente occupato. Eren era sempre stato in grado di capire con un solo sguardo o gesto cosa gli passasse per la mente. 

— Come ti trovi con la nuova coinquilina?

— Abbastanza bene, devo dire. È molto disordinata e non pulisce quasi mai, ma non crea problemi. Per il momento mi basta che non distrugga casa e mi lasci studiare in pace.

— È simpatica?

— Parla troppo.

— Chissà perché, tu sei così loquace dopotutto… 

— Non deve riempire i silenzi, deve pagare la sua parte d'affitto.

— Povera Hanji, vuole solo esserti amica.

 

— Piuttosto, tu… come ti trovi con quel Jean?

— Non me l'aspettavo, ma andiamo d'accordo. All'inizio, come ti dicevo, discutevamo sempre. Ora però abbiamo trovato un buon equilibrio. Siamo diventati ottimi amici. Ha stretto amicizia anche con Mikasa e gli altri.

— Bene. Lei come sta?

— Al momento è un po' stressata per gli esami. Ci teneva a salutarti.

— Magari ci vedremo.

— Quando è libera viene qui, per cui è probabile. 

— Bene. 

— Sei stanco?

— Sto bene.

 

— Eren, puoi darmi una mano?

— Arrivo subito, Connie. Levi, torno tra poco. Perché non mangi qualcosa? Ti porto il solito. 

— D'accordo. — Eren raggiunse il ragazzo al centro della sala, mentre Levi continuava a osservarlo da lontano. 

 

Era diventato molto bravo, negli anni. Riusciva a cogliere ogni dettaglio del suo corpo senza farsi notare, a imparare a memoria i suoi lineamenti quando nessuno guardava. Era da tanto che non lo incontrava dal vivo. Gli era mancato. 

 

Gli era mancato il suo sorriso raggiante, quello che era comparso sul suo volto appena lo aveva visto. Gli erano mancati i suoi occhi profondi che gli scrutavano nell'animo, il modo in cui si assottigliavano quando rideva, e come non lo lasciassero per un attimo, mentre gli parlava. Gli era mancata la sua aria pensierosa, con cui si aggirava per il locale. Gli era mancato sentire le sue braccia avvolgerlo per un abbraccio. Gli erano mancate le mani che fremevano dalla voglia di toccarlo, il respiro corto quando si avvicinava, il cuore che batteva veloce quando pronunciava il suo nome.  

 

Si guardò attorno. Non era tornato neanche in occasione delle feste, ed era consapevole che ciò avesse ferito Eren. Aveva tagliato i rapporti con tutti, sempre se si fossero mai potuti considerare tali. Con tutti tranne che con lui. Si era ripromesso di farlo, ma non c'era riuscito, soprattutto a causa della testardaggine del suo migliore amico.

 

Gli aveva scritto ogni giorno, chiedendogli come stesse, raccontando della propria giornata e cominciando discussioni sugli argomenti più disparati, abbattendo pian piano il muro di silenzio che aveva costruito Levi dopo la partenza, mattone per mattone.

 

Avrebbe voluto incolparlo, affermare che fosse stato solo per via di Eren e delle sue insistenze se avesse ceduto, ma sapeva che sarebbe stato ipocrita. Perché la verità era che non aveva mai voluto perderlo.

 

E ora si trovava lì, seduto a un tavolo nella pizzeria dove il ragazzo che avrebbe voluto dimenticare lavorava. La cosa peggiore era che non fosse giunto lì per errore.

Prese il cellulare mentre aspettava, per distendere i nervi. Gettò un occhio, per abitudine, sui vari messaggi che Eren gli aveva inviato. L'ultimo risaliva alle due di notte e citava: "Sapevi che i genitori di Napoleone lo chiamavano Nabulio?".

 

Una mano entrò nel suo campo visivo, depositando una bottiglia di birra sul tavolo. Alzò lo sguardo giusto in tempo per notare il sorriso di Eren, prima che questi si dirigesse in cucina. Si passò una mano sugli occhi, come per cancellare il viso del ragazzo dai suoi ricordi, esalando un sospiro esausto. Prese la birra e ne bevve un sorso; la odiava.

A un tratto il rumore stridulo di una sedia trascinata sul pavimento lo costrinse a riportare nuovamente la propria attenzione dinanzi a sé.

 

— Connie.

— Levi, non mi hai salutato! Come va? Per quanto ti fermi?

— Bene. Poco.

— Domani ti va di…

— Non posso.

— D'accordo. Come sta tua madre? 

— Sta bene ora.

— Me l'ha detto Eren che era caduta davanti al supermercato. Ha chiamato l'ambulanza.

— Lo so, — le idee di Connie per non far morire la conversazione si erano ormai esaurite, dunque con la scusa dei piatti da servire si congedò. Un tentativo vano quello di suscitare l'interesse di Levi.

 

Una coppia seduta al tavolo centrale si alzò, pagò il conto e uscì. Levi aveva seguito i loro movimenti scrupolosamente da quando era arrivato, soffermandosi sulle parole sussurrate durante la cena, sulle loro dita intrecciate in bella vista sul tavolo, su come il ragazzo avesse aiutato la ragazza a indossare la giacca prima di uscire. Sul bacio che si erano scambiati appena la porta di vetro si era chiusa dietro di loro. Ripensò al motivo per cui si era recato in quel locale, ma l'istinto di reprimere quel pensiero prevalse. Osservò la coppia allontanarsi a braccetto nella notte, stretti nei propri cappotti.

 

Una notte simile la ricordava. C'era la stessa umidità, e faceva freddo. Si trovava sul retro della pizzeria, appoggiato al muro mentre fumava una sigaretta. Eren finalmente uscì per la propria pausa, con una felpa sul braccio. Lo ammirò mentre se l'infilava, sfregandosi in seguito le mani per produrre calore. Quando Eren si voltò verso di lui, distolse velocemente lo sguardo portandolo dinanzi a sé. Allungò il braccio verso di lui affinché prendesse la sigaretta. Il ragazzo fece qualche tiro, per poi restituirgliela. Levi la riprese, stando attento a sfiorargli le dita, riportandola tra le sue labbra. Si concentrò per sentire una traccia di Eren in quel bastoncino di tabacco, e quando lo finì ne accese un altro. Passò la sigaretta al suo amico, che sorrideva ignaro verso la luna.

 

Connie poggiò sul tavolo una pizza margherita, augurandogli buon appetito. Levi non rispose, iniziando a tagliarla nonostante non avesse fame. L'ultima volta che aveva mangiato lì era stato poco prima di partire. Si era seduto a quello stesso tavolo con Eren, che passava dal tentare di dissuaderlo all'ordinargli di promettergli di farsi sentire ogni tanto. Levi faceva finta di esserne infastidito, un po' per convincere l'altro a cambiare argomento e un po' per convincere se stesso di esserlo davvero. 

«Devi andare proprio a Sina?,» gli aveva chiesto. «Anche qui puoi studiare Lingue.»

«Voglio cambiare ambiente.»

«E io come faccio a sopportare i ragazzi senza supporto morale?»

«Amici tuoi, problema tuo.»

«E chi ci farà da babysitter?»

«Armin è abbastanza fastidioso.»

«Non sa farsi valere, però. Al massimo Mikasa.»

Levi bevve un sorso di birra, e guardando la superficie legnosa del tavolo mormorò: «Allora è risolto.» In quel momento arrivarono gli altri, e Levi dovette alzarsi per andare in bagno a controllare i risultati delle ultime partite di nascosto, in modo da riuscire a scambiare qualche parola con loro. 

 

Dopo aver finito di mangiare, Levi si rimise il cappotto e fece per pagare.

— Ci ha già pensato Eren, — gli riferì la ragazza bionda alla cassa. Lui si guardò intorno e lo trovò a pulire un tavolo sulla destra. Ormai era giunto l'orario di chiusura, e il locale si era svuotato. Uscì e si appoggiò alla vetrata, aspettando che Eren finisse di lavorare. 

— Allora non sei caduto nella friggitrice, — gli disse con tono canzonatorio, mentre il ragazzo usciva dal locale avvolgendosi la sciarpa al collo.

— Lo avrei preferito. Vorrei vedere te al mio posto, e poi vediamo se critichi ancora, — rispose con una lieve risata.

— Come ti hanno fatto impazzire oggi?

— Il caso più particolare è stata una ragazza che mi ha chiesto se fossi disposto ad andare a comprare della carne perché non voleva la pizza. In una pizzeria.

— Meglio dell'altra volta.

— Intendi quello che voleva che comprassi gli ingredienti…

— Sì, lui.

— L'avrei anche aiutato, ma è illegale. Tu hai trovato lavoro?

— Non ancora. Anche perché cercano sempre persone giovani, ma con esperienza. È un po' contraddittorio, non trovi?

— Pensavo fosse perché le mie storie ti demoralizzassero troppo per proseguire la ricerca.

— Di certo non aiutano. Almeno ho più tempo libero per finire la serie.

— Sei arrivato a quando scopre i poteri?

— Sì, sono a quando partono per la spedizione.

— Ah, ho visto ieri quella puntata.

 

Eren si passò una mano tra i capelli perennemente disordinati, che nell'ultimo periodo erano cresciuti fino ad arrivare poco sotto le  orecchie.

— Forse dovrei tagliarli, — affermò con aria assorta.

— Non volevi lasciarli crescere?, — domandò Levi spostandogli una ciocca dalla fronte. Ne approfittò per accarezzargli i capelli con le nocche nell'atto di allontanare la mano dal suo viso.

— Ero in dubbio. Ho chiesto a Mikasa e lei li preferisce corti.

— Stai meglio così, secondo me.

— Meglio non tagliarli? — Levi immaginò Eren con un filo di barba e i capelli legati, con qualche ciocca che sfuggiva alla dittatura dell'elastico. Fottutamente attraente.

— Probabilmente.

— Allora farò in questo modo, se ti piaccio di più coi capelli lunghi, — gli rispose, accompagnando la sua frase con un occhiolino che fece perdere un battito a Levi. Ignorò la sensazione, cambiando argomento.

— Piuttosto, che ne è stato di quel bar in centro?

— Quello di Aydan?

— Sì, è fallito?

— Già, l'ha comprato quella ragazza bionda.

— Quella che abitava…

— No, l'altra. Quella alta.

— Ah, la sorella del ragazzo che ti aveva chiesto se…

— Sì, ma adesso non spaccia più.

— Non era bravo.

— Per niente. Il suo amico ce l'ha di nuovo con me.

— Come mai?

 

— Pensa che Pixis mi riservi un trattamento speciale perché è amico di mia madre.

— Lo sa che Pixis non si ricorda nemmeno il tuo nome? 

— È sempre talmente ubriaco che mi sorprende si ricordi ancora il proprio. Potresti ricavare una bottiglia di vodka strizzandogli il braccio.

— Quali favori ti farebbe secondo questo tizio?

— Robe riguardo l'affitto meno caro rispetto al suo. Lascialo stare, è un idiota; non si rende conto che il suo appartamento ha tre stanze da letto mentre il mio è un monolocale. Pensa che buttare nei vasi delle mie piante non so quale prodotto chimico per tentare di farle morire possa risolvere in qualche modo la situazione.

— Magari nell'atto di allungarsi per arrivare al tuo balcone cade di sotto.

— Visto il soggetto, potrebbe. E poi mi incolperebbe di aver mosso il balcone.

— Se ti fa qualcos'altro, riferiscimelo.

— Tranquillo.

— Non sottovalutare queste cose. Stai attento a questa gente.

— Levi. Non preoccuparti.

 

Pochi altri passi e giunsero al portone del palazzo dove Eren abitava. Un sorriso sincero era finalmente tornato sul volto di Levi, dopo mesi e mesi in cui gli unici che era riuscito a produrre ne erano solo pallide imitazioni. Sentire il suo amico a distanza e vederlo dal vivo erano due cose profondamente differenti. L'altro aveva già fatto girare la chiave nella serratura, ed era entrato nell'atrio.

— Domani passi?, — chiese con voce incerta, la speranza che Levi non cercasse di porre nuovamente spazio tra loro.

— Alla stessa ora. E prova a farmi arrivare la pizza prima del mio ottantesimo compleanno, questa volta.

— Fottiti, ho sacrificato la pizza di una bambina per te.

— Forse a lei sarebbe piaciuta, era abbastanza rigida da poterla usare come frisbee.

— Ingrato!, — lo accusò, puntandogli contro il dito. Levi rise, per poi distogliere lo sguardo ancora col sorriso sulle labbra, mentre la sua espressione tornava seria. Lo guardò di nuovo e mormorò:

— Grazie, per tutto.

 

Il gesto che Eren fece con la mano gli comunicò che non avrebbe dovuto disturbarsi a pronunciare quelle parole, così inutili tra loro.

— A domani. Cerca di non farti rapire mentre torni a casa; non voglio scuse quali un traffico d'organi umani per giustificare la tua assenza al locale.

— D'accordo. E tu cerca di non farti uccidere nel sonno dal vicino. Chiudi bene la finestra.

— Nel caso, erediterai la mia moto. Tratta bene la dolce Rose.

— Mi occuperò del catorcio. Buonanotte.

— 'Notte, Levi.

 

Quando Eren chiuse il portone, Levi si spostò di mezzo metro, salvo ritornare sui propri passi in tempo per vedere l'altro salire le scale. Poggiò una mano sulla maniglia, ancora fissando la scalinata dall'altra parte, per poi decidersi a tornare a casa. Avvolto dall'oscurità della notte, proseguì il proprio cammino pensando al ragazzo con gli occhi verdi che conosceva da una vita. Altri due giorni, ripeté tra sé e sé.

 

~

 

"Lo spreco della vita si trova nell'amore che non si è saputo dare..."

 

Levi sedeva sul sedile posteriore, la fronte contro il finestrino. Case, strade e persone scorrevano davanti ai suoi occhi, privi di senso. Kuchel si schiarì la voce appena arrivarono alla stazione per attirare l'attenzione di suo figlio, che si limitò a prendere le proprie valigie e incamminarsi verso la fermata in completo silenzio. Mentre Kuchel controllava insistentemente l'ora e gli forniva un elenco di cose da fare nel suo nuovo appartamento in modo apprensivo, Levi lanciava qualche sguardo alle scale poco distanti, chiedendosi mentalmente come avrebbe dovuto muoversi una volta che i suoi amici fossero giunti a salutarlo. Amici tra cui Eren.

 

Si era domandato a lungo se fosse o meno il caso di dichiararsi. Dopotutto stava per andarsene, poteva assumersene il rischio: non l'avrebbe comunque rivisto. Cosa aveva da perdere? Niente, solo… Eren. Se non avesse più voluto rivolgergli la parola? No, era suo amico, il suo miglior amico. Non avrebbe mai potuto allontanarlo. Però… però il loro rapporto sarebbe potuto cambiare per sempre.

 

Degli schiamazzi lo riportarono nel mondo reale, e sentì un nodo allo stomaco. Connie, Reiner e Bertholdt si stavano inseguendo, correndo verso di lui. Levi si alzò, e Kuchel sorrise guardando il figlio che roteava gli occhi alla vista degli amici. Appena questi lo individuarono tra la folla, gridarono il suo nome, fermandosi perché potesse raggiungerli. 

— Per fortuna il treno arriva tra poco.

— Dài, tanto lo sappiamo che sei felice di vederci!, — disse Reiner allungando un braccio sopra le sue spalle, che prontamente venne spinto via.

— Vi avevo detto di non venire.

— Sapevi che saremmo stati qui lo stesso, stamattina. — Eren entrò nel suo campo visivo, Armin e Mikasa dietro di lui. Levi si trattenne dal sorridere alla sua affermazione.

— Invitaci a Sina qualche volta. Lì le ragazze sono più belle.

— Può darsi, ma non ti darebbero retta esattamente come quelle che stanno qua, Connie.

— Quanta cattiveria gratuita, non mi mancherai.

— Ha ragione Levi.

— Ma stai zitto, Bert!

 

I ragazzi presero a discutere tra loro, ed Eren gli si avvicinò.

— Va tutto bene?

— Sì, perché?

— Sei un po' strano.

— Sono stanco. È da stamattina che sento le raccomandazioni di mia madre.

— Sicuro?

— Sì. 

— Sembri… assente.

 

Prosciugato sarebbe stato il termine esatto. Svuotato di ogni emozione. Ma sarebbe tornato se stesso, lontano da lì.

— Davvero, è solo stanchezza.

 

Stanchezza di fingere. Eren fece finta di credergli e gli appoggiò il braccio sulle spalle, dopo avergli dedicato un sorriso rassicurante. Gli accarezzò il braccio per qualche secondo, come gesto di conforto. Levi guardò il suo amico, che guardava la scena davanti a sé. Eren aveva le labbra secche, ci passò sopra la lingua per inumidirle, con un movimento impercettibile. Dannazione. Poi intervenne nella discussione che aveva preso vita nel mentre:

— La finite di fare casino?

— È colpa di Connie che fa il deficiente, — si difese Reiner.

— Io ti avevo detto di svoltare a sinistra. Tu non mi ascolti.

— Perché dici cose stupide. Non sai dare indicazioni!

— Intanto è colpa tua se siamo arrivati in ritardo.

— Sei tu che non sai usare il navigatore, gay.

— Quando tornerai?, — sussurrò Eren al suo orecchio, distraendolo dallo scambio di battute.

— Non lo so, — gli rispose. Preferibilmente mai, avrebbe voluto aggiungere. 

 

Levi pensò che avrebbe potuto chiedergli di parlargli in privato, lontano da tutti. Poteva farlo. Ce l'avrebbe fatta.

— Eren…

— Il treno è arrivato, ti porto dentro le valigie mentre resti un altro po' qui?

— No… no, adesso salgo, mamma. — Eren spostò il braccio per permettergli di andarsene, e Levi avvertì improvvisamente un freddo che prima non aveva notato.

 

Si avvicinò alla madre per rivolgerle un ultimo saluto prima della partenza, per poi andare incontro a Reiner per fare lo stesso, ricambiando la sua pacca sulla schiena; ugualmente fece con Bertholdt e Connie. Dopo aver salutato anche Armin e Mikasa ricambiando i loro abbracci, era rimasto solo Eren. Volendo, c'era ancora la possibilità di chiamarlo in disparte. Solo per pochi minuti. E Levi voleva davvero togliersi quel peso. Andò verso di lui.

 

Un passo. Un passo. Un… no. Si fermò. 

 

Sono degli squilibri ormonali. Violenze, abusi.

 

— Ciao, Eren.

 

Si voltò, lasciando alle sue spalle un Eren meravigliato, quasi deluso dalla improvvisa freddezza dell'altro. Guardando dritto dinanzi a sé, salì sul treno e si sedette al proprio posto. Osservò le sagome dei suoi amici dal finestrino, lo stavano salutando. Anche Eren.

 

Codardo.

 

Il treno si mise in movimento. Con la fronte contro il finestrino, guardava l'orizzonte senza realmente vederlo. Case, strade e persone scorrevano davanti ai suoi occhi, privi di senso.

 

~

 

Levi si era svegliato alle otto e mezza, come da sua abitudine, e si era diretto in cucina per fare colazione. Dopo aver posato una tazza piena di latte e cereali su un vassoio, aveva raggiunto la madre nella sua stanza da letto, dove stava riposando. Aveva poggiato il vassoio sul comodino e si era seduto sul bordo del letto al suo fianco, con un sorriso.

— Come stai oggi?

— Meglio, tesoro. Potevo alzarmi io, non dovevi disturbarti, — gli rispose, carezzandogli una guancia e sistemando il cuscino dietro di lei per sedersi meglio.

— Ti serve qualcosa? 

— Sto bene così.

— Qualche servizio, la spesa…?

— No, a quello ci ha già pensato Eren.

— Eren?

— Sì, — disse Kuchel mentre mangiava i cereali, — è venuto qui a portarmi la spesa due giorni fa.

— Oh.

— Mi ha anche chiesto di te.

 

— E cosa ha chiesto?, — domandò con un fare disinteressato. Sua madre nascose un sorriso dietro al cucchiaio colmo di latte, continuando:

— Mi ha chiesto se stessi uscendo con qualcuno, visto che non gli rispondevi quasi mai. Ti vedi con qualcuno?

— No, nessuno.

— Allora rispondigli. E portami una mela, ho ancora fame.

— Va bene.

— La mela!

— Sto andando!

 

Quella sera iniziò a prepararsi prima, in modo da passare più tempo al locale. Mezz'ora dopo l'orario d'apertura era già lì, al centro di una pizzeria ancora vuota. Connie lo salutò calorosamente, ma Levi si limitò a un cenno con la testa mentre ispezionava l'area cercando Eren. Non vedendolo, uscì e fece il giro dell'edificio, trovandolo finalmente sul retro, poggiato al muro mentre fumava una sigaretta. 

Non disse nulla, avvicinandosi piano e mettendosi vicino a lui, spalla contro spalla. Il sole era calato da un pezzo, ma non c'era lo stesso freddo della sera prima. Oppure sì, ma Levi non ci aveva fatto caso. Non faceva caso a molte cose quando lui gli era vicino. Il ragazzo gli passò la sigaretta, e sebbene Levi avesse smesso di fumare, la prese e la portò alle labbra. Ovviamente i capelli di Eren erano spettinati, come se si fosse appena svegliato da una lunga nottata; non tanto da sembrare disordinati ma abbastanza da conferirgli un'aria da "non mi curo di pettinarli, perché sono figo anche così". L'oggetto dei suoi pensieri gli passò davanti, per tornare a lavoro, e nel farlo gli sfiorò per sbaglio il braccio. Non faceva freddo, ma Levi aveva i brividi.

 

Seduto al tavolo, guardava ammaliato i movimenti di Eren, che a passo svelto serviva i clienti. Indossava una maglia aderente grigia, che metteva in risalto i suoi pettorali, sui quali ricadeva una collana col ciondolo di una chiave. La stessa collana che gli aveva regalato anni prima in occasione del suo compleanno: la portava da allora. Levi non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, controllando a intervalli regolari il resto della sala per assicurarsi che nessuno lo notasse. Gli sembrava quasi di star consumando il tessuto di quella maglietta col solo sguardo. Dannato Eren, coi suoi vestiti stretti. Sentiva salire in sé il desiderio di strappargli quella maglia coi denti. Eren seguitava a passargli davanti, ignorando l'effetto che la sua sola vista provocava in lui.

 

Il ragazzo finì di segnare un ordine sul taccuino, dunque alzò lo sguardo e incrociò quello di Levi. Immediatamente un sorriso si espanse sul volto di Eren, contagiando anche il suo. Il contatto venne però interrotto dal suono della porta del ristorante che si spalancava, rivelando una figura femminile. La ragazza varcò la soglia, togliendosi la sciarpa mentre si guardava intorno. Appena notò Eren gli si avvicinò a grandi falcate, e Levi abbassò la testa, improvvisamente interessato alle scritte sulla tovaglietta di carta. Il rumore successivo provocato dalla sedia di fronte a lui lo innervosì, e si preparò mentalmente allo scontro con Connie; non aveva considerato il dover affrontare invece qualcun altro.

— Ciao, Levi. Come stai?, — la ragazza aveva riposto con cura la borsetta nera e il cappotto sulla sedia, appoggiando le braccia sul tavolo. Lo stava esaminando con la schiena perfettamente dritta contro lo schienale della sedia e uno sguardo quasi materno.

— Bene. E tu, Mikasa?

 

— Anche io, grazie. Tua madre?

— Si sta riprendendo.

— Mi fa molto piacere, spero si rimetta in sesto presto, — gli rispose con un sorriso vero, mentre Levi si sentiva morire. Indossava un vestitino nero, molto semplice ed elegante, con maniche lunghe.

— Ti trovo molto bene, — Era bellissima. Al suo commento la ragazza allargò il suo sorriso con un po' di imbarazzo, evidentemente presa alla sprovvista.

— Grazie. Anche tu sei molto in forma, — Levi non lo pensava, ma annuì in risposta, prendendo un sorso di birra. Era amara, sembrava una medicina. Ma si sforzò di ingoiarla, così come si stava sforzando di proseguire la conversazione. Era a corto di argomenti, sebbene non si vedessero da quasi sette mesi, ormai.

— Ti vedo teso, sicuro vada tutto bene?

— Sì, Mika, non preoccuparti.

— Me ne puoi parlare, — gli disse, avvolgendo la sua mano destra con le proprie con sguardo allarmato. Il problema è proprio che non posso farlo, pensò Levi. Il problema sei tu. Anzi, sono io. E non dovresti impensierirti per me, perché non me lo merito. 

 

Levi ritrasse la mano dalla presa della ragazza, rivolgendole un cenno di scuse per il movimento brusco.

— Non è niente, è solo un po' di stress per la sessione.

— Non parlarmi di esami, la mia professoressa non lascia superstiti all'orale!, — e per fortuna di Levi, la sua bugia riuscì a far cambiare argomento. Certo, con Eren non avrebbe funzionato. Eren avrebbe solo finto di aver lasciato stare, per poi chiedergli nuovamente come stesse dopo qualche ora. Eren lo avrebbe costretto a sputare il rospo, anche con la forza, perché voleva che stesse bene. E lui avrebbe fatto lo stesso a situazione inversa. Con Eren. Si era distratto di nuovo, e non stava più ascoltando Mikasa. A un certo punto lei parve capirlo, quindi riprese possesso del proprio cappotto e della borsa.

— Ti lascio alla tua cena. Devo finire i riassunti, e si vede che sei spossato. Appena avrai voglia di parlare, chiamami.

— Lo farò, — no, non lo avrebbe fatto. Le rivolse un cenno di saluto mentre la osservava allontanarsi. Si fermò fuori dalla pizzeria, in attesa. Eren la raggiunse subito fuori dal locale, cingendole la vita con le braccia. Levi si soffermò sui bicipiti del ragazzo, e sulle forti braccia che avvolgevano il corpo minuto dell'altra.

 

Li guardò attraverso la porta di vetro, e si sentì in colpa. Che diritto aveva di ripiombare nel suo vecchio paese, dopo che aveva deciso di andarsene? Ciò che era stato fatto, era stato fatto. Non avrebbe dovuto tornare indietro; se lo era ripromesso. E invece era lì, a mettere in una posizione difficile ben due persone. 

Due persone che si guardavano con occhi pieni di affetto, che sussurravano abbracciati l'una nelle braccia dell'altro, e che si stavano ora scambiando un tenero bacio. Due persone che si amavano. 

 

Mikasa se ne stava andando, Eren che la guardava allontanarsi e Levi che guardava lui che guardava lei. Si sentì estraneo, una zavorra. Quasi un parassita, attaccato a un amore che non era il suo. E si odiava per questo. Quando Eren si voltò verso di lui, forse sentendo la sua schiena bruciare sotto lo sguardo intenso di Levi, questi posò nuovamente gli occhi sulla tovaglietta. Combatté l'istinto di accartocciarla e gettarla via, rinunciando alla propria idea. O, peggio ancora, l'istinto di afferrare Eren per il colletto della maglia e baciarlo lì davanti a tutti. Toccò coi polpastrelli la superficie ruvida della tovaglietta, col senso di colpa e vergogna che gli faceva mancare il respiro. Sarebbe stato meglio tornare a Sina e lasciarsi tutto alle spalle? 

 

Sospirò. No, ci aveva già provato e non aveva funzionato. Tanto valeva tentare, e togliersi quel peso che opprimeva il suo petto ogni volta che pensava al ragazzo. Gli affollava la mente ogni mattina quando si svegliava e ogni notte prima di spegnere la luce. Non poteva andare avanti così. E se fosse andata male, se non avesse più voluto parlargli… beh, almeno avrebbe avuto dei bei ricordi a cui aggrapparsi. Da custodire gelosamente. Avrebbe potuto dire di aver amato, almeno una volta nella vita.

 

Si alzò, metà della pizza ancora intatta nel piatto. Andò verso Eren, che nel frattempo era stato distratto da Connie, ma si fermò. Il suo amico era girato di spalle, appoggiato allo stipite della porta che dava sulla cucina. 

 

Fece un passo verso di lui, e poi un altro. Gli ritornarono alla mente le labbra di Eren su quelle di Mikasa. 

Si fermò.

 

Andò a pagare, poi uscì e si diresse a grandi passi verso casa. Gli avrebbe mandato un messaggio per scusarsi di non averlo salutato. Eren gli avrebbe chiesto il motivo, e lui avrebbe risposto che aveva la nausea. Quella non era certo una bugia.

 

Era tutto così difficile. Perché? Perché doveva essere così?

 

Codardo.

 

~

 

"...nel potere che non si è saputo utilizzare, nell'egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare..."

 

Reiner gli buttò addosso la maglia sporca di sudore, e Levi di tutta risposta gli tirò in testa la sua scarpa, placando sul nascere altri tentativi di stuzzicarlo. I ragazzi iniziarono a lanciarsi oggetti di varia natura, e a frustarsi con gli asciugamani. Levi roteò gli occhi e si diresse verso le docce. Aprì il getto dell'acqua calda e iniziò a sciacquarsi, per poi girarsi e notare Eren, che si insaponava di fronte a lui. Stava per rivolgergli parola, quando Armin lo precedette:

— Com'è andata ieri con Mikasa?, — chiese, mentre posava il flacone di shampoo sulla mensola.

— Bene. Siamo andati al cinema, e poi l'ho accompagnata a casa. Aspetta che arrivino gli altri e vi racconto, così non mi ripeto.

 

La sera prima Eren aveva chiesto a Mikasa di andare al cinema. Non aveva fatto parola con nessuno di cosa fosse successo, ma Levi aveva già capito. Quando furono sotto le docce, ricominciò:

— In sala non c'era quasi nessuno, e a luci spente dopo un po' ci siamo avvicinati. Quando è finito il film, l'ho accompagnata perché aveva il coprifuoco. Ma nel vicolo vicino casa sua ci siamo baciati.

— Quindi ora state insieme?, — chiese Armin, ed Eren rispose affermativamente, con un sorriso soddisfatto. Tutti cominciarono a fargli domande per scoprire ulteriori dettagli, specialmente riguardo alla parte sul bacio. Levi tentò di smettere di fissare Eren, ignorando il proprio nodo allo stomaco. Finì di lavarsi e uscì per potersi vestire.

 

Come mai il pensiero di Eren che baciava Mikasa lo irritava così tanto? Perché la ragazza gli sembrava così seccante, tutto d'un tratto? Avrebbe preferito non fosse mai successo, ma per quale motivo? Sarebbe dovuto essere felice per Eren, dopotutto era il suo migliore amico. Forse era geloso? E di cosa? Di chi? E perché? Pensò che forse fosse soltanto geloso del fatto che Eren si fosse fidanzato, mentre lui non aveva trovato nessuna ragazza. Ma da quando era interessato alle ragazze?

 

Connie fece cadere per sbaglio i panni puliti di Reiner, appoggiati sull'anta dell'armadietto, sul pavimento bagnato sottostante.

— Ma stai attento, gay!, — lo riprese il ragazzo, sbuffando.

 — Tu metti le cose in bilico, non è colpa mia!, — ma Levi aveva già smesso di ascoltarli. E se tutto quel fastidio fosse dovuto al fatto che non vedesse Eren come un semplice amico? Se fosse lui il gay? Spiò il suo "amico" con la coda dell'occhio, cercando di non farsi notare. Aveva appena finito di asciugarsi i capelli, e stava iniziando a vestirsi. Indossava un paio di boxer neri, che stavano venendo coperti da jeans strappati. Era un bel ragazzo, obiettivamente. Molto attraente. Intelligente. Divertente. Mentre cercava qualcosa nel suo borsone, si stava mordendo un labbro, e Levi venne catturato da quel gesto. Lo faceva spesso, di solito mentre pensava, per poi leccarselo. Aveva delle belle labbra, pensò. Immaginò di baciarle. Riportò gli occhi sul proprio zaino. Perché lo aveva immaginato?

 

— Dopodomani torniamo in palestra?, — domandò Armin.

— Io non ci sono, facciamo venerdì?

— Forse è meglio, giovedì sera dobbiamo uscire con le ragazze e non facciamo in tempo. Torniamo venerdì, così c'è anche Bertholdt.

— Quando dici "dobbiamo uscire con le ragazze", intendi che tu starai con Mikasa per tutta la sera o parlerai anche con noi?, — si informò Connie, innervosendo visibilmente Levi, che gettò il pettine nello zaino con rabbia. 

— Se non vi troverò troppo noiosi, parlerò anche con voi.

— Tanto se non si apparta con Mikasa, si apparta con Levi, — commentò Reiner, raggelando quest'ultimo, che si bloccò con la mano a mezz'aria mentre prendeva la maglia per indossarla. 

— Che intendi?, — domandò fingendo noncuranza. L'idiota non aveva idea della guerra che si stava svolgendo dentro di lui in quel momento.

— Che a un certo punto vi mettete a parlare da soli quando usciamo, e ci escludete.

— Non è vero.

— Eren?

— Beh, non hai tutti i torti, — rispose quello dopo aver riflettuto qualche secondo. Ora ci si metteva anche lui. Aveva una preferenza per Eren, d'accordo. Ma c'era un motivo se fossero migliori amici, no? E magari era per quello che il pensiero di lui e la sua nuova ragazza lo assillava. Sicuramente era per quello. Voleva mantenere quel rapporto, e la tizia lo avrebbe potuto allontanare da lui. Era solo preoccupato.

 

— Stasera vogliamo andare in sala giochi?

— Mi pare sia chiusa il martedì. Andiamo in piazza, mettono la musica.

— Se andiamo al pub incontriamo anche Sasha e le altre, — provò Armin, ma i due lo ignorarono.

— Però dobbiamo evitare mio fratello, va in piazza anche lui.

— Con…?

— Sì, e non la sopporto.

— Hai provato a…?

— Fatto.

— Allora non ti resta che quello.

— Purtroppo.

— Che cosa?, — si interessò Armin, ottenendo il medesimo risultato.

— Stasera portati…

— Lo so, non sono un bambino.

— Te la dimentichi sempre.

— Non è colpa mia se viviamo nel deserto. Di giorno caldissimo e di notte freddissimo.

— Allora legati la giacca alle maglie, così non la scordi.

— Non pensavo ti infastidisse così tanto prestarmela.

— Mi devi tre giacche.

— Te le porto domani pomeriggio quando…

— Va bene.

 

Passarono tutti e tre vicino al parco, venendo invitati da una voce a fermarsi. Historia li raggiunse, sorridendo subito a Levi. La ragazza gli piaceva, era molto dolce ed elegante nei modi. E, con una certa soddisfazione e un pizzico di sollievo, capì di non essere gay. Il fatto che non vedesse spesso suo padre, visto che era un soldato e quindi stava quasi sempre via, non voleva dire fosse gay: la figura paterna ce l'aveva. E suo zio Kenny passava ogni weekend a casa sua. Lo zio gli aveva detto che gli omosessuali fossero tali per colpa di alcuni squilibri ormonali, ma lui era a posto. 

«Ad alcune persone succede, sono squilibri ormonali. Dipende dal modo in cui si cresce, da quello che ti capita. Se subisci dei traumi». Kenny non aveva mai sottolineato comportamenti strani del nipote, e gli chiedeva molto spesso se avesse una fidanzata. Historia era carina, gli piaceva. Dunque lui era etero, senza ombra di dubbio. 

 

— Voi stasera cosa fate?

— Piazza, — disse Levi.

— Posso unirmi?

— Se devi… — Eren gli diede una gomitata.

— Ci farebbe molto piacere. Ti passiamo a prendere o ci vediamo là?

— Potrebbe passarmi a prendere Levi, se può. Abita a un isolato da me. — Il ragazzo annuì, voltandosi momentaneamente a sinistra e incrociando lo sguardo di Eren, che lo distolse subito dopo, come si fosse scottato.

— Allora ci vediamo alle sette e mezza, Levi. Non fare tardi!, — esclamò Historia salutandoli con la mano, mentre ritornava al parco.

Alla fine fu lei a fare tardi.

 

Cinque mesi dopo, Levi era steso sul proprio letto, immerso nel buio più totale. Ascoltava la musica proveniente dal suo cellulare con le cuffie, ripensando alla sera precedente. La sua ragazza, Historia, lo aveva invitato a casa sua per vedere un film. Film che ovviamente nessuno dei due aveva seguito… anche se forse Levi ci aveva provato. Avevano fatto sesso, entrambi per la prima volta. E Levi non capiva come avrebbe dovuto sentirsi al riguardo. Era tremendamente confuso, gli stava venendo mal di testa a forza di ripensare a ogni minimo dettaglio della serata.

 

Historia era una bella ragazza, nessun dubbio al riguardo. Erano stati entrambi un po' impacciati nei movimenti, e abbastanza timidi all'inizio, ma non c'era stato alcun imbarazzo tra di loro. Ed era andata molto bene, considerata l'inesperienza. Allora perché si era sentito a disagio per tutto il tempo? Perché quello che toccava, quello che sentiva, non gli piaceva come sembrava piacesse agli altri ragazzi? Cosa ci trovavano di così bello, i suoi amici più grandi?

 

Si diede dello stupido, quando si accorse del modo distaccato e analitico con cui guardava a quell'avvenimento. Forse non c'era niente di strano, doveva solo abituarsi all'idea; non aveva mai fatto niente di simile. Gli ci era voluto un po' di tempo anche per abituarsi ai baci dopotutto, soprattutto a quelli con la lingua. Anche se forse… No, non era detto fosse per quello. Non erano cose per forza collegate tra loro, no. Non necessariamente.

 

Tolse la musica, cominciava a tediarlo. Stava per cliccare sull'icona dei messaggi, quando optò per quella di internet. Lanciò uno sguardo verso la porta e uno all'ora, per poi concentrarsi su quello che stava facendo: cercare un porno. Scorse in alto e in basso sullo schermo col pollice, annoiato, per poi cliccare su un video facendolo partire. Subito apparsero un ragazzo sui trent'anni e una ragazza più giovane di almeno una decina d'anni. Dopo qualche minuto, Levi spostò la propria attenzione dalla scena in sé al ragazzo. Aveva delle braccia muscolose, non troppo pelose, e gambe toniche. Spalle larghe, sedere sodo, voce profonda. Quella della ragazza era più acuta, quindi i suoi gemiti lo irritavano. Dedicò qualche secondo di attenzione alla ragazza, ma niente di quello che le stavano facendo gli interessava realmente. Osservò il suo seno oscillare su e giù, e si chiese quale fosse l'attrattiva di un paio di tette. Non capiva perché a così tanta gente piacessero: erano solo due sacche di grasso sul petto, e non c'erano così tante azioni diverse da poter fare con esse, no? Non era troppo soddisfacente toccarle, quando lo si aveva fatto già una o due volte.

 

Mise in pausa il video. Uao, questo sì che è gay da dichiarare.

 

Quanto spesso gli capitava di guardare le ragazze per strada? Praticamente mai, doveva ammettere che il suo sguardo cadeva con regolarità sempre sui ragazzi. Non era colpa sua, erano più carini. Come Eren, per esempio. No, non doveva pensare a lui!

 

Per cui, era gay?

 

Sospirò, frustrato, e sbatté il telefono sul materasso, mentre si portava indice e pollice sul ponte del naso. Inspirò ed espirò, lentamente. Quello poteva rappresentare un problema. Il fatto che potesse essere gay, intendeva. O meglio, che lo fosse. Non era il luogo adatto quello, probabilmente neanche le sue compagnie. O gran parte della sua famiglia. E non aveva il coraggio di ammetterlo ad alta voce nemmeno a sé stesso, figurarsi ad altre persone.

 

E poi… c'era il fattore Eren. Lui non gli piaceva… oppure sì. Anzi, decisamente sì. Un'altra ammissione di colpa nel tribunale della sua mente. Se "colpa" si potesse definire. Ma in qualunque modo la si volesse chiamare, "cotta" o "ennesima batosta volta a distruggerlo", era meglio tenerla segreta. Non ne sarebbe venuto fuori nulla di buono, e comunque non sarebbe stato ricambiato. Chissà se sarebbe mai stato ricambiato anche in futuro, in effetti. Non conosceva altre persone con gusti simili ai… suoi. Meglio non mettersi in mostra, comunque. Avrebbe perso famiglia, amici, e ferito la sua ragazza. E non voleva scoprire se avrebbe perso anche Eren.

 

Decise di interrompere quel flusso di pensieri, per il momento, e di prendere un po' d'aria. Sicuramente ci sarebbe stato ancora qualcuno in giro a quell'ora. Alcuni dei ragazzi che conosceva uscivano solo dopo l'una di notte, anzi. Avrebbe preferito evitarli, non in vena di ascoltare le loro idiozie bigotte, ma finì suo malgrado sul retro del supermercato, dove si trovavano Reiner e altri tre ragazzi con cui non parlava quasi mai. Stavano bevendo della birra, che aveva comprato sicuramente il ragazzo seduto al centro, l'unico maggiorenne lì in mezzo.

 

— Levi! Che fai ancora per strada? Domani c'è scuola, dovresti essere tu quello responsabile.

— Mancanza di sonno. 

— Vuoi unirti a noi?

— No.

— Immaginavo, — rispose il suo amico ridendo, non offeso dal prevedibile rifiuto. Levi fece dietro front, ma si bloccò riconoscendo la figura che si stava pian piano avvicinando a loro.

— C'è anche Eren! Mi sembra giusto, ormai viaggiate in coppia anche di notte.

— Sto tornando dalla festa di laurea di mio cugino. C'erano anche i miei, ma gli ho detto che volevo salutarvi. Ho sentito le vostre voci… Che ci fai tu qui?, — chiese rivolgendosi a Levi.

— Non riuscivo a dormire.

 

— Ragazzi, volete una birra?, — si intromise Reiner, afferrando due bottiglie e porgendole loro. Eren declinò l'offerta, aspettando che i ragazzi si distraessero di nuovo parlando tra di loro. Appena la loro attenzione fu interamente rivolta alle migliori marche di birra invece che a loro due, il ragazzo si avvicinò a Levi, in modo che solo lui potesse sentirlo.

— Va tutto bene?, — domandò con un tono carico di sospetto. — Sembri agitato. Perché non riuscivi a dormire?

— Niente di che, tranquillo.

— Sicuro? L'ultima volta che sei uscito di notte è stato quando…

— Sì, lo so. Mamma sta bene, non è quello.

— Allora cos'è?

— Volevo solo camminare per un po'. — Eren lo fissò dritto negli occhi per qualche secondo, e Levi sotto il suo sguardo si sentì irrequieto e rilassato al tempo stesso, mandandogli la mente in confusione per la seconda volta quella sera.

— Appena vorrai dirmelo, ti ascolterò.

 

Levi sorrise, senza accorgersene fin quando non notò l'altro ricambiare. Lo colpì la consapevolezza di quello che stava avvenendo dentro di lui, dei battiti accelerati ora che Eren gli era più vicino, dei palmi sudati e del respiro corto. No, non doveva succedere, andava contro quello che aveva deciso prima: accantonare i sentimenti che provava per lui. Se solo fossi in grado di controllarli, pensò. Doveva provarci. Doveva fingere. E continuando a recitare la sua parte, sarebbe riuscito a ingannare gli altri.

— Passami una birra.

 

Reiner lo guardò attonito, così come Eren. Poi i due si guardarono a vicenda, in una muta richiesta di spiegazioni l'uno verso l'altro. Alla fine, il ragazzo gli passò una bottiglia. Levi iniziò a bere, reprimendo la sensazione di disgusto per il gusto amaro della bevanda. Se la sarebbe fatta piacere. Lesse negli occhi di Eren il desiderio di chiedergli nuovamente spiegazioni, ma il suo amico non proferì parola, probabilmente per non stressarlo ulteriormente.

 

Il ragazzo più grande attirò l'attenzione generale.

— Quella è la macchina della fatina che abita vicino a me, — affermò indicando un'auto color rosso amaranto, illuminandola con la torcia del suo cellulare.

— Chi?, — chiese uno degli altri due ragazzi. — Quello che si veste strano?

— Sì, lui. Ho un'idea: graffiamogli la vernice con le chiavi.

— Perché?, — chiese Eren.

— Così insieme a vernice e pennello va a comprarsi anche vestiti normali, — disse alzandosi e dirigendosi verso l'auto. Gli altri due ragazzi lo seguirono, e Reiner alzò le spalle verso Eren e si avvicinò all'auto sotto il suo sguardo accusatorio.

— Perché te la prendi, ti piace prenderlo?, — continuò il ragazzo.

— No, ma non c'entra. Non vedo perché dobbiate rovinargli la carrozzeria. E poi potrebbe denunciarvi.

— Sì, e come lo viene a sapere? Glielo dici tu?

— Può darsi.

 

— No, non dirà niente, — rispose Levi prontamente, fulminandolo con lo sguardo. Quindi rivolse la stessa occhiata anche all'altro ragazzo, che per un attimo sembrò intimorito. Poi riprese il controllo e parlò per l'ultima volta:

— Quindi, venite o no?

— No, — disse Eren con stizza, mentre l'altro gli rivolgeva un'occhiata derisoria, per poi esaminare Levi con curiosità.

— Andiamo a casa?, — gli domandò Eren contemporaneamente.

 

Levi esitò. 

 

— No, resto ancora qualche minuto.

 

Eren gli rivolse uno sguardo che preferì non interpretare e se ne andò senza voltarsi indietro. Levi fu quasi tentato di raggiungerlo, ma desistette.

— Non mi ha salutato!, — si lamentò Reiner, mentre Levi si avvicinava a loro. I ragazzi iniziarono a lasciare delle strisce sugli sportelli, mentre facevano domande sulla vita sentimentale di Eren. Come se non fosse già stata una giornata pesante, per Levi. Prese le chiavi di casa dalla tasca del giubbotto e le avvicinò all'auto, incerto. Le posò lentamente sullo sportello, e lasciò un primo graffio. Non sapeva se il nodo allo stomaco fosse dovuto alla vergogna o al senso di colpa. 

 

Mentre andava via, ripensò alla scritta lasciata sul parabrezza, a caratteri cubitali. "Frocio".

 

Già, magari sarebbe riuscito a ingannare gli altri. Però non se stesso.

 

~

 

"...e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità." (Oscar Wilde)

 

Levi entrò nel locale spalancando la porta di vetro, e si guardò intorno. Venne investito dal chiacchiericcio delle persone sedute ai tavoli, impegnate in conversazioni appassionate con i loro amici, familiari o amanti. Appena notò Eren, gli rivolse subito un sorriso, indicando il tavolo con un lieve cenno del capo per fargli capire che si sarebbe accomodato.

 

Una volta seduto, osservò la tovaglietta di carta col logo della pizzeria, giocando col bordo in alto a destra. Attendeva che Eren si presentasse, respirando in modo meccanico e cercando di indirizzare la mente verso qualcos'altro. 

— Il solito?, — chiese la causa delle sue notti insonni, non disturbandosi neanche di prendere il taccuino.

— Sì, ma portami dell'acqua liscia, non la birra. — L'altro si allontanò con un sorriso radioso, come se avesse capito qualcosa su Levi di cui questi non si era ancora reso conto. Riportò la propria attenzione sulla sala, gremita di gente, e con un lieve sorriso prese il cellulare dalla propria tasca per ingannare il tempo.

 

A un tratto il rumore stridulo di una sedia trascinata sul pavimento lo destò dall'incantesimo in cui era caduto per colpa di internet.

— Connie.

— Non mi saluti mai quando arrivi, potrei offendermi, sai?

— Preferisco non rovinare la mia giornata, non sono masochista, — dopo le sue parole, Connie portò una mano al petto con fare drammatico e aria oltraggiata. Quindi continuò:

— Stai per partire?

— Sì, domattina. Ho già preparato le valigie e vorrei passare fuori casa più tempo possibile stasera, visto che mio zio non si smuove di lì oggi. Mi dispiace solo dover già lasciare mia madre, ma ho un esame decisivo per la media. — Connie rimase a bocca aperta, colpito in pieno dal fiume di parole a cui non era per niente abituato. Levi stava bene? Aveva la febbre? La sua espressione perplessa suscitò una risata soffocata in Levi, che nascose le labbra dietro il suo pugno chiuso. Tuttavia, il suo amico si riprese in pochi secondi, approfittando subito dell'apparente stato di debolezza dell'altro.

— Domani ti va se ti veniamo a salutare, alla stazione?

 

Gli occhi di Levi persero improvvisamente vitalità, e lo sguardo si fece assente, come se si stesse perdendo in dei ricordi lontani. "E se andasse male?", era l'interrogativo rilegato in un angolo del suo cervello, da quando aveva messo piede in quel locale pochi minuti prima. E ora il dubbio era tornato a divorarlo.

— Forse è meglio di no, l'unico treno è alle otto e voi finite tardi, qui. Anche per gli altri sarebbe pesante. Appena finiti gli esami verrò a farvi visita io, lo prometto.

— D'accordo, — disse quello, riluttante. Aveva comunque raggiunto un grande traguardo quella sera. Finalmente, dopo anni di amicizia, Levi gli aveva rivolto frasi di più di cinque parole che non fossero offese. Avrebbe desiderato non alzarsi, adesso che il suo amico d'infanzia si stava sentendo finalmente a suo agio con lui, ma aveva un lavoro da compiere e dei piatti da servire, dunque si congedò suo malgrado. 

 

Lasciato di nuovo da solo, Levi fece nuovamente vagare il suo sguardo sulla sala, notando Eren fuori dal locale. Dava le spalle alla porta di vetro, mentre discuteva amabilmente con Mikasa. Questa aprì la borsa hobo azzurra, senza distogliere gli occhi da Eren nel processo, estraendo un libro poco spesso che consegnò al ragazzo. Lo salutò con un bacio a stampo e se ne andò di fretta. 

 

Levi avvertì quella familiare gelosia che lo aveva accompagnato per tutta la vita, da quando ne aveva memoria. Ma questa volta non venne repressa, celata, e respinta con tutte le sue forze. Non si accompagnò a disgusto o dolore. Non gli schiacciò le ghiandole lacrimali per farlo cedere di notte, al sicuro nel buio della sua camera. Non gli lacerò i tendini facendolo cadere in ginocchio nel bagno, dopo essersi lavato la faccia per convincersi di non aver pianto. Non afferrò con rabbia il suo cuore per stringerlo tra le dita fino a farlo scoppiare, sbattendogli in faccia che quella felicità, lui, non l'avrebbe mai raggiunta.

 

No, questa volta no. Gli diede la spinta che gli serviva per buttarsi nell'ignoto. Chiuse gli occhi aspettando che il battito tornasse normale, per afferrare poi la penna che si era portato dietro. Poggiò la punta sulla carta della tovaglietta, in un punto libero da scritte e immagini, ed iniziò:

 

"Ho cercato di ingannare me stesso e gli altri per troppo tempo, cancellando il mio vero io per conformarmi a quello che vedevo in giro. Ma ora non ce la faccio più, sono troppo stanco. Quando tornerai?, mi hai chiesto. Quando smetterò di avere paura."

 

Si alzò di scatto, prima che potesse cambiare di nuovo idea, e per la foga quasi si scontrò con Eren che stava rientrando. Gli disse in modo frettoloso che aveva avuto un impegno e doveva andarsene, e uscì dal locale attraversando la porta di vetro. Tirò un sospiro di sollievo, sostando per qualche secondo lì davanti mentre si aggiustava il giubbotto. Respirò a pieni polmoni l'aria serale, cercando di distendere i nervi. Andò sul retro della pizzeria, aspettando l'ovvio arrivo di Eren a fine turno. 

 

La sua mente era completamente vuota, e l'adrenalina lo stava divorando. Era seduto per terra, appoggiato con la schiena al muro dell'edificio. Il cuore gli stava frantumando la cassa toracica, e le sue mani continuavano a cercare una occupazione, torturando il tessuto dei suoi jeans. Appena l'incertezza si palesò nella sua mente, strisciando da serpe qual'era, la respinse con forza, rispedendola nel luogo dove l'aveva confinata prima di mettere piede nel locale quella sera. I suoi pensieri diventarono nuovamente torbidi, e provò a combattere la sua inquietudine ascoltando della musica. Evitando ogni canzone d'amore (dunque la maggior parte), chiuse gli occhi e fece respiri profondi.

 

A un certo punto, una delle sue cuffie scomparve, e fu costretto a riaprire gli occhi, trovandosi davanti quell'orribile e bellissimo essere di cui si era suo malgrado perdutamente innamorato. Si era inginocchiato di fronte a lui, e aveva ancora la mano a mezz'aria con la cuffia tra le dita. Levi si congelò, incapace per la prima volta nella sua vita di rivolgergli la parola. L'alito di Eren odorava di tabacco, il che voleva dire che non aveva rinunciato alla sua pausa sigaretta, optando quindi per l'entrata principale della pizzeria; sapeva che Levi si trovava sul retro, non era andato via come voleva lasciargli intendere.

 

Eren si alzò, tendendogli una mano per aiutarlo. I muscoli di Levi si rimisero lentamente in azione, e il ragazzo uscì dalla propria paralisi. Ignorò la mano dell'altro, rimettendosi in piedi da solo. Riprese la propria cuffia, fallendo miseramente nel tentativo di non sfiorare le dita di quel demonio. Sentì un brivido lungo la schiena a quel fugace contatto, e si maledì per avergli lasciato prendere quella dannata cuffia, che mise subito via insieme all'altra. 

I loro occhi non si erano lasciati neanche per un istante. Ci fu qualche secondo di completo silenzio, che lo mandò in allarme. Eren sembrava lo stesse studiando, aveva assunto quell'aria concentrata che a Levi piaceva tanto. 

 

— Cosa vogliono dire quelle cose che hai scritto?, — domandò finalmente Eren con tono calmo. Levi sospirò, e solo allora si accorse di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo. 

— Tu cosa pensi?

— Non lo so, dimmelo tu. — Pareva intenzionato a farglielo dire ad alta voce, e Levi non riuscì a mantenere il suo sguardo fisso negli occhi dell'altro. Lo rivolse allora a un punto non preciso del terreno, portando i palmi sudati all'interno delle tasche del proprio giubbotto.

— Mi sembravi più spensierato oggi, — aggiunse Eren. — Era da molto ormai che eri… spento. Non so cosa sia cambiato in te, ma spero continui a renderti felice. Mi piace vederti così.

 

Concluse il suo pensiero con un sorriso che racchiudeva tutto l'affetto che nutriva per lui, e Levi sentì i suoi occhi bruciare; dovette chiuderli per un momento per evitare di far uscire delle lacrime.

— Ti devo dire una cosa.

— Lo so. Sono qui ora, ti ascolto.

— Tu… — Non sapeva come dirlo, per cui l'unica soluzione era essere diretti. Se solo fosse così semplice riuscire a tirare fuori dal petto tutti i sentimenti repressi. Quello che provava per lui non poteva essere riassunto in due semplici parole, che al confronto con ciò che sentiva erano tremendamente riduttive e perdevano miseramente. E tuttavia non c'era altro modo per dirlo senza esporsi troppo, e doveva comunicare il suo problema ad Eren in qualche modo. Era quello che si era prefissato fin dal primo giorno, e adesso che il momento era giunto doveva rischiare. Guardò con rinnovato coraggio il suo interlocutore negli occhi, mentre completava la propria frase:

—… mi piaci.

 

La consapevolezza della dichiarazione di Levi e di ciò che a quello era sottinteso colpì Eren in pieno, mentre apriva e richiudeva la bocca per la sorpresa, non sapendo cosa rispondere. 

— Non… ci avevo mai pensato.

— Lo so bene, me ne sono assicurato personalmente, — disse accompagnando le parole con un sorriso forzato.

— Perciò… Sei gay, — iniziò Eren. Voleva parlarne con lui, ma cominciando per gradi. Aveva molto da metabolizzare, e Levi lo capiva.

— Così sembra.

— Quando lo hai capito?

— L'ho sempre saputo, a dire il vero, ma… L'ho realizzato quando avevo più o meno quattordici anni. Mi dispiace se non te l'ho mai detto, ma…

— No, lo immagino. Tranquillo. Chi altro lo sa?

— Nessuno. Sai che rapporto ho con gli altri, e com'è la mia famiglia.

— Sì… Mi dispiace, — commentò l'altro con tono apprensivo.

— Mi ci sono abituato, non c'è bisogno di allarmarsi; e poi non è colpa tua. E comunque penso che mia madre lo sappia, ma preferisco non parlarle della mia vita privata.

 

Eren lo stava guardando con estrema attenzione, come se stesse cercando di scorgere in lui i pezzi per completare il puzzle che gli si era creato nella testa. 

— Hai frequentato qualche ragazzo?

— Ti ricordi Samantha?

— Quella del…

— No, la tipa del mare.

— Ah, la ragazza che poi…

— Sì, lei. In realtà era Samuel.

— Samuel?

— Già.

— Anche le altre?

— Tutte quelle che non avete visto di persona, sì.

— E ti piacevano molto? — Levi alzò un sopracciglio, non comprendendo la finalità del quesito.

 

— Abbastanza. Perché?

— Curiosità. Adesso sei fidanzato?

— Forse ti sfugge il punto della questione.

— Ah, vero. Allora sei stato con qualche ragazzo.

— Qualcuno. 

— Ma sei stato anche con delle ragazze.

— Due, sì.

— E non ti è piaciuto?, — all'occhiata colma di disgusto di Levi, si affrettò ad aggiungere: — No, certo che no. Che domanda stupida.

 

Si abbandonarono a una leggera risata, che insieme all'aria portò via dal loro corpo anche ogni traccia di imbarazzo, facendoli sentire nuovamente a loro agio.

— Non cambia niente per me, lo sai questo?

— Lo so, ma… non era per quello che avevo paura di dirtelo.

— Sì… Giusto. — Tornò subito la perfida tensione tra di loro, e Levi prese a torturarsi il labbro inferiore con i denti.

— Da quanto ti piaccio? — Dalla voce non sembrava nauseato, arrabbiato o canzonatorio.

— Da troppo.

— Potrei quasi offendermi.

— È anche grazie a quello che ho capito di essere gay, Eren.

— Ora va meglio, grazie. — Per qualche istante si guardarono, e Levi dovette appellarsi a tutta la propria forza di volontà per impedire ai propri sentimenti di rompere la campana di vetro sotto cui si trovavano e uscire allo scoperto.

 

— Senti, non so cosa dire, sinceramente. Io sto con Mikasa.

— Ne sono consapevole. Ma dovevo confessartelo.

— Questo lo so, però… Sono confuso. Non me lo aspettavo.

— Lo so.

— Ho bisogno di tempo per…

— Lo so.

— Non voglio ferirti.

— Lo so.

— L'ho già fatto, vero?

— Che intendi?

— In passato. Ti ho ferito? — A questa domanda Levi non sapeva come rispondere, era stato preso alla sprovvista. Tutte le volte in cui Levi aveva immaginato quella discussione, non aveva mai pensato che Eren potesse preoccuparsi degli anni in cui era stato all'oscuro dei sentimenti del proprio amico.

— Non… Cioè, qualche volta… Ma non potevi saperlo, — borbottò in risposta.

— Mi dispiace molto. Ci sarei dovuto arrivare, perdonami.

— No, ma che dici… — La situazione gli stava sfuggendo di mano, si schiarì la voce. — È normale che tu non ci abbia pensato, non te ne ho mai fatta una colpa. Mi sono impegnato affinché tu non lo capissi. 

 

Nella mente di Eren stavano vorticando chissà quali pensieri, così Levi decise di attirare nuovamente l'attenzione su di sé e darci un taglio.

— Volevo solo dirlo finalmente a qualcuno, ad alta voce. Non mi aspetto niente, possiamo ritornare allo stesso identico rapporto che avevamo prima. — Forse aveva detto qualcosa di sbagliato, perché adesso Eren sembrava inviperito.

— Tu pensi che io sia il tipo di persona capace di calpestare i sentimenti di qualcun altro?

— Non ho mai detto questo.

— Come posso semplicemente dimenticare quello che mi hai detto? — La frase ebbe lo stesso effetto di una pugnalata ai reni. Tutti i mostri rilegati in quell'angolino della sua mente aggredirono Levi con vigore, lacerandolo dall'interno.

— Vuoi troncare l'amicizia?

— Sei impazzito? Ovvio che no.

— E allora cosa pensi di fare? 

— Non lo so, fammi pensare! 

— Dimmi solo che non mi ricambi, — disse Levi sentendo la sua voce venir meno. Eren lesse la paura nei suoi occhi, e provò ad avvicinarsi.

 

—Levi…

— Di' qualcosa, qualsiasi cosa. Non hai la minima idea di quanto mi costi espormi così. Almeno questo me lo devi, — disse tutto d'un fiato, a voce bassa. — Per favore, — aggiunse, mordendosi l'interno della guancia. 

Eren era arrabbiato, triste, stordito. Il suo sguardo vagava su Levi, non lo aveva mai visto così. Era il ragazzo sicuro di sé, scontroso e di poche parole, e anche se ad Eren era permesso vedere il suo lato più debole, non lo aveva mai visto così vulnerabile come quella sera. Temeva di dire la cosa sbagliata e perderlo per sempre.

— Tu sei importante per me, ma non credo di poter ricambiare. Possiamo restare amici? Ho bisogno di te.

 

La realtà investì Levi facendolo strisciare sull'asfalto con violenza, e lui non seppe proteggersi dall'urto. Si morse con forza il labbro mentre guardava con forzato interesse le sue scarpe, respingendo con tutto se stesso la voglia di crollare a terra per piangere e urlare. Sapeva che sarebbe successo, ma una parte di lui aveva provato a illudersi, aggrappandosi a una piccola speranza che adesso era stata spazzata via. Eren si avvicinò con cautela e lo abbracciò, e il suo corpo reagì subito facendolo respirare in modo meccanico mentre gli veniva la pelle d'oca. Si odiò per questo. La frase di Eren si ripeteva più volte nella sua testa, irritandolo. Non posso ricambiare, ma ho bisogno di te. Lo aveva ucciso e fatto rinascere, Levi aveva respinto i suoi sentimenti solo per vederseli tornare incontro più forti di prima. Si odiò anche per questo. Spinse via con forza Eren da sé, puntandogli gli occhi umidi ma infuocati addosso.

— Levi…

— No. Se sento un altro "mi dispiace" ti strangolo. 

— Sono sincero, va bene? Non voglio che te ne vada. Non voglio che questo finisca per una stupidaggine. — E dall'espressione dell'altro, Eren capì di aver detto la cosa sbagliata.

 

— È una stupidaggine, per te?

— Non è quello che intendevo, mi sono espresso male!

— Vattene.

— Aspetta, fammi spiegare!

— Voglio stare da solo. — L'ira riprese il sopravvento in Eren, non disposto a separarsi ancora da Levi.

— No.

— Invece sì.

— Non posso mandare tutto all'aria, Levi!

— Non ti ho mai chiesto di farlo!, — gridò Levi, dandogli un altro spintone.

— Che ti è preso adesso?!

— Come ti aspetti che reagisca? Dopo che mi hai spezzato il cuore puoi almeno andartene!, — un altro spintone, questa volta Eren lo ricambiò.

 — Avevi detto che saremmo potuti essere amici!

— Perché non capisci? Voglio solo stare da solo adesso. Lasciami in pace. 

— Perché fai così? Lo sai che ho una fidanzata!

— Perché faccio così? Perché tu fai così!? Non ti sto dando colpe, voglio solo che tu te ne vada.

 

Levi non stava mentendo, era disposto a farsene una ragione ora che almeno sapeva e l'impossibilità di avere una relazione era palese. Ma aveva bisogno di tempo per autocommiserarsi in privato, e questo Eren glielo doveva. Non poteva affrontarlo col rischio di andare in rovina davanti a lui. Ma il ragazzo non aveva ceduto alle sue richieste, cercando di afferrarlo. Levi si oppose con forza, e i due iniziarono a spingersi con forza, fino a passare ai pugni. Il primo fu di Levi, in un disperato tentativo di far passare il messaggio per l'ennesima volta. Eren incassò, sconcertato dal gesto, che imitò nel tentativo di difendersi. Continuarono a colpirsi, sfogando così tutte quelle emozioni troppo forti per essere espresse a parole. Continuarono a colpirsi, e ad ogni pugno si sentivano paradossalmente sempre meglio, liberati dalla frustrazione. 

 

Eren spinse con violenza Levi contro il muro, stringendo con forza i suoi polsi e bloccandolo sotto il suo peso. Levi provò a dimenarsi, ma venne colpito all'improvviso dalla consapevolezza della vicinanza dell'altro, e sentì venir meno le forze, mentre incatenava per l'ennesima volta i loro occhi. Eren lo fissava con uno sguardo indecifrabile, non muovendosi di un millimetro e non smettendo di stringere i polsi dell'altro. Così, bloccato al muro, Levi non riuscì a impedire che una lacrima sfuggisse al suo controllo, lasciandola scivolare sul suo viso fino al mento. Eren liberò uno dei polsi di Levi, per poter raccogliere col pollice quella lacrima e asciugargli la guancia. Poggiò la mano sul collo di Levi, continuando ad accarezzargli la guancia col pollice. Anche questa volta si erano guardati negli occhi per tutto il tempo, senza dire una parola. Si fissarono per qualche secondo, finché Eren non posò le labbra su quelle di Levi. Questi lo spinse via con violenza, sbigottito e turbato. 

 

Eren non disse nulla, e la sua espressione non lasciava intuire alcunché. Levi guardò altrove e si toccò le labbra smarrito, rimanendo immobile per qualche secondo. Poi i suoi occhi scattarono sull'altro, allarmato; aveva paura di leggere in lui ribrezzo. Non fu così. L'espressione di Eren era immutata. Era enigmatica, ma Levi non ne fu intimorito. Lo conosceva abbastanza bene da non esserlo. Erano rimasti così, distanti, ma sembravano legati l'uno all'altro. 

 

Levi si ricordò di quella frase di Oscar Wilde che aveva letto una volta, della "prudenza che aveva impedito di rischiare e aveva fatto mancare la felicità". E dopotutto com'è che si diceva, carpe diem, no?

 

Levi fece un passo. Poi un altro. Un altro passo.

 

Afferrò il giubbotto di Eren e lo tirò a sé, facendo scontrare le loro labbra. Eren lo avvicinò prendendolo per la vita, mentre Levi portava le mani al volto dell'altro. Iniziarono a divorarsi, mordendo e succhiando le labbra l'uno dell'altro, avvolgendo le loro lingue, e continuando a stringersi, sempre di più, cercando di diventare una sola cosa. Le mani vagavano sui corpi, aprendo i giubbotti e infilandosi sotto le maglie per poter toccare quanta più pelle possibile. Avevano bisogno di sentire il calore dell'altro, di sentirlo vivo sotto il proprio tocco. Le dita scomparivano tra i capelli, tirandoli per avvicinarsi ancora di più. Si baciarono per minuti interi, per poi riprendere fiato e baciarsi di nuovo. La bocca, la mandibola, il collo. L'importante era sfogare quelle emozioni. L'importante era sentirsi vivi.

   
 
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