Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 26.10.2021
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Capitolo
Ventitreesimo
20-21
settembre 1511
Il
soldato francese e Lussìa si fronteggiarono intensamente con
lo
sguardo, sfidandosi a vicenda a fare il primo passo.
La
contadina si stringeva il pesante scialle dall’interno,
nascondendo il ventre rigonfio e ingobbendosi a guisa di
un’aggressiva gatta
messa all’angolo, rifiutandosi sia d’abbassare
timorosa gli occhi sia di
spogliarsi di sua iniziativa. Anzi, sperava che l’uomo
s’accontentasse di
sollevarle le sottane e di montarla da dietro cosicché non
s’accorgesse del suo
pancione e al contempo non la costringesse a contemplare il suo brutto
muso,
intanto che si pigliava il premio del vincitore.
Il
soldato avanzò infine verso di lei e Lussìa
s’impose di non
indietreggiare né di mostrare paura: per esperienza sapeva
che opporre
resistenza peggiorava la situazione, meglio che si sbrigasse e poi
morta là.
L’uomo sbiascicò qualcosa, ciondolando un poco e
pur non comprendendo l’idioma,
la giovane intuì costui esser piuttosto alticcio il che la
rassicurò, non
durando a lungo gli ubriachi.
La mano
di lui l’afferrò lo scialle, strattonando per
toglierlo e
trovando invece una fiera opposizione in Lussìa, che pur
rassegnata
quell’indumento proprio non se lo voleva togliere;
l’uomo impiegò dunque
maggior forza, applicando pressione sulla spalla di lei e a seguito di
due o
tre brusche tirate glielo cavò di dosso, al che la contadina
di riflesso si
piegò in avanti, voltandosi acciocché
quell’altro ben capisse come doveva
concludersi la faccenda. Purtroppo quegli voleva possederla in altro
modo e la
girò ruvidamente, afferrandole i polsi e con malgarbo
aprì le braccia poste a
protezione del suo ventre, rivelandogli alla fine il suo segreto.
Un
pesante silenzio s’insinuò tra loro due e
Lussìa tremò da capo
a piedi, un doloroso groppo in gola le impediva di respirare, in
timorosa
attesa di una qualsiasi reazione da parte del soldato, pregando la
Madonna
avesse questi pietà di lei e del piccino.
Una
sfilza di sibilanti improperi francesi fuoriuscì dalla bocca
del soldato, neanche l’avessero gabbato in un cattivo
acquisto alla fiera degli
animali. Ghermitala per le spalle, la scosse feroce, le chiese
diossacché e le
rifilò poi un tal manrovescio che Lussìa vide
nero e giallo e gustò in bocca il
sapore metallico del proprio sangue. Stordita e indietreggiando tra un
incespico e l’altro, ella si lasciò dolcemente
cadere per terra. Lì stette,
immobile, il mondo roteantele attorno. Udì i passi del
francese, lo snervato
fruscio della tenda che s’apriva e si chiudeva; la ragazza
avrebbe voluto
balzare in piedi e fuggire via, purtroppo le vertigini ebbero la meglio
e lei
chiuse sfinita gli occhi dopo esser strisciata sul fianco sotto il
tavolo,
cedendo alla stanchezza sia fisica che mentale.
Quando si
ripigliò, quell’atroce notte ancora non era
terminata e
non doveva infatti esser trascorso tanto tempo
dall’involontario alterco col
soldato, ché infatti quest’ultimo era ritornato
proprio nel momento in cui
Lussìa riapriva circospetta un occhio, fingendo
d’esser ancora svenuta.
L’uomo
giungeva in compagnia d’un’altra donna, totalmente
dimentico, nel suo stato ebbro, d’aver scordato di riportare
indietro Lussìa.
Evidentemente si sentiva defraudato per quel suo raccattare una donna
incinta,
giudicandola troppo grassa e gonfia e per questo facendogli
impressione,
chissà.
La
giovane contadina riconobbe a stento Zanze nella sua sostituta:
i capelli scarmigliati senza velo, la gonna lorda di fango e foglie e
sulla
schiena s’intravedevano delle strisce rosse esacerbate dal
biancore della
camicia. Una serie di lividi sparsi le ricopriva buona parte del lato
destro
del viso, il labbro superiore gonfiatosi per via d’un taglio
e croste di sangue
permanevano sotto il naso. Il soldato, onde sbrigarsi, le
strappò dal mezzo la
camicia, liberando i seni e Lussìa notò ecchimosi
anche sul petto e sulle
braccia, così come sulle gambe quando all’amica
venne sollevata la sottana, una
volta spinta supina sulla branda.
Un conato
di vomito le bruciò in gola, quando il francese
coprì la
contadina col suo corpo, grugnendo la sua soddisfazione. Poi,
l’idea.
Zanze
fissava immobile il soffitto della tenda, astraendo lo
spirito dal corpo e permettendo che volasse leggero in un qualsiasi
luogo così
da non curarsi di quanto avveniva, relegandolo nel dimenticatoio. Aveva
imparato a sopportare tali copule sin da ragazzina: sua madre, morto il
marito
di febbre malarica, aveva fatto San Martino [1] ed era ritornata dalla
sua
famiglia d’origine, rimettendosi alla decisione di un suo
zio, il nuovo
capofamiglia. Zanze, la maggiore della nidiata, aveva pagato il tributo
al
posto della madre, troppo sformata dalle gravidanze e poco appetibile
rispetto
alla carne fresca di una dodicenne. Il prozio aveva atteso che lei
fosse un
pomeriggio andata ad urinare in un angolo e, prima che lei potesse
riabbassarsi
le cottole, l’aveva spinta in avanti e così
deflorata – ultima arrivata in
famiglia, ultima nel branco, nella gerarchia. Zanze era stata
così contenta
quando il padre di Arrigo era venuto in ambasciata per chiederla in
moglie al
figlio (in fin dei conti era carina, robusta, lavorava alla pari
d’un uomo); perfino
le aveva accordato di portare con sé Zuaneta, grazie a Dio
ignara di tutto.
Aveva creduto la contadina finalmente di trovare in Arrigo la
protezione
ch’aveva sempre sognato, il suo compagno e padre dei bimbi
che tanto voleva.
Invece, il terremoto del marzo scorso glielo aveva ucciso, sepolto
sotto le
macerie della loro casa e dall’indescrivibile paura la
contadina aveva avuto un
parto prematuro, il piccino nato morto.
Solo
Arrigo lei aveva accolto con gioia nel suo corpo, mentre il
resto null’altro se non passeggere incombenze da sopportare,
questo francese
incluso. Purché non la picchiasse o la violentasse fino a
bucarle lo stomaco,
ben inteso.
Zanze
girò casualmente la testa su di un lato, piombando
all’improvviso nella realtà. Strabuzzò
gli occhi, incredula di ritrovare la sua
amica Lussìa in un angolo, la quale si stava lentamente
alzando, l’indice alla
bocca intimandole silenzio e dissimulazione. Tra le sue mani penzolava
una
corda, che la giovane incinta arrotolò ad esse e la tese a
mo’ di cappio. Zanze
trattenne il fiato, stringendo il bordo della branda in anticipazione.
In un
balzo, Lussìa cinse il collo del soldato da dietro, serrando
e incrociando la corda sulla nuca; pose un ginocchio sulla schiena
dell’uomo e
tirò all’indietro acciocché le fibre
sfrigolando gli mordessero la carne e la
pressione esercitata alla gola gli ostruisse le vie respiratorie fino a
farle
cedere. D’istinto il francese tentò subito di
divincolarsi, Zanze però gli
pigiò i pollici negli occhi, cingendolo con le gambe per la
vita e
intrappolandolo contro di sé. La tenda si riempì
d’ansimi e grugniti,
imprimendo le donne ogni forza a loro reperibile onde sopraffare
l’avversario,
in una gara di resistenza che rasentava quasi la tauromachia. Il
francese,
paonazzo in volto, emise uno strano gorgoglio e poi cacciò
fuori la lingua,
afflosciandosi per terra ai piedi delle due contadine, le quali non
emisero
alcun suono se non quello d’ansimare pesantemente,
contemplando pietrificate
quanto appena commesso.
“Xélo
morto?”, inquisì infine Zanze, rimettendosi seduta
e
nettandosi meccanicamente tra le gambe.
Lussìa
si passò sulla sottana le mani umide di sudore e graffiate
dalla corda. “No”, rispose, accovacciandosi sul
soldato tramortito.
“Sempia!”,
strillò preoccupata l’amica, cercando
freneticamente un
coltello, un pugnale, qualsiasi cosa per terminare il lavoro incompiuto.
“Sbassa
ea vose!”, l’intimò perentoria
Lussìa, al che Zanze si
calmò subito, rendendosi conto della situazione e di come
fosse consigliabile
non farsi scoprire. “Nol gh’ho copà no
perché me despiase par elo, bensì
perché
chome femo col sangue? Non sastu poi co’ uno more, el se caga
e pissa ‘ndosso?”
L’altra
contadina annuì incerta, non afferrando il senso di quella
frase. Glielo spiegò l’amica che, rigirando il
francese, prese a slacciargli la
casacca, gettandola sulla branda ad operazione terminata e destino
analogo
riservò al resto dei vestiti, braghe e scarpe comprese.
“Vestate”, le ordinò e
il viso di Zanze s’illuminò di comprensione.
Lussìa
l’aiutò a stringere alla bell’e meglio
il seno coi resti
della camicia strappata e ad indossare gli abiti del francese, brigando
quanto
più in fretta poté a stringere i lacci almeno del
corsaletto onde conferire
all’amica un’impressione più
militaresca. All’inizio Zanze si sentì un poco
vacillare sotto il peso di tanti strati, per poi bilanciarsi avendo
infatti
trasportato gerle di legna assai più pesanti. Raccolse in
una stretta crocchia
i capelli e indossò l’elmo e poi il mantello,
ficcando un lembo di lenzuolo
strappato nella braghetta per completare la sua virilizzazione. Il
tutto con le
orecchie sempre tese e un occhio puntato all’entrata della
tenda.
“Scoltame
ben, do parolle de franzese mi gh’ho imparà en sto
campo: Mal e Pest; se
ze fermano, ti te va
dirghele e te me mostri”, l’istruì,
appallottolando della terra e cenere dal
braciere con un po’ d’acqua. Ottenuta la strana
polpetta, Lussìa se l’applicò
alla gola: grazie al buio, Deus volente, nessuno sarebbe stato capace
di
distinguere quel petaisso dai bubboni della peste. Un po’ di
cenere la cosparse
anche sul volto dell’amica, per darle la sembianza di
un’ombra di barba.
“Mal
… Pest … Mal … Pest
…”, ripeteva intanto Zanze, memorizzando
le parole chiave in caso le avessero fermate e interrogate.
“Pì
mas-cia ea vose: Mal! Pest!”
“Mal!
… Pest! …”
Lussìa
schioccò la lingua in approvazione.
“Ch’Idio e la Madona
zea manden bona!”, s’augurò, segnandosi
tre volte. “Sistu pronta?”
“N’atimo”,
si concesse Zanze un ultimo sfizio, aprendo le gambe
del soldato e, tenutolo per le caviglie, di tacco gli pestò
i gioielli di
famiglia: troppo stordito dall’urlare, il francese tuttavia
convulsò
violentemente. La contadina gliene elargì un altro, giusto
per assicurarsi che
soffrisse peggio d’un cane alla sua prossima erezione.
Dopodiché gli sputò
sopra e calciandolo lo nascose sotto la branda, coprendo il tutto con
la
coperta. “Demo”, ritornò
dall’amica, che simulò un mancamento tra le sue
braccia.
Lussìa
aveva previsto giusto: l’aria di sgavazzo aveva reso la
maggior parte dei soldati piuttosto distratta e ai loro occhi alticci
dalla
tenda uscì il loro compagno, trasportante per il braccio la
prigioniera
semisvenuta. Incoraggiate pertanto da tanta negligenza, le due donne
puntarono
verso il bosco nella speranza di lì sparire per imboccare in
seguito la strada
per Treviso, trascinandosi circospette tra le tende, evitando luoghi
affollati
e soprattutto le torce. Zanze teneva il mento quasi al petto e di fatti
era
Lussìa che con discrezione la guidava. Arrivarono
miracolosamente ignorate al
limitare dell’accampamento … ancora qualche passo
…
“Hé,
voi due! Dove ve ne andate di bello?”
Le
fuggitive gelarono sul posto, non soltanto per l’esser state
notate bensì nel riconoscere l’idioma italiano,
che pur non conoscendo alla
perfezione, potevano comprendere il significato globale.
“Furbastro,
te ne scappi con la villana, eh? Non sai cos’ha
ordinato il maresciallo? La forca a chi diserta!” e i suoi
occhi luccicarono di
delizia alla prospettiva d’assistere a tal spettacolo.
Zanze si
voltò lentamente, pur seguitando a celare il viso. O la
va o la spacca e gli animali lei sapeva sgozzarli.
“Mal”, grugnì in una voce
profonda e gutturale. “Mal!”
“Cosa?”,
sbatté confuso le palpebre il mercenario.
“Mal!”,
ripeté enfatica la giovane. “Pest!”
L’uomo
balzò terrorizzato all’indietro, specialmente
quando Lussìa
incominciò a tossire rumorosamente e a raschiarsi ben bene
la gola, sputando e
battendosi il petto, intanto che l’amica le scopriva
velocemente il collo.
“Se
davvero c’ha la peste, ammazzala o portala in infermeria, che
diamine! Tanto quelli là hanno già dentro un
piede nella fossa … un morbo in
più uno di meno … magari crepano prima
…”, protestò il soldato, spintonando le
due donne in direzione dell’Abbazia.
“Pest!
Mal!”
“Ho
capito, ma portala in infermeria a farla vedere!”,
sbraitò
frustrato l’uomo. “Cretino d’un francese!
Bah, vi ci conduco io, sennò
c’impesti tutti di qualsiasi cosa si sia presa quella
troia”, borbottò iroso,
pungolando la schiena di Zanze con la punta della spada, seppur al
sicuro nel
suo fodero, sia per spronarla ma anche per tenere una certa distanza di
sicurezza tra loro. Meglio, giudicò lei, così non
l’avrebbe guardata in viso.
Fra’
Anselmo aveva appena terminato l’ennesima corona del rosario
e si preparava alla sua ronda notturna, quand’ecco che dalla
porta
dell’infermeria entrò un curioso corteo di gente:
un soldato francese, uno
italiano, una donna piuttosto malconcia e due stradioti di Mercurio Bua
che
osservavano incuriositi dall’uscio, sporgendosi
all’interno.
“Ebbene?”
apostrofò il monaco quello che poteva capire la sua
lingua, indicando tuttavia la giovane tra le braccia
dell’altro soldato.
“Ho
pizzicato ‘sti due al limitare del bosco. Sostiene che
‘sta
qua abbia la peste, ma non ne sono sicuro, le pustole mi paiono un
po’ strane
…”, gli spiegò concitatamente il
mercenario e alle contadine mancarono qualche
paia di battiti cardiaci quando il benedettino, alzatosi dalla sedia,
esaminò
clinicamente spassionato sotto la gola di Lussìa.
“Infatti
non è peste, bensì una vescica
sanguinolenta”, sentenziò
solenne Fra’ Anselmo, appoggiando la candela
e lavandosi le mani.
“Contagiosissima in caso dovesse esplodere. Bravo, hai ben
pensato a portamela
qua.”
Malgrado
il complimento assai lusinghiero, il soldato non appariva
totalmente convinto. “Le vesciche sono
contagiose?”, domandò scettico.
Il
benedettino piegò con studiata lentezza
l’asciugamano. “Sei tu
forse medico?”, replicò garbatamente intimidatorio.
“No.”
“Hai
studiato a Padova?”
“No.”
“E
allora, cosa parli se non sai, ignorante?”,
infierì
il monaco, ergendosi in tutta la sua altezza ché
sarà stato sulla cinquantina,
ma anni a lavorare nell’orto, nella vigna e
nell’uliveto l’avevano irrobustito
quasi quanto un contadino.
“Ecco
… non è che mettessi in dubbio … solo
che …”
“Quousque
tandem abutere, stulte, patientia
nostra?”
E no, il
colpo basso del latino era davvero troppo per il povero
mercenario, che si ritirò con la coda tra le gambe,
lasciando alle cure del
gongolante Fra’ Anselmo le due fuggitive.
“Vegname
drio … qua … sentate qua …”,
condusse dolcemente Lussìa
ad un letto accanto alla sua scrivania, in modo da difenderla in caso
quei
birbi malnati dei suoi pazienti, annusato l’odore di femmina,
improvvisamente
non si dichiarassero redivivi e guariti soltanto per insidiarla. Di
solito uomini
e donne sostavano in stanze diverse, purtroppo in tempi di
sovraffollamento
tali protocolli neppure venivano considerati, figurarsi rispettati.
“El
mio puto …”
“Sì,
sì … vedaremo … horra sentate et
reposate …”, la
tranquillizzò dolcemente il benedettino, aiutandola a
stendersi e chiudendo le
cortine attorno. Si girò verso il
“francese” e una furtiva occhiata a Zanze,
ch’aveva levato il viso velocissima per poi riabbassarlo, gli
schiaffò in
faccia la dura realtà del loro segreto. Lo stomaco gli si
rigirò dolorosamente:
gli mancava pure quella. “Beh, poiché ti sei
scomodato a condurla fin qui, puoi
anche rimanere”, dichiarò a voce alta,
acciocché tutti udissero la conferma
dell’identità del soldato. “Respondame:uì”,
le sussurrò tra i denti.
“Uì!”,
gridò quasi Zanze, afferrando poi uno sgabello e
sedendovisi sopra. Appoggiò le spalle al muro e si
coprì col mantello fin quasi
al naso, finalmente comoda e rilassata. Fra’ Anselmo dal
canto suo chiuse
sconsolato gli occhi, respirando a fondo.
Certo
però, meditava nel frattempo che ripuliva Lussìa
da quei
pastrocchi al collo, che in una settimana aveva vissuto più
emozioni in
vent’anni all’Abbazia, infrangendo ogni regola del
Padre Fondatore,
arrabbiandosi di brutto, urlando, minacciando, insultando e mentendo
allegramente
senza tanti rimorsi e addirittura alle spalle della sua
comunità stava
architettando una pericolosissima fuga! Se l’Abate
l’avesse saputo, l’avrebbe
rinchiuso in una cella senza luce e a sola acqua, mummificato di cilici
e
flagellato ignudo dall’Abbazia fino alla Certosa.
Ne valeva
la pena peccare così forte? Ribellarsi?
Fra’
Anselmo spiò di sottecchi la mano di Lussìa
disegnare
confortanti arabeschi sul pancione, l’altra stretta a quella
dell’amica.
Cristo
aveva sempre scelto la gente più controversa e improbabile
per operare in Suo nome; se poi si considerava, ad esempio, come avesse
perdonato a San Pietro il suo triplice rinnegamento e San Paolo che
aveva
custodito le vesti dei lapidatori di Santo Stefano e pure era stato
implacabile
persecutore delle prime comunità cristiane …
hé, di sicuro dinanzi alle colpe
di Fra’ Anselmo si sarebbe messo a ridere – con
tutto rispetto – specie se
erano finalizzate a scopo di bene.
***
Nella sua
cella divenutagli d’un tratto claustrofobica, Mercurio
Bua deambulava inquieto avanti e indietro, incapace di pigliar sonno e
dunque
di riposarsi adeguatamente. Ignorava il motivo di tal nervosismo, aveva
alle
spalle battaglie assai più sanguinose di quella. Forse
perché
non era andato incontro a dei veri militari,
bensì a gente
improvvisatasi, in un poco onorevole gioco al massacro. Il condottiero
si batté
le tempie, esasperato: quando i nervi gli pizzicavano così
neppure il vino lo
calmava, tranne una buona scopata o meglio ancora una scazzottata.
La Palice
e gli altri comandanti s’erano all’unisono
congratulati
con lui per aver vinto quello scontro e sollevato temporaneamente il
campo
dalla penuria di rifornimenti. Tzé, scontro …
scaramuccia forse.
Sebbene
valenti e agguerriti, i contadini non avevano rappresentato
per Mercurio dei grandi avversari, ne aveva fronteggiati ben di peggio.
Se
ripensava a quando, a Fornovo, appena diciassettenne s’era
gettato assieme al
Marchese Francesco Gonzaga contro il re Charles VIII e di come
l’avesse ferito,
causa purtroppo l’intromissione del duca di Bourbon che gli
aveva impedito
d’ucciderlo e costì spedirlo al diavolo
… a confronto quei quattro bifolchi
male in arnese per lui corrispondevano ad una passeggiata di piacere!
Aveva
perseguito l’azione più logica e strategicamente
sensata,
quelle bande a briglia sciolta di villani costituivano una spina nel
fianco e
dovevano essere neutralizzati, avanti che le truppe, sempre
più indisciplinate
e scoraggiate, disertassero in massa. Ciononostante, il greco-albanese
non
gustava alcuna soddisfazione nella vittoria, al contrario lo riempiva
di
un’amarezza sconosciutagli. Aveva compiuto il suo dovere,
ciò per cui era stato
addestrato e pagato. Aveva eliminato un problema alla radice e
compensato
adeguatamente chi l’aveva aiutato nell’impresa.
Non si
dà l’osso ai cani per premio? Dunque che i soldati
celebrassero quel piccolo successo e si tirassero su di morale, se
poteva anche
distrarli dall’incerta situazione di stallo e motivarli a
combattere sotto le
mura di Treviso, anticipando ciò che li attendeva in caso di
vittoria. Era l’unico metodo sicuro per
mettere in riga i militi,
per ammansirli: cibo, danari e femmine.
Mercurio
si premette i palmi delle mani sugli occhi: il viso di
quel contadino da lui ucciso continuava a perseguitarlo. Non per la
maschera di
sangue e cervella, non per la truculenta
semi-decapitazione che
l’aveva spedito nell’Ade, no. La sua espressione.
Non quella sorpresa del Re di
Francia, non quella stizzita di un mercenario sconfitto, no, la sua era
la faccia
di chi aveva appena perduto un caro amico, di chi combatteva per
proteggere
quella moglie che forse il Bua aveva consegnato ai soldati per
divertirsi …
neanche conosceva il suo nome …
“Malakas!”,
imprecò tra i denti, battendo le nocche contro il
legno della scrivania. Necessitava di una distrazione, ora, in
quell’esatto
momento. Sua moglie, non poteva per ovvi motivi; Leka e Zilio neppure
desiderava sapere dove si fossero cacciati. Un prete neanche per sogno,
dunque
… Indossò in fretta e furia la lunga casacca
imbottita di cotone e uscì dalla
cella sbattendo la porta, in direzione dell’infermeria.
Hironimo
si sentì all’improvviso soffocare, svegliandosi di
soprassalto. Si dimenò d’istinto, spaventato e
disorientato, artigliando ciò
che in quel momento gli stava impedendo di respirare agevolmente,
scoprendo
trattarsi di una robusta mano.
“Stai
tranquillo”, si ritrovò il patrizio, a qualche
spanna dal
suo naso, il sorriso sghembo di Mercurio Bua, il quale sedendosi cauto
sul
bordo del letto liberò gradualmente la bocca e il naso del
giovane, stupefatto
quest’ultimo di non averlo sentito avvicinare e pensare che
aveva sempre
posseduto un sonno piuttosto leggero. Colpa delle tisane di
Fra’ Anselmo,
indubbio. In ogni caso Hironimo scattò seduto, fissandolo in
cagnesco in tacita
accusa dei suoi modi da turco.
“Suvvia,
non mi guardare con quegli occhioni indignati: non stavo
mica per attentare alla tua virtù, ti avrei prima chiesto di
sposarmi”, scherzò
grossolano il condottiero e il Miani arricciò il naso al
puzzo vinoso nell’alito,
segno che il suo interlocutore s’era ben goduto la sua
personale festicciola.
D’un tratto gli dispiacque d’aver sottoposto ad
uguale trattamento Lena, in
quelle rare occasioni in cui lui l’aveva avvicinata mezzo
sbronzo.
Notando
l’ostinata apatia nell’ex-castellano, Mercurio
schioccò la
lingua, espirando snervato. “Stavo scherzando, ovvio! Voglio
soltanto parlare
un po’, che diamine!”
“Beh,
io no”, replicò secco il patrizio, tornando
disteso sul
fianco e dandogli sgarbatamente le spalle.
“Qualche
oretta, che ti costa?”
“Non
è né il luogo né il momento. La
prossima volta, magari,
quando tu non sarai ubriaco ed io ammalato.”
Le dita
del Bua si contrassero in un rictus nervoso. “Spostiamoci
nella mia cella. Lì nessuno ci
disturberà.”
“Dopo
che hai minacciato di sodomizzarmi? È l’ultimo
posto al
mondo dove ti seguirei!”
“Allora
nel chiostro, in chiesa, all’inferno! Ovunque,
purché tu
muova quel tuo culo veneziano! Oppure preferisci che chiacchieri col
moccioso?”
e indicò significativamente Thomà, che ronchisava
sereno e ignaro per terra, su
di un lettuccio di fortuna.
Hironimo
scostò in un grande svolazzo le coperte, irritato al
massimo, ponendosi in piedi talmente veloce e brusco, da sballottare un
poco il
greco-albanese. “Il chiostro”, ringhiò
sottovoce, lo sguardo torvo.
Le prime
luci dell’aurora già tingevano di lilla le
flessuose
colonnine di pietra, delineando il semplice corridoio e giardinetto
interno al
cui centro sorgeva un pozzo decorato, agli angoli appena accennati di
un
quadrilatero, da vezzose foglie d’acanto. Hironimo ignorava
se i monaci
avessero o meno terminato le Lodi mattutine; sperò di no,
cosicché venissero
presto ad interromperli.
“Non
temi ch’io ne approfitti per fuggire?”, non
resistette dal
punzecchiarlo un poco, una piccola rivincita per ogni frustrazione
patita
quella sera, al pensiero della brutalità dimostrata dal
greco-albanese a danno
della sua gente.
“Tu
non scapperai”, ribatté risoluto Mercurio,
ghignando arrogante
e costringendolo a camminare indietreggiando. “Tu non
azzarderai nulla di
strano; non ti conviene e lo sai. Ti credi furbo, nevvero? Pensi
ch’io non
immagini quanto ti piacerebbe conficcarmi un pugnale tra le scapole, se
tu
n’avessi l’occasione? Peccato che ti sia
stupidamente esposto, permettendomi di
tenerti doppiamente per i coglioni. Non desideri mica ulteriori sensi
di colpa,
o mi sbaglio?”
Il
giovane Miani si sedette sul muretto perimetrale del chiostro,
su cui s’ergeva il colonnato. “Affermi il
vero”, gli concesse schietto, “non
fuggirò. Anch’io ogni tanto scherzo”,
gli restituì la pariglia, intrecciando le
mani sul grembo. Una fitta di tosse lo colse impreparato,
costringendolo a
sputacchiare qualche grumetto di saliva e catarro. Si coprì
la bocca e si
schiarì la gola. La nausea gli risalì, feroce.
Merda, aveva voluto fingerli e
invece quei crampi allo stomaco per davvero avevano incominciato a
tormentarlo.
Si passò furtivo la mano sulla fronte, storcendo la bocca
nel cogliere la
temperatura ancora calda.
“Come
ti senti?”
“Non
bene, grazie a te”, rispose aspro Hironimo, nettandosi la
mano bagnata di saliva sull’orlo della camicia.
“Dovevi proprio svegliarmi
all’alba per chiedermelo? Non si poteva attendere
un’ora meno barbara?”
Mercurio
cambiò peso da una gamba all’altra. “Ti
rispedisco subito
in letto, non ti preoccupare. Avevo voglia di rilassarmi, dopo intere
giornate
trascorse a fustigare gente indisciplinata, a far impiccare disertori,
a
combattere villani ribelli, a …”
“…
a violentare donne …”
“Io
non ho stuprato nessuno!”, si sporse minaccioso su di lui
Mercurio, battendo il pugno contro una colonnina, il viso paonazzo
d’ira.
“Possibile che ogni tua parola corrisponda ad un insulto nei
miei confronti?”
“Non
ti sto insultando”, si difese imperturbabile il patrizio,
“sto semplicemente elencando le tue imprese, mi par
diverso.”
“Io”,
scandì aggressivamente il Bua ciascuna parola, i denti ben
in mostra, “non ho mai forzato alcuna donna.”
Hironimo
lo squadrò a lungo, in silenzio. Dopodiché,
raddrizzando
le spalle, dichiarò annoiato: “Vuoi parlare,
d’accordo parliamo”, e rimase in
docile attesa, tamburellando impaziente le dita sui mattoni del muretto.
Sbuffando
deluso, il capitano di ventura gli si sedette accanto,
massaggiandosi le tempie e stropicciandosi gli occhi. Non trovando
nulla di
brillante da controribattere, si limitò a studiare il pozzo
dinanzi a sé,
strappando alcuni fili d’erba e giocandoci distrattamente.
Hironimo si portò le
ginocchia al petto, nascondendo sotto la camicia le gambe nude,
avvertendo una
certa fredda umidità molesta. Di primo acchito il Bua poteva
apparire rilassato
al limite della noncuranza, però il veneziano conosceva la
sua mimica corporea
troppo bene, cogliendo la rigidità delle spalle e la
tensione delle braccia e
delle gambe, intanto che cincionava con l’erba: il
greco-albanese lo stava
tenendo accuratamente sottocchio e se il patrizio avesse tentato di
guizzare
via da lui, gli sarebbe saltato addosso più rapido
d’un ghepardo.
I due
uomini stettero sospesi in questo limbo per un periodo
indefinito di tempo, assaporando la quiete ante il risveglio del mondo,
l’aria
dal profumo della pioggia imminente e il lontano cinguettare delle
allodole.
Gli schiamazzi dei soldati e il lamento delle donne erano stati
dispersi
assieme alle tenebre notturne dalla luce, neanche appartenessero ad un
angosciante incubo da cui tosto ci si sarebbe destati, ridacchiando
imbarazzati
del proprio sciocco timore.
“Perché
ti comporti così?”, ruppe il silenzio Mercurio,
abbandonando i fili d’erba e strofinandosi via la terra dalle
mani. “I tuoi
sono gli occhi di un combattente, di uno nato per lottare in prima
linea … la
remissività non ti s’addice.”
Appoggiando
la nuca sulla colonnina e reprimendo un violento
brivido, Hironimo socchiuse le palpebre, nauseato dalle vertigini
ch’avevano
ripreso a scuotergli il cervello. “Pensavo avertelo
già chiarito quella sera”,
quale esattamente non si sovveniva, il tempo oramai per lui aveva
assunto una
connotazione infinita e confusa. Tre settimane e mezzo di prigionia,
eppure gli
pesavano alla stregua di anni. Dinanzi all’espressione
interrogativa del Bua,
gli delucidò paziente: “Sono stanco, ammalato,
prigioniero, forse non rivedrò
mai più la mia famiglia …” e un groppo
in gola gli strozzò la voce, l’unica
punta di sincerità in quella loro bizzarra conversazione.
Tacque.
Le forze
del suo corpo si stavano gradualmente affievolendo; nel
suo intimo, per quanto s’aggrappasse caparbio alla vita e si
rifiutasse di
cedere, si stava in lui solidificando la consapevolezza di combattere
una
guerra persa, la medesima sinistra sensazione provata a Castelnuovo
quando il
Bua aveva distrutto la porta della fortezza, creandovi una breccia. Un
nemico
invisibile, più temibile del capitano di ventura e dei
franco-imperiali messi
assieme, lo consumava dall’interno, suggendogli avido il
soffio vitale in
cambio di una crescente e sconosciuta paura, paragonabile alla tipica
vertigine
di chi in bilico su di un scivoloso parapetto guarda la voragine sotto
di sé.
Quando
Fra’ Anselmo aveva recitato il rosario, la rabbia e il
dolore gli avevano provocato scatti nervosi pieni di fastidio e
ribellione a
quella noiosa litania. Ad un certo punto era stato lì per
lì d’intimare al
monaco di tacere, tappandosi snervato le orecchie. Grano dopo grano,
corona
dopo corona, le preghiere avevano incominciato ad un tratto a
scivolargli
leggere e soavi; il nome Mater, ripetuto
costantemente, non gli
suggeriva più alcuna voglia di rivolta, bensì
d’abbandono. Per un attimo s’era
rivisto bambino, sul suo lettino, la fronte calda per via di una
febbriciattola
da cambio di stagione, le dita fresche di Madre che gli asciugavano le
lacrime:
aveva pianto, terrorizzato e dolorante per via della solitudine e della
malattia. Sono qui, figlio mio, gli aveva
allora sussurrato
teneramente Madre, seguitando nella consolatrice carezza ...
“Non
mi va di sprecare energie preziose, ecco tutto.
Soddisfatto?”, gli confessò conciso Hironimo,
tamponandosi con la manica il
sudore alle tempie.
Mercurio
si girò verso di lui, gli angoli della bocca piegati
all’ingiù. Analizzò meticoloso ogni
curva dei lineamenti del viso del Miani,
ogni dettaglio alla ricerca di un inganno, di una recita da parte sua.
Quel che
vi trovò fu sul serio una stanchezza mortale di chi era
giunto al termine delle
proprie risorse fisiche e mentali. Da una parte avrebbe voluto
rimproverarlo,
se non proprio sfotterlo per quella sua debolezza – diamine,
lui era stato
prigioniero per ben sette settimane e mica ne aveva fatto una tragedia,
né
l’avevano riportato da Caterina in barella e delirante!
D’altro
canto, però, riconosceva un qualcosa di oscuro agitarsi
nel giovane uomo, una forza al greco-albanese incomprensibile, quasi
… quasi un
anticipo di metamorfosi. Il condottiero
riconosceva perfettamente
il bacio della morte sui volti altrui e invero Hironimo manifestava gli
stessi
sintomi del moribondo, ma – e qui il Bua ne rimaneva confuso
– non di un
decesso del corpo, piuttosto … dell’anima? Come,
come se una parte di lui
stesse lentamente morendo per permettere ad un’altra di
nascere. Strano,
talmente strano da rimanerne scosso e inquieto.
“E’
lamentevole”, commentò infine a voce alta,
scrocchiandosi
pensieroso le nocche. “In un’altra vita, avremmo
forse potuto essere amici.”
Gli costava ammetterlo, però sin dall’inizio
quell’orso d’un veneziano gli era
risultato alquanto simpatico. Avrà pur posseduto una
linguaccia che tagliava e
cuciva, una tendenza all’irascibilità e allo
sfottò creativo, ciononostante
aveva dimostrato un senso di lealtà, coraggio e
generosità davvero invidiabile.
Sperò di non sbagliarsi nel suo giudizio.
“Ne
dubito: sei troppo permaloso”, aggrottò la fronte
Hironimo,
l’ombra di un sorrisetto beffardo sul viso pallido e sudato.
“Allora,
avresti potuto essere mia moglie!”, lo canzonò
Mercurio,
gongolando alla vista delle spalle del patrizio irrigidirsi, manco un
gatto cui
si rizzava il pelo.
“Piuttosto
monaco stilobita in cima al Monte Pelmo!”
“Suvvia,
ti avrei corteggiato appassionatamente ed io scommetto
che sei uno scatenato sotto le lenzuola!”
“Il
tuo senso dell’umorismo m’inquieta”,
tagliò corto Miani, simulando
un disgustato conato di vomito. Quand’ecco che gli
scoccò un’occhiataccia
velenosa: “Piuttosto, perché debbo fare io la
femmina?”, inquisì irritato.
“Ho
visto come ti prendi cura del moccoloso”, gli
chiarì Mercurio,
il cui tono non tradiva curiosamente alcun’ironia, semmai
un’insolita
tenerezza. “Un padre non si comporta così coi
propri figli.”
“An,
perché tu ora sai come si comporta un padre?”
Il
condottiero grugnì sardonico. Poteva ben affermarlo: di
Pietro
Bua Spata, per quegli undici anni vissuti assieme, ben si ricordava le
sberle e
gli aspri rimproveri ogniqualvolta falliva negli allenamenti o cadeva
dal suo
cavallino o semplicemente si comportava secondo lui troppo
“da bambino”. Il suo
barba Alessio poi non aveva di certo nutrito sentimenti più
paterni, rincarando
casomai la dose di busse e sermoni. Solo sua madre l’aveva
riempito d’affetto e
di dolci parole d’incoraggiamento, baciandogli i lividi e
curandogli le
escoriazioni, confortandolo la notte durante i primi
mesi a Venezia,
dove tutto gli appariva alieno, pauroso, incomprensibile. Lei era stata
la sua
roccia e così Caterina. Adesso non possedeva più
nulla di tutto ciò e si
sentiva smarrito.
Hironimo
reclinò il capo, avvertendo un colpevole guizzo al cuore,
un timido sentimento di pietà nei confronti del suo
carceriere e tentò di
supporre cosa potesse aver provocato il subitaneo rabbuiamento nel suo
viso.
“Ti manca tua figlia?”, gli domandò
gentile, paragonando le loro situazioni; in
fin dei conti, ambedue null’altro desideravano se non di
ricongiungersi alla
propria famiglia e di proteggerla, rendendola felice e orgogliosa.
Invece,
il Bua scattò peggio di una vipera, misinterpretando la
sua genuina offerta di tregua per una provocazione. “Non
incominciare”,
l’avvertì astioso, rifilandogli
un’espressione torva e aggressiva.
Il Miani
allora ritornò immediatamente sulla difensiva,
trincerando ogni afflato d’empatia dietro le sue alte mura e
rindossando la sua
maschera di gelida indifferenza. “Conosci la soluzione per
riaverla indietro”,
gli rivelò, lasciando volutamente ambigua la frase e
sogghignando bieco dinanzi
all’irrigidimento delle spalle del condottiero, roso per
certo dai dubbi sulla
sua interpretazione. “In infermeria, alcuni soldati
discutevano su come il loro
comandante, il conte di Gambara, fosse ieri partito di gran fretta
dall’Abbazia.”
“Così
sembrerebbe. Ti dispiace?”
“Stimo
nulla di lui”, si grattò il mento Hironimo.
“Sicuro, era un
conversatore assai più civile di te, ma d’altronde
ci vuol poco …”, rigirò il
coltello nella piaga.
“Ho
notato”, sentenziò piccato il greco-albanese,
ponendosi in
piedi. “Bene”, annunciò in un enfatico
sospiro, celando a malapena la sua
intima seccatura. Il veneziano si compiacque d’aver pizzicato
un nervo
scoperto, anche perché effettivamente il conte bresciano gli
aveva di sfuggita
confidato qualcosina d’interessante, cioè, nulla
di sconvolgente, ma se
presentato sotto un’altra prospettiva …
“Basta chiacchierare, sennò quel
vecchio monaco pazzo mi spella vivo. Ti riporto indietro”,
dichiarò pratico,
allungandogli la mano per aiutarlo a scendere dal
muretto.
“Non
vuoi più sapere cosa m’ha detto il
Gambara?”, gli sorrise
obliquo Hironimo.
Le dita
del Bua si strinsero in un pugno che ritornò al fianco del
suo proprietario, il quale si sedette inconsciamente, le orecchie ben
tese. “La
febbre t’ha reso ciarliero”, appurò
stupefatto. “Avrei dovuto procurartela
prima, invece di farmi venire calli e vesciche a furia di
picchiarti!”
Il
patrizio levò in alto le mani, ammettendo le sue colpe.
“An,
non aspettarti chissà quali sconcertanti rivelazioni
… Semplicemente mi
raccontava certe divertenti bagatelle su Massimiliano. Lui è
il suo
rappresentante in campo, ti ricordi? Conosce un mucchio
d’aneddoti su di lui,
roba da scompisciarsi dalle risate … In breve, mi narrava di
quell’ordinanza in
cui ti si nominava consigliere imperiale, conferendoti maggior potere
esecutivo
in campo”, la buttò lì casualmente,
osservando attento la reazione del capitano
di ventura.
Non ne
rimase deluso: Mercurio si sistemò meglio sul muretto,
incrociando le braccia al petto. “Continua”, lo
invitò, oramai catturato dal
discorso del Miani, che obbedendo proseguì:
“Il
conte m’ha confessato il suo dispiacere nel vederti talmente
umiliato. M’ha detto, cito verbatim: trovo
assai ingiusto corbellare un
condottiero così fedele, onesto, serio e dedicato, quale
Mercurio Bua Spata.”
“Co-
corbellare?”, ripeté incredula la vittima di detta
beffa
imperiale. Si massaggiò la fronte, richiamando alla mente
ogni singolo
dettaglio di quell’ordinanza, cercando di capire dove
l’Habsburg l’avesse
fregato. Non trovando alcun dettaglio fuori posto, lanciò
un’occhiata perplessa
al patrizio, che gli espose concisamente i suoi dubbi:
“Non
ti è sembrato strano l’ordine
dell’Imperatore, che sanciva la
Piave a limite invalicabile soltanto alle
truppe francesi e ai
tuoi stradioti?”
Mercurio
deglutì male la saliva, sovvenendosi d’un tratto
di
quella piccola clausola, che all’epoca sì
l’aveva infastidito ma che poi aveva
relegato nel dimenticatoio, giacché ridimensionata dinanzi
ai doni e privilegi
concessigli dall’Imperatore. “Sì, lo
ammetto”, gli concesse a denti stretti,
“questo perché la maggior parte delle truppe
è formata da francesi e … e quindi
… voglio dire, La Palice risponde al Re di Francia e
… sicuramente l’Imperatore
…”, s’impappinò, incapace di
giustificare quell’ordine così castrante e
partigiano. A conti fatti, finora ad averci rimesso erano sempre stati
i
francesi e i suoi stradioti, mica gli …
Hironimo
avvicinò il viso al suo, finché i loro fiati non
si
mescolarono in un’unica nuvola di vapore. Le sue iridi
nerissime rilucevano di
una luce poco raccomandabile, predatrice, mentre gli esponeva il
subdolo
ragionamento del Re dei Romani:
“Massimiliano
è timoroso che voi possiate appropriarvi
indiscriminatamente di rifornimenti, di viveri e mezzi di sussistenza,
molto
abbondanti al di là della Piave, e perciò ha
consentito solo alle
milizie tedesche di varcare il fiume. Quella dei suoi capitani non
è stata una
diserzione di massa, bensì un chiaro ordine
dell’Imperatore, acciocché gli
imperiali restino sempre in vantaggio rispetto
a voi.
“Egli
teme infatti il conto che il re Ludovico gli presenterà a
fine impresa, un conto talmente salato da non poterlo saldare neppure
cedendogli l’intero bottino di Treviso.
“Il
suo piano è quindi che i tedeschi conquistino la Patria del
Friuli, riempiendosi la pancia di cibo e le botti di polvere da sparo,
mentre a
voialtri sciocchi, rimasti a guardare, non rimarrà che
soffrire la fame, la
malattia, l’impatto degli attacchi nemici. Sarete talmente
sfibrati nell’animo,
da non poter neppure protestare quando
Massimiliano incamererà
in totum la preda di guerra. E una volta incassato il malloppo, cosa
mai potrà
fare re Ludovico? Strillare che lo rivuole indietro? Dichiarare guerra
all’Imperatore?
“Tuttavia,
quest’ultimo sa che tu
non sei
completamente un idiota – al contrario dei tuoi compari
- e così ti
nomina suo consigliere imperiale e conte di Soave ed Illasi, onde
gettarti fumo
negli occhi. Perché lui sa che
tu sei l’unico con sufficienti
coglioni da mandarlo, se costretto, alla malora e di te
l’Imperatore, volente o
nolente, ha un fottuto bisogno!”, batté Hironimo
l’indice sui mattoncini del
muretto, ogniqualvolta sottolineava un concetto chiave
acciocché s’imprimesse
nella mente di Mercurio, la cui faccia impallidiva a cadauna parola, il
respiro
fattosi irregolare e sembrava in procinto di vomitare da un momento
all’altro.
L’aveva ascoltato in sbigottito silenzio, aprendo e chiudendo
la bocca
ogniqualvolta credeva di possedere argomentazioni abbastanza solide da
ribattere, sennonché ad ogni frase successiva finiva per
arrendersi, scuotendo
inconsciamente in diniego il capo, l’inattaccabile logica
finalmente denudata
ai suoi occhi.
Maximilian
li aveva menati per il naso; tutti quei sorrisi, quelle
promesse, quegli infiammati discorsi sulla cavalleria,
l’onore, la sacralità
della vendetta, quei “Mein geliebter Bruder”: oh,
sicuro! Fratello, fratello,
mio amato fratello, dissero al biblico Giuseppe avanti di venderlo!
L’Imperatore
li aveva mandati accuratamente allo sbaraglio,
nascondendosi abile dietro le quinte e da lì in attesa dei
risvolti finali
degli eventi: in caso di sconfitta, la colpa sarebbe stata imputata a
La Palice
e a Mercurio Bua che non avevano obbedito ai suoi ordini con
sufficiente
diligenza. In caso di vittoria, tutto merito del genio militare di
Maximilian,
il quale da Bolzano sarebbe volato giù fino a Treviso,
materializzandosi
all’improvviso nella città conquistata.
Keratas!
Il
giovane patrizio non concesse al Bua alcuna tregua,
incalzandolo spietato nella sua confusione e rabbia, adesso che lo
stava per
avere in pugno: “Vedi in quale considerazione ti tiene
quell’Asburgo? In tal
modo ci si comporta cogli alleati? Con chi combatte così
… arditamente per
lui?”
“Stai
cercando di seminare zizzania?”, soffiò furioso
Mercurio,
rifiutandosi di credere ad un tiro così basso e vile! Non a
lui, non se lo
meritava! Lui che aveva costantemente servito con la più
assoluta lealtà e
impegno i suoi signori, come si permetteva quel … quel
… a trattarlo alla
stregua della peggiore delle scartine?
Hironimo
negò tristemente. “Sto cercando di aprirti gli
occhi,
capitano. Provo troppo rispetto nei tuoi confronti, per vederti preso
per i
fondelli da un austriaco bugiardo e senza coglioni, che manco ha il
fegato di
mostrare il suo muso al fronte, delegando ai suoi comandanti
l’onore di morire
per le sue cause. A lui la gloria
eterna e a voi la
bocca riempita di terra!”
Le nocche
del greco-albanese si sbiancarono dalla stretta,
scrocchiando sinistramente. “Non ho intenzione di cambiar
bandiera, qualsiasi
cosa tu mi dica”, tremava dalla collera e
dall’umiliazione, tuttavia non immune
dal sospetto che forse si trattava di un’accorta bugia del
veneziano per
indurlo al tradimento.
Sicché
sussultò neanche avesse ricevuto una frustata, quando
Hironimo si sciolse in un riso sguaiato, cattivo. “Certo,
certo, com’ho potuto
scordalo? Sempio mi!”, si batté il patrizio
teatralmente la mano sulla fronte,
il bel viso deformato in una maschera beffarda e crudele. “Tu
sei troppo pieno
del latte dell’umana bontà e gentilezza e
giustamente t’accontenti delle
briciole altrui. Massimiliano con te ha concluso davvero un ottimo
affare, lode
al suo fiuto. La stragrande maggioranza dei condottieri pretende ducati
sonanti
a ricompensa delle proprie fatiche, mentre tu ti ritieni soddisfatto di
un
sorriso galante, di una pacca sulla spalla, di una stretta di mano e di
qualche
insignificante zolla di terra su cui giocare al
conte-dalle-brache-onte! Me lo
vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: Ben
fatto, Mercurio;
bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie,
Mercurio, per aver
sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella
dei tuoi uomini;
grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!”
Un pugno
alla bocca dello stomaco lo interruppe, sbilanciandolo
sulla sinistra e di fatti, grugnendo di dolore e senza appiglio,
Hironimo cadde
sull’erba, riecheggiandogli il colpo dell’impatto
dalla schiena lungo l’intero
scheletro, fino all’ultimo osso.
Povero,
povero il mio Maurikos, Conte del Niente!, tambureggiarono
di nuovo veementi le parole di Caterina nelle orecchie del Bua,
mescolandosi a
quelle di Hironimo. Braccato, in trappola, a corto di argomenti dinanzi
a
quell’impietoso e veritiero teatrino imbastitogli. Lui non
era un debosciato di
cui approfittarsi! Un figlio di papà con la pappa pronta! Da
solo s’era
costruito la sua carriera e reputazione, non avrebbe permesso a
chicchessia
d’infamarlo né di deriderlo! Ogni
volta la stessa storia con lui: molto
onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del
suo paese!
Mercurio
afferrò il veneziano per la gola, spingendolo supino per
terra quando questi fece per rialzarsi, posizionandosi a carponi sopra
di lui
al fine d’immobilizzarlo. “Le tue parole puzzano di
veleno”, proferì in un
gelido sussurro, che sapeva di condanna.
“Mio
povero, povero Mercurio”, gracchiò di rimando
Hironimo. “Il
veleno non ha odore, non sai?”
Neanche
cingesse carboni ardenti al posto della pelle, il capitano
di ventura abbandonò in un guizzo la
presa al collo, balzando agile
in piedi e issando in un possente strattone il patrizio.
“Bada a guarire in
fretta: febbricitante o meno, quando leveremo il campo tu mi seguirai
ovunque
io vada e non ti perderò di vista per un solo istante,
neppure in battaglia,
dovessi legarti al vessillo!”, gli promise arcigno,
spingendolo di malagrazia
in direzione dell’infermeria.
“Un
tal spettacolo neppure il tanto osannato Boiardo sarebbe stato
in grado d’inventarselo!”, ridacchiò
divertito Hironimo, acquiescendo
all’implicito ordine del Bua.
Poco gli
importava se gli credesse o meno: la verità lui
gliel’aveva
detta, poi stava al greco-albanese trarre le sue giuste conclusioni.
Non lo
tangeva. Che decidesse di farsi ammazzare stupidamente per Maximilian,
o che
decidesse di ritornare a servire la Serenissima? Cavoli suoi.
Ciò che più
premeva al Miani era di tenergli la mente occupata, distraendolo: in
questo
modo avrebbe abbassato la guardia, fornendogli un’ottima
occasione per fuggire.
Ché arrabbiato e confuso, Mercurio Bua diveniva assai
negligente, commettendo
errori grossolani e situazioni ideali onde facilitargli il piano.
Hironimo
stava davvero giungendo al suo limite, la fuga adesso la
sua unica ragione di vita e speranza.
***
Fra’
Anselmo tamponava leggermente le ferire sul dorso di Zanze
con dell’aceto, disinfettandole, di tanto in tanto scoccando
un’occhiata
guardinga dietro di sé. La contadina, scoperta la schiena il
minimo necessario,
sussultava e sibilava al tocco bruciante del liquido, senza
però sottrarvisi e
il monaco ridacchiò al ricordo di certi suoi pazienti uomini
più agliofobici di
lei. “Ancora un poco e abbiamo finito”, la
rassicurò benevolo, impiegando un
tocco leggero e rapido.
Zanze
scrollò le spalle. “Gh’ho
soportà de pezo: el barba di mia
mare, co’, par lu, mi no ghe no lavoravo bastanza, me
cresemava (cresimare =
picchiare, ndr.) pì d’on musso!” (asino,
ndr.)
Il
benedettino storse la bocca in disappunto: credeva fermamente
nello disciplinare i giovani, per lui il mondo sarebbe finito alla
malora il
giorno in cui avrebbero smesso d’elargire qualche salutare
scappellotto alle
loro ribelli cervici; tuttavia batterli alla stregua di tamburi lo
riteneva più
nocivo che educativo, rendendoli o estremamente paurosi oppure
aggressivi, a
seconda del carattere.
Per
esempio, quel giannizzero di Thomà accanto a lui non aveva
ricevuto sufficienti sculaccioni, giacché disobbediente ad
ogni ordine, specie
quando Fra’ Anselmo gli aveva intimato di trasferirsi in
foresteria visto
ch’era guarito. Niente da fare: il fantolino s’era
costruito una sorta di
cuccia per terra, vicino al patrizio veneziano, e lì voleva
stare, cascasse il
mondo o la pazienza del monaco. Il quale, considerata
l’energia frenetica del
pargolo, l’aveva arruolato ad ergersi assieme a lui a scudo
umano, onde coprire
ulteriormente Zanze da occhi indiscreti.
“Passami
l’unguento!”, comandò al bambino,
intanto ch’appoggiava
la pezza di tela insanguinata su di una bacinella a parte.
“Coss’elo?”,
non resistette Thomà dall’annusare il cremoso
impasto.
“Una
mistura di centaurium erythraea et lamium galeobdolon!”
“L’amia
(zia, ndr.) dil galeoto? Cossa
c’entréla?”
Il
pover’uomo si pizzicò esasperato la radice del
naso: aveva
scordato l’ignoranza imperante al di là delle mura
del monastero, sicché talora
nutriva l’impressione di parlare col fantolino idiomi
diversi, manco
provenissero dai due estremi opposti del mondo.
“Baùco!”, lo rimproverò
sbuffante il benedettino, intingendo la punta di una pezza pulita
nell’unguento
e applicandolo delicatamente sulla ferita di Zanze.
“Xéi zentaurea menor e falsa
antrìga zàla (ortica gialla, ndr.), tutte e do
erbe bone par varir sbréghi
(ferite, ndr.) e secatrizar (cicatrizzare, ndr.). Depo’ la
falsa antriga zàla,
la gh’ha anca proprietà espettoranti!”
“Justo,
a xé onta e fa petòni!”
(macchie d’unto,
ndr.), schioccò le dita Thomà, fiero di
sé per aver compreso la difficile
parola da patavino dottore universitario.
“Bone
Jesu!”, guaì Fra’ Anselmo, mentre le due
giovani donne
ridacchiavano dinanzi a quella commediola degli errori. “No,
no sior mamara
(scimunito, ndr.): “espettorante” vuol dir che te
fa spuàr (sputare, ndr).”
“An!
Pulito! Ma perché?”
“Perché,
perché! Perché sputare fa bene, ti libera i
polmoni dagli
umori nocivi! Per l’appunto ho somministrato anche al tuo
patron un po’ di
falsa ortica gialla, acciò si liberi dal catarro e stia un
po’ tranquillo in
letto …”, ché quell’erba
possedeva pure benefici antispasmodici, nella speranza
che gli rilassasse abbastanza i muscoli da persuadere Hironimo a non
gironzolare sconsideratamente all’alba, in camicia e a piedi
nudi.
Infatti,
il frate lo aveva sottoposto ad una solenne lavata di
capo non appena l’aveva pizzicato rientrare in infermeria,
sordo alle vivaci
proteste del giovane patrizio, tutte accusanti la villania di Mercurio
Bua e la
sua incapacità di distinguere lui da un prete, considerate
le sue smanie di
ciarliere confessioni. Inflessibile, il benedettino l’aveva
minacciato di
legarlo al letto e costretto a bere il primo decotto della giornata,
rimboccandogli le coperte e ordinandogli di dormire. Su quel punto il
Miani
s’era ritrovato d’accordo, appisolandosi quasi
immediatamente, ambedue le mani
al ventre.
Fra’
Anselmo spostò lo sguardo alla finestra e poi verso il
veneziano: il sole già s’era alzato da che
mo’, eppure ancora non s’era
risvegliato. L’uomo s’augurò non si
trattasse di una brutta ricaduta, non
adesso che stavano terminando di progettare il piano di fuga!
Il monaco
terminò di spalmare
l’unguento sulle ferite
di Zanze, istruendo Lussìa a stringere piano le bende e,
intanto che quella
rindossava camicia e casacca, le raccomandò di dormire, se
possibile, prona e
di non appoggiarsi di schiena al muro. Quanto alla sua amica, il
bambino pareva
scalciare tranquillo e l’ansie della notte scorsa non davano
segni di
complicazioni, però queste rimanevano supposizioni del
frate, non pratico
quanto una levatrice di tali muliebri questioni. Ciò di cui
Lussìa necessitava
piuttosto era cibo e Fra’ Anselmo rinunciò
volentieri alla sua magra razione
per lei, anche per quaresimarsi in penitenza.
Accorgendosi
del risveglio d’Hironimo, Thomà disertò
il
benedettino per zampettare da lui e balzargli in letto, intanto che il
patrizio
si puntellava cautamente sui gomiti. Il piccino gli sistemò
il cuscino dietro
la schiena e, ad operazione compiuta, sussurrò qualcosa
all’orecchio del
giovane, lanciando qualche fugace occhiata al monaco e alle contadine.
“Ben
svegliato”, li raggiunse Fra’ Anselmo, chiudendo le
cortine
attorno al letto delle due donne. “Vediamo un po’
come sei messo oggi”, disse e
tenendogli il mento, mosse piano il volto di Hironimo, studiandone il
colore
della pelle, la torbidezza dell’occhio e la
quantità di bianco sulla lingua.
Gli misurò la temperatura, storcendo affatto compiaciuto la
bocca: ecco cosa
accadeva a fare i mona in giro, scalzi, coll’umido mattutino
a raffreddare
bronchi, stomaco e ossa!
“Cosa
c’è da mangiare?”, anticipò
Hironimo la paternale, che il
crucciato frate già s’apprestava ad appioppargli.
“La
tua medicina”, rispose secco quell’altro.
“E solo dopo che
l’avrai bevuta tutta, si parlerà di
colazione.”
Il
patrizio sospirò deluso, scivolando sotto le coperte.
“Morirò pisciando”,
bofonchiò e il benedettino catturò il modo in cui
ancora si reggeva la pancia,
quasi soffrisse di crampi o coliche.
Fece per
chiedergli di mostrargli là dove l’affliggeva,
quand’ecco
un confratello chiamò Fra’ Anselmo, necessitando
della sua assistenza.
Dodici
monaci lo seguivano, smunti, sporchi, gonfi di lividi e
croste di sangue, l’abito dell’ordine certosino
lacero e lordo di fango, senza
mantello. Immediatamente il frate l’identificò
provenienti dalla limitrofa
Certosa di San Girolamo, seccandoglisi la saliva in gola alla vista di
tal
scempio specie quando, tra questi poveretti malmenati, egli riconobbe
Fra’ Thomà
Patavim, una sua vecchia conoscenza.
Il
confratello spiegò al benedettino come costoro fossero
giunti
appunto dalla Certosa, scortati personalmente dal maresciallo La
Palice, dopo
che questi s’era dovuto recare d’emergenza al
monastero su sollecita richiesta
del Conte di Collalto, per indagare sulla veridicità degli
apocalittici
resoconti del loro Priore circa il vergognoso comportamento dei soldati
tedeschi accampati alla Certosa.
A
giudicare dalle facce tumefatte dei certosini, le lamentele del
procuratore spirituale si erano dimostrate anche fin troppo ben
giustificate.
Fra’
Anselmo sistemò meglio che poté i nuovi arrivati,
l’infermeria satura: chi su di uno sgabello, chi per terra,
chi appoggiato al
muro se riusciva a reggersi in piedi. Si dolse di non poter offrire
loro se non
qualche mezza scodella di zuppa di rape rosse; dal modo bestiale in cui
la
trangugiarono direttamente senza cucchiaio, l’uomo comprese
trovarsi i
certosini in condizioni assai ben peggiori delle loro.
“Cos’è
successo?”, interpellò egli sottovoce
Fra’ Thomà, con la
scusa di tamponargli un taglio sullo zigomo con dell’acqua
fredda.
Il frate
tirò su col naso, rabbrividendo al pizzicore della
ferita. “I todeschi, ecco cos’è
successo. Quei diavoli d’inferno hanno messo la
nostra Certosa al sacco! Tutto c’hanno portato via: bestie,
arnesi, viveri, lasciandoci
solo l’aria per respirare e le lacrime per piangere.
Arraffavano qualsiasi cosa
trovassero, addirittura hanno fatto irruzione in chiesa, mentre ci
trovavamo a
pregare davanti all’altare! Li abbiamo supplicati di
smetterla, di rispettare
la casa di Dio, ma quelli, ridendosela, ci hanno picchiato, minacciato,
spogliato dei nostri mantelli … E non paghi, quasi a
deriderci, dopo averci
derubati quegli sciagurati si sono tutti inginocchiati davanti al
Crocefisso,
si sono segnati, e sempre imperturbabili se ne sono andati via con la
nostra
roba!” Non avevano dimostrato alcun timor di Dio, forzando
barbaramente le
porte della chiesa, con le armi in pugno, per di più durante
l’Adorazione e
dalla paura il certosino aveva ingoiato in un sol boccone
l’Ostia, in caso quei
masnadieri avessero deciso di profanare anche Quella oltre alla casa
del
Signore.
Fra’
Anselmo inspirò profondamente, approfittando di strizzare
via
l’acqua dalla pezza per sfogare la sua rabbia. Udendo di tali
barbarità,
concluse che invero Dio era esigente nel chiedere di porgere
l’altra guancia,
una fatica sovraumana.
“Erano
furiosi”, aggiunse Fra’ Thomà maggior
dettagli a quella
squallida vicenda. “L’argenteria e gli altri
oggetti di valore in sacrestia li
avevamo già inviati al sicuro a Veniexia, ben prima
dell’arrivo di
quest’esercito di senzadio. Di conseguenza, non trovando
nulla di prezioso, i
todeschi ci hanno percossi affinché li rivelassimo dove li
avessimo nascosti.” S’inumidì
le labbra gonfie e incrostate al ricordo dei pugni ricevuti da un
lanzichenecco
per nulla soddisfatto della risposta datagli, ossia che per loro di
prezioso
non v’era alcunché da rubare.
Il
certosino proseguì: “Dopodiché
è giunto alla Certosa monsignor
di la Peliza e subito il nostro Priore gli è corso incontro,
lamentandosi delle
crudeltà usate su di noi e su di un luogo sacro. Il
maresciallo s’è
immediatamente scusato, contrito: Non
sono stati i miei francesi, e se anche lo fossero stati,
v’avrei posto rimedio.
Ed ha giurato per la fede sua di schierare quei todeschi
malnati in prima
linea, una volta messa Trevixo sott’assedio”,
concluse il suo triste racconto,
appoggiando la bocca sull’orlo della scodella e ingoiando
avidamente il
piacevole liquido caldo.
Tipica
promessa del comandante: trasformare gli indisciplinati in
scudi umani al primo scontro, piuttosto di punirli in loco, scosse
il capo Fra’ Anselmo, che ormai stava imparando a capire il
modus operandi di
tal marmaglia. “E adesso? Cosa farai?”,
inquisì invece.
Fra’
Thomà lo guardò nervosamente dietro il piatto,
per poi
riconcentrarsi colpevole sulla zuppa. Il benedettino arcuò
insospettito il
sopracciglio, ancor di più quando Mercurio Bua comparve
all’uscio della porta,
facendo sobbalzare i due monaci.
“Colendissimo
padre”, lo sfotté il greco-albanese tramite la
riverenza e Fra’ Anselmo si morse la lingua, soffocando una
degna risposta a
quell’indegno saluto, “il maresciallo La Palice
richiede la vostra assistenza.
È ritornato dalla Certosa pallido, sudato e sostiene
soffrire di dolorosissime
fitte alla testa. La sua garzona vi saprà dire di
più a riguardo. Avreste
dunque la cortesia di visitarlo e magari di preparagli una delle vostre
portentose tisane?”
Il frate
s’alzò in piedi. “Vedo cosa
potrò fare.”
“Ah,
e già che ci siete, recatevi anche dal conte di Gambara.
Stamane non si è alzato dal letto e il maresciallo vorrebbe
informarsi sulle
sue condizioni di salute: temo che la sua improvvisa cavalcata non gli
abbia
affatto giovato”, aggiunse all’ultimo il capitano
di ventura.
Per tutta
risposta Fra’ Anselmo uscì
dall’infermeria, affidando i
suoi malati al confratello e assistenti. Rimasto finalmente solo con
Fra’ Thomà
Patavim, Mercurio occupò il posto vacato
dall’altro monaco, squadrandolo ben in
faccia. “La mia offerta rimane tuttora valida”,
andò dritto al sodo, “sta a voi
accettarla o meno, però vi avverto: oggi o mai
più.”
Il
certosino appoggiò la scodella sulle ginocchia, nettandosi
la
bocca col manico del saio. Nel suo resoconto di quanto accaduto alla
Certosa,
aveva omesso di riportare a Fra’ Anselmo un piccolo
dettaglio, ovvero che il
capitano degli stradioti Mercurio Bua aveva accompagnato il
generalissimo
francese alla volta del monastero e che mentre La Palice si beccava le
lamentele, sfuriate e anatemi del Priore, il condottiero aveva
avvicinato Fra’ Thomà,
domandandogli se avesse dei parenti a Treviso. Il frate, interdetto e
un poco
intimidito dalla cruda fama del Bua, gli aveva replicato che
dappertutto nel
mondo possedeva fratelli. Al che il capitano aveva
specificato
fratelli o parenti di sangue, non spirituali. Sì, ne aveva,
aveva allora
risposto il frate e inaspettatamente gli era stato chiesto se volesse
raggiungerli, giacché Mercurio gliene avrebbe offerta
l’occasione.
“Perché
mi volete aiutare?”, gli pose Fra’ Thomà
quella domanda,
che l’aveva tormentato sin dal loro primo incontro.
“Anzi, perché ci volete
aiutare?”, si corresse, menzionando il fatto che il
greco-albanese era disposto
ad estendere il favore anche agli altri undici frati malconci.
“Perché
siete delle inutili bocche da sfamare”, non gli
zuccherò
il farmaco il Bua, provocando un indignato rossore nel monaco,
“e non abbiamo
tempo per farvi da balie, men che meno il nostro maresciallo, che in
questo
momento ha ben altre gatte da pelare, che proteggervi dai
tedeschi.” Incluso
rimanere in salute, aggiunse mentalmente lo stradiota.
“Un
comandante incapace di tenere a freno i propri soldati, non si
può certo ritenere tale!”, giudicò
inclemente Fra’ Thomà, indicando il suo viso
a chiazze rosse e blu.
Mercurio
scrollò incurante le spalle. “In ogni modo, potete
scegliere se rimanere qui a patire la fame e le percosse, oppure
scappare a
Treviso e poi raggiungere il vostro ordine a Venezia.”
“Come?”,
strinse gli occhi il certosino, sospettoso e temendo un
inganno. Dopo lo scontro coi contadini, il bosco del Montello pullulava
degli
stradioti del Bua, i quali perlustravano assieme ai gendarmi ogni zolla
di
terra, in cerca dei superstiti e di scoraggiare anche gli esploratori e
stradioti veneziani, sempre vigili e pronti ad improvvise imboscate.
Sia
l’Abbazia che la Certosa erano occupate dagli accampamenti
dei
franco-imperiali, i quali avevano triplicato i turni di guardia.
Impossibile
quindi fuggire senza un aiuto esterno.
O interno.
“Darò
a voi e ai vostri confratelli una mia piccola scorta, la
quale v’accompagnerà al limitare del bosco, per
poi lasciarvi proseguire da
soli. Gli stradioti veneziani cavalcano in incessante esplorazione, non
tarderanno a notarvi e a soccorrervi”, gli spiegò
in breve Mercurio.
Fra’
Thomà reclinò il capo, dubbioso quanto il suo
omonimo santo.
“E tutta codesta generosità in cambio di
cosa?”, mise le carte in tavola,
arrivando al nocciolo della questione. La reputazione del Bua lo
procedeva e
pure le sue bizzarrie – tendere un’imboscata a chi
l’aveva sfidato a duello;
far catturare un suo alleato per ripicca; abbassare ad una cifra
ridicola e
simbolica la taglia di riscatto di un’intera
città; affrancare un uomo che non
aveva soldi per liberarsi; infilzare su di una picca la testa di un suo
parente
e rivale croato, per un’antica faida tra famiglie e tante
altre. Naturale che
il certosino poco si fidasse di lui, del suo carattere volubile e
appunto
mercuriale, di quel suo avvicinarlo senza un doppio scopo.
Il
greco-albanese s’avvicinò a lui, estraendo dalla
sua casacca un
foglio piegato e sigillato. “Consegnerete per conto mio una
lettera”, fu la sua
semplice richiesta.
“A
chi, nello specifico?”
“Al
magnifico e illustrissimo consigliere ducale, messer Giovan
Battista Morosini “da Lisbona.” A lui e a lui
soltanto.” Caterina non aveva
risposto ad alcuna delle sue lettere, né tantomeno suo
fratello Teodoro e i
suoi cognati Manoli e Costantino Boccali soltanto per mandarlo al
diavolo.
Silenzio totale anche dal Consiglio dei Dieci, dei Pregadi e il Doge
contava
quanto un due di bastoni, manco sprecava carta e inchiostro. A questo
punto,
considerata la situazione, era infine giunto il momento di rivolgersi
all’unica
persona su cui Mercurio poteva veramente far
leva.
“Cosa
dice?”
Il
capitano degli stradioti aggrottò la fronte, sorpreso e
piccato
da quell’eccessiva curiosità. “Non sono
affari vostri”, tagliò bruscamente
corto, spingendo la missiva sotto il naso del frate.
Fra’
Thomà incrociò testardo le braccia al petto.
“Sì, invece,
perché potrei rifiutarvi questo favore. Chi
m’assicura che non si tratti di
qualcosa di compromettente o che possa compromettermi agli occhi della
Signoria?”
“Che!
Avete la coscienza sporca?”
“La
calunnia, signor capitano, esiste dall’alba dei tempi. O mi
rivelate i contenuti o non se ne fa nulla”, fu
l’innegoziabile ultimatum del
monaco.
“E
voi rimarrete qui prigioniero e affamato”, levò in
alto i palmi
delle mani Mercurio, in realtà scocciato da tanta
testardaggine. Un conto era
comandare i suoi stradioti, un conto i civili, teste ancor
più dure. Almeno i
primi poteva sempre minacciarli con la frusta.
“Pensate
che la prospettiva mi spaventi?”, sogghignò
indulgente
Fra’ Thomà. “All’inizio non
comprendevo perché vi foste rivolto a me, ora sì:
soltanto uno interno alla Serenissima può recapitare questa
lettera al vostro
destinatario, poiché i vostri uomini verrebbero o catturati
o questa missiva
confiscata e letta da terzi e voi non desiderate ciò. Al che
vi si precludono
molte possibilità di scelta e se io dovessi rifiutarmi, voi
vi trovereste
daccapo. Ho forse torto?”
Il
condottiero batté sarcastico le mani. “Per esser
gente ch’ha
rinunciato al mondo, voi monaci la sapete anche fin troppo
lunga”, commentò
beffardo, ammettendo ciononostante la perspicacia del frate.
Sicché gli
concesse la sua richiesta, sebbene ai suoi termini. “In
breve - e
non chiedetemi ulteriori dettagli - mia moglie si
trova al momento a
Venezia e quando la Signoria avrà intenzione di
restituirmela - alle
condizioni da me elencate - invierò una
robusta scorta dei miei
migliori stradioti a prelevarla, così da levar il disturbo
alla Signoria
d’organizzare la cosa. Soddisfatto? Abbiamo un
accordo?”
Fra’
Thomà ponderò a lungo i pro e i contro,
alternando la
contemplazione della lettera al viso dell’epirota, le cui
sopracciglia si
stavano avvicinando impazienti ad ogni istante di tentennamento da
parte del
monaco. “Mi pare una richiesta ragionevole”,
sentenziò infine e Mercurio
convenne assolutamente con lui. “Sul serio ci assisterete
nella fuga?”,
sussurrò poi d’un tratto ansioso.
“Avete
la mia parola d’onore”, si portò il
condottiero una mano al
cuore, gli occhi luccicanti di febbrile eccitazione. “Possa
Iddio fulminarmi in
questo istante se mento.”
Il
certosino lo chetò tramite un deciso gesto della mano,
ritenendo inopportuno scomodare il Padreterno per tali quisquiglie.
“Accetto”,
dichiarò solenne, sfilando la lettera dalle dita di Mercurio
e nascondendola
sotto lo scapolare.
“Badate:
quanto vi ho appena confidato, resterà con voi. A nessuno
- intesi? - a nessuno dovrete ripetere i contenuti
di questa
lettera”, si raccomandò il greco-albanese,
ponendosi in piedi e squadrandolo
intimidatorio.
“Sia”,
annuì Fra’ Thomà.
“Riposatevi
adesso per qualche oretta e poi recatevi nella mia
cella: Zilio Madalo, il mio luogotenente,
v’istruirà dove incontrarvi per la
partenza. Il tutto con discrezione”, giacché La
Palice ignorava alla grossa
questa personale iniziativa del condottiero: agli occhi profani dei
francesi, i
frati erano scappati e gli stradioti del Bua partiti alla loro ricerca,
ma,
ahimè, senza successo.
Fra’
Thomà asserì di nuovo col capo, raggiungendo il
gruppetto dei
suoi confratelli per informarli a grandi linee del piano per
abbandonare l’Abbazia
alla volta di Treviso, inducendoli alla calma e circospezione onde
evitare di
destare sospetti, specialmente tra i benedettini, i quali avrebbero
potuti
denunciarli o all’Abate o al maresciallo oppure accodarsi a
loro e di
conseguenza complicarli la fuga.
Mentre i
certosini così confabulavano, Mercurio si recò a
porger
visita al suo prigioniero, trovandolo per suo sommo fastidio bianco
quanto le
lenzuola. Seduto a tenergli compagnia l’immancabile
marmocchio, interrompendolo
l’arrivo del condottiero nel bel mezzo della spiegazione
della parola
“espettorante” da lui imparata quella mattina.
“Hai
mangiato?”, s’informò perentorio il Bua,
notando la scodella
preoccupatamente vuota e asciutta. A seguito della discussione di
quella
mattina ancora risentiva il patrizio per le sue insinuazioni,
ciononostante si
sforzò di non recriminarlo eccessivamente per delle - lo
riconosceva - giuste
obiezioni sull’ambiguo comportamento
dell’Imperatore. D’altronde anche La
Palice ne diceva su di lui peste e corna, ergo …
“Gli
ultimi rimasugli di zuppa di rape se li sono pappati quei
monaci certosini”, gli rispose concisamente Hironimo,
ponendosi come suo solito
davanti a Thomà.
Potrei
stenderlo con un unico ceffone e ancora crede di riuscire a
proteggere il moccioso. “Uhm”, contemplò
pensieroso il capitano di
ventura la punta dei suoi stivali. Perché si
sentiva lui a
disagio invece di quell’altro, quando dalla parte del torto
sguazzava appunto
il veneziano? “Provvederò a farti portare
qualcosa. Anche al pidocchio, lo
so”, l’anticipò snervato, non
appena il Miani aprì la bocca per replicare.
Invece
… “No, non era questo di cui volevo
parlarti.”
“Ti
preferivo muto, sai?”, roteò gli occhi Mercurio,
affatto
desideroso di un’altra diatriba, la quale sarebbe
puntualmente terminata con
lui arrabbiato e il Miani pestato peggio d’un
baccalà.
Il
patrizio chiuse la mano in un pugno, segno che neanch’egli
aveva tempo per incominciare le solite discussioni da lavascale.
“E così hai
intenzione di far fuggire quei monaci certosini?”, gli
domandò brutalmente
schietto. “Suvvia, da quando in qua parli fitto-fitto con un
frate? Neanche se
me lo giurassi su tua madre, ti crederei così cristiano da
confessarti”, gli
delucidò con un sorrisetto compiaciuto.
Mercurio
sobbalzò, non attendendosi d’esser stato scoperto
così
presto. E adesso? Quale provvedimento questo furbastro voleva prendere
contro
di lui? Ricattarlo? Denunciarlo? Ci provasse pure, gli avrebbe estratto
le
budella dalla bocca!
“Dunque?”,
gli chiese imperturbabile. “Anche se fosse?”
Hironimo
lo trafisse coi suoi occhi nerissimi. “Come ne
sgattaiolano fuori dodici, ne possono sgattaiolare fuori quattordici
…”
Il Bua
sentì fischiargli le orecchie e divenne paonazzo.
“Stai
tentando di corrompermi per lasciarti fuggire con loro?!”,
berciò furioso, già
avanzando di qualche passo per riempire di ceffoni quel muso da
impunito del
patrizio, il quale allungò il braccio, ponendo una stizzita
distanza tra loro.
“Se
mi ascoltassi invece di continuare ad interrompermi, magari ci
capiremmo!”, lo rimbeccò al limite della sua
pazienza. “Tre settimane trascorse
a sopportarti e poi - oh! - mi
liberi
così? Senza uno scambio o un pagamento di riscatto? Dai! Non
offendere la mia
intelligenza!”, asserì offeso e perentorio. Il
giovane indicò poi il lettuccio
accanto alla scrivania di Fra’ Anselmo. “Invece,
qui in infermeria si sono
rifugiate due contadine, giunte ieri dal bosco del Montello e i come e
perché
penso tu già li conosca benissimo.”
Il
malessere oscuro provato durante l’intera nottata scorsa
investì in pieno il condottiero. Subito si pose sulla
difensiva, scacciando via
cocciuto quei vili pensieri. “Cosa vuoi da me? Che le includa
nell’allegra
comitiva?”, finse ironica disponibilità.
Non si
scorgeva un granello di spiritosaggine in Hironimo, semmai
una determinazione mista a dell’intimo disgusto e delusione,
colando tali
sentimenti nella sua spiccia risposta: “Sarebbe il minimo
dopo la porcata che hai
commesso.”
“Ti
ho detto, ch’io non forzo le donne!”,
balzò in avanti
Mercurio, sporgendosi imponente sopra di lui, ma il Miani sostenne
imperturbabile il suo sguardo, il mento ben alto in segno di sfida.
“I vostri soldati,
al contrario, l’hanno fatto
per tutta la notte scorsa! Quindi, se non colpevole, sei
perlomeno complice del
loro stupro!”, ogni parola pesava più
d’un macigno sulla coscienza del greco-albanese,
per la prima volta in vita sua. Forse perché nessuno,
nemmeno Caterina, aveva
avuto il fegato di schiaffargli in faccia le sue meschinità?
“Avresti potuto
intervenire. Trovare un altro modo per premiare i soldati. Invece, hai
preferito la via più facile e mi sorprende venire proprio da
te, che tanto
professi d’amare tua moglie e tua figlia ma al contempo non
hai dimostrato un
minimo di pietà od empatia verso quelle mogli e figlie,
trasformate per tuo ordine
in carne da dare in pasto ai tuoi cani
lussuriosi!” La sera
addietro non aveva potuto credere alle parole del soldato lombardo;
purtroppo i
racconti delle due fuggitive, riferitigli da Thomà, avevano
confermato la
sordida verità e nauseatolo al punto da rigettare per intero
la zuppa della
sera precedente.
La testa
di Mercurio guizzò dall’altra parte, neanche
avesse
ricevuto un possente ceffone. Cacciò fuori un pesante
sospiro, le mani poste
nervosamente ai fianchi e i denti martorianti la tenera carne delle
labbra. “E
che cosa ci guadagno a farle fuggire, sentiamo?”, lo
provocò stizzoso al limite
del petulante; in realtà Hironimo sapeva
che quella battaglia la
stava nettamente per vincere, a giudicare dalla fissità
dello sguardo dell’epirota,
un cane in attesa dell’ordine del padrone.
“Qualche
girone più in alto all’inferno!”,
dichiarò sarcastico il
Miani.
“Così
m’indisponi”, gli ricordò seccato il
condottiero.
Il
giovane patrizio fece spallucce. “E’ la tua
coscienza sporca,
non le mie parole.”
“Da
quando in qua un prigioniero impone alcunché al suo
guardiano?”
Hironimo
neanche degnò il Bua di una risposta, appoggiando la
schiena sui cuscini, le vertigini risvegliatesi dalla pennichella nel
suo
cervello. Lo stomaco gli gorgogliava, avvertiva un gran dolore tra le
costole e
freddo alle mani e ai piedi. Decisamente aveva più diritto
lui di giocare allo
sdegnato e offeso, rispetto a quel lunatico d’un
greco-albanese. Ignorando
completamente la sua domanda, optò per un’altra
tattica, che sperò portagli qualche
risultato soddisfacente. “Una di quelle contadine”,
e indicò una delle due
sagome dietro la tenduccia, “raccontava a Thomà
come avesse trovato il cadavere
del suo compagno mezzo decollato. Gli ha mostrato la ciocca di capelli
strappatagli per ricordarsi di lui, per mostrare qualcosa di tangibile
al
figlio che porta in grembo …” Il fantolino,
commosso, gli aveva riferito come
Lussìa avesse lavato via il sangue e intrecciato quei
capelli in una piccola
croce, acciocché l’anima del suo Berto vegliasse
su di lei e il piccino. “Ma
tanto cosa parlo a fare”, asserì amaramente il
patrizio e lisciò le pieghe del
lenzuolo, “tu possiedi un’anima nera quanto il
carbone.”
E dal
fondo nero d’essa riemerse nella mente di Mercurio il volto
di quell’anonimo contadino da lui ucciso il giorno addietro,
macchiato di
sangue e gli occhi saettanti di rabbia e disperazione. Mors
tua vita
mea, d’accordo, ma pure infierire sulla mia donna e mio
figlio?, schiumava
l’annoso quesito da quella storta bocca mutilata.
In un
battito di ciglia tale angosciante visione scomparve,
rintanandosi nella memoria prodigiosa dello stradiota, là
dove simile ad un
parassita avrebbe atteso ogni suo istante di stanchezza per
ripresentarsi a
lui, tormentandolo. Dinanzi a Mercurio rimase soltanto il viso di
pietra
d’Hironimo, raccolto impassibile nei suoi pensieri.
“Quando
cesserai d’intercedere per gli altri e incomincerai a
supplicare per te stesso?”, non si frenò dal
domandargli il Bua, genuinamente
intrigato da quella sua ostinatezza di voler alleviare le altrui
sofferenze
senza curarsi delle proprie. Certo, si trattava della sua gente,
però nulla
aveva il veneziano chiesto per mitigare l’asprezza della sua
prigionia. Una
volta, per punzecchiarlo, l’aveva minacciato che
s’avesse ceduto la sua porzione
al marmocchio, non ne avrebbe ricevuta un’altra. Sia,
era stata
gelida risposta del suo prigioniero e allora per testare questa sua
determinatezza, il condottiero sul serio non gli aveva dato da
mangiare, ma da
quell’altro non una parola di lamento né di
protesta.
“Mai”,
gli rispose stoico ed orgoglioso il Miani. “Non
supplicherò
mai nessuno.”
Il
capitano di ventura batté il piede per terra, grattandosi
pensieroso la nuca, roso dal dubbio. In fin dei conti, che gli costava?
Altre
due bocche, anzi tre, in meno contro cui contendersi il pane
… “Che
si vestano da monaci”, cedette il Bua, tornando un poco a
fiatare. “Per
evenienza”, aggiunse, levando in alto la testa e si sorprese
di trovare un
timido sorriso sul volto pallido d’Hironimo.
“Te
ne saranno molto grate”, gli sussurrò sincero.
D’accordo,
era giunto il momento di battere velocemente in
ritirata. “Non me, è te che
debbono ringraziare”, non volle
l’uomo perdere alcuna parvenza di dignità,
chiudendo la tendina e dirigendosi
verso Fra’ Thomà Patavim in modo
d’aggiornarlo circa i suoi nuovi compagni di
viaggio.
Sennonché
venne intercettato da un cupo Fra’ Anselmo, di ritorno
dalle sue visite. “Deduco dal pranzo di due giorni fa che i
Conti siano vostri
amici?”, esordì dritto al dunque il monaco.
“Affermi
il vero, frate.”
“Bene,
perché qui in infermeria non c’è
più posto e le celle non
sono il posto più salubre per due ammalati.”
“Invierò
immediatamente un nostro emissario ai Conti, chiedendo
caritatevole ospitalità nel loro castello per il nostro
maresciallo e per il
conte di Gambara”, colse Mercurio la palla al balzo:
perfetto, con la scusa del
trasferimento di La Palice e del nobile bresciano a San Salvatore,
l’attenzione
del campo sarebbe stata doppiamente rivolta altrove.
In uno
massimo due giorni la lettera sarebbe giunta nelle mani del
consigliere ducale sier Morexini e, a Dio piacendo, fra una settimana
avrebbe
finalmente riabbracciato la sua Caterina. Poi il resto poteva andare
giù per lo
scolo di fogna, non gliene fregava un gran bel fico secco.
Ignaro
dei suoi ragionamenti, Fra’ Anselmo terminava di riferirgli
la sua diagnosi: “Il vostro maresciallo dovrebbe rimettersi
senza eccessivi
fastidi, forse già per fine mese sarà guarito. Ho
adeguatamente istruito la sua
garzona sui rimedi da somministrargli. Quanto al signor conte
…” e qui la voce
dell’uomo tremò leggermente e così
anche il Bua, più che altro perché col
Gambara ci aveva lavorato a stretto contatto e maledetto fosse in
eterno quel
bresciano, in caso gli avesse appiccicato il morbo!
“Ebbene?”,
lo spronò nervoso, tentato dalla voglia matta di porre
fine di persona alle sofferenze del Gambara e poi di bruciarne per
sicurezza il
cadavere.
“Non
più di due mesi”, sentenziò grave il
benedettino, ritornando
alla sua scrivania.
“Gliel’avete
comunicato?”
“Ovvio”,
fece sorpreso Fra’ Anselmo, “così il
signor conte avrà
tutto il tempo per riflettere sulla sua vita, tirarne le somme e
riappacificarsi con Dio e cogli uomini. Contrariamente a voi profani,
che
mascherate la verità attraverso futili speranze”,
e gli puntò contro la penna,
“noi fisici siamo assai più pietosi nel descrivere
le cose per come stanno.”
“Rivelare
a quel disgraziato che gli rimangono due mesi di vita?”,
ribatté scettico Mercurio. “A me pare piuttosto
impietoso, invece.”
“Impietoso
è ciò che l’attende, se non si prepara
adeguatamente.”
“Detesto
i vostri sermoni escatologici”, sbuffò il
condottiero.
Fra’
Anselmo non se ne curò di certo. “Tutti verremo
giudicati,
figliolo, peccato che a nessuno piaccia sentirselo dire in
anticipo”, e sorrise
sornione.
Al che
Mercurio guizzò via rapidissimo dall’infermeria:
due
prediche in un sol giorno erano davvero troppe per un poveruomo.
***
Era buffo
osservare sier Zuam Paulo Gradenigo, sier Andrea Donado
e il figlio Nicolò, sier Lunardo Zustignan e sier Marco
Miani tentare
comicamente d’impironare la fetta di brasato senza arricciare
la bocca dal
fastidio, utilizzato soltanto le prime due dita, gli unici arti liberi
dalle
bende alle mani, testimoni dell’intesa attività
manuale alla cinta muraria.
I lavori
alle mura settentrionali erano miracolosamente terminati,
proprio come prefissatosi dal provveditore generale: l’intera
città vi aveva
lavorato in sincronia perfetta sia di giorno che di notte,
trasformandosi in un
operoso alveare d’api, tutti ordinatamente ai loro posti,
uomini e donne;
guastatori, genieri, soldati, patrizi, cittadini e popolani, laici e
religiosi,
in un continuo viavai di carriole e passamano di materiali edili e
calce. Poi,
quando s’era giudicata conclusa l’impresa, o
perlomeno il suo grosso, i trevigiani
erano rimasti a contemplare basiti il risultato, a bocca aperta,
incapaci di
credere al nuovo complesso murario dinanzi a loro, così
possente e arcigno e a
Dio piacendo infallibile contro le cannonate nemiche.
Dopodiché s’erano trascinati
ognuno alle proprie case, desiderando null’altro se non
dormire ed immergere le
mani gonfie e piene di vesciche e calli nell’acqua fredda.
Oltre
alle mura, ci si era attivati alacremente a demolire i
monasteri a loro ridosso o in prossimità, quali San
Girolamo; Santa Maria del
Gesù; Santa Chiara; Santa Maddalena e ciò per
creare spazio vitale e
impossibilità al nemico di rifugio. Al monastero Santi
Quaranta era stato
concesso di vivere ancora per qualche settimana, intanto che fungeva da
quartiere
per gli stradioti di Teodoro Paleologo; poi anch’esso sarebbe
stato abbattuto.
Un duro sacrificio per la religiosissima città, ma
essenziale.
Il tempio
della Madonna Grande al contrario continuava, malgrado i
continui accordi e promesse, a creare problemi, ché
distruggere quella chiesa
limitrofa alle mura equivaleva a trafiggere il cuore della popolazione
trevigiana, da secoli fedelissimi al sentito culto mariano e certi,
come
scriveva sier Lunardo Zustignan ai suoi familiari a Venezia, che
“la devotissima
Nostra Donna è lì per aiutarli” contro
i franco-imperiali e contro la
pestilenza insinuatasi in città.
Le
squadre di guastatori avevano già demolito il monastero
attiguo
dei Canonici Regolari, commissionato nel 1491 dal Patriarca di Venezia
domino
Antonio Contarini, all’epoca Priore del santuario, assieme al
tempietto e alla
sagrestia attigua. Anche il campanile era stato abbassato, riconvertito
in
torre di vedetta. Tuttavia, causa le occhiatacce torve e feroci dei
trevigiani,
i guastatori non avevano osato proseguire oltre, temendo picconate in
testa o
direttamente la lapidazione.
A seguito
di notevoli tira e molla tra le autorità civili (che a
tutti i costi voleva evitare una possibilissima sommossa popolare) e le
autorità militari (ciechi ad ogni devozione tranne
all’ottica bellica) s’era
giunti ad un compromesso: ogni parte a ridosso delle mura sul lato
orientale
sarebbe stato demolito; il tempietto lombardiano che incorniciava
l’affresco
della Nicopeia dei Miracoli invece risparmiato.
Sfortunatamente,
quel 20 settembre, il capitano Renzo di Ceri
s’era riscoperto insoddisfatto dell’accordo e aveva
ordinato, per sommo orrore
generale a cominciare dagli stessi guastatori, d’abbattere il
tempietto e il
muro perimetrale dove si trovava l’immagine miracolosa.
Immediatamente
una folla esagitata era corsa ad avvisare sottocasa
sier Zuam Paulo
Gradenigo e un furioso e pubblico diverbio n’era scaturito
tra i due
comandanti, il provveditore arrabbiato a bestia per
l’ennesima insubordinazione
del condottiero laziale, opponendosi con infiammato vigore alla
demolizione
della cappella della Madonna. I due contendenti erano arrivati al punto
di
mettersi le mani addosso, sennonché alla fine Renzo di Ceri
aveva ceduto alle
pressioni del Gradenigo o piuttosto all’espressioni crucciate
dei trevigiani lì
riunitisi a cerchio, i quali lo fissavano impestati d’odio e
già calcolando il
primo albero disponibile dove appiccare l’Orsini.
A denti
stretti Renzo di Ceri aveva accettato di dare la mano a
sier Zuam Paulo in segno di pubblica pace e concordia, ironicamente
dinanzi
all’immagine sacra che avrebbe voluto distruggere.
“Però
vi giuro”, riferì a cena sier Lunardo Zustignan
all’ancora
sbuffante provveditore, “d’aver sentito borbottare
il capitano: Dio
dice: Aiutati, che t’aiuterò
anch’io”, e che quest’opera di
demolizione non è
mal alcuno.”
La
bellissima chiesa della Madonna Grande s’era quindi ridotta
ad
un rudere informe, mutilata delle tre cappelle gotiche,
dell’abside e del
transetto. Le tre navate sarebbero state riconvertite per deposito
munizioni e
gli alloggi dei soldati, mentre una provvisoria copertura avrebbe
protetto il
tempietto lombardesco.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo abbassò il piron, stufo del brasato sul
piatto. Poi però l’appetito lo vinse, ci
ripensò su e, seppur dolorosamente per
via delle piaghe alle mani, morse il pezzetto di carne. “Mi
duole il cuore come
a tutta Trevixo; tuttavia, per un bene superiore, bisogna pur far
sacrifici.”
“La
cappella della Madonna non corre più alcun pericolo ed era
questo ciò che più premeva al popolo. Tutto bene
quel che finisce bene”, lo
consolò sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo, ancora
vestita del
semplice abito da lavoro, così come la moglie del
podestà madona Francesca
Gradenigo Donado e madona Helena Spandolin Miani.
La
nobildonna, troppo anziana per lavorare alle mura, ugualmente
non aveva voluto restarsene a casa con le mani in
mano e,
racimolando un gruppo di volontarie, aveva pigliato il comando
dell’Ospedale
trecentesco di Santa Maria dei Battuti, controllando le scorte di
bende,
medicinali e strumenti chirurgici, i posti letto per i
feriti e gli
ammalati, specie per quest’ultimi, il cui numero stava
crescendo sì
rapidamente, da trasferirne alcuni al lazzaretto. Né la mole
di lavoro né gli
scetticismi dei direttori dell’ospedale l’avevano
trattenuta dal rigirarseli
tra le dita: accompagnare il marito in quasi tutte le sue spedizioni
militari
non significava solamente starsene in tenda a cucire o a guardare le
sfilate
delle truppe.
“Sier
Vincenzo Salamon e sier Vincenzo da Riva torneranno domani a
Veniexia”, cangiò discorso madona Maria,
acciocché il consorte placasse la
persistente arrabbiatura verso il capitano Orsini. “Anche le
condizioni di
salute del capitano Naldo Naldi e del connestabile Domenego da Modom si
sono
aggravate. Il numero d’ammalati sta aumentando di giorno in
giorno e purtroppo
ci troviamo a corto sia di medici sia di chirurghi.”
“Sier
Andrea”, si rivolse madona Helena al podestà,
“vorrei per
cortesia domandarvi aiuto, nell’aiutarmi a persuadere il
vostro nezzo Marco a
rimpatriare anch’egli a Veniexia. Stamane, quando
l’ho incrociato mentre usciva
di casa, aveva una faccia talmente bianca da sembrarmi morto. Madona
Felicita
Cimavin, presso cui egli alloggia, m’ha inoltre riferito come
al suo ritorno,
dopo la ronda, Marco si sia buttato a letto, stanchissimo, senza
neppure
cenare. Per questo motivo non ha potuto unirsi a noi stasera e di
questo si
scusa.”
Sier
Donado spalancò la bocca incredulo, sbiancando
anch’egli alla
notizia dell’improvvisa malattia di suo nipote Marco
Contarini, prefigurandosi
la sfuriata di sua sorella madona Alba non appena si fosse rivista
rincasare il
figlio più morto che vivo. D’altronde, parecchi
patrizi erano dovuti
rimpatriare in fretta e furia per via di quella strana febbre,
spopolando i
torrioni dei loro guardiani. “Ma certo”, gli venne
in soccorso sua moglie
madona Francesca, replicando al posto suo e traendolo
d’impaccio, “parlerò io
stessa domani col mio nezzo. Grazie mille per averci
avvertito.”
Marco
Miani, al contrario, aggrottò la fronte e scoccò
un’occhiata
affatto compiaciuta anzi assai sospettosa alla moglie, domandandole
silente da
quando in qua tutta quella confidenza col Contarini, da conoscere
così
approfonditamente il suo stato di salute e da fargli perfino da
portavoce.
Imperturbabile, madona Helena gli pestò sotto il tavolo il
piede, riportandolo
a miti consigli: il piccolo Scipio era la prova vivente che Marco
doveva esser
l’ultimo sulla faccia della terra a predicarle la
fedeltà coniugale, perdendo
in aggiunta ogni diritto di farle il geloso.
“Certamente,
se sta male è giusto che Marco torni a casa”,
convenne il podestà, ripigliatosi dal suo iniziale
spaesamento e ignaro delle
diatribe sotterranee tra i due coniugi. Suo figlio Nicolò
avrebbe accompagnato il
cugino germano, così d’allietargli il lungo e
deprimente viaggio in burchio e
portare le scuse scritte dal padre a sua zia.
“Questa
mattina”, interruppe sier Lunardo Zustignan il pesante
silenzio impostosi tra i commensali, “è ritornato
da una sortita il nostro
Draganeto e i suoi esploratori. Con loro avevano due prigionieri, un
cavallaro
francese e un feltrino proveniente da Bolzam, ai quali hanno trovato
addosso
delle lettere da parte dell’ambasciatore francese indirizzate
a monsignor di la
Peliza. In esse l’oratore si lamentava di come
l’Imperatore non sembri disposto
ad organizzare alcunché per venir in soccorso ai suoi
alleati; che la cosa lo
lascia mezzo confuso e che per non attristare monsignor di La Peliza,
non vuol
dilungarsi in spiacevoli dettagli.”
Una
giovale risata riecheggiò nella sala, l’umore
decisamente
sollevato. “Poareto! Non lo vuol far piangere!”,
commentò Marco, stringendo a
mo’ di scusa la mano a madona Helena, che ricambiò
ridendo anch’ella
all’immagine del maresciallo riverso in fiumi di lacrime alla
notizia
dell’inettitudine dell’Imperatore.
“Il
signor capitano Vitello ha commentato a riguardo, che ciò
spiegherebbe
il generale malcontento dei francesi e che quindi, quella loro
testardaggine a
voler comunque porre Trevixo sott’assedio o sia figlia della
paura di una
ritorsione da parte dell’Imperatore oppure del loro smisurato
orgoglio e senso
dell’onore”, riferì Zustignan.
Sier Zuam
Paulo sbuffò dietro il bicchiere: tra i francesi a
tentennare e i tedeschi a sbravazzare nella Patria del Friuli, non si
sapeva se
ridere o piangere di quella situazione.
“Piuttosto”, chiese al nipote del Doge,
“le carte del Ducha di Frara e del Roy di Franza?”
Oltre
agli emissari provenienti da Bolzano, gli esploratori
veneziani avevano intercettato lettere provenienti dal medesimo Louis
XII,
d’Alfonso d’Este e dallo scomunicato cardinale
Federico Sanseverino, scritte in
codice cifrato e in francese, sicché si poteva ben definirla
una giornata
proficua. I traduttori e i cifristi avevano lavorato alacremente fino
all’ultima parola, traducendo e decifrando a
velocità impressionante, affinché
la Signoria ne fosse informata quanto prima. L’eco della resa
di Udine e delle
altre città friulane aveva aumentato la pressione su Treviso
e ogni
informazione poteva fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
“Anche
queste lettere erano destinate a monsignor di La Peliza”,
riassunse sier Lunardo, imparatene oramai i contenuti a memoria a furia
di
scrivere rapporti su rapporti alla Signoria, “in esse il
Ducha di Frara gli
ricordava la promessa fatta d’inviargli in soccorso trecento
lance nel
Polesene, così d’aiutare le truppe estensi a
Lignago. Il Ducha gli ha poi
allegato una cartina di Frara e delle terre ferraresi a ridosso del
padovano,
acciocché La Peliza sappia meglio orientarvisi.”
“Ci
state dunque dicendo, che il Ducha si crede tanto furbo e
invincibile, da spedire a La Peliza le mappe del suo ducato e da
descrivergli
nel dettaglio gli spostamenti delle sue truppe?”, non
riuscì a concepire Marco
tale ingenuità tattica. Non calcolava l’Estense,
che per raggiungere via corriere
La Palice a nord della Marca Trevigiana i suoi cavallari dovevano
passare
forzatamente per il padovano prima e per il trevigiano meridionale poi,
ergo
inciampando nella fitta rete di spie ed esploratori? Incredibile! Un
errore
così madornale se lo sarebbe aspettato da uno scolaretto
fresco di studi, non
da chi si fregiava d’essere un esperto veterano di guerra e
più soldato che
duca.
“Il
signor Ducha”, commentò spassionatamente il
provveditore
Gradenigo, “poiché ha vinto alla Polesella e
contro il Papa, non soltanto si
crede ora un gran condottiero e stratega – e questo di per
sé è già più
scusabile, chi non ha mai peccato d’hybris? – ma
addirittura s’atteggia da
vincitore e padrone del nostro Polesene, sicché la prudenza,
per lui, può ben
andarsene alla malora!”
“A
suo gran danno”, ribatté Marco, rigirando il
coltello tra le
mani bendate. L’esperienza gli aveva insegnato quanto
arroganza rimasse con
stupidità, ché soltanto il superbo crede di
conoscer tutto, sbagliando invece
clamorosamente. Come l’Estense in quest’esatto
momento. “E tutto che
danneggia monsignor di La Peliza e il suo amichetto don Alphonso
d’Este, non
può che giovare la Signoria!”
“Amen.”
Il
trinciatore s’intromise timidamente nella conversazione,
chiedendo se lorsignori desiderassero ancora un po’ di carne
prima di spedirla
indietro.
“Ieri,
sul Montelo, la compagnia del signor Renzo Manzino
s’è
imbattuta in quanto rimasto dello scontro tra il nemico e i villani,
trovando
cadaveri e cavalli sparsi ovunque per il bosco … Li hanno
seppelliti, uno
spettacolo pietoso mi raccontava … Ahimè, non ci
voleva anche questa …”, intrecciò
le mani sul tavolo il podestà sier Andrea, d’un
tratto nauseato dalla cena.
“A
tal proposito”, s’inserì Marco, tentando
nuovamente
d’intercedere presso di lui, visto che Gradenigo a riguardo
s’era dimostrato
irremovibile, “se potessi di nuovo cavalcare alla volta del
Montelo per
assicurarci che …”
“No”,
lo interruppe immediatamente il provveditore, conoscendo
l’eccessiva condiscendenza del podestà,
“sier Marco, necessitiamo della vostra
presenza alla custodia del Castello sul Terajo
per la via di Mestre: la malattia ha
sfoltito le nostre fila di gentiluomini e soldati, non possiamo
rischiare di
perdevi al nemico!”
Le nari
del Miani si dilatarono rabbiose, espirando a fondo ed
ingoiando a fatica una rispostaccia. Helena subito gli
afferrò il polso,
stringendo ed allentando, poi di nuovo stringendo ed allentando la
presa, onde
calmarlo quando gli scoppi d’ira, ereditati dal padre sier
Anzolo, rendevano
irragionevole il consorte. Sier Zuam Paulo comprendeva benissimo quale
smania
agitasse il suo conterraneo: voleva il fratello libero e anche lui,
fossero
stati i ruoli invertiti, avrebbe reagito alla stessa maniera.
Nondimeno, meglio
negoziare da vittoriosi che da perdenti e se quest’assedio
fosse finito appunto
a loro favore, a testa alta avrebbero preteso, non supplicato, la
liberazione
di sier Hironimo Miani.
“Dalla
Badia sono scappati oggi dodici frati certosini”, gli diede
però un piccolo contentino, “può darsi
che sappiano qualcosa su vostro
fratello. Dopocena, se lo desiderate, mi potreste accompagnare al
convento di
Sen Paris e Senta Crestina.”
“Per me
anche subito: non ho più appetito”,
scansò in avanti il
piatto Marco, raddrizzandosi sulla sedia e pronto a scattare in piedi.
Zuaneta
sparecchiò lesta, arrossendo e balbettando quando il Miani
la ringraziò,
sgambettando via in cucina con le farfalle allo stomaco.
“Che?”, domandò egli
spaesato ad Helena, che lo studiava attenta.
“Niente”,
rispose ella sottovoce e in greco, ridacchiando tra sé e
sé all’idea d’emulare i turchi, ossia di
vestire suo marito da capo a piedi di
un lungo telo e di coprirgli il viso, acciocché nessuna
donna glielo guardasse
troppo golosa.
La Priora
del convento delle monache camaldolesi di San Parisio e
di Santa Cristina, situato presso l’omonimo ponte e poco
distante dalla chiesa
di San Francesco, attendeva solennemente benigna sier Zuam Paulo
Gradenigo e
sier Marco Miani, ricevendoli calorosamente nel parlatorio
d’ingresso. Il suo
viso affilato e vigile, pur nascosto dalla pesante e doppia grata
traversa,
s’illuminò particolarmente alla vista di madona
Maria e madona Helena dietro i
rispettivi mariti, grata di aver finalmente trovato qualcuno cui poter
affidare
in tutta sicurezza le due contadine giunte assieme ai dodici frati
dall’Abbazia
di Sant’Eustachio a Nervesa, il cui arrivo aveva creato non
poco scompiglio in
quel rigoroso e appartato ambiente femminile. Con la distruzione dei
monasteri
fuori dalle mura, molti esponenti degli svariati ordini religiosi
s’erano
ritrovati sfollati e i conventi cittadini non avevano la
capacità d’ospitare
nelle proprie celle e foresterie sia loro che i fuggitivi dalle
campagne.
Sicché alcuni erano ritornati in casa dei rispettivi
parenti, altri erano
saliti sui burchi per Mestre, Padova e Venezia. La Madre Badessa non
s’era
tirata di certo indietro nell’assistere quei poveracci
scampati all’inferno,
ricordando severamente alle monache che la virtù teologale
della Carità doveva
vincere anche la naturale ritrosia dettata dalla pudicizia. E poi, in
tutta
onestà, si trattava di una manciata d’ore, al
massimo di una notte di sosta. La
Priora s’era arrovellata piuttosto per la sorte delle due
contadine, non avendo
sul serio più spazio all’interno del convento. La
Madre Badessa aveva inviato
una conversa in ambasciata alla Priora del monastero benedettino di San
Teonisto, ricevendo però la medesima risposta: non
c’era più posto. Figurarsi poi
la sua sorpresa della monaca camaldolese, quand’aveva
scoperto che sotto il
saio certosino si celavano due femmine, per di più una in
avanzato stato di
gravidanza! Come poteva imporle di dormire per terra nella sua delicata
condizione? Di sicuro la moglie del provveditore possedeva sufficiente
posto a
casa sua e l’avrebbero aiutate.
Davanti
alla grata nel parlatorio e accanto alla suora portinaia,
stavano in piedi Fra’ Thomà Patavim e suo cugino
germano, Zuam Batista Patavim,
accorso quest’ultimo al convento non appena informato
dell’arrivo del
congiunto, così da riportarselo a casa. Del gruppetto dei
monaci fuggiaschi,
solamente Fra’ Thomà s’era offerto di
conferire col provveditore, essendo gli
altri sfiniti dalla lunga marcia e provati dagli stenti e le percosse.
La Madre
Badessa li aveva sistemati alla bell’e meglio in refettorio,
chiusi
prudentemente a chiave e rassicurata dalla ferma intenzione dei
certosini
d’imbarcarsi l’indomani per Venezia.
“Come
siete riuscito a fuggire dalla Badia?”, interrogò
Gradenigo
senza alcun preambolo il monaco, incuriosito da tanta formidabile
scaltrezza.
Fra’
Thomà guardò interrogativamente la Priora
attraverso le
sbarre, la quale lo incoraggiò a parlare.
“Un’occasione propizia, sior
Provedador: monsignor di La Peliza e domino Zuan Francesco di Gambara
si sono
ammalati e i Conti di Colalto li hanno offerto ospitalità
nel loro castello a
Sen Salvador. Di conseguenza, approfittando della confusione generata
da questo
sanmartin, i miei confratelli ed io ne abbiamo approfittato per scappar
via.”
I patrizi
veneziani si scambiarono tra di loro occhiate
impressionate: quando si diceva fortuna sfacciatissima. Evidentemente,
dopo
averle prese in abbondanza dai franco-imperiali, il Padreterno aveva
deciso di
ricompensare la mitezza dei certosini attraverso quella ghiotta
possibilità di
fuga. Inoltre, la notizia della malattia del maresciallo francese e di
quel
gran traditore del Gambara suonava ai loro orecchi musica assai gradita.
“Cos’altro
accade da quelle bande?”, lo sollecitò il
provveditore,
avido d’ulteriori informazioni all’interno
dell’Abbazia e tra le schiere
nemiche.
“I
Conti di Colalto, dietro cospicuo pagamento, riforniscono
l’esercito nemico di vittuarie”, gli
obbedì Fra’ Thomà. “Gli
stradioti e
gendarmi francesi hanno espugnato i villani nascostisi nel bosco del
Montelo,
impossessandosi di quasi 3000 capi d’animali grossi. Molti di
questi contadini
o sono stati ammazzati oppure fatti prigionieri e li hanno tolto le
loro
donne.” Madona Maria, madona Helena e la medesima Madre
Badessa rabbrividirono
impercettibilmente a quel dettaglio, immaginando la tremenda sorte di
quelle
infelici. “Sicché adesso
nell’accampamento nemico ci sono più ammalati e
donne,
che soldati pronti alla guerra. Il cibo scarseggia, il vino
è pochissimo e
riservato ai comandanti. Tra franzosi e todeschi vige un clima di
reciproco
sospetto, ma più da parte dei primi, i quali mal sopportano
l’indisciplina
degli imperiali, i quali sbravizano assai, com’è
loro usanza.”
Mentre
raccontava, Marco si voltò verso Lussìa e Zanze,
in silente
ascolto nell’angolino, sedute a capo chino sulle panche
appoggiate al muro del
parlatorio. Quest’ultima lo colpì particolarmente,
avendo la sensazione di
riconoscere nella giovane un viso a lui noto.
“Sì”,
gli confermò a sorpresa Fra’ Thomà,
accorgendosi
dell’intenso studio del patrizio, “queste due
contadine le avevano condotte
prigioniere alla Badia e anche loro hanno approfittato della partenza
di La
Peliza e Gambara per fuggire via assieme a noialtri.”
Un
secondo violento brivido freddo percorse le schiene delle due
patrizie, tremando all’idea di cosa quelle due poverette
dovevano aver subìto
per mano dei soldati all’accampamento. Al che Marco
confidò sussurrando i suoi
dubbi all’orecchio della moglie, la quale li
riferì a madona Maria.
“Ti,
moreta, chome te ciamestu?”, domandò la consorte
del
provveditore alla contadina, la quale, scattando in piedi e inchinatasi
deferente, rispose timidamente:
“Anzola
di Bapi, siora patrona … lustrissima”, aggiunse
veloce,
tenendo lo sguardo ostinatamente per terra.
“Dime,
cara ti, non ti chiamano forse Zanze?”
La
ragazza sollevò la testa, perplessa.
“Sì, patrona?”
“Per
caso hai una sorella minore di nome Zuanna, detta Zuaneta?”
“Siorasì,
patrona! Siorasì! La cognosseu? Saveu ndove
xéla?”,
tartassò Zanze di domande la nobildonna, ansimando in panico
al pensiero di
quale triste sorte potesse aver sofferto la sua sorellina, da lei
sì
crudelmente separata.
Madona
Maria le sorrise benevola, tranquillizzandola su quel punto.
“Rasserenati: tua sorella sta bene e si trova qui con noi a
Trevixo. È stato
sier Marco Miani ad averle salvato la vita, lì sul
Montelo”, le spiegò
brevemente, sicché Zanze s’inginocchiò
ai suoi piedi, baciandole riconoscente
l’orlo della gonna. E avrebbe ripetuto tale operazione di
ringraziamento
circondando le ginocchia di Marco, sennonché la tempestiva
occhiata assassina
di madona Helena glielo impedì, costringendo la contadina a
proferire un
semplice grazie e a riprendere il suo posto accanto
all’amica, seguita a vista
dalla bellicosa greca, strategicamente posizionata alle spalle
dell’ignaro
marito.
“Poxjo
vederla?”, bofonchiò timidamente Zanze,
consideratasi
infine al sicuro dalle grinfie di madona Miani.
“Farò
di più: mi seguirai a casa del sior Provedador, tu e la tua
amica”, le offrì generosamente madona Maria e la
Priora sorrise soddisfatta del
suo intuito infallibile e lungimiranza.
“An?
Dasseno?”, cascò invece dalle nuvole sier Zuam
Paulo, subito
piccato della mancata consultazione a riguardo. Sua moglie
arcuò il
sopracciglio e strizzò gli occhi, segno che lei aveva deciso
e la questione
terminava lì. Fuori in piazza, lui era patrizio e
provveditore generale di
Treviso e faceva tutto ciò che da uomo poteva e voleva; in
casa, lei era alla
stregua di Domine Iddio e dunque i suoi abitanti soggetti alle ferree
leggi
dell’indiscussa matriarca.
“Chome
la toa patrona la comanda”, s’arrese imbronciato
Gradenigo:
ma tu guarda se dopo essersi liberato a Venezia del gineceo di casa,
maritando
le sue numerose figliole a dei bravi giovanotti, doveva ora
ritrovarsene un
altro a Treviso, strapazzato dalla tirannia di nuove sottane! A conti
fatti,
meno male ch’aveva generato pochi maschi – Andrea, Antonio,
Jacomo, Zuam (in onore
dello zio deceduto) e Justo – cosicché avrebbe
preso in casa al massimo cinque
nuore.
Le due
contadine ringraziarono all’unisono i coniugi, Zanze in
particolare stringeva contenta la mano di Lussìa dalla gioia
di riabbracciare
presto la sorellina Zuaneta.
“Mio
fratello? Lo avete per caso visto? Si chiama Hironimo Miani, era
reggente di Castel Novo di Quer e adesso prigioniero di Mercurio
Bua”, domandò
apprensivo Marco a Fra’ Thomà, supponendo che il
monaco, anche se di mero
passaggio all’Abbazia, in un qualche modo avesse avuto
occasione almeno di
scorgere Momolo.
Il
certosino trasalì impercettibilmente all’udire il
nome del suo
segreto liberatore. Imponendosi di calmarsi, scosse il capo,
dispiaciuto. “Ho notato,
in infermeria, che il capitano Mercurio se ne stava in effetti accanto
ad un
paziente lì ammalato, però non saprei dirvi se
costui fosse o meno vostro
fratello”, s’affrettò a riferirgli,
deglutendo amara saliva dinanzi
all’espressione angosciata del veneziano.
“Vuostro
fradelo sta en infermeria”, s’intromise
Lussìa e alla
conseguente domanda su come lo sapesse per certo, ella
replicò con estrema
sicurezza: “A traverso on puto nomato Thomà,
sòo famejo.”
Marco si
consultò brevemente con Helena, sospettoso: a sua memoria
non ricordava possedere Momolo un paggio o comunque un servitore di
nome Thomà,
men che meno un bambino. Che la contadina si fosse sbagliata? O che lo
stesse
ingannando per accaparrarsi la sua benevolenza e fiducia?
“En
infermeria?”, ripeté scettico e il viso stanco e
tirato della
contadina s’imporporò, offesissima.
“Perché
no?”, berciò a voce alta, incurante della regola
del
convento. “Ghe xéi tanti amalai a la Badia,
lustrissimo! I ne more ogni dì pèzo
dee mosche! Aveu sentio Fra’ Thomà? La Peliza
xé amalà, el sior conte pure! No
xé imposibile, donca, ch’anca vuostro fradelo
gh’avia buscà el morbo!”
Le
ginocchia di Marco cedettero ed egli vacillò
impercettibilmente
all’indietro, prontamente bloccato dalla moglie.
“Grassie,
dona Lussìa”, terminò sier Zuam Paulo
l’ostica
conversazione, prima che il conterraneo balzasse in sella al suo
cavallo e
dimentico di ogni ordine cavalcasse come un pazzo fino
all’Abbazia. “E anche a
voi, Fra’ Thomà. Domani mattina
v’imbarcheremo sul primo burchio diretto a
Veniexia, acciocché voi possiate riferire quanto narratoci
al Colejo. Reverendissima
Siora Mare Badessa, ve saludo e v’auguro la bona
note”, s’inchinò rispettoso
l’uomo assieme agli altri patrizi veneziani e la Priora
ricambiò prontamente il
gesto dietro la grata, ricordando al provveditore come lei e le sue
monache
stessero offrendo ogni loro digiuno e preghiera per la custodia di
Treviso e la
salvezza della Serenissima.
“Servo
vostro, sior Provedador, e della Signoria”,
ringraziò anche
Fra’ Thomà la generosità di Gradenigo,
congedandosi dalla Madre Badessa ed
esprimendo la sua riconoscenza per il caritatevole soccorso ricevuto.
“Mo
via, zerman, rincasiamo: il tuo sior barba mio padre sarà
contento di rivederti dopo tanto tempo, nonché sano e salvo
dopo quanto
accaduto alla Certosa e sul Montelo!”, lo pigliò
per mano suo cugino Zuam
Batista, incamminandosi verso la contrada dove risiedeva
l’intera famiglia
Patavim.
Fra’
Thomà annuì distrattamente, muovendo irrequieto
la testa in
apparente contemplazione degli affreschi sulle lunette dei
sottoportici, in
realtà schiacciato dallo sguardo accusatore delle numerose
Madonne col Bambino
e dei Santi ivi raffigurati, i loro occhi resi ancora più
vividi e mobili
dall’instabile chiarore apportato dalla lucerna del
germano.
“Mea
culpa … mea culpa … mea maxima culpa
…”, ripeteva a fior di
labbra ossessivamente.
“Che?”
“Nulla,
zerman. nulla. Oravo le mie laudi.”
“An”,
scrollò le spalle Zuam Batista, battendo gioviale una pacca
tra le scapole del parente. “Prega anca par le mie mani,
ciò, per ‘na spedita guarigione!”,
scherzò, mostrandogli le mani callose dopo tre giorni di
lavori estenuanti alle
mura.
Fra’
Thomà gli sorrise a denti stretti, nervoso, asciugandosi con
la manica la fronte madida di sudore freddo, la lettera di Mercurio Bua
che gli
bruciava colpevole sotto lo scapolare.
***
“Missier
consier Batista!”, esclamò un trafelato sier
Hironimo
Querini, capo dei Dieci, scendendo a quattro a quattro la Scala
d’Oro e
raggiungendo nel Cortiletto dei Senatori il suo collega sier Batista
Morexini
“da Lisbona”, sceso tra una seduta e
l’altra del Collegio per pigliare una
boccata d’aria fresca in compagnia del figlio Carlo e dei
nipoti Lucha Miani e Carlo
Miani. “Una parola, per favore!”
Tra le
accese discussioni circa la spinosissima situazione nella
Patria del Friuli e le rampognate che ancora gli fischiavano nei
timpani, il
povero “da Lisbona” si toccò infastidito
le orecchie, dolente da quel rumoroso
richiamo.
La visita
improvvisata a sua sorella madona Leonora gli era
costata la più orrida delle paternali, dal giorno in cui sua
moglie aveva
scoperto della sua relazione fissa con la cantante e cortigiana onesta
Luzia
Trivixan. Non avendolo infatti visto rincasare il mattino successivo
dalla
convocazione notturna a Palazzo Ducale, madona Morexina aveva spedito
gli
altrettanto preoccupati Carlo, Nicolò, Hironimo e Lorenzo a
cercare il loro
signor padre in casa dell’amante, l’unico posto
certo dove la nobildonna
s’immaginava aver potuto pernottare il marito. La povera
patrizia aveva creduto
d’impazzire alla risposta negativa della Trivixan, per poi
piangere isterica
davanti ai nipoti Lucha e Carlo Miani quando questi, su istigazione
della loro
madre madona Leonora, s’erano recato a rassicurare la zia
sulla salute, almeno
fisica, dello zio, accampatosi depresso in casa loro a colazionare.
Sier
Batista, persuaso a ritornare alla sua casa da statio, s’era
beccato per quella
sua fuga notturna un sonoro ceffone sia da parte della moglie sia
dell’amante,
per la prima volta straordinariamente coalizzate contro di lui,
nonché i loro
pianti e le accuse di volerle assassinare di dolore col suo insensato
comportamento, eccetera, eccetera, gli stessi discorsi che ormai il
consigliere
ducale conosceva a menadito. Sicché, alzatosi e domandato
agli impietriti figli
e nipoti se volevano anche loro prenderlo a sberle (tutti in coro
avevano
negato vivacemente, inorriditi all’idea di picchiare un loro
maggiore), il
Morexini aveva allora abbracciato ambedue le piangenti donne e
consolatele con
gravi parole, aveva promesso di non sparire mai più nel
cuore della notte senza
avvertirle dei propri spostamenti.
“Sier
Hironimo, non moritemi davanti!”, scherzò sier
Batista,
alludendo al volto paonazzo e sudato del capo dei Dieci, il quale stava
respirando a grosse boccate d’aria. “Non prima
d’aver votato la deliberazione,
almeno.”
“La
perdonança, sier Batista”, si scusò il
Querini per la sua
irruenza e per aver interrotto la conversazione tra parenti,
allentandosi il
colletto della sua toga. Dopodiché, fece cenno al Morexini
di seguirlo in un
angolo più riparato del cortile, lontano da occhi e orecchie
indiscreti. “Ci è
giunta questa missiva e noi tutti vorremo per cortesia una vostra
opinione a
riguardo, visto che sembrate tra i più informati sulle
vicende di Terraferma”,
gli rivelò sottovoce, guardingo.
“Una
missiva?”, reclinò sier Batista il capo, la sua
curiosità
stuzzicata dalla criptica spiegazione del suo collega. Di tutto
s’aspettava dai
Dieci, tranne che gli chiedessero di leggere una lettera e interrogarlo
a
proposito. E a chi era poi destinata? Alla Signoria? Al Consiglio? A
lui? Era sospetto,
davvero sospetto. Quando mai si discuteva della corrispondenza fuori da
Palazzo
e senza consultare gli altri membri del Minor Consiglio? Lo stavano
mettendo
alla prova? S’era forse troppo sbilanciato quella volta in
camera del Doge? Oppure
i contenuti di quella missiva avevano turbato a tal punto i Dieci, da
fare uno
strappo alla regola?
Il
Morexini sfilò senza esitazione la lettera dalla mano di
sier
Hironimo e, posizionandosi dove c’era più luce,
l’aprì e ne scorse avido i
contenuti, suo figlio Carlo e i nipoti che spionciavano in punta dei
piedi alle
sue spalle, altrettanto curiosi.
“Copia
di la risposta dil magnifico et valoroso signor Hironimo
Savorgnan fata al trombeta de li comessarij imperiali su
l’invictissimo monte
di Osopo, a dì 21 septembrio 1511”,
lesse sottovoce il consigliere ducale,
che domandò perplesso al Querini: “Come! Di
già?”
“Il
nostro cavallaro è stato piuttosto … incalzante
nella sua fretta
di portarci la risposta del Savorgnan”, commentò
sornione e soddisfatto il capo
dei Dieci, “nonché Maximiano un mona per aver
preferito domino Antonio a domino
Hironimo. Tutto si sta svolgendo esattamente come da voi previsto, sier
Batista.
Ma de grassia, lezete.”
Sier
Batista non se lo fece ripetere di certo due volte. “Non
reputa el fidel Savorgnan esser demerità da vuj,
excellentissimi signori
capitanei et cesarei comissarij, la presente risposta sua a la
rechiesta a lui
facta per el suo publico militar nuntio, anzi spiera, imo tien, per
constanti
da quelli reportarne non vulgar comendation, imperhò che
rapresentando le
signorie vostre la sacra cesarea majestà, qual sempre ha
detestado jure optimo
le perfidie, proditiom et rebellion di soi subditi, non dubita tal sua
fidei
intention, resposta et excusation esser ancora da quelle abrazata et
aprobata.
“Essendo
adunque Jo, Hironimo Savorgnan, con mei progenitori
nato, relevato et benemerito soto el mio excellentissimo dominio
veneto,
cognoscendo tute leze sì naturale, como civile astrenzerme a
la perseverantia
de fede et devotiom verso el mio signor, non mi par sequir le perfidie
et
exacrabil vestigie da uno altro nephandissimo proditor, indegno agnato
de la
casa Savorgnana, qual al presente, postposto ogni timor de Dio,
postposto lo
santissimo vinculo juramenti fidelitatis per ipsum praestiti, postposto
li
inmeriti beneficij da questo excellentissimo stato recevuti, postposto
lo amor
de la propria patria, postposto la propria et comune
libertà, non resguardando
etiam a li fidelissimi et devoti amici et fautori de la casa
Savorgnana,
imitando el perfido Juda Scarioto, publicamente a lo excellentissimo et
inclyto
dominio signor suo ha venduta la sua patria et propria
libertà. Etcetera,
etcetera … fidelis Hieronymus Savorgnanus …
Gran mercé, quest’uomo
è un genio!”, rise talmente forte sier Batista, da
inumidirsi i suoi occhi di
lacrime, il viso deformato in una maschera della più folle e
perversa delle
gioie.
Sier
Hironimo Querini s’unì anch’egli alla
grassa risata,
complimentandosi ancora col Morexini per l’eccellente suo
piano, ossia
d’offrire al Savorgnan ogni proprietà e privilegio
appartenenti al cugino in
cambio della sua fedeltà alla Serenissima. Non aveva
immaginato tanto livore
tra i due parenti, da persuadere domino Hironimo ad accettare seduta
stante la
proposta della Signoria.
Sier
Batista rilesse più volte la lettera del nobile friulano,
analizzando attentamente ogni singola parola e sorridendo carnivoro a
ciascuna
di essa, l’umore improvvisamente migliorato, similmente alla
smania di vendetta
nei confronti dell’Imperatore, del Re di Francia e di tutta
la loro accozzaglia
di parassiti. Un’eccellente risposta, un mirato pugno in
faccia all’amor
proprio di Maximilian, da sempre fregiatosi del titolo di Ultimo
Cavaliere e di difensore delle virtù
cavalleresche: proprio
l’Imperatore, che aborriva la fellonia, non poteva certo
chiedere ad un nobile,
per di più di antico lignaggio quale Hironimo Savorgnan, di
macchiarsi di
siffatto delitto contro la Signoria? La sua richiesta di tradire il suo
vassallaggio verso la Serenissima corrispondeva al peggiore degli
insulti,
un’offerta da Gano, non da chi si vantava di possedere le
qualità d’un Rolando,
il cavaliere dei cavalieri!
Bone
Jesu, al “da Lisbona” stava per venire un gran mal
di pancia
dal ridere, al solo pensiero della faccia dei comandanti e commissari
imperiali, ma soprattutto quanto gli sarebbe piaciuto trasformarsi in
una mosca
e volare fino a Bolzano soltanto per godersi lo spettacolo di
Maximilian
balzare giù dalla sedia, pestare i piedi per terra, frignare
petulante e
mangiarsi il cappello.
Ma il
colpo di grazia ai suoi sfruttatissimi polmoni fu l’ultima
pagina.
Soneto
fato contra Antonio Savergnano, proditore.
Ave Rabi,
iniquo traditore
Antonio
Savorgnam, non sarai lieto
Haver
monstrato il tuo malo concetto
A la tua
patria hessendo senatore.
Ma il
justo sangue de quelli di la Torre
Et altre
nobel caxe che hai decepto,
Ha
parturito in te cotal effecto
Acciò
che
’l sia punito lo tuo erore.
Non ha
persa la forza il fier leone,
Secho
verà
ogni bon castellano
D’um
voler
tutti et una opinïone.
Non ti
varà il favor de alcun villano;
Che se non
fuzi, come fu il Benzone,
Te
apicherano con sue proprie mano.
Cussì
meriti, o Gano
Star su la
forcha con un pe’ atachato,
Da’
cani
et corvi il corpo lacerato.
“Non
è proprio Petrarca, però mi piace
assaissimo!”, ripiegò
allegro la lettera il Morexini, restituendola a sier Hironimo Querini.
“La
farete pubblicare?”
Il capo
dei Dieci fece spallucce, non disdegnando l’idea di
stampare numerose copie del sonetto, anche per divertire un poco la
gente in
quei tempi di grande tensione.
“Sier
Zuam Vituri e la sua compagnia dovrebbero oramai aver
raggiunto Trevixo”, si ricordò sier Batista del
conterraneo comandante, uno dei
più validi assieme a sier Ferigo Contarini. “Se
posso darvi un consiglio, vi
suggerirei di domandare al provedador sier Zuam Paulo Gradenigo
d’inviarlo in
soccorso a domino Hironimo Savorgnan, in segno di stima e
d’amicizia perpetua
da parte della Signoria.”
Sier
Querini gli promise di discuterne per certo sia tra i Dieci
sia in Collegio, supportandolo nella votazione finale e questo
rasserenò il “da
Lisbona”, giunto alla conclusione che l’altro
patrizio aveva soltanto voluto
consultarlo sul da farsi, evitando però di rallentare i
tempi in ulteriori
discussioni ufficiali. Con più di trequarti del Friuli in
mano tedesca, la loro
era una lotta contro il tempo e ogni ora sprecata corrispondeva ad un
regalo al
nemico. Inoltre, non stavano aggirando le consuete procedure per dei
vantaggi
personali, bensì per la salvezza della Signoria, ergo non
dovevano flagellarsi
troppo nei mea culpa, purché s’agisse con
discrezione.
La
fortezza lagunare di Marano e Osoppo rimanevano grazie alla
rinnovata lealtà di domino Hironimo Savorgnan saldamente
veneziane, una
perpetua spina nel fianco dei tedeschi, levandoli il sonno e la
certezza della
totale conquista della Patria del Friuli. Ben venissero i loro
saccheggi, gli
incendi ai villaggi e alle città. Ben venissero le tasse, i
soprusi: la
popolazione friulana e gli stessi castellani si sarebbero di propria
spontanea
iniziativa allontanati dall’Imperatore tanto velocemente,
quanto s’erano a lui
avvicinati. Non si conquista l’amore dei propri sudditi a
parole, mica lo
capiva il Re dei Romani, ci vogliono fatti e bêçs (soldi,
ndr.) La convenienza. E qualora non ci fosse stata, si cerca un padron
migliore.
Anche se
perduta questa prima partita, la rivincita non sarebbe
tardata a giungere. Venezia aveva tempo. Le truppe tedesche stanziate
in Friuli
no, ché un inverno senza niente da mangiare è
cosa assai brutta da sopportare.
Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae
doman. [2]
***
Il
burchio scivolava pigramente sull’abbraccio fluviale del Sile
e
del Cagnan, staccandosi dal porticciolo tra il Ponte degli Impossibili
e il
bastione di San Polo e allontanandosi in placido dondolio da Treviso,
finché
gli alberi incominciarono ad accompagnarsi prima ed ad oscurare poi le
alte
torri cittadine.
Fra’
Thomà rigirava inquieto la missiva di Mercurio Bua, tentato
di rompere il sigillo di ceralacca e di leggerne i contenuti:
ambasciator non
porta pena, ma se invece la portasse? Come avrebbe reagito la Signoria?
Alla fine
non aveva resistito e, in un momento di privata
tranquillità, aveva confessato al cugino Zuam Batista
dell’ambasciata
incaricatagli da parte del capitano di ventura.
“Se
ti ha chiesto di consegnarla a sier Batista Morexini,
significa che si tratta di una faccenda personale tra lui e il
capitano. La
Signoria non c’entra!”
“La
Signoria c’entra sempre e dappertutto, zermano! E se
… e se
fosse qualcosa di losco? Se il consigliere si trovasse in combutta coi
francesi?
Con l’Imperatore? Dovrei rendermi complice di un tradimento?
E se poi si
scoprisse l’intero affare? Non voglio finire impiccato tre le
colonne in
Piazzetta!”
“Allora
consegnala direttamente alla Signoria!”
“Baùco!
Sier Batista fa parte della Signoria, s’impossesserebbe
comunque della lettera!”
“Io
non capisco … Il capitano Bua parlava di uno scambio, di
riprendersi sua moglie … non capisco perché
t’agiti così tanto!”
“Magari
è un linguaggio in codice! Un rebus soltanto a loro
comprensibile. Che ne sai? Se … se quella della moglie non
sia altro che una
scusa per avvicinarsi alla laguna coi suoi stradioti? Per penetrare nel
territorio e conquistare fortezze così da circondare
Trevixo?”
“Mah,
per me tu scorgi ovunque intrighi e tradimenti!”
Fra’
Thomà si morse l’interno della guancia, il cuore
in
subbuglio. Sicuramente Mercurio Bua non l’aveva ingannato
circa il suo sostegno
nella fuga, filando ogni cosa liscia come da lui promessagli. Di
conseguenza,
se lui l’assicurava dei contenuti della lettera, tecnicamente
doveva fidarsi.
Peccato,
che i recenti avvenimenti gli avessero instillato della
sana diffidenza nei confronti di chicchessia. Tutti tradivano, tutti
mentivano:
il suo Priore, i Conti di Collalto, i nobili friulani filo-imperiali,
il
maresciallo La Palice, i capitani tedeschi …
perché Mercurio Bua non doveva
sottrarsi a tale nefanda lista?
Che la
sua fuga fosse corrisposta alla farsa di una farsa ancora
più grossa? Uno scaltro complotto del Bua e del Morexini ai
danni della
Serenissima? Se il greco-albanese gli avesse permesso di fuggire, per
poi venir
ammazzato dai sicari del consigliere ducale, zittendolo per sempre?
No, non
avrebbe corso il rischio di finire implicato e magari di
trasformarsi in un testimone scomodo di cui sbarazzarsi. Aveva giurato
di non
leggere la lettera e la sua promessa fino a quel punto
l’aveva mantenuta.
Quanto al resto …
Il
certosino strappò esagitato la missiva in piccole strisce,
affidandole al vento e all’acqua, ch’allontanassero
da lui quell’amaro calice.
Al
diavolo Mercurio Bua, al diavolo sier Batista Morexini “da
Lisbona” e qualsiasi negozio li legasse: in fede sua, lui non
avrebbe portato
alcun’ambasciata, nossignore.
Continua
…
*****************************************************************************************************************
Procediamo
ad oltranza verso il clou di questa storia, anche
perché voglio ritornare a scrivere capitolo normali!
La
vicenda di Mercurio e di Fra’ Tommaso Patavino è
piuttosto
oscura.
Riferisce
il Sanudo: “[…] El (Mercurio) qual
voria che sua mojer, ch’è qui a Venecia, venisse
da lui, e la vegneria a tuor
con gran scorta, ma esso frate disse, non voler portar tal imbasata.”
Le parole
del Bua, infatti, nella sua stringatezza e da come il
monaco le ha spifferate al cugino (che a sua volta le ha riferite al
Collegio),
si presentano infatti assai ambigue. Il condottiero aveva incaricato il
frate
di portare quest’ambasciata, ma a chi nello specifico? Alla
moglie, affinché si
preparasse alla fuga? Alla Signoria per organizzare la partenza di
Caterina? O
uno scambio? Oppure, come da noi supposto, proprio a Battista Morosini,
che,
facendo parte del Minor Consiglio noto anche come Signoria, poteva
influenzare
il suo ricongiungimento con Caterina? Ma siamo sicuri in cambio di
niente?
Mercurio teneva comunque in ostaggio il nipote …
Secondo,
questo messaggio che il Patavino doveva portare mi ha
insospettita sulla fuga di questi. Impossibile che fosse fuggito e che
al
contempo fosse messaggero del piano del Bua. Questi gli ha permesso
d’abbandonare indisturbato il campo francese, appunto per
riferire le sue
intenzioni di riprendersi la moglie.
Infine,
perché il Patavino s’è rifiutato di
fare quest’ambasciata?
Lo scambio di persone non era una prassi così bizzarra, lo
stesso Luca Miani
era stato ad esempio scambiato per un capitano nemico. Inoltre, la
richiesta di
Mercurio era piuttosto innocua, voleva la moglie, non un militare.
Cos’ha
insospettito il frate? O intimorito? Forse temeva in un
raggiro del Bua, il quale sperava magari di prendere due piccioni con
una fava,
la moglie e con la sua “grande scorta” entrare
indisturbato in territorio
veneziano ed occupare fortezze?
Solo
Fra’ Tommaso lo sa e, qualunque siano state le sue
motivazioni, di sicuro a) Battista l’avrà voluto
strangolare; b) il Nostro
rimane fregato c) Mercurio piange.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima,
Un
po’ di noticine:
[1]
San Martino =
“fare San Martino” o
“sanmartin” come
sostantivo, significa sia cambiar lavoro / cambio di lavoro che
traslocare /
trasloco, in genere poiché per i contadini in quella data
– 11 novembre -
terminavano i contratti di lavoro e di affitto delle terre lavorate e
coloro
cui non veniva rinnovato dovevano appunto cercare altrove lavoro,
trasferendosi
con l’intera famiglia.
[2]
Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman =
Anche Dio è friulano: se non paga oggi, paga domani.