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Autore: Hoel    13/01/2021    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il  26.10.2021

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Capitolo Ventitreesimo

20-21 settembre 1511

 

 

 

Il soldato francese e Lussìa si fronteggiarono intensamente con lo sguardo, sfidandosi a vicenda a fare il primo passo.

La contadina si stringeva il pesante scialle dall’interno, nascondendo il ventre rigonfio e ingobbendosi a guisa di un’aggressiva gatta messa all’angolo, rifiutandosi sia d’abbassare timorosa gli occhi sia di spogliarsi di sua iniziativa. Anzi, sperava che l’uomo s’accontentasse di sollevarle le sottane e di montarla da dietro cosicché non s’accorgesse del suo pancione e al contempo non la costringesse a contemplare il suo brutto muso, intanto che si pigliava il premio del vincitore.

Il soldato avanzò infine verso di lei e Lussìa s’impose di non indietreggiare né di mostrare paura: per esperienza sapeva che opporre resistenza peggiorava la situazione, meglio che si sbrigasse e poi morta là. L’uomo sbiascicò qualcosa, ciondolando un poco e pur non comprendendo l’idioma, la giovane intuì costui esser piuttosto alticcio il che la rassicurò, non durando a lungo gli ubriachi.

La mano di lui l’afferrò lo scialle, strattonando per toglierlo e trovando invece una fiera opposizione in Lussìa, che pur rassegnata quell’indumento proprio non se lo voleva togliere; l’uomo impiegò dunque maggior forza, applicando pressione sulla spalla di lei e a seguito di due o tre brusche tirate glielo cavò di dosso, al che la contadina di riflesso si piegò in avanti, voltandosi acciocché quell’altro ben capisse come doveva concludersi la faccenda. Purtroppo quegli voleva possederla in altro modo e la girò ruvidamente, afferrandole i polsi e con malgarbo aprì le braccia poste a protezione del suo ventre, rivelandogli alla fine il suo segreto.

Un pesante silenzio s’insinuò tra loro due e Lussìa tremò da capo a piedi, un doloroso groppo in gola le impediva di respirare, in timorosa attesa di una qualsiasi reazione da parte del soldato, pregando la Madonna avesse questi pietà di lei e del piccino.

Una sfilza di sibilanti improperi francesi fuoriuscì dalla bocca del soldato, neanche l’avessero gabbato in un cattivo acquisto alla fiera degli animali. Ghermitala per le spalle, la scosse feroce, le chiese diossacché e le rifilò poi un tal manrovescio che Lussìa vide nero e giallo e gustò in bocca il sapore metallico del proprio sangue. Stordita e indietreggiando tra un incespico e l’altro, ella si lasciò dolcemente cadere per terra. Lì stette, immobile, il mondo roteantele attorno. Udì i passi del francese, lo snervato fruscio della tenda che s’apriva e si chiudeva; la ragazza avrebbe voluto balzare in piedi e fuggire via, purtroppo le vertigini ebbero la meglio e lei chiuse sfinita gli occhi dopo esser strisciata sul fianco sotto il tavolo, cedendo alla stanchezza sia fisica che mentale.

Quando si ripigliò, quell’atroce notte ancora non era terminata e non doveva infatti esser trascorso tanto tempo dall’involontario alterco col soldato, ché infatti quest’ultimo era ritornato proprio nel momento in cui Lussìa riapriva circospetta un occhio, fingendo d’esser ancora svenuta.

L’uomo giungeva in compagnia d’un’altra donna, totalmente dimentico, nel suo stato ebbro, d’aver scordato di riportare indietro Lussìa. Evidentemente si sentiva defraudato per quel suo raccattare una donna incinta, giudicandola troppo grassa e gonfia e per questo facendogli impressione, chissà.

La giovane contadina riconobbe a stento Zanze nella sua sostituta: i capelli scarmigliati senza velo, la gonna lorda di fango e foglie e sulla schiena s’intravedevano delle strisce rosse esacerbate dal biancore della camicia. Una serie di lividi sparsi le ricopriva buona parte del lato destro del viso, il labbro superiore gonfiatosi per via d’un taglio e croste di sangue permanevano sotto il naso. Il soldato, onde sbrigarsi, le strappò dal mezzo la camicia, liberando i seni e Lussìa notò ecchimosi anche sul petto e sulle braccia, così come sulle gambe quando all’amica venne sollevata la sottana, una volta spinta supina sulla branda.

Un conato di vomito le bruciò in gola, quando il francese coprì la contadina col suo corpo, grugnendo la sua soddisfazione. Poi, l’idea.

Zanze fissava immobile il soffitto della tenda, astraendo lo spirito dal corpo e permettendo che volasse leggero in un qualsiasi luogo così da non curarsi di quanto avveniva, relegandolo nel dimenticatoio. Aveva imparato a sopportare tali copule sin da ragazzina: sua madre, morto il marito di febbre malarica, aveva fatto San Martino [1] ed era ritornata dalla sua famiglia d’origine, rimettendosi alla decisione di un suo zio, il nuovo capofamiglia. Zanze, la maggiore della nidiata, aveva pagato il tributo al posto della madre, troppo sformata dalle gravidanze e poco appetibile rispetto alla carne fresca di una dodicenne. Il prozio aveva atteso che lei fosse un pomeriggio andata ad urinare in un angolo e, prima che lei potesse riabbassarsi le cottole, l’aveva spinta in avanti e così deflorata – ultima arrivata in famiglia, ultima nel branco, nella gerarchia. Zanze era stata così contenta quando il padre di Arrigo era venuto in ambasciata per chiederla in moglie al figlio (in fin dei conti era carina, robusta, lavorava alla pari d’un uomo); perfino le aveva accordato di portare con sé Zuaneta, grazie a Dio ignara di tutto. Aveva creduto la contadina finalmente di trovare in Arrigo la protezione ch’aveva sempre sognato, il suo compagno e padre dei bimbi che tanto voleva. Invece, il terremoto del marzo scorso glielo aveva ucciso, sepolto sotto le macerie della loro casa e dall’indescrivibile paura la contadina aveva avuto un parto prematuro, il piccino nato morto. 

Solo Arrigo lei aveva accolto con gioia nel suo corpo, mentre il resto null’altro se non passeggere incombenze da sopportare, questo francese incluso. Purché non la picchiasse o la violentasse fino a bucarle lo stomaco, ben inteso.

Zanze girò casualmente la testa su di un lato, piombando all’improvviso nella realtà. Strabuzzò gli occhi, incredula di ritrovare la sua amica Lussìa in un angolo, la quale si stava lentamente alzando, l’indice alla bocca intimandole silenzio e dissimulazione. Tra le sue mani penzolava una corda, che la giovane incinta arrotolò ad esse e la tese a mo’ di cappio. Zanze trattenne il fiato, stringendo il bordo della branda in anticipazione.

In un balzo, Lussìa cinse il collo del soldato da dietro, serrando e incrociando la corda sulla nuca; pose un ginocchio sulla schiena dell’uomo e tirò all’indietro acciocché le fibre sfrigolando gli mordessero la carne e la pressione esercitata alla gola gli ostruisse le vie respiratorie fino a farle cedere. D’istinto il francese tentò subito di divincolarsi, Zanze però gli pigiò i pollici negli occhi, cingendolo con le gambe per la vita e intrappolandolo contro di sé. La tenda si riempì d’ansimi e grugniti, imprimendo le donne ogni forza a loro reperibile onde sopraffare l’avversario, in una gara di resistenza che rasentava quasi la tauromachia. Il francese, paonazzo in volto, emise uno strano gorgoglio e poi cacciò fuori la lingua, afflosciandosi per terra ai piedi delle due contadine, le quali non emisero alcun suono se non quello d’ansimare pesantemente, contemplando pietrificate quanto appena commesso.

“Xélo morto?”, inquisì infine Zanze, rimettendosi seduta e nettandosi meccanicamente tra le gambe.

Lussìa si passò sulla sottana le mani umide di sudore e graffiate dalla corda. “No”, rispose, accovacciandosi sul soldato tramortito.

“Sempia!”, strillò preoccupata l’amica, cercando freneticamente un coltello, un pugnale, qualsiasi cosa per terminare il lavoro incompiuto.

“Sbassa ea vose!”, l’intimò perentoria Lussìa, al che Zanze si calmò subito, rendendosi conto della situazione e di come fosse consigliabile non farsi scoprire. “Nol gh’ho copà no perché me despiase par elo, bensì perché chome femo col sangue? Non sastu poi co’ uno more, el se caga e pissa ‘ndosso?”

L’altra contadina annuì incerta, non afferrando il senso di quella frase. Glielo spiegò l’amica che, rigirando il francese, prese a slacciargli la casacca, gettandola sulla branda ad operazione terminata e destino analogo riservò al resto dei vestiti, braghe e scarpe comprese. “Vestate”, le ordinò e il viso di Zanze s’illuminò di comprensione.

Lussìa l’aiutò a stringere alla bell’e meglio il seno coi resti della camicia strappata e ad indossare gli abiti del francese, brigando quanto più in fretta poté a stringere i lacci almeno del corsaletto onde conferire all’amica un’impressione più militaresca. All’inizio Zanze si sentì un poco vacillare sotto il peso di tanti strati, per poi bilanciarsi avendo infatti trasportato gerle di legna assai più pesanti. Raccolse in una stretta crocchia i capelli e indossò l’elmo e poi il mantello, ficcando un lembo di lenzuolo strappato nella braghetta per completare la sua virilizzazione. Il tutto con le orecchie sempre tese e un occhio puntato all’entrata della tenda.

“Scoltame ben, do parolle de franzese mi gh’ho imparà en sto campo: Mal e Pest; se ze fermano, ti te va dirghele e te me mostri”, l’istruì, appallottolando della terra e cenere dal braciere con un po’ d’acqua. Ottenuta la strana polpetta, Lussìa se l’applicò alla gola: grazie al buio, Deus volente, nessuno sarebbe stato capace di distinguere quel petaisso dai bubboni della peste. Un po’ di cenere la cosparse anche sul volto dell’amica, per darle la sembianza di un’ombra di barba.

“Mal … Pest … Mal … Pest …”, ripeteva intanto Zanze, memorizzando le parole chiave in caso le avessero fermate e interrogate.

“Pì mas-cia ea vose: Mal! Pest!”

“Mal! … Pest! …”

Lussìa schioccò la lingua in approvazione. “Ch’Idio e la Madona zea manden bona!”, s’augurò, segnandosi tre volte. “Sistu pronta?”

“N’atimo”, si concesse Zanze un ultimo sfizio, aprendo le gambe del soldato e, tenutolo per le caviglie, di tacco gli pestò i gioielli di famiglia: troppo stordito dall’urlare, il francese tuttavia convulsò violentemente. La contadina gliene elargì un altro, giusto per assicurarsi che soffrisse peggio d’un cane alla sua prossima erezione. Dopodiché gli sputò sopra e calciandolo lo nascose sotto la branda, coprendo il tutto con la coperta. “Demo”, ritornò dall’amica, che simulò un mancamento tra le sue braccia.

Lussìa aveva previsto giusto: l’aria di sgavazzo aveva reso la maggior parte dei soldati piuttosto distratta e ai loro occhi alticci dalla tenda uscì il loro compagno, trasportante per il braccio la prigioniera semisvenuta. Incoraggiate pertanto da tanta negligenza, le due donne puntarono verso il bosco nella speranza di lì sparire per imboccare in seguito la strada per Treviso, trascinandosi circospette tra le tende, evitando luoghi affollati e soprattutto le torce. Zanze teneva il mento quasi al petto e di fatti era Lussìa che con discrezione la guidava. Arrivarono miracolosamente ignorate al limitare dell’accampamento … ancora qualche passo …

“Hé, voi due! Dove ve ne andate di bello?”

Le fuggitive gelarono sul posto, non soltanto per l’esser state notate bensì nel riconoscere l’idioma italiano, che pur non conoscendo alla perfezione, potevano comprendere il significato globale.

“Furbastro, te ne scappi con la villana, eh? Non sai cos’ha ordinato il maresciallo? La forca a chi diserta!” e i suoi occhi luccicarono di delizia alla prospettiva d’assistere a tal spettacolo.

Zanze si voltò lentamente, pur seguitando a celare il viso. O la va o la spacca e gli animali lei sapeva sgozzarli. “Mal”, grugnì in una voce profonda e gutturale. “Mal!”

“Cosa?”, sbatté confuso le palpebre il mercenario.

“Mal!”, ripeté enfatica la giovane. “Pest!”

L’uomo balzò terrorizzato all’indietro, specialmente quando Lussìa incominciò a tossire rumorosamente e a raschiarsi ben bene la gola, sputando e battendosi il petto, intanto che l’amica le scopriva velocemente il collo.

“Se davvero c’ha la peste, ammazzala o portala in infermeria, che diamine! Tanto quelli là hanno già dentro un piede nella fossa … un morbo in più uno di meno … magari crepano prima …”, protestò il soldato, spintonando le due donne in direzione dell’Abbazia.

“Pest! Mal!”

“Ho capito, ma portala in infermeria a farla vedere!”, sbraitò frustrato l’uomo. “Cretino d’un francese! Bah, vi ci conduco io, sennò c’impesti tutti di qualsiasi cosa si sia presa quella troia”, borbottò iroso, pungolando la schiena di Zanze con la punta della spada, seppur al sicuro nel suo fodero, sia per spronarla ma anche per tenere una certa distanza di sicurezza tra loro. Meglio, giudicò lei, così non l’avrebbe guardata in viso.

Fra’ Anselmo aveva appena terminato l’ennesima corona del rosario e si preparava alla sua ronda notturna, quand’ecco che dalla porta dell’infermeria entrò un curioso corteo di gente: un soldato francese, uno italiano, una donna piuttosto malconcia e due stradioti di Mercurio Bua che osservavano incuriositi dall’uscio, sporgendosi all’interno.

“Ebbene?” apostrofò il monaco quello che poteva capire la sua lingua, indicando tuttavia la giovane tra le braccia dell’altro soldato.

“Ho pizzicato ‘sti due al limitare del bosco. Sostiene che ‘sta qua abbia la peste, ma non ne sono sicuro, le pustole mi paiono un po’ strane …”, gli spiegò concitatamente il mercenario e alle contadine mancarono qualche paia di battiti cardiaci quando il benedettino, alzatosi dalla sedia, esaminò clinicamente spassionato sotto la gola di Lussìa.

“Infatti non è peste, bensì una vescica sanguinolenta”, sentenziò solenne Fra’ Anselmo, appoggiando la candela e  lavandosi le mani. “Contagiosissima in caso dovesse esplodere. Bravo, hai ben pensato a portamela qua.”

Malgrado il complimento assai lusinghiero, il soldato non appariva totalmente convinto. “Le vesciche sono contagiose?”, domandò scettico.

Il benedettino piegò con studiata lentezza l’asciugamano. “Sei tu forse medico?”, replicò garbatamente intimidatorio.

“No.”

“Hai studiato a Padova?”

“No.”

“E allora, cosa parli se non sai, ignorante?”, infierì il monaco, ergendosi in tutta la sua altezza ché sarà stato sulla cinquantina, ma anni a lavorare nell’orto, nella vigna e nell’uliveto l’avevano irrobustito quasi quanto un contadino.

“Ecco … non è che mettessi in dubbio … solo che …”

“Quousque tandem abutere, stulte, patientia nostra?”

E no, il colpo basso del latino era davvero troppo per il povero mercenario, che si ritirò con la coda tra le gambe, lasciando alle cure del gongolante Fra’ Anselmo le due fuggitive.

“Vegname drio … qua … sentate qua …”, condusse dolcemente Lussìa ad un letto accanto alla sua scrivania, in modo da difenderla in caso quei birbi malnati dei suoi pazienti, annusato l’odore di femmina, improvvisamente non si dichiarassero redivivi e guariti soltanto per insidiarla. Di solito uomini e donne sostavano in stanze diverse, purtroppo in tempi di sovraffollamento tali protocolli neppure venivano considerati, figurarsi rispettati.

“El mio puto …”

“Sì, sì … vedaremo … horra sentate et reposate …”, la tranquillizzò dolcemente il benedettino, aiutandola a stendersi e chiudendo le cortine attorno. Si girò verso il “francese” e una furtiva occhiata a Zanze, ch’aveva levato il viso velocissima per poi riabbassarlo, gli schiaffò in faccia la dura realtà del loro segreto. Lo stomaco gli si rigirò dolorosamente: gli mancava pure quella. “Beh, poiché ti sei scomodato a condurla fin qui, puoi anche rimanere”, dichiarò a voce alta, acciocché tutti udissero la conferma dell’identità del soldato. “Respondame:”, le sussurrò tra i denti.

“Uì!”, gridò quasi Zanze, afferrando poi uno sgabello e sedendovisi sopra. Appoggiò le spalle al muro e si coprì col mantello fin quasi al naso, finalmente comoda e rilassata. Fra’ Anselmo dal canto suo chiuse sconsolato gli occhi, respirando a fondo.

Certo però, meditava nel frattempo che ripuliva Lussìa da quei pastrocchi al collo, che in una settimana aveva vissuto più emozioni in vent’anni all’Abbazia, infrangendo ogni regola del Padre Fondatore, arrabbiandosi di brutto, urlando, minacciando, insultando e mentendo allegramente senza tanti rimorsi e addirittura alle spalle della sua comunità stava architettando una pericolosissima fuga! Se l’Abate l’avesse saputo, l’avrebbe rinchiuso in una cella senza luce e a sola acqua, mummificato di cilici e flagellato ignudo dall’Abbazia fino alla Certosa.

Ne valeva la pena peccare così forte? Ribellarsi?

Fra’ Anselmo spiò di sottecchi la mano di Lussìa disegnare confortanti arabeschi sul pancione, l’altra stretta a quella dell’amica.

Cristo aveva sempre scelto la gente più controversa e improbabile per operare in Suo nome; se poi si considerava, ad esempio, come avesse perdonato a San Pietro il suo triplice rinnegamento e San Paolo che aveva custodito le vesti dei lapidatori di Santo Stefano e pure era stato implacabile persecutore delle prime comunità cristiane … hé, di sicuro dinanzi alle colpe di Fra’ Anselmo si sarebbe messo a ridere – con tutto rispetto – specie se erano finalizzate a scopo di bene.

 

***

 

 

Nella sua cella divenutagli d’un tratto claustrofobica, Mercurio Bua deambulava inquieto avanti e indietro, incapace di pigliar sonno e dunque di riposarsi adeguatamente. Ignorava il motivo di tal nervosismo, aveva alle spalle battaglie assai più sanguinose di quella. Forse perché non  era andato incontro a dei veri militari, bensì a gente improvvisatasi, in un poco onorevole gioco al massacro. Il condottiero si batté le tempie, esasperato: quando i nervi gli pizzicavano così neppure il vino lo calmava, tranne una buona scopata o meglio ancora una scazzottata.

La Palice e gli altri comandanti s’erano all’unisono congratulati con lui per aver vinto quello scontro e sollevato temporaneamente il campo dalla penuria di rifornimenti. Tzé, scontro … scaramuccia forse.

Sebbene valenti e agguerriti, i contadini non avevano rappresentato per Mercurio dei grandi avversari, ne aveva fronteggiati ben di peggio. Se ripensava a quando, a Fornovo, appena diciassettenne s’era gettato assieme al Marchese Francesco Gonzaga contro il re Charles VIII e di come l’avesse ferito, causa purtroppo l’intromissione del duca di Bourbon che gli aveva impedito d’ucciderlo e costì spedirlo al diavolo … a confronto quei quattro bifolchi male in arnese per lui corrispondevano ad una passeggiata di piacere!

Aveva perseguito l’azione più logica e strategicamente sensata, quelle bande a briglia sciolta di villani costituivano una spina nel fianco e dovevano essere neutralizzati, avanti che le truppe, sempre più indisciplinate e scoraggiate, disertassero in massa. Ciononostante, il greco-albanese non gustava alcuna soddisfazione nella vittoria, al contrario lo riempiva di un’amarezza sconosciutagli. Aveva compiuto il suo dovere, ciò per cui era stato addestrato e pagato. Aveva eliminato un problema alla radice e compensato adeguatamente chi l’aveva aiutato nell’impresa.

Non si dà l’osso ai cani per premio? Dunque che i soldati celebrassero quel piccolo successo e si tirassero su di morale, se poteva anche distrarli dall’incerta situazione di stallo e motivarli a combattere sotto le mura di Treviso, anticipando ciò che li attendeva in caso di vittoria.  Era l’unico metodo sicuro per mettere in riga i militi, per ammansirli: cibo, danari e femmine.

Mercurio si premette i palmi delle mani sugli occhi: il viso di quel contadino da lui ucciso continuava a perseguitarlo. Non per la maschera di sangue e cervella, non per  la truculenta semi-decapitazione che l’aveva spedito nell’Ade, no. La sua espressione. Non quella sorpresa del Re di Francia, non quella stizzita di un mercenario sconfitto, no, la sua era la faccia di chi aveva appena perduto un caro amico, di chi combatteva per proteggere quella moglie che forse il Bua aveva consegnato ai soldati per divertirsi … neanche conosceva il suo nome …

“Malakas!”, imprecò tra i denti, battendo le nocche contro il legno della scrivania. Necessitava di una distrazione, ora, in quell’esatto momento. Sua moglie, non poteva per ovvi motivi; Leka e Zilio neppure desiderava sapere dove si fossero cacciati. Un prete neanche per sogno, dunque … Indossò in fretta e furia la lunga casacca imbottita di cotone e uscì dalla cella sbattendo la porta, in direzione dell’infermeria.

Hironimo si sentì all’improvviso soffocare, svegliandosi di soprassalto. Si dimenò d’istinto, spaventato e disorientato, artigliando ciò che in quel momento gli stava impedendo di respirare agevolmente, scoprendo trattarsi di una robusta mano.

“Stai tranquillo”, si ritrovò il patrizio, a qualche spanna dal suo naso, il sorriso sghembo di Mercurio Bua, il quale sedendosi cauto sul bordo del letto liberò gradualmente la bocca e il naso del giovane, stupefatto quest’ultimo di non averlo sentito avvicinare e pensare che aveva sempre posseduto un sonno piuttosto leggero. Colpa delle tisane di Fra’ Anselmo, indubbio. In ogni caso Hironimo scattò seduto, fissandolo in cagnesco in tacita accusa dei suoi modi da turco.

“Suvvia, non mi guardare con quegli occhioni indignati: non stavo mica per attentare alla tua virtù, ti avrei prima chiesto di sposarmi”, scherzò grossolano il condottiero e il Miani arricciò il naso al puzzo vinoso nell’alito, segno che il suo interlocutore s’era ben goduto la sua personale festicciola. D’un tratto gli dispiacque d’aver sottoposto ad uguale trattamento Lena, in quelle rare occasioni in cui lui l’aveva avvicinata mezzo sbronzo.

Notando l’ostinata apatia nell’ex-castellano, Mercurio schioccò la lingua, espirando snervato. “Stavo scherzando, ovvio! Voglio soltanto parlare un po’, che diamine!”

“Beh, io no”, replicò secco il patrizio, tornando disteso sul fianco e dandogli sgarbatamente le spalle.

“Qualche oretta, che ti costa?”

“Non è né il luogo né il momento. La prossima volta, magari, quando tu non sarai ubriaco ed io ammalato.”

Le dita del Bua si contrassero in un rictus nervoso. “Spostiamoci nella mia cella. Lì nessuno ci disturberà.”

“Dopo che hai minacciato di sodomizzarmi? È l’ultimo posto al mondo dove ti seguirei!”

“Allora nel chiostro, in chiesa, all’inferno! Ovunque, purché tu muova quel tuo culo veneziano! Oppure preferisci che chiacchieri col moccioso?” e indicò significativamente Thomà, che ronchisava sereno e ignaro per terra, su di un lettuccio di fortuna.

Hironimo scostò in un grande svolazzo le coperte, irritato al massimo, ponendosi in piedi talmente veloce e brusco, da sballottare un poco il greco-albanese. “Il chiostro”, ringhiò sottovoce, lo sguardo torvo.

Le prime luci dell’aurora già tingevano di lilla le flessuose colonnine di pietra, delineando il semplice corridoio e giardinetto interno al cui centro sorgeva un pozzo decorato, agli angoli appena accennati di un quadrilatero, da vezzose foglie d’acanto. Hironimo ignorava se i monaci avessero o meno terminato le Lodi mattutine; sperò di no, cosicché venissero presto ad interromperli.

“Non temi ch’io ne approfitti per fuggire?”, non resistette dal punzecchiarlo un poco, una piccola rivincita per ogni frustrazione patita quella sera, al pensiero della brutalità dimostrata dal greco-albanese a danno della sua gente. 

“Tu non scapperai”, ribatté risoluto Mercurio, ghignando arrogante e costringendolo a camminare indietreggiando. “Tu non azzarderai nulla di strano; non ti conviene e lo sai. Ti credi furbo, nevvero? Pensi ch’io non immagini quanto ti piacerebbe conficcarmi un pugnale tra le scapole, se tu n’avessi l’occasione? Peccato che ti sia stupidamente esposto, permettendomi di tenerti doppiamente per i coglioni. Non desideri mica ulteriori sensi di colpa, o mi sbaglio?”

Il giovane Miani si sedette sul muretto perimetrale del chiostro, su cui s’ergeva il colonnato. “Affermi il vero”, gli concesse schietto, “non fuggirò. Anch’io ogni tanto scherzo”, gli restituì la pariglia, intrecciando le mani sul grembo. Una fitta di tosse lo colse impreparato, costringendolo a sputacchiare qualche grumetto di saliva e catarro. Si coprì la bocca e si schiarì la gola. La nausea gli risalì, feroce. Merda, aveva voluto fingerli e invece quei crampi allo stomaco per davvero avevano incominciato a tormentarlo. Si passò furtivo la mano sulla fronte, storcendo la bocca nel cogliere la temperatura ancora calda.

“Come ti senti?”

“Non bene, grazie a te”, rispose aspro Hironimo, nettandosi la mano bagnata di saliva sull’orlo della camicia. “Dovevi proprio svegliarmi all’alba per chiedermelo? Non si poteva attendere un’ora meno barbara?”

Mercurio cambiò peso da una gamba all’altra. “Ti rispedisco subito in letto, non ti preoccupare. Avevo voglia di rilassarmi, dopo intere giornate trascorse a fustigare gente indisciplinata, a far impiccare disertori, a combattere villani ribelli, a …”

“… a violentare donne …”

“Io non ho stuprato nessuno!”, si sporse minaccioso su di lui Mercurio, battendo il pugno contro una colonnina, il viso paonazzo d’ira. “Possibile che ogni tua parola corrisponda ad un insulto nei miei confronti?”

“Non ti sto insultando”, si difese imperturbabile il patrizio, “sto semplicemente elencando le tue imprese, mi par diverso.”

“Io”, scandì aggressivamente il Bua ciascuna parola, i denti ben in mostra, “non ho mai forzato alcuna donna.”

Hironimo lo squadrò a lungo, in silenzio. Dopodiché, raddrizzando le spalle, dichiarò annoiato: “Vuoi parlare, d’accordo parliamo”, e rimase in docile attesa, tamburellando impaziente le dita sui mattoni del muretto.

Sbuffando deluso, il capitano di ventura gli si sedette accanto, massaggiandosi le tempie e stropicciandosi gli occhi. Non trovando nulla di brillante da controribattere, si limitò a studiare il pozzo dinanzi a sé, strappando alcuni fili d’erba e giocandoci distrattamente. Hironimo si portò le ginocchia al petto, nascondendo sotto la camicia le gambe nude, avvertendo una certa fredda umidità molesta. Di primo acchito il Bua poteva apparire rilassato al limite della noncuranza, però il veneziano conosceva la sua mimica corporea troppo bene, cogliendo la rigidità delle spalle e la tensione delle braccia e delle gambe, intanto che cincionava con l’erba: il greco-albanese lo stava tenendo accuratamente sottocchio e se il patrizio avesse tentato di guizzare via da lui, gli sarebbe saltato addosso più rapido d’un ghepardo.

I due uomini stettero sospesi in questo limbo per un periodo indefinito di tempo, assaporando la quiete ante il risveglio del mondo, l’aria dal profumo della pioggia imminente e il lontano cinguettare delle allodole. Gli schiamazzi dei soldati e il lamento delle donne erano stati dispersi assieme alle tenebre notturne dalla luce, neanche appartenessero ad un angosciante incubo da cui tosto ci si sarebbe destati, ridacchiando imbarazzati del proprio sciocco timore.

“Perché ti comporti così?”, ruppe il silenzio Mercurio, abbandonando i fili d’erba e strofinandosi via la terra dalle mani. “I tuoi sono gli occhi di un combattente, di uno nato per lottare in prima linea … la remissività non ti s’addice.”

Appoggiando la nuca sulla colonnina e reprimendo un violento brivido, Hironimo socchiuse le palpebre, nauseato dalle vertigini ch’avevano ripreso a scuotergli il cervello. “Pensavo avertelo già chiarito quella sera”, quale esattamente non si sovveniva, il tempo oramai per lui aveva assunto una connotazione infinita e confusa. Tre settimane e mezzo di prigionia, eppure gli pesavano alla stregua di anni. Dinanzi all’espressione interrogativa del Bua, gli delucidò paziente: “Sono stanco, ammalato, prigioniero, forse non rivedrò mai più la mia famiglia …” e un groppo in gola gli strozzò la voce, l’unica punta di sincerità in quella loro bizzarra conversazione. Tacque.

Le forze del suo corpo si stavano gradualmente affievolendo; nel suo intimo, per quanto s’aggrappasse caparbio alla vita e si rifiutasse di cedere, si stava in lui solidificando la consapevolezza di combattere una guerra persa, la medesima sinistra sensazione provata a Castelnuovo quando il Bua aveva distrutto la porta della fortezza, creandovi una breccia. Un nemico invisibile, più temibile del capitano di ventura e dei franco-imperiali messi assieme, lo consumava dall’interno, suggendogli avido il soffio vitale in cambio di una crescente e sconosciuta paura, paragonabile alla tipica vertigine di chi in bilico su di un scivoloso parapetto guarda la voragine sotto di sé.

Quando Fra’ Anselmo aveva recitato il rosario, la rabbia e il dolore gli avevano provocato scatti nervosi pieni di fastidio e ribellione a quella noiosa litania. Ad un certo punto era stato lì per lì d’intimare al monaco di tacere, tappandosi snervato le orecchie. Grano dopo grano, corona dopo corona, le preghiere avevano incominciato ad un tratto a scivolargli leggere e soavi; il nome Mater, ripetuto costantemente, non gli suggeriva più alcuna voglia di rivolta, bensì d’abbandono. Per un attimo s’era rivisto bambino, sul suo lettino, la fronte calda per via di una febbriciattola da cambio di stagione, le dita fresche di Madre che gli asciugavano le lacrime: aveva pianto, terrorizzato e dolorante per via della solitudine e della malattia. Sono qui, figlio mio, gli aveva allora sussurrato teneramente Madre, seguitando nella consolatrice carezza ...

“Non mi va di sprecare energie preziose, ecco tutto. Soddisfatto?”, gli confessò conciso Hironimo, tamponandosi con la manica il sudore alle tempie.

Mercurio si girò verso di lui, gli angoli della bocca piegati all’ingiù. Analizzò meticoloso ogni curva dei lineamenti del viso del Miani, ogni dettaglio alla ricerca di un inganno, di una recita da parte sua. Quel che vi trovò fu sul serio una stanchezza mortale di chi era giunto al termine delle proprie risorse fisiche e mentali. Da una parte avrebbe voluto rimproverarlo, se non proprio sfotterlo per quella sua debolezza – diamine, lui era stato prigioniero per ben sette settimane e mica ne aveva fatto una tragedia, né l’avevano riportato da Caterina in barella e delirante!

D’altro canto, però, riconosceva un qualcosa di oscuro agitarsi nel giovane uomo, una forza al greco-albanese incomprensibile, quasi … quasi un anticipo di metamorfosi. Il condottiero riconosceva perfettamente il bacio della morte sui volti altrui e invero Hironimo manifestava gli stessi sintomi del moribondo, ma – e qui il Bua ne rimaneva confuso – non di un decesso del corpo, piuttosto … dell’anima? Come, come se una parte di lui stesse lentamente morendo per permettere ad un’altra di nascere. Strano, talmente strano da rimanerne scosso e inquieto.  

“E’ lamentevole”, commentò infine a voce alta, scrocchiandosi pensieroso le nocche. “In un’altra vita, avremmo forse potuto essere amici.” Gli costava ammetterlo, però sin dall’inizio quell’orso d’un veneziano gli era risultato alquanto simpatico. Avrà pur posseduto una linguaccia che tagliava e cuciva, una tendenza all’irascibilità e allo sfottò creativo, ciononostante aveva dimostrato un senso di lealtà, coraggio e generosità davvero invidiabile. Sperò di non sbagliarsi nel suo giudizio.

“Ne dubito: sei troppo permaloso”, aggrottò la fronte Hironimo, l’ombra di un sorrisetto beffardo sul viso pallido e sudato.

“Allora, avresti potuto essere mia moglie!”, lo canzonò Mercurio, gongolando alla vista delle spalle del patrizio irrigidirsi, manco un gatto cui si rizzava il pelo.

“Piuttosto monaco stilobita in cima al Monte Pelmo!”

“Suvvia, ti avrei corteggiato appassionatamente ed io scommetto che sei uno scatenato sotto le lenzuola!”

“Il tuo senso dell’umorismo m’inquieta”, tagliò corto Miani, simulando un disgustato conato di vomito. Quand’ecco che gli scoccò un’occhiataccia velenosa: “Piuttosto, perché debbo fare io la femmina?”, inquisì irritato.

“Ho visto come ti prendi cura del moccoloso”, gli chiarì Mercurio, il cui tono non tradiva curiosamente alcun’ironia, semmai un’insolita tenerezza. “Un padre non si comporta così coi propri figli.”

“An, perché tu ora sai come si comporta un padre?”

Il condottiero grugnì sardonico. Poteva ben affermarlo: di Pietro Bua Spata, per quegli undici anni vissuti assieme, ben si ricordava le sberle e gli aspri rimproveri ogniqualvolta falliva negli allenamenti o cadeva dal suo cavallino o semplicemente si comportava secondo lui troppo “da bambino”. Il suo barba Alessio poi non aveva di certo nutrito sentimenti più paterni, rincarando casomai la dose di busse e sermoni. Solo sua madre l’aveva riempito d’affetto e di dolci parole d’incoraggiamento, baciandogli i lividi e curandogli le escoriazioni, confortandolo la notte durante  i primi mesi a Venezia, dove tutto gli appariva alieno, pauroso, incomprensibile. Lei era stata la sua roccia e così Caterina. Adesso non possedeva più nulla di tutto ciò e si sentiva smarrito.

Hironimo reclinò il capo, avvertendo un colpevole guizzo al cuore, un timido sentimento di pietà nei confronti del suo carceriere e tentò di supporre cosa potesse aver provocato il subitaneo rabbuiamento nel suo viso. “Ti manca tua figlia?”, gli domandò gentile, paragonando le loro situazioni; in fin dei conti, ambedue null’altro desideravano se non di ricongiungersi alla propria famiglia e di proteggerla, rendendola felice e orgogliosa.

Invece, il Bua scattò peggio di una vipera, misinterpretando la sua genuina offerta di tregua per una provocazione. “Non incominciare”, l’avvertì astioso, rifilandogli un’espressione torva e aggressiva.  

Il Miani allora ritornò immediatamente sulla difensiva, trincerando ogni afflato d’empatia dietro le sue alte mura e rindossando la sua maschera di gelida indifferenza. “Conosci la soluzione per riaverla indietro”, gli rivelò, lasciando volutamente ambigua la frase e sogghignando bieco dinanzi all’irrigidimento delle spalle del condottiero, roso per certo dai dubbi sulla sua interpretazione. “In infermeria, alcuni soldati discutevano su come il loro comandante, il conte di Gambara, fosse ieri partito di gran fretta dall’Abbazia.”

“Così sembrerebbe. Ti dispiace?”

“Stimo nulla di lui”, si grattò il mento Hironimo. “Sicuro, era un conversatore assai più civile di te, ma d’altronde ci vuol poco …”, rigirò il coltello nella piaga.

“Ho notato”, sentenziò piccato il greco-albanese, ponendosi in piedi. “Bene”, annunciò in un enfatico sospiro, celando a malapena la sua intima seccatura. Il veneziano si compiacque d’aver pizzicato un nervo scoperto, anche perché effettivamente il conte bresciano gli aveva di sfuggita confidato qualcosina d’interessante, cioè, nulla di sconvolgente, ma se presentato sotto un’altra prospettiva … “Basta chiacchierare, sennò quel vecchio monaco pazzo mi spella vivo. Ti riporto indietro”, dichiarò pratico, allungandogli la mano per aiutarlo a scendere dal muretto.   

“Non vuoi più sapere cosa m’ha detto il Gambara?”, gli sorrise obliquo Hironimo.

Le dita del Bua si strinsero in un pugno che ritornò al fianco del suo proprietario, il quale si sedette inconsciamente, le orecchie ben tese. “La febbre t’ha reso ciarliero”, appurò stupefatto. “Avrei dovuto procurartela prima, invece di farmi venire calli e vesciche a furia di picchiarti!”

Il patrizio levò in alto le mani, ammettendo le sue colpe. “An, non aspettarti chissà quali sconcertanti rivelazioni … Semplicemente mi raccontava certe divertenti bagatelle su Massimiliano. Lui è il suo rappresentante in campo, ti ricordi? Conosce un mucchio d’aneddoti su di lui, roba da scompisciarsi dalle risate … In breve, mi narrava di quell’ordinanza in cui ti si nominava consigliere imperiale, conferendoti maggior potere esecutivo in campo”, la buttò lì casualmente, osservando attento la reazione del capitano di ventura.

Non ne rimase deluso: Mercurio si sistemò meglio sul muretto, incrociando le braccia al petto. “Continua”, lo invitò, oramai catturato dal discorso del Miani, che obbedendo proseguì:

“Il conte m’ha confessato il suo dispiacere nel vederti talmente umiliato. M’ha detto, cito verbatim: trovo assai ingiusto corbellare un condottiero così fedele, onesto, serio e dedicato, quale Mercurio Bua Spata.

“Co- corbellare?”, ripeté incredula la vittima di detta beffa imperiale. Si massaggiò la fronte, richiamando alla mente ogni singolo dettaglio di quell’ordinanza, cercando di capire dove l’Habsburg l’avesse fregato. Non trovando alcun dettaglio fuori posto, lanciò un’occhiata perplessa al patrizio, che gli espose concisamente i suoi dubbi:

“Non ti è sembrato strano l’ordine dell’Imperatore, che sanciva la Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi stradioti?”

Mercurio deglutì male la saliva, sovvenendosi d’un tratto di quella piccola clausola, che all’epoca sì l’aveva infastidito ma che poi aveva relegato nel dimenticatoio, giacché ridimensionata dinanzi ai doni e privilegi concessigli dall’Imperatore. “Sì, lo ammetto”, gli concesse a denti stretti, “questo perché la maggior parte delle truppe è formata da francesi e … e quindi … voglio dire, La Palice risponde al Re di Francia e … sicuramente l’Imperatore …”, s’impappinò, incapace di giustificare quell’ordine così castrante e partigiano. A conti fatti, finora ad averci rimesso erano sempre stati i francesi e i suoi stradioti, mica gli …

Hironimo avvicinò il viso al suo, finché i loro fiati non si mescolarono in un’unica nuvola di vapore. Le sue iridi nerissime rilucevano di una luce poco raccomandabile, predatrice, mentre gli esponeva il subdolo ragionamento del Re dei Romani:

“Massimiliano è timoroso che voi possiate appropriarvi indiscriminatamente di rifornimenti, di viveri e mezzi di sussistenza, molto abbondanti al di là della Piave, e perciò ha consentito solo alle milizie tedesche di varcare il fiume. Quella dei suoi capitani non è stata una diserzione di massa, bensì un chiaro ordine dell’Imperatore, acciocché gli imperiali restino sempre in vantaggio rispetto a voi.

“Egli teme infatti il conto che il re Ludovico gli presenterà a fine impresa, un conto talmente salato da non poterlo saldare neppure cedendogli l’intero bottino di Treviso.

“Il suo piano è quindi che i tedeschi conquistino la Patria del Friuli, riempiendosi la pancia di cibo e le botti di polvere da sparo, mentre a voialtri sciocchi, rimasti a guardare, non rimarrà che soffrire la fame, la malattia, l’impatto degli attacchi nemici. Sarete talmente sfibrati nell’animo, da non poter neppure protestare quando Massimiliano incamererà in totum la preda di guerra. E una volta incassato il malloppo, cosa mai potrà fare re Ludovico? Strillare che lo rivuole indietro? Dichiarare guerra all’Imperatore?

“Tuttavia, quest’ultimo sa che tu non sei completamente un idiota – al contrario dei tuoi compari -  e così ti nomina suo consigliere imperiale e conte di Soave ed Illasi, onde gettarti fumo negli occhi. Perché lui sa che tu sei l’unico con sufficienti coglioni da mandarlo, se costretto, alla malora e di te l’Imperatore, volente o nolente, ha un fottuto bisogno!”, batté Hironimo l’indice sui mattoncini del muretto, ogniqualvolta sottolineava un concetto chiave acciocché s’imprimesse nella mente di Mercurio, la cui faccia impallidiva a cadauna parola, il respiro fattosi irregolare e sembrava in procinto di vomitare da un momento all’altro. L’aveva ascoltato in sbigottito silenzio, aprendo e chiudendo la bocca ogniqualvolta credeva di possedere argomentazioni abbastanza solide da ribattere, sennonché ad ogni frase successiva finiva per arrendersi, scuotendo inconsciamente in diniego il capo, l’inattaccabile logica finalmente denudata ai suoi occhi.

Maximilian li aveva menati per il naso; tutti quei sorrisi, quelle promesse, quegli infiammati discorsi sulla cavalleria, l’onore, la sacralità della vendetta, quei “Mein geliebter Bruder”: oh, sicuro! Fratello, fratello, mio amato fratello, dissero al biblico Giuseppe avanti di venderlo!

L’Imperatore li aveva mandati accuratamente allo sbaraglio, nascondendosi abile dietro le quinte e da lì in attesa dei risvolti finali degli eventi: in caso di sconfitta, la colpa sarebbe stata imputata a La Palice e a Mercurio Bua che non avevano obbedito ai suoi ordini con sufficiente diligenza. In caso di vittoria, tutto merito del genio militare di Maximilian, il quale da Bolzano sarebbe volato giù fino a Treviso, materializzandosi all’improvviso nella città conquistata.

Keratas!

Il giovane patrizio non concesse al Bua alcuna tregua, incalzandolo spietato nella sua confusione e rabbia, adesso che lo stava per avere in pugno: “Vedi in quale considerazione ti tiene quell’Asburgo? In tal modo ci si comporta cogli alleati? Con chi combatte così … arditamente per lui?”

“Stai cercando di seminare zizzania?”, soffiò furioso Mercurio, rifiutandosi di credere ad un tiro così basso e vile! Non a lui, non se lo meritava! Lui che aveva costantemente servito con la più assoluta lealtà e impegno i suoi signori, come si permetteva quel … quel … a trattarlo alla stregua della peggiore delle scartine?

Hironimo negò tristemente. “Sto cercando di aprirti gli occhi, capitano. Provo troppo rispetto nei tuoi confronti, per vederti preso per i fondelli da un austriaco bugiardo e senza coglioni, che manco ha il fegato di mostrare il suo muso al fronte, delegando ai suoi comandanti l’onore di morire per le sue cause. A lui la gloria eterna e a voi la bocca riempita di terra!”

Le nocche del greco-albanese si sbiancarono dalla stretta, scrocchiando sinistramente. “Non ho intenzione di cambiar bandiera, qualsiasi cosa tu mi dica”, tremava dalla collera e dall’umiliazione, tuttavia non immune dal sospetto che forse si trattava di un’accorta bugia del veneziano per indurlo al tradimento.

Sicché sussultò neanche avesse ricevuto una frustata, quando Hironimo si sciolse in un riso sguaiato, cattivo. “Certo, certo, com’ho potuto scordalo? Sempio mi!”, si batté il patrizio teatralmente la mano sulla fronte, il bel viso deformato in una maschera beffarda e crudele. “Tu sei troppo pieno del latte dell’umana bontà e gentilezza e giustamente t’accontenti delle briciole altrui. Massimiliano con te ha concluso davvero un ottimo affare, lode al suo fiuto. La stragrande maggioranza dei condottieri pretende ducati sonanti a ricompensa delle proprie fatiche, mentre tu ti ritieni soddisfatto di un sorriso galante, di una pacca sulla spalla, di una stretta di mano e di qualche insignificante zolla di terra su cui giocare al conte-dalle-brache-onte! Me lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: Ben fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie, Mercurio,  per aver sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!

Un pugno alla bocca dello stomaco lo interruppe, sbilanciandolo sulla sinistra e di fatti, grugnendo di dolore e senza appiglio, Hironimo cadde sull’erba, riecheggiandogli il colpo dell’impatto dalla schiena lungo l’intero scheletro, fino all’ultimo osso.

Povero, povero il mio Maurikos, Conte del Niente!, tambureggiarono di nuovo veementi le parole di Caterina nelle orecchie del Bua, mescolandosi a quelle di Hironimo. Braccato, in trappola, a corto di argomenti dinanzi a quell’impietoso e veritiero teatrino imbastitogli. Lui non era un debosciato di cui approfittarsi! Un figlio di papà con la pappa pronta! Da solo s’era costruito la sua carriera e reputazione, non avrebbe permesso a chicchessia d’infamarlo né di deriderlo! Ogni volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del suo paese! 

Mercurio afferrò il veneziano per la gola, spingendolo supino per terra quando questi fece per rialzarsi, posizionandosi a carponi sopra di lui al fine d’immobilizzarlo. “Le tue parole puzzano di veleno”, proferì in un gelido sussurro, che sapeva di condanna.

“Mio povero, povero Mercurio”, gracchiò di rimando Hironimo. “Il veleno non ha odore, non sai?”

Neanche cingesse carboni ardenti al posto della pelle, il capitano di ventura abbandonò  in un guizzo la presa al collo, balzando agile in piedi e issando in un possente strattone il patrizio. “Bada a guarire in fretta: febbricitante o meno, quando leveremo il campo tu mi seguirai ovunque io vada e non ti perderò di vista per un solo istante, neppure in battaglia, dovessi legarti al vessillo!”, gli promise arcigno, spingendolo di malagrazia in direzione dell’infermeria.

“Un tal spettacolo neppure il tanto osannato Boiardo sarebbe stato in grado d’inventarselo!”, ridacchiò divertito Hironimo, acquiescendo all’implicito ordine del Bua.

Poco gli importava se gli credesse o meno: la verità lui gliel’aveva detta, poi stava al greco-albanese trarre le sue giuste conclusioni. Non lo tangeva. Che decidesse di farsi ammazzare stupidamente per Maximilian, o che decidesse di ritornare a servire la Serenissima? Cavoli suoi. Ciò che più premeva al Miani era di tenergli la mente occupata, distraendolo: in questo modo avrebbe abbassato la guardia, fornendogli un’ottima occasione per fuggire. Ché arrabbiato e confuso, Mercurio Bua diveniva assai negligente, commettendo errori grossolani e situazioni ideali onde facilitargli il piano.

Hironimo stava davvero giungendo al suo limite, la fuga adesso la sua unica ragione di vita e speranza.

 

***

 

Fra’ Anselmo tamponava leggermente le ferire sul dorso di Zanze con dell’aceto, disinfettandole, di tanto in tanto scoccando un’occhiata guardinga dietro di sé. La contadina, scoperta la schiena il minimo necessario, sussultava e sibilava al tocco bruciante del liquido, senza però sottrarvisi e il monaco ridacchiò al ricordo di certi suoi pazienti uomini più agliofobici di lei. “Ancora un poco e abbiamo finito”, la rassicurò benevolo, impiegando un tocco leggero e rapido.

Zanze scrollò le spalle. “Gh’ho soportà de pezo: el barba di mia mare, co’, par lu, mi no ghe no lavoravo bastanza, me cresemava (cresimare = picchiare, ndr.) pì d’on musso!” (asino, ndr.)

Il benedettino storse la bocca in disappunto: credeva fermamente nello disciplinare i giovani, per lui il mondo sarebbe finito alla malora il giorno in cui avrebbero smesso d’elargire qualche salutare scappellotto alle loro ribelli cervici; tuttavia batterli alla stregua di tamburi lo riteneva più nocivo che educativo, rendendoli o estremamente paurosi oppure aggressivi, a seconda del carattere.

Per esempio, quel giannizzero di Thomà accanto a lui non aveva ricevuto sufficienti sculaccioni, giacché disobbediente ad ogni ordine, specie quando Fra’ Anselmo gli aveva intimato di trasferirsi in foresteria visto ch’era guarito. Niente da fare: il fantolino s’era costruito una sorta di cuccia per terra, vicino al patrizio veneziano, e lì voleva stare, cascasse il mondo o la pazienza del monaco. Il quale, considerata l’energia frenetica del pargolo, l’aveva arruolato ad ergersi assieme a lui a scudo umano, onde coprire ulteriormente Zanze da occhi indiscreti.

“Passami l’unguento!”, comandò al bambino, intanto ch’appoggiava la pezza di tela insanguinata su di una bacinella a parte.

“Coss’elo?”, non resistette Thomà dall’annusare il cremoso impasto.

“Una mistura di centaurium erythraea et lamium galeobdolon!”

“L’amia (zia, ndr.) dil galeoto? Cossa c’entréla?”

Il pover’uomo si pizzicò esasperato la radice del naso: aveva scordato l’ignoranza imperante al di là delle mura del monastero, sicché talora nutriva l’impressione di parlare col fantolino idiomi diversi, manco provenissero dai due estremi opposti del mondo. “Baùco!”, lo rimproverò sbuffante il benedettino, intingendo la punta di una pezza pulita nell’unguento e applicandolo delicatamente sulla ferita di Zanze. “Xéi zentaurea menor e falsa antrìga zàla (ortica gialla, ndr.), tutte e do erbe bone par varir sbréghi (ferite, ndr.) e secatrizar (cicatrizzare, ndr.). Depo’ la falsa antriga zàla, la gh’ha anca proprietà espettoranti!”

“Justo, a xé onta e fa petòni!” (macchie d’unto, ndr.), schioccò le dita Thomà, fiero di sé per aver compreso la difficile parola da patavino dottore universitario. 

“Bone Jesu!”, guaì Fra’ Anselmo, mentre le due giovani donne ridacchiavano dinanzi a quella commediola degli errori. “No, no sior mamara (scimunito, ndr.): “espettorante” vuol dir che te fa spuàr (sputare, ndr).”

“An! Pulito! Ma perché?”

“Perché, perché! Perché sputare fa bene, ti libera i polmoni dagli umori nocivi! Per l’appunto ho somministrato anche al tuo patron un po’ di falsa ortica gialla, acciò si liberi dal catarro e stia un po’ tranquillo in letto …”, ché quell’erba possedeva pure benefici antispasmodici, nella speranza che gli rilassasse abbastanza i muscoli da persuadere Hironimo a non gironzolare sconsideratamente all’alba, in camicia e a piedi nudi.

Infatti, il frate lo aveva sottoposto ad una solenne lavata di capo non appena l’aveva pizzicato rientrare in infermeria, sordo alle vivaci proteste del giovane patrizio, tutte accusanti la villania di Mercurio Bua e la sua incapacità di distinguere lui da un prete, considerate le sue smanie di ciarliere confessioni. Inflessibile, il benedettino l’aveva minacciato di legarlo al letto e costretto a bere il primo decotto della giornata, rimboccandogli le coperte e ordinandogli di dormire. Su quel punto il Miani s’era ritrovato d’accordo, appisolandosi quasi immediatamente, ambedue le mani al ventre.

Fra’ Anselmo spostò lo sguardo alla finestra e poi verso il veneziano: il sole già s’era alzato da che mo’, eppure ancora non s’era risvegliato. L’uomo s’augurò non si trattasse di una brutta ricaduta, non adesso che stavano terminando di progettare il piano di fuga!

Il monaco terminò di spalmare l’unguento  sulle ferite di Zanze, istruendo Lussìa a stringere piano le bende e, intanto che quella rindossava camicia e casacca, le raccomandò di dormire, se possibile, prona e di non appoggiarsi di schiena al muro. Quanto alla sua amica, il bambino pareva scalciare tranquillo e l’ansie della notte scorsa non davano segni di complicazioni, però queste rimanevano supposizioni del frate, non pratico quanto una levatrice di tali muliebri questioni. Ciò di cui Lussìa necessitava piuttosto era cibo e Fra’ Anselmo rinunciò volentieri alla sua magra razione per lei, anche per quaresimarsi in penitenza.  

Accorgendosi del risveglio d’Hironimo, Thomà disertò il benedettino per zampettare da lui e balzargli in letto, intanto che il patrizio si puntellava cautamente sui gomiti. Il piccino gli sistemò il cuscino dietro la schiena e, ad operazione compiuta, sussurrò qualcosa all’orecchio del giovane, lanciando qualche fugace occhiata al monaco e alle contadine.

“Ben svegliato”, li raggiunse Fra’ Anselmo, chiudendo le cortine attorno al letto delle due donne. “Vediamo un po’ come sei messo oggi”, disse e tenendogli il mento, mosse piano il volto di Hironimo, studiandone il colore della pelle, la torbidezza dell’occhio e la quantità di bianco sulla lingua. Gli misurò la temperatura, storcendo affatto compiaciuto la bocca: ecco cosa accadeva a fare i mona in giro, scalzi, coll’umido mattutino a raffreddare bronchi, stomaco e ossa!

“Cosa c’è da mangiare?”, anticipò Hironimo la paternale, che il crucciato frate già s’apprestava ad appioppargli.

“La tua medicina”, rispose secco quell’altro. “E solo dopo che l’avrai bevuta tutta, si parlerà di colazione.”

Il patrizio sospirò deluso, scivolando sotto le coperte. “Morirò pisciando”, bofonchiò e il benedettino catturò il modo in cui ancora si reggeva la pancia, quasi soffrisse di crampi o coliche.

Fece per chiedergli di mostrargli là dove l’affliggeva, quand’ecco un confratello chiamò Fra’ Anselmo, necessitando della sua assistenza.

Dodici monaci lo seguivano, smunti, sporchi, gonfi di lividi e croste di sangue, l’abito dell’ordine certosino lacero e lordo di fango, senza mantello. Immediatamente il frate l’identificò provenienti dalla limitrofa Certosa di San Girolamo, seccandoglisi la saliva in gola alla vista di tal scempio specie quando, tra questi poveretti malmenati, egli riconobbe Fra’ Thomà Patavim, una sua vecchia conoscenza.

Il confratello spiegò al benedettino come costoro fossero giunti appunto dalla Certosa, scortati personalmente dal maresciallo La Palice, dopo che questi s’era dovuto recare d’emergenza al monastero su sollecita richiesta del Conte di Collalto, per indagare sulla veridicità degli apocalittici resoconti del loro Priore circa il vergognoso comportamento dei soldati tedeschi accampati alla Certosa.

A giudicare dalle facce tumefatte dei certosini, le lamentele del procuratore spirituale si erano dimostrate anche fin troppo ben giustificate.

Fra’ Anselmo sistemò meglio che poté i nuovi arrivati, l’infermeria satura: chi su di uno sgabello, chi per terra, chi appoggiato al muro se riusciva a reggersi in piedi. Si dolse di non poter offrire loro se non qualche mezza scodella di zuppa di rape rosse; dal modo bestiale in cui la trangugiarono direttamente senza cucchiaio, l’uomo comprese trovarsi i certosini in condizioni assai ben peggiori delle loro.

“Cos’è successo?”, interpellò egli sottovoce Fra’ Thomà, con la scusa di tamponargli un taglio sullo zigomo con dell’acqua fredda.

Il frate tirò su col naso, rabbrividendo al pizzicore della ferita. “I todeschi, ecco cos’è successo. Quei diavoli d’inferno hanno messo la nostra Certosa al sacco! Tutto c’hanno portato via: bestie, arnesi, viveri, lasciandoci solo l’aria per respirare e le lacrime per piangere. Arraffavano qualsiasi cosa trovassero, addirittura hanno fatto irruzione in chiesa, mentre ci trovavamo a pregare davanti all’altare! Li abbiamo supplicati di smetterla, di rispettare la casa di Dio, ma quelli, ridendosela, ci hanno picchiato, minacciato, spogliato dei nostri mantelli … E non paghi, quasi a deriderci, dopo averci derubati quegli sciagurati si sono tutti inginocchiati davanti al Crocefisso, si sono segnati, e sempre imperturbabili se ne sono andati via con la nostra roba!” Non avevano dimostrato alcun timor di Dio, forzando barbaramente le porte della chiesa, con le armi in pugno, per di più durante l’Adorazione e dalla paura il certosino aveva ingoiato in un sol boccone l’Ostia, in caso quei masnadieri avessero deciso di profanare anche Quella oltre alla casa del Signore.

Fra’ Anselmo inspirò profondamente, approfittando di strizzare via l’acqua dalla pezza per sfogare la sua rabbia. Udendo di tali barbarità, concluse che invero Dio era esigente nel chiedere di porgere l’altra guancia, una fatica sovraumana.

“Erano furiosi”, aggiunse Fra’ Thomà maggior dettagli a quella squallida vicenda. “L’argenteria e gli altri oggetti di valore in sacrestia li avevamo già inviati al sicuro a Veniexia, ben prima dell’arrivo di quest’esercito di senzadio. Di conseguenza, non trovando nulla di prezioso, i todeschi ci hanno percossi affinché li rivelassimo dove li avessimo nascosti.” S’inumidì le labbra gonfie e incrostate al ricordo dei pugni ricevuti da un lanzichenecco per nulla soddisfatto della risposta datagli, ossia che per loro di prezioso non v’era alcunché da rubare.

Il certosino proseguì: “Dopodiché è giunto alla Certosa monsignor di la Peliza e subito il nostro Priore gli è corso incontro, lamentandosi delle crudeltà usate su di noi e su di un luogo sacro. Il maresciallo s’è immediatamente scusato, contrito: Non sono stati i miei francesi, e se anche lo fossero stati, v’avrei posto rimedio. Ed ha giurato per la fede sua di schierare quei todeschi malnati in prima linea, una volta messa Trevixo sott’assedio”, concluse il suo triste racconto, appoggiando la bocca sull’orlo della scodella e ingoiando avidamente il piacevole liquido caldo.

Tipica promessa del comandante: trasformare gli indisciplinati in scudi umani al primo scontro, piuttosto di punirli in loco, scosse il capo Fra’ Anselmo, che ormai stava imparando a capire il modus operandi di tal marmaglia. “E adesso? Cosa farai?”, inquisì invece.

Fra’ Thomà lo guardò nervosamente dietro il piatto, per poi riconcentrarsi colpevole sulla zuppa. Il benedettino arcuò insospettito il sopracciglio, ancor di più quando Mercurio Bua comparve all’uscio della porta, facendo sobbalzare i due monaci.

“Colendissimo padre”, lo sfotté il greco-albanese tramite la riverenza e Fra’ Anselmo si morse la lingua, soffocando una degna risposta a quell’indegno saluto, “il maresciallo La Palice richiede la vostra assistenza. È ritornato dalla Certosa pallido, sudato e sostiene soffrire di dolorosissime fitte alla testa. La sua garzona vi saprà dire di più a riguardo. Avreste dunque la cortesia di visitarlo e magari di preparagli una delle vostre portentose tisane?”

Il frate s’alzò in piedi. “Vedo cosa potrò fare.”

“Ah, e già che ci siete, recatevi anche dal conte di Gambara. Stamane non si è alzato dal letto e il maresciallo vorrebbe informarsi sulle sue condizioni di salute: temo che la sua improvvisa cavalcata non gli abbia affatto giovato”, aggiunse all’ultimo il capitano di ventura.

Per tutta risposta Fra’ Anselmo uscì dall’infermeria, affidando i suoi malati al confratello e assistenti. Rimasto finalmente solo con Fra’ Thomà Patavim, Mercurio occupò il posto vacato dall’altro monaco, squadrandolo ben in faccia. “La mia offerta rimane tuttora valida”, andò dritto al sodo, “sta a voi accettarla o meno, però vi avverto: oggi o mai più.”

Il certosino appoggiò la scodella sulle ginocchia, nettandosi la bocca col manico del saio. Nel suo resoconto di quanto accaduto alla Certosa, aveva omesso di riportare a Fra’ Anselmo un piccolo dettaglio, ovvero che il capitano degli stradioti Mercurio Bua aveva accompagnato il generalissimo francese alla volta del monastero e che mentre La Palice si beccava le lamentele, sfuriate e anatemi del Priore, il condottiero aveva avvicinato Fra’ Thomà, domandandogli se avesse dei parenti a Treviso. Il frate, interdetto e un poco intimidito dalla cruda fama del Bua, gli aveva replicato che dappertutto nel mondo possedeva fratelli.  Al che il capitano aveva specificato fratelli o parenti di sangue, non spirituali. Sì, ne aveva, aveva allora risposto il frate e inaspettatamente gli era stato chiesto se volesse raggiungerli, giacché Mercurio gliene avrebbe offerta l’occasione.

“Perché mi volete aiutare?”, gli pose Fra’ Thomà quella domanda, che l’aveva tormentato sin dal loro primo incontro. “Anzi, perché ci volete aiutare?”, si corresse, menzionando il fatto che il greco-albanese era disposto ad estendere il favore anche agli altri undici frati malconci.

“Perché siete delle inutili bocche da sfamare”, non gli zuccherò il farmaco il Bua, provocando un indignato rossore nel monaco, “e non abbiamo tempo per farvi da balie, men che meno il nostro maresciallo, che in questo momento ha ben altre gatte da pelare, che proteggervi dai tedeschi.” Incluso rimanere in salute, aggiunse mentalmente lo stradiota.

“Un comandante incapace di tenere a freno i propri soldati, non si può certo ritenere tale!”, giudicò inclemente Fra’ Thomà, indicando il suo viso a chiazze rosse e blu.

Mercurio scrollò incurante le spalle. “In ogni modo, potete scegliere se rimanere qui a patire la fame e le percosse, oppure scappare a Treviso e poi raggiungere il vostro ordine a Venezia.”

“Come?”, strinse gli occhi il certosino, sospettoso e temendo un inganno. Dopo lo scontro coi contadini, il bosco del Montello pullulava degli stradioti del Bua, i quali perlustravano assieme ai gendarmi ogni zolla di terra, in cerca dei superstiti e di scoraggiare anche gli esploratori e stradioti veneziani, sempre vigili e pronti ad improvvise imboscate. Sia l’Abbazia che la Certosa erano occupate dagli accampamenti dei franco-imperiali, i quali avevano triplicato i turni di guardia. Impossibile quindi fuggire senza un aiuto esterno.

O interno.

“Darò a voi e ai vostri confratelli una mia piccola scorta, la quale v’accompagnerà al limitare del bosco, per poi lasciarvi proseguire da soli. Gli stradioti veneziani cavalcano in incessante esplorazione, non tarderanno a notarvi e a soccorrervi”, gli spiegò in breve Mercurio.

Fra’ Thomà reclinò il capo, dubbioso quanto il suo omonimo santo. “E tutta codesta generosità in cambio di cosa?”, mise le carte in tavola, arrivando al nocciolo della questione. La reputazione del Bua lo procedeva e pure le sue bizzarrie – tendere un’imboscata a chi l’aveva sfidato a duello; far catturare un suo alleato per ripicca; abbassare ad una cifra ridicola e simbolica la taglia di riscatto di un’intera città; affrancare un uomo che non aveva soldi per liberarsi; infilzare su di una picca la testa di un suo parente e rivale croato, per un’antica faida tra famiglie e tante altre. Naturale che il certosino poco si fidasse di lui, del suo carattere volubile e appunto mercuriale, di quel suo avvicinarlo senza un doppio scopo.

Il greco-albanese s’avvicinò a lui, estraendo dalla sua casacca un foglio piegato e sigillato. “Consegnerete per conto mio una lettera”, fu la sua semplice richiesta.

“A chi, nello specifico?”

“Al magnifico e illustrissimo consigliere ducale, messer Giovan Battista Morosini “da Lisbona.” A lui e a lui soltanto.” Caterina non aveva risposto ad alcuna delle sue lettere, né tantomeno suo fratello Teodoro e i suoi cognati Manoli e Costantino Boccali soltanto per mandarlo al diavolo. Silenzio totale anche dal Consiglio dei Dieci, dei Pregadi e il Doge contava quanto un due di bastoni, manco sprecava carta e inchiostro. A questo punto, considerata la situazione, era infine giunto il momento di rivolgersi all’unica persona su cui Mercurio poteva veramente far leva.

“Cosa dice?”

Il capitano degli stradioti aggrottò la fronte, sorpreso e piccato da quell’eccessiva curiosità. “Non sono affari vostri”, tagliò bruscamente corto, spingendo la missiva sotto il naso del frate.

Fra’ Thomà incrociò testardo le braccia al petto. “Sì, invece, perché potrei rifiutarvi questo favore. Chi m’assicura che non si tratti di qualcosa di compromettente o che possa compromettermi agli occhi della Signoria?”

“Che! Avete la coscienza sporca?”

“La calunnia, signor capitano, esiste dall’alba dei tempi. O mi rivelate i contenuti o non se ne fa nulla”, fu l’innegoziabile ultimatum del monaco.

“E voi rimarrete qui prigioniero e affamato”, levò in alto i palmi delle mani Mercurio, in realtà scocciato da tanta testardaggine. Un conto era comandare i suoi stradioti, un conto i civili, teste ancor più dure. Almeno i primi poteva sempre minacciarli con la frusta.

“Pensate che la prospettiva mi spaventi?”, sogghignò indulgente Fra’ Thomà. “All’inizio non comprendevo perché vi foste rivolto a me, ora sì: soltanto uno interno alla Serenissima può recapitare questa lettera al vostro destinatario, poiché i vostri uomini verrebbero o catturati o questa missiva confiscata e letta da terzi e voi non desiderate ciò. Al che vi si precludono molte possibilità di scelta e se io dovessi rifiutarmi, voi vi trovereste daccapo. Ho forse torto?”

Il condottiero batté sarcastico le mani. “Per esser gente ch’ha rinunciato al mondo, voi monaci la sapete anche fin troppo lunga”, commentò beffardo, ammettendo ciononostante la perspicacia del frate. Sicché gli concesse la sua richiesta, sebbene ai suoi termini. “In breve  - e non chiedetemi ulteriori dettagli -  mia moglie si trova al momento a Venezia e quando la Signoria avrà intenzione di restituirmela -  alle condizioni da me elencate -  invierò una robusta scorta dei miei migliori stradioti a prelevarla, così da levar il disturbo alla Signoria d’organizzare la cosa. Soddisfatto? Abbiamo un accordo?”

Fra’ Thomà ponderò a lungo i pro e i contro, alternando la contemplazione della lettera al viso dell’epirota, le cui sopracciglia si stavano avvicinando impazienti ad ogni istante di tentennamento da parte del monaco. “Mi pare una richiesta ragionevole”, sentenziò infine e Mercurio convenne assolutamente con lui. “Sul serio ci assisterete nella fuga?”, sussurrò poi d’un tratto ansioso.

“Avete la mia parola d’onore”, si portò il condottiero una mano al cuore, gli occhi luccicanti di febbrile eccitazione. “Possa Iddio fulminarmi in questo istante se mento.”

Il certosino lo chetò tramite un deciso gesto della mano, ritenendo inopportuno scomodare il Padreterno per tali quisquiglie. “Accetto”, dichiarò solenne, sfilando la lettera dalle dita di Mercurio e nascondendola sotto lo scapolare.

“Badate: quanto vi ho appena confidato, resterà con voi. A nessuno - intesi? -  a nessuno dovrete ripetere i contenuti di questa lettera”, si raccomandò il greco-albanese, ponendosi in piedi e squadrandolo intimidatorio.

“Sia”, annuì Fra’ Thomà.

“Riposatevi adesso per qualche oretta e poi recatevi nella mia cella: Zilio Madalo, il mio luogotenente, v’istruirà dove incontrarvi per la partenza. Il tutto con discrezione”, giacché La Palice ignorava alla grossa questa personale iniziativa del condottiero: agli occhi profani dei francesi, i frati erano scappati e gli stradioti del Bua partiti alla loro ricerca, ma, ahimè, senza successo.  

Fra’ Thomà asserì di nuovo col capo, raggiungendo il gruppetto dei suoi confratelli per informarli a grandi linee del piano per abbandonare l’Abbazia alla volta di Treviso, inducendoli alla calma e circospezione onde evitare di destare sospetti, specialmente tra i benedettini, i quali avrebbero potuti denunciarli o all’Abate o al maresciallo oppure accodarsi a loro e di conseguenza complicarli la fuga.

Mentre i certosini così confabulavano, Mercurio si recò a porger visita al suo prigioniero, trovandolo per suo sommo fastidio bianco quanto le lenzuola. Seduto a tenergli compagnia l’immancabile marmocchio, interrompendolo l’arrivo del condottiero nel bel mezzo della spiegazione della parola “espettorante” da lui imparata quella mattina.

“Hai mangiato?”, s’informò perentorio il Bua, notando la scodella preoccupatamente vuota e asciutta. A seguito della discussione di quella mattina ancora risentiva il patrizio per le sue insinuazioni, ciononostante si sforzò di non recriminarlo eccessivamente per delle - lo riconosceva - giuste obiezioni sull’ambiguo comportamento dell’Imperatore. D’altronde anche La Palice ne diceva su di lui peste e corna, ergo …

“Gli ultimi rimasugli di zuppa di rape se li sono pappati quei monaci certosini”, gli rispose concisamente Hironimo, ponendosi come suo solito davanti a Thomà.

Potrei stenderlo con un unico ceffone e ancora crede di riuscire a proteggere il moccioso. “Uhm”, contemplò pensieroso il capitano di ventura la punta dei suoi stivali. Perché si sentiva lui a disagio invece di quell’altro, quando dalla parte del torto sguazzava appunto il veneziano? “Provvederò a farti portare qualcosa. Anche al pidocchio, lo so”, l’anticipò snervato, non appena il Miani aprì la bocca per replicare.

Invece … “No, non era questo di cui volevo parlarti.”

“Ti preferivo muto, sai?”, roteò gli occhi Mercurio, affatto desideroso di un’altra diatriba, la quale sarebbe puntualmente terminata con lui arrabbiato e il Miani pestato peggio d’un baccalà.

Il patrizio chiuse la mano in un pugno, segno che neanch’egli aveva tempo per incominciare le solite discussioni da lavascale. “E così hai intenzione di far fuggire quei monaci certosini?”, gli domandò brutalmente schietto. “Suvvia, da quando in qua parli fitto-fitto con un frate? Neanche se me lo giurassi su tua madre, ti crederei così cristiano da confessarti”, gli delucidò con un sorrisetto compiaciuto.

Mercurio sobbalzò, non attendendosi d’esser stato scoperto così presto. E adesso? Quale provvedimento questo furbastro voleva prendere contro di lui? Ricattarlo? Denunciarlo? Ci provasse pure, gli avrebbe estratto le budella dalla bocca!

“Dunque?”, gli chiese imperturbabile. “Anche se fosse?”

Hironimo lo trafisse coi suoi occhi nerissimi. “Come ne sgattaiolano fuori dodici, ne possono sgattaiolare fuori quattordici …”

Il Bua sentì fischiargli le orecchie e divenne paonazzo. “Stai tentando di corrompermi per lasciarti fuggire con loro?!”, berciò furioso, già avanzando di qualche passo per riempire di ceffoni quel muso da impunito del patrizio, il quale allungò il braccio, ponendo una stizzita distanza tra loro.

“Se mi ascoltassi invece di continuare ad interrompermi, magari ci capiremmo!”, lo rimbeccò al limite della sua pazienza. “Tre settimane trascorse a sopportarti e poi - oh! -  mi liberi così? Senza uno scambio o un pagamento di riscatto? Dai! Non offendere la mia intelligenza!”, asserì offeso e perentorio. Il giovane indicò poi il lettuccio accanto alla scrivania di Fra’ Anselmo. “Invece, qui in infermeria si sono rifugiate due contadine, giunte ieri dal bosco del Montello e i come e perché penso tu già li conosca benissimo.”

Il malessere oscuro provato durante l’intera nottata scorsa investì in pieno il condottiero. Subito si pose sulla difensiva, scacciando via cocciuto quei vili pensieri. “Cosa vuoi da me? Che le includa nell’allegra comitiva?”, finse ironica disponibilità.

Non si scorgeva un granello di spiritosaggine in Hironimo, semmai una determinazione mista a dell’intimo disgusto e delusione, colando tali sentimenti nella sua spiccia risposta: “Sarebbe il minimo dopo la porcata che hai commesso.”

“Ti ho detto, ch’io non forzo le donne!”, balzò in avanti Mercurio, sporgendosi imponente sopra di lui, ma il Miani sostenne imperturbabile il suo sguardo, il mento ben alto in segno di sfida.

“I vostri soldati, al contrario, l’hanno fatto per tutta la notte scorsa! Quindi, se non colpevole, sei perlomeno complice del loro stupro!”, ogni parola pesava più d’un macigno sulla coscienza del greco-albanese, per la prima volta in vita sua. Forse perché nessuno, nemmeno Caterina, aveva avuto il fegato di schiaffargli in faccia le sue meschinità? “Avresti potuto intervenire. Trovare un altro modo per premiare i soldati. Invece, hai preferito la via più facile e mi sorprende venire proprio da te, che tanto professi d’amare tua moglie e tua figlia ma al contempo non hai dimostrato un minimo di pietà od empatia verso quelle mogli e figlie, trasformate per tuo ordine in carne da dare in pasto ai tuoi cani lussuriosi!” La sera addietro non aveva potuto credere alle parole del soldato lombardo; purtroppo i racconti delle due fuggitive, riferitigli da Thomà, avevano confermato la sordida verità e nauseatolo al punto da rigettare per intero la zuppa della sera precedente.

La testa di Mercurio guizzò dall’altra parte, neanche avesse ricevuto un possente ceffone. Cacciò fuori un pesante sospiro, le mani poste nervosamente ai fianchi e i denti martorianti la tenera carne delle labbra. “E che cosa ci guadagno a farle fuggire, sentiamo?”, lo provocò stizzoso al limite del petulante; in realtà Hironimo sapeva che  quella battaglia la stava nettamente per vincere, a giudicare dalla fissità dello sguardo dell’epirota, un cane in attesa dell’ordine del padrone.

“Qualche girone più in alto all’inferno!”, dichiarò sarcastico il Miani.

“Così m’indisponi”, gli ricordò seccato il condottiero.

Il giovane patrizio fece spallucce. “E’ la tua coscienza sporca, non le mie parole.”

“Da quando in qua un prigioniero impone alcunché al suo guardiano?”

Hironimo neanche degnò il Bua di una risposta, appoggiando la schiena sui cuscini, le vertigini risvegliatesi dalla pennichella nel suo cervello. Lo stomaco gli gorgogliava, avvertiva un gran dolore tra le costole e freddo alle mani e ai piedi. Decisamente aveva più diritto lui di giocare allo sdegnato e offeso, rispetto a quel lunatico d’un greco-albanese. Ignorando completamente la sua domanda, optò per un’altra tattica, che sperò portagli qualche risultato soddisfacente. “Una di quelle contadine”, e indicò una delle due sagome dietro la tenduccia, “raccontava a Thomà come avesse trovato il cadavere del suo compagno mezzo decollato. Gli ha mostrato la ciocca di capelli strappatagli per ricordarsi di lui, per mostrare qualcosa di tangibile al figlio che porta in grembo …” Il fantolino, commosso, gli aveva riferito come Lussìa avesse lavato via il sangue e intrecciato quei capelli in una piccola croce, acciocché l’anima del suo Berto vegliasse su di lei e il piccino. “Ma tanto cosa parlo a fare”, asserì amaramente il patrizio e lisciò le pieghe del lenzuolo, “tu possiedi un’anima nera quanto il carbone.”

E dal fondo nero d’essa riemerse nella mente di Mercurio il volto di quell’anonimo contadino da lui ucciso il giorno addietro, macchiato di sangue e gli occhi saettanti di rabbia e disperazione. Mors tua vita mea, d’accordo, ma pure infierire sulla mia donna e mio figlio?, schiumava l’annoso quesito da quella storta bocca mutilata.

In un battito di ciglia tale angosciante visione scomparve, rintanandosi nella memoria prodigiosa dello stradiota, là dove simile ad un parassita avrebbe atteso ogni suo istante di stanchezza per ripresentarsi a lui, tormentandolo. Dinanzi a Mercurio rimase soltanto il viso di pietra d’Hironimo, raccolto impassibile nei suoi pensieri.

“Quando cesserai d’intercedere per gli altri e incomincerai a supplicare per te stesso?”, non si frenò dal domandargli il Bua, genuinamente intrigato da quella sua ostinatezza di voler alleviare le altrui sofferenze senza curarsi delle proprie. Certo, si trattava della sua gente, però nulla aveva il veneziano chiesto per mitigare l’asprezza della sua prigionia. Una volta, per punzecchiarlo, l’aveva minacciato che s’avesse ceduto la sua porzione al marmocchio, non ne avrebbe ricevuta un’altra. Sia, era stata gelida risposta del suo prigioniero e allora per testare questa sua determinatezza, il condottiero sul serio non gli aveva dato da mangiare, ma da quell’altro non una parola di lamento né di protesta.

“Mai”, gli rispose stoico ed orgoglioso il Miani. “Non supplicherò mai nessuno.”

Il capitano di ventura batté il piede per terra, grattandosi pensieroso la nuca, roso dal dubbio. In fin dei conti, che gli costava? Altre due bocche, anzi tre, in meno contro cui contendersi il pane …  “Che si vestano da monaci”, cedette il Bua, tornando un poco a fiatare. “Per evenienza”, aggiunse, levando in alto la testa e si sorprese di trovare un timido sorriso sul volto pallido d’Hironimo.

“Te ne saranno molto grate”, gli sussurrò sincero.

D’accordo, era giunto il momento di battere velocemente in ritirata. “Non me, è te che debbono ringraziare”, non volle l’uomo perdere alcuna parvenza di dignità, chiudendo la tendina e dirigendosi verso Fra’ Thomà Patavim in modo d’aggiornarlo circa i suoi nuovi compagni di viaggio.

Sennonché venne intercettato da un cupo Fra’ Anselmo, di ritorno dalle sue visite. “Deduco dal pranzo di due giorni fa che i Conti siano vostri amici?”, esordì dritto al dunque il monaco.

“Affermi il vero, frate.”

“Bene, perché qui in infermeria non c’è più posto e le celle non sono il posto più salubre per due ammalati.”

“Invierò immediatamente un nostro emissario ai Conti, chiedendo caritatevole ospitalità nel loro castello per il nostro maresciallo e per il conte di Gambara”, colse Mercurio la palla al balzo: perfetto, con la scusa del trasferimento di La Palice e del nobile bresciano a San Salvatore, l’attenzione del campo sarebbe stata doppiamente rivolta altrove.

In uno massimo due giorni la lettera sarebbe giunta nelle mani del consigliere ducale sier Morexini e, a Dio piacendo, fra una settimana avrebbe finalmente riabbracciato la sua Caterina. Poi il resto poteva andare giù per lo scolo di fogna, non gliene fregava un gran bel fico secco.

Ignaro dei suoi ragionamenti, Fra’ Anselmo terminava di riferirgli la sua diagnosi: “Il vostro maresciallo dovrebbe rimettersi senza eccessivi fastidi, forse già per fine mese sarà guarito. Ho adeguatamente istruito la sua garzona sui rimedi da somministrargli. Quanto al signor conte …” e qui la voce dell’uomo tremò leggermente e così anche il Bua, più che altro perché col Gambara ci aveva lavorato a stretto contatto e maledetto fosse in eterno quel bresciano, in caso gli avesse appiccicato il morbo!

“Ebbene?”, lo spronò nervoso, tentato dalla voglia matta di porre fine di persona alle sofferenze del Gambara e poi di bruciarne per sicurezza il cadavere.

“Non più di due mesi”, sentenziò grave il benedettino, ritornando alla sua scrivania.

“Gliel’avete comunicato?”

“Ovvio”, fece sorpreso Fra’ Anselmo, “così il signor conte avrà tutto il tempo per riflettere sulla sua vita, tirarne le somme e riappacificarsi con Dio e cogli uomini. Contrariamente a voi profani, che mascherate la verità attraverso futili speranze”, e gli puntò contro la penna, “noi fisici siamo assai più pietosi nel descrivere le cose per come stanno.”

“Rivelare a quel disgraziato che gli rimangono due mesi di vita?”, ribatté scettico Mercurio. “A me pare piuttosto impietoso, invece.”

“Impietoso è ciò che l’attende, se non si prepara adeguatamente.”

“Detesto i vostri sermoni escatologici”, sbuffò il condottiero.

Fra’ Anselmo non se ne curò di certo. “Tutti verremo giudicati, figliolo, peccato che a nessuno piaccia sentirselo dire in anticipo”, e sorrise sornione.

Al che Mercurio guizzò via rapidissimo dall’infermeria: due prediche in un sol giorno erano davvero troppe per un poveruomo.

 

***

 

Era buffo osservare sier Zuam Paulo Gradenigo, sier Andrea Donado e il figlio Nicolò, sier Lunardo Zustignan e sier Marco Miani tentare comicamente d’impironare la fetta di brasato senza arricciare la bocca dal fastidio, utilizzato soltanto le prime due dita, gli unici arti liberi dalle bende alle mani, testimoni dell’intesa attività manuale alla cinta muraria.   

I lavori alle mura settentrionali erano miracolosamente terminati, proprio come prefissatosi dal provveditore generale: l’intera città vi aveva lavorato in sincronia perfetta sia di giorno che di notte, trasformandosi in un operoso alveare d’api, tutti ordinatamente ai loro posti, uomini e donne; guastatori, genieri, soldati, patrizi, cittadini e popolani, laici e religiosi, in un continuo viavai di carriole e passamano di materiali edili e calce. Poi, quando s’era giudicata conclusa l’impresa, o perlomeno il suo grosso, i trevigiani erano rimasti a contemplare basiti il risultato, a bocca aperta, incapaci di credere al nuovo complesso murario dinanzi a loro, così possente e arcigno e a Dio piacendo infallibile contro le cannonate nemiche. Dopodiché s’erano trascinati ognuno alle proprie case, desiderando null’altro se non dormire ed immergere le mani gonfie e piene di vesciche e calli nell’acqua fredda.

Oltre alle mura, ci si era attivati alacremente a demolire i monasteri a loro ridosso o in prossimità, quali San Girolamo; Santa Maria del Gesù; Santa Chiara; Santa Maddalena e ciò per creare spazio vitale e impossibilità al nemico di rifugio. Al monastero Santi Quaranta era stato concesso di vivere ancora per qualche settimana, intanto che fungeva da quartiere per gli stradioti di Teodoro Paleologo; poi anch’esso sarebbe stato abbattuto. Un duro sacrificio per la religiosissima città, ma essenziale.

Il tempio della Madonna Grande al contrario continuava, malgrado i continui accordi e promesse, a creare problemi, ché distruggere quella chiesa limitrofa alle mura equivaleva a trafiggere il cuore della popolazione trevigiana, da secoli fedelissimi al sentito culto mariano e certi, come scriveva sier Lunardo Zustignan ai suoi familiari a Venezia, che “la devotissima Nostra Donna è lì per aiutarli” contro i franco-imperiali e contro la pestilenza insinuatasi in città.

Le squadre di guastatori avevano già demolito il monastero attiguo dei Canonici Regolari, commissionato nel 1491 dal Patriarca di Venezia domino Antonio Contarini, all’epoca Priore del santuario, assieme al tempietto e alla sagrestia attigua. Anche il campanile era stato abbassato, riconvertito in torre di vedetta. Tuttavia, causa le occhiatacce torve e feroci dei trevigiani, i guastatori non avevano osato proseguire oltre, temendo picconate in testa o direttamente la lapidazione.

A seguito di notevoli tira e molla tra le autorità civili (che a tutti i costi voleva evitare una possibilissima sommossa popolare) e le autorità militari (ciechi ad ogni devozione tranne all’ottica bellica) s’era giunti ad un compromesso: ogni parte a ridosso delle mura sul lato orientale sarebbe stato demolito; il tempietto lombardiano che incorniciava l’affresco della Nicopeia dei Miracoli invece risparmiato.

Sfortunatamente, quel 20 settembre, il capitano Renzo di Ceri s’era riscoperto insoddisfatto dell’accordo e aveva ordinato, per sommo orrore generale a cominciare dagli stessi guastatori, d’abbattere il tempietto e il muro perimetrale dove si trovava l’immagine miracolosa. Immediatamente una  folla esagitata era corsa ad avvisare sottocasa sier Zuam Paulo Gradenigo e un furioso e pubblico diverbio n’era scaturito tra i due comandanti, il provveditore arrabbiato a bestia per l’ennesima insubordinazione del condottiero laziale, opponendosi con infiammato vigore alla demolizione della cappella della Madonna. I due contendenti erano arrivati al punto di mettersi le mani addosso, sennonché alla fine Renzo di Ceri aveva ceduto alle pressioni del Gradenigo o piuttosto all’espressioni crucciate dei trevigiani lì riunitisi a cerchio, i quali lo fissavano impestati d’odio e già calcolando il primo albero disponibile dove appiccare l’Orsini.

A denti stretti Renzo di Ceri aveva accettato di dare la mano a sier Zuam Paulo in segno di pubblica pace e concordia, ironicamente dinanzi all’immagine sacra che avrebbe voluto distruggere.

“Però vi giuro”, riferì a cena sier Lunardo Zustignan all’ancora sbuffante provveditore, “d’aver sentito borbottare il capitano: Dio dice: Aiutati, che t’aiuterò anch’io”, e che quest’opera di demolizione non è mal alcuno.”

La bellissima chiesa della Madonna Grande s’era quindi ridotta ad un rudere informe, mutilata delle tre cappelle gotiche, dell’abside e del transetto. Le tre navate sarebbero state riconvertite per deposito munizioni e gli alloggi dei soldati, mentre una provvisoria copertura avrebbe protetto il tempietto lombardesco.

Sier Zuam Paulo Gradenigo abbassò il piron, stufo del brasato sul piatto. Poi però l’appetito lo vinse, ci ripensò su e, seppur dolorosamente per via delle piaghe alle mani, morse il pezzetto di carne. “Mi duole il cuore come a tutta Trevixo; tuttavia, per un bene superiore, bisogna pur far sacrifici.”

“La cappella della Madonna non corre più alcun pericolo ed era questo ciò che più premeva al popolo. Tutto bene quel che finisce bene”, lo consolò sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo, ancora vestita del semplice abito da lavoro, così come la moglie del podestà madona Francesca Gradenigo Donado e madona Helena Spandolin Miani.

La nobildonna, troppo anziana per lavorare alle mura, ugualmente non aveva voluto restarsene  a casa con le mani in mano e, racimolando un gruppo di volontarie, aveva pigliato il comando dell’Ospedale trecentesco di Santa Maria dei Battuti, controllando le scorte di bende, medicinali e strumenti chirurgici, i posti letto per i feriti  e gli ammalati, specie per quest’ultimi, il cui numero stava crescendo sì rapidamente, da trasferirne alcuni al lazzaretto. Né la mole di lavoro né gli scetticismi dei direttori dell’ospedale l’avevano trattenuta dal rigirarseli tra le dita: accompagnare il marito in quasi tutte le sue spedizioni militari non significava solamente starsene in tenda a cucire o a guardare le sfilate delle truppe.

“Sier Vincenzo Salamon e sier Vincenzo da Riva torneranno domani a Veniexia”, cangiò discorso madona Maria, acciocché il consorte placasse la persistente arrabbiatura verso il capitano Orsini. “Anche le condizioni di salute del capitano Naldo Naldi e del connestabile Domenego da Modom si sono aggravate. Il numero d’ammalati sta aumentando di giorno in giorno e purtroppo ci troviamo a corto sia di medici sia di chirurghi.”

“Sier Andrea”, si rivolse madona Helena al podestà, “vorrei per cortesia domandarvi aiuto, nell’aiutarmi a persuadere il vostro nezzo Marco a rimpatriare anch’egli a Veniexia. Stamane, quando l’ho incrociato mentre usciva di casa, aveva una faccia talmente bianca da sembrarmi morto. Madona Felicita Cimavin, presso cui egli alloggia, m’ha inoltre riferito come al suo ritorno, dopo la ronda, Marco si sia buttato a letto, stanchissimo, senza neppure cenare. Per questo motivo non ha potuto unirsi a noi stasera e di questo si scusa.”

Sier Donado spalancò la bocca incredulo, sbiancando anch’egli alla notizia dell’improvvisa malattia di suo nipote Marco Contarini, prefigurandosi la sfuriata di sua sorella madona Alba non appena si fosse rivista rincasare il figlio più morto che vivo. D’altronde, parecchi patrizi erano dovuti rimpatriare in fretta e furia per via di quella strana febbre, spopolando i torrioni dei loro guardiani. “Ma certo”, gli venne in soccorso sua moglie madona Francesca, replicando al posto suo e traendolo d’impaccio, “parlerò io stessa domani col mio nezzo. Grazie mille per averci avvertito.”

Marco Miani, al contrario, aggrottò la fronte e scoccò un’occhiata affatto compiaciuta anzi assai sospettosa alla moglie, domandandole silente da quando in qua tutta quella confidenza col Contarini, da conoscere così approfonditamente il suo stato di salute e da fargli perfino da portavoce. Imperturbabile, madona Helena gli pestò sotto il tavolo il piede, riportandolo a miti consigli: il piccolo Scipio era la prova vivente che Marco doveva esser l’ultimo sulla faccia della terra a predicarle la fedeltà coniugale, perdendo in aggiunta ogni diritto di farle il geloso.

“Certamente, se sta male è giusto che Marco torni a casa”, convenne il podestà, ripigliatosi dal suo iniziale spaesamento e ignaro delle diatribe sotterranee tra i due coniugi. Suo figlio Nicolò avrebbe accompagnato il cugino germano, così d’allietargli il lungo e deprimente viaggio in burchio e portare le scuse scritte dal padre a sua zia.

“Questa mattina”, interruppe sier Lunardo Zustignan il pesante silenzio impostosi tra i commensali, “è ritornato da una sortita il nostro Draganeto e i suoi esploratori. Con loro avevano due prigionieri, un cavallaro francese e un feltrino proveniente da Bolzam, ai quali hanno trovato addosso delle lettere da parte dell’ambasciatore francese indirizzate a monsignor di la Peliza. In esse l’oratore si lamentava di come l’Imperatore non sembri disposto ad organizzare alcunché per venir in soccorso ai suoi alleati; che la cosa lo lascia mezzo confuso e che per non attristare monsignor di La Peliza, non vuol dilungarsi in spiacevoli dettagli.”

Una giovale risata riecheggiò nella sala, l’umore decisamente sollevato. “Poareto! Non lo vuol far piangere!”, commentò Marco, stringendo a mo’ di scusa la mano a madona Helena, che ricambiò ridendo anch’ella all’immagine del maresciallo riverso in fiumi di lacrime alla notizia dell’inettitudine dell’Imperatore.

“Il signor capitano Vitello ha commentato a riguardo, che ciò spiegherebbe il generale malcontento dei francesi e che quindi, quella loro testardaggine a voler comunque porre Trevixo sott’assedio o sia figlia della paura di una ritorsione da parte dell’Imperatore oppure del loro smisurato orgoglio e senso dell’onore”, riferì Zustignan.

Sier Zuam Paulo sbuffò dietro il bicchiere: tra i francesi a tentennare e i tedeschi a sbravazzare nella Patria del Friuli, non si sapeva se ridere o piangere di quella situazione. “Piuttosto”, chiese al nipote del Doge, “le carte del Ducha di Frara e del Roy di Franza?”

Oltre agli emissari provenienti da Bolzano, gli esploratori veneziani avevano intercettato lettere provenienti dal medesimo Louis XII, d’Alfonso d’Este e dallo scomunicato cardinale Federico Sanseverino, scritte in codice cifrato e in francese, sicché si poteva ben definirla una giornata proficua. I traduttori e i cifristi avevano lavorato alacremente fino all’ultima parola, traducendo e decifrando a velocità impressionante, affinché la Signoria ne fosse informata quanto prima. L’eco della resa di Udine e delle altre città friulane aveva aumentato la pressione su Treviso e ogni informazione poteva fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

“Anche queste lettere erano destinate a monsignor di La Peliza”, riassunse sier Lunardo, imparatene oramai i contenuti a memoria a furia di scrivere rapporti su rapporti alla Signoria, “in esse il Ducha di Frara gli ricordava la promessa fatta d’inviargli in soccorso trecento lance nel Polesene, così d’aiutare le truppe estensi a Lignago. Il Ducha gli ha poi allegato una cartina di Frara e delle terre ferraresi a ridosso del padovano, acciocché La Peliza sappia meglio orientarvisi.”

“Ci state dunque dicendo, che il Ducha si crede tanto furbo e invincibile, da spedire a La Peliza le mappe del suo ducato e da descrivergli nel dettaglio gli spostamenti delle sue truppe?”, non riuscì a concepire Marco tale ingenuità tattica. Non calcolava l’Estense, che per raggiungere via corriere La Palice a nord della Marca Trevigiana i suoi cavallari dovevano passare forzatamente per il padovano prima e per il trevigiano meridionale poi, ergo inciampando nella fitta rete di spie ed esploratori? Incredibile! Un errore così madornale se lo sarebbe aspettato da uno scolaretto fresco di studi, non da chi si fregiava d’essere un esperto veterano di guerra e più soldato che duca.

“Il signor Ducha”, commentò spassionatamente il provveditore Gradenigo, “poiché ha vinto alla Polesella e contro il Papa, non soltanto si crede ora un gran condottiero e stratega – e questo di per sé è già più scusabile, chi non ha mai peccato d’hybris? – ma addirittura s’atteggia da vincitore e padrone del nostro Polesene, sicché la prudenza, per lui, può ben andarsene alla malora!”

“A suo gran danno”, ribatté Marco, rigirando il coltello tra le mani bendate. L’esperienza gli aveva insegnato quanto arroganza rimasse con stupidità, ché soltanto il superbo crede di conoscer tutto, sbagliando invece clamorosamente. Come l’Estense in quest’esatto momento.  “E tutto che danneggia monsignor di La Peliza e il suo amichetto don Alphonso d’Este, non può che giovare la Signoria!”

“Amen.”

Il trinciatore s’intromise timidamente nella conversazione, chiedendo se lorsignori desiderassero ancora un po’ di carne prima di spedirla indietro.

“Ieri, sul Montelo, la compagnia del signor Renzo Manzino s’è imbattuta in quanto rimasto dello scontro tra il nemico e i villani, trovando cadaveri e cavalli sparsi ovunque per il bosco … Li hanno seppelliti, uno spettacolo pietoso mi raccontava … Ahimè, non ci voleva anche questa …”, intrecciò le mani sul tavolo il podestà sier Andrea, d’un tratto nauseato dalla cena.

“A tal proposito”, s’inserì Marco, tentando nuovamente d’intercedere presso di lui, visto che Gradenigo a riguardo s’era dimostrato irremovibile, “se potessi di nuovo cavalcare alla volta del Montelo per assicurarci che …”

“No”, lo interruppe immediatamente il provveditore, conoscendo l’eccessiva condiscendenza del podestà, “sier Marco, necessitiamo della vostra presenza alla custodia del Castello sul  Terajo per la via di Mestre: la malattia ha sfoltito le nostre fila di gentiluomini e soldati, non possiamo rischiare di perdevi al nemico!” 

Le nari del Miani si dilatarono rabbiose, espirando a fondo ed ingoiando a fatica una rispostaccia. Helena subito gli afferrò il polso, stringendo ed allentando, poi di nuovo stringendo ed allentando la presa, onde calmarlo quando gli scoppi d’ira, ereditati dal padre sier Anzolo, rendevano irragionevole il consorte. Sier Zuam Paulo comprendeva benissimo quale smania agitasse il suo conterraneo: voleva il fratello libero e anche lui, fossero stati i ruoli invertiti, avrebbe reagito alla stessa maniera. Nondimeno, meglio negoziare da vittoriosi che da perdenti e se quest’assedio fosse finito appunto a loro favore, a testa alta avrebbero preteso, non supplicato, la liberazione di sier Hironimo Miani.

“Dalla Badia sono scappati oggi dodici frati certosini”, gli diede però un piccolo contentino, “può darsi che sappiano qualcosa su vostro fratello. Dopocena, se lo desiderate, mi potreste accompagnare al convento di Sen Paris e Senta Crestina.”

“Per me anche subito: non ho più appetito”, scansò in avanti il piatto Marco, raddrizzandosi sulla sedia e pronto a scattare in piedi. Zuaneta sparecchiò lesta, arrossendo e balbettando quando il Miani la ringraziò, sgambettando via in cucina con le farfalle allo stomaco. “Che?”, domandò egli spaesato ad Helena, che lo studiava attenta.

“Niente”, rispose ella sottovoce e in greco, ridacchiando tra sé e sé all’idea d’emulare i turchi, ossia di vestire suo marito da capo a piedi di un lungo telo e di coprirgli il viso, acciocché nessuna donna glielo guardasse troppo golosa.

La Priora del convento delle monache camaldolesi di San Parisio e di Santa Cristina, situato presso l’omonimo ponte e poco distante dalla chiesa di San Francesco, attendeva solennemente benigna sier Zuam Paulo Gradenigo e sier Marco Miani, ricevendoli calorosamente nel parlatorio d’ingresso. Il suo viso affilato e vigile, pur nascosto dalla pesante e doppia grata traversa, s’illuminò particolarmente alla vista di madona Maria e madona Helena dietro i rispettivi mariti, grata di aver finalmente trovato qualcuno cui poter affidare in tutta sicurezza le due contadine giunte assieme ai dodici frati dall’Abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa, il cui arrivo aveva creato non poco scompiglio in quel rigoroso e appartato ambiente femminile. Con la distruzione dei monasteri fuori dalle mura, molti esponenti degli svariati ordini religiosi s’erano ritrovati sfollati e i conventi cittadini non avevano la capacità d’ospitare nelle proprie celle e foresterie sia loro che i fuggitivi dalle campagne. Sicché alcuni erano ritornati in casa dei rispettivi parenti, altri erano saliti sui burchi per Mestre, Padova e Venezia. La Madre Badessa non s’era tirata di certo indietro nell’assistere quei poveracci scampati all’inferno, ricordando severamente alle monache che la virtù teologale della Carità doveva vincere anche la naturale ritrosia dettata dalla pudicizia. E poi, in tutta onestà, si trattava di una manciata d’ore, al massimo di una notte di sosta. La Priora s’era arrovellata piuttosto per la sorte delle due contadine, non avendo sul serio più spazio all’interno del convento. La Madre Badessa aveva inviato una conversa in ambasciata alla Priora del monastero benedettino di San Teonisto, ricevendo però la medesima risposta: non c’era più posto. Figurarsi poi la sua sorpresa della monaca camaldolese, quand’aveva scoperto che sotto il saio certosino si celavano due femmine, per di più una in avanzato stato di gravidanza! Come poteva imporle di dormire per terra nella sua delicata condizione? Di sicuro la moglie del provveditore possedeva sufficiente posto a casa sua e l’avrebbero aiutate.

Davanti alla grata nel parlatorio e accanto alla suora portinaia, stavano in piedi Fra’ Thomà Patavim e suo cugino germano, Zuam Batista Patavim, accorso quest’ultimo al convento non appena informato dell’arrivo del congiunto, così da riportarselo a casa. Del gruppetto dei monaci fuggiaschi, solamente Fra’ Thomà s’era offerto di conferire col provveditore, essendo gli altri sfiniti dalla lunga marcia e provati dagli stenti e le percosse. La Madre Badessa li aveva sistemati alla bell’e meglio in refettorio, chiusi prudentemente a chiave e rassicurata dalla ferma intenzione dei certosini d’imbarcarsi l’indomani per Venezia.

“Come siete riuscito a fuggire dalla Badia?”, interrogò Gradenigo senza alcun preambolo il monaco, incuriosito da tanta formidabile scaltrezza.

Fra’ Thomà guardò interrogativamente la Priora attraverso le sbarre, la quale lo incoraggiò a parlare. “Un’occasione propizia, sior Provedador: monsignor di La Peliza e domino Zuan Francesco di Gambara si sono ammalati e i Conti di Colalto li hanno offerto ospitalità nel loro castello a Sen Salvador. Di conseguenza, approfittando della confusione generata da questo sanmartin, i miei confratelli ed io ne abbiamo approfittato per scappar via.”

I patrizi veneziani si scambiarono tra di loro occhiate impressionate: quando si diceva fortuna sfacciatissima. Evidentemente, dopo averle prese in abbondanza dai franco-imperiali, il Padreterno aveva deciso di ricompensare la mitezza dei certosini attraverso quella ghiotta possibilità di fuga. Inoltre, la notizia della malattia del maresciallo francese e di quel gran traditore del Gambara suonava ai loro orecchi musica assai gradita.

“Cos’altro accade da quelle bande?”, lo sollecitò il provveditore, avido d’ulteriori informazioni all’interno dell’Abbazia e tra le schiere nemiche.

“I Conti di Colalto, dietro cospicuo pagamento, riforniscono l’esercito nemico di vittuarie”, gli obbedì Fra’ Thomà. “Gli stradioti e gendarmi francesi hanno espugnato i villani nascostisi nel bosco del Montelo, impossessandosi di quasi 3000 capi d’animali grossi. Molti di questi contadini o sono stati ammazzati oppure fatti prigionieri e li hanno tolto le loro donne.” Madona Maria, madona Helena e la medesima Madre Badessa rabbrividirono impercettibilmente a quel dettaglio, immaginando la tremenda sorte di quelle infelici. “Sicché adesso nell’accampamento nemico ci sono più ammalati e donne, che soldati pronti alla guerra. Il cibo scarseggia, il vino è pochissimo e riservato ai comandanti. Tra franzosi e todeschi vige un clima di reciproco sospetto, ma più da parte dei primi, i quali mal sopportano l’indisciplina degli imperiali, i quali sbravizano assai, com’è loro usanza.”

Mentre raccontava, Marco si voltò verso Lussìa e Zanze, in silente ascolto nell’angolino, sedute a capo chino sulle panche appoggiate al muro del parlatorio. Quest’ultima lo colpì particolarmente, avendo la sensazione di riconoscere nella giovane un viso a lui noto.

“Sì”, gli confermò a sorpresa Fra’ Thomà, accorgendosi dell’intenso studio del patrizio, “queste due contadine le avevano condotte prigioniere alla Badia e anche loro hanno approfittato della partenza di La Peliza e Gambara per fuggire via assieme a noialtri.”

Un secondo violento brivido freddo percorse le schiene delle due patrizie, tremando all’idea di cosa quelle due poverette dovevano aver subìto per mano dei soldati all’accampamento. Al che Marco confidò sussurrando i suoi dubbi all’orecchio della moglie, la quale li riferì a madona Maria.

“Ti, moreta, chome te ciamestu?”, domandò la consorte del provveditore alla contadina, la quale, scattando in piedi e inchinatasi deferente, rispose timidamente:

“Anzola di Bapi, siora patrona … lustrissima”, aggiunse veloce, tenendo lo sguardo ostinatamente per terra.

“Dime, cara ti, non ti chiamano forse Zanze?”

La ragazza sollevò la testa, perplessa. “Sì, patrona?”

“Per caso hai una sorella minore di nome Zuanna, detta Zuaneta?”

“Siorasì, patrona! Siorasì! La cognosseu? Saveu ndove xéla?”, tartassò Zanze di domande la nobildonna, ansimando in panico al pensiero di quale triste sorte potesse aver sofferto la sua sorellina, da lei sì crudelmente separata.

Madona Maria le sorrise benevola, tranquillizzandola su quel punto. “Rasserenati: tua sorella sta bene e si trova qui con noi a Trevixo. È stato sier Marco Miani ad averle salvato la vita, lì sul Montelo”, le spiegò brevemente, sicché Zanze s’inginocchiò ai suoi piedi, baciandole riconoscente l’orlo della gonna. E avrebbe ripetuto tale operazione di ringraziamento circondando le ginocchia di Marco, sennonché la tempestiva occhiata assassina di madona Helena glielo impedì, costringendo la contadina a proferire un semplice grazie e a riprendere il suo posto accanto all’amica, seguita a vista dalla bellicosa greca, strategicamente posizionata alle spalle dell’ignaro marito.

“Poxjo vederla?”, bofonchiò timidamente Zanze, consideratasi infine al sicuro dalle grinfie di madona Miani.

“Farò di più: mi seguirai a casa del sior Provedador, tu e la tua amica”, le offrì generosamente madona Maria e la Priora sorrise soddisfatta del suo intuito infallibile e lungimiranza.

“An? Dasseno?”, cascò invece dalle nuvole sier Zuam Paulo, subito piccato della mancata consultazione a riguardo. Sua moglie arcuò il sopracciglio e strizzò gli occhi, segno che lei aveva deciso e la questione terminava lì. Fuori in piazza, lui era patrizio e provveditore generale di Treviso e faceva tutto ciò che da uomo poteva e voleva; in casa, lei era alla stregua di Domine Iddio e dunque i suoi abitanti soggetti alle ferree leggi dell’indiscussa matriarca.

“Chome la toa patrona la comanda”, s’arrese imbronciato Gradenigo: ma tu guarda se dopo essersi liberato a Venezia del gineceo di casa, maritando le sue numerose figliole a dei bravi giovanotti, doveva ora ritrovarsene un altro a Treviso, strapazzato dalla tirannia di nuove sottane! A conti fatti, meno male ch’aveva generato pochi maschi – Andrea, Antonio, Jacomo, Zuam (in onore dello zio deceduto) e Justo – cosicché avrebbe preso in casa al massimo cinque nuore.

Le due contadine ringraziarono all’unisono i coniugi, Zanze in particolare stringeva contenta la mano di Lussìa dalla gioia di riabbracciare presto la sorellina Zuaneta.

“Mio fratello? Lo avete per caso visto? Si chiama Hironimo Miani, era reggente di Castel Novo di Quer e adesso prigioniero di Mercurio Bua”, domandò apprensivo Marco a Fra’ Thomà, supponendo che il monaco, anche se di mero passaggio all’Abbazia, in un qualche modo avesse avuto occasione almeno di scorgere Momolo.

Il certosino trasalì impercettibilmente all’udire il nome del suo segreto liberatore. Imponendosi di calmarsi, scosse il capo, dispiaciuto. “Ho notato, in infermeria, che il capitano Mercurio se ne stava in effetti accanto ad un paziente lì ammalato, però non saprei dirvi se costui fosse o meno vostro fratello”, s’affrettò a riferirgli, deglutendo amara saliva dinanzi all’espressione angosciata del veneziano.

“Vuostro fradelo sta en infermeria”, s’intromise Lussìa e alla conseguente domanda su come lo sapesse per certo, ella replicò con estrema sicurezza: “A traverso on puto nomato Thomà, sòo famejo.”

Marco si consultò brevemente con Helena, sospettoso: a sua memoria non ricordava possedere Momolo un paggio o comunque un servitore di nome Thomà, men che meno un bambino. Che la contadina si fosse sbagliata? O che lo stesse ingannando per accaparrarsi la sua benevolenza e fiducia?

“En infermeria?”, ripeté scettico e il viso stanco e tirato della contadina s’imporporò, offesissima.

“Perché no?”, berciò a voce alta, incurante della regola del convento. “Ghe xéi tanti amalai a la Badia, lustrissimo! I ne more ogni dì pèzo dee mosche! Aveu sentio Fra’ Thomà? La Peliza xé amalà, el sior conte pure! No xé imposibile, donca, ch’anca vuostro fradelo gh’avia buscà el morbo!”

Le ginocchia di Marco cedettero ed egli vacillò impercettibilmente all’indietro, prontamente bloccato dalla moglie.

“Grassie, dona Lussìa”, terminò sier Zuam Paulo l’ostica conversazione, prima che il conterraneo balzasse in sella al suo cavallo e dimentico di ogni ordine cavalcasse come un pazzo fino all’Abbazia. “E anche a voi, Fra’ Thomà. Domani mattina v’imbarcheremo sul primo burchio diretto a Veniexia, acciocché voi possiate riferire quanto narratoci al Colejo. Reverendissima Siora Mare Badessa, ve saludo e v’auguro la bona note”, s’inchinò rispettoso l’uomo assieme agli altri patrizi veneziani e la Priora ricambiò prontamente il gesto dietro la grata, ricordando al provveditore come lei e le sue monache stessero offrendo ogni loro digiuno e preghiera per la custodia di Treviso e la salvezza della Serenissima.

“Servo vostro, sior Provedador, e della Signoria”, ringraziò anche Fra’ Thomà la generosità di Gradenigo, congedandosi dalla Madre Badessa ed esprimendo la sua riconoscenza per il caritatevole soccorso ricevuto.

“Mo via, zerman, rincasiamo: il tuo sior barba mio padre sarà contento di rivederti dopo tanto tempo, nonché sano e salvo dopo quanto accaduto alla Certosa e sul Montelo!”, lo pigliò per mano suo cugino Zuam Batista, incamminandosi verso la contrada dove risiedeva l’intera famiglia Patavim.

Fra’ Thomà annuì distrattamente, muovendo irrequieto la testa in apparente contemplazione degli affreschi sulle lunette dei sottoportici, in realtà schiacciato dallo sguardo accusatore delle numerose Madonne col Bambino e dei Santi ivi raffigurati, i loro occhi resi ancora più vividi e mobili dall’instabile chiarore apportato dalla lucerna del germano.  

“Mea culpa … mea culpa … mea maxima culpa …”, ripeteva a fior di labbra ossessivamente.

“Che?”

“Nulla, zerman. nulla. Oravo le mie laudi.”

“An”, scrollò le spalle Zuam Batista, battendo gioviale una pacca tra le scapole del parente. “Prega anca par le mie mani, ciò, per ‘na spedita guarigione!”, scherzò, mostrandogli le mani callose dopo tre giorni di lavori estenuanti alle mura.

Fra’ Thomà gli sorrise a denti stretti, nervoso, asciugandosi con la manica la fronte madida di sudore freddo, la lettera di Mercurio Bua che gli bruciava colpevole sotto lo scapolare.

 

***

 

“Missier consier Batista!”, esclamò un trafelato sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, scendendo a quattro a quattro la Scala d’Oro e raggiungendo nel Cortiletto dei Senatori il suo collega sier Batista Morexini “da Lisbona”, sceso tra una seduta e l’altra del Collegio per pigliare una boccata d’aria fresca in compagnia del figlio Carlo e dei nipoti Lucha Miani e Carlo Miani. “Una parola, per favore!”

Tra le accese discussioni circa la spinosissima situazione nella Patria del Friuli e le rampognate che ancora gli fischiavano nei timpani, il povero “da Lisbona” si toccò infastidito le orecchie, dolente da quel rumoroso richiamo.

La visita improvvisata a sua sorella madona Leonora gli era costata la più orrida delle paternali, dal giorno in cui sua moglie aveva scoperto della sua relazione fissa con la cantante e cortigiana onesta Luzia Trivixan. Non avendolo infatti visto rincasare il mattino successivo dalla convocazione notturna a Palazzo Ducale, madona Morexina aveva spedito gli altrettanto preoccupati Carlo, Nicolò, Hironimo e Lorenzo a cercare il loro signor padre in casa dell’amante, l’unico posto certo dove la nobildonna s’immaginava aver potuto pernottare il marito. La povera patrizia aveva creduto d’impazzire alla risposta negativa della Trivixan, per poi piangere isterica davanti ai nipoti Lucha e Carlo Miani quando questi, su istigazione della loro madre madona Leonora, s’erano recato a rassicurare la zia sulla salute, almeno fisica, dello zio, accampatosi depresso in casa loro a colazionare. Sier Batista, persuaso a ritornare alla sua casa da statio, s’era beccato per quella sua fuga notturna un sonoro ceffone sia da parte della moglie sia dell’amante, per la prima volta straordinariamente coalizzate contro di lui, nonché i loro pianti e le accuse di volerle assassinare di dolore col suo insensato comportamento, eccetera, eccetera, gli stessi discorsi che ormai il consigliere ducale conosceva a menadito. Sicché, alzatosi e domandato agli impietriti figli e nipoti se volevano anche loro prenderlo a sberle (tutti in coro avevano negato vivacemente, inorriditi all’idea di picchiare un loro maggiore), il Morexini aveva allora abbracciato ambedue le piangenti donne e consolatele con gravi parole, aveva promesso di non sparire mai più nel cuore della notte senza avvertirle dei propri spostamenti.

“Sier Hironimo, non moritemi davanti!”, scherzò sier Batista, alludendo al volto paonazzo e sudato del capo dei Dieci, il quale stava respirando a grosse boccate d’aria. “Non prima d’aver votato la deliberazione, almeno.”

“La perdonança, sier Batista”, si scusò il Querini per la sua irruenza e per aver interrotto la conversazione tra parenti, allentandosi il colletto della sua toga. Dopodiché, fece cenno al Morexini di seguirlo in un angolo più riparato del cortile, lontano da occhi e orecchie indiscreti. “Ci è giunta questa missiva e noi tutti vorremo per cortesia una vostra opinione a riguardo, visto che sembrate tra i più informati sulle vicende di Terraferma”, gli rivelò sottovoce, guardingo.

“Una missiva?”, reclinò sier Batista il capo, la sua curiosità stuzzicata dalla criptica spiegazione del suo collega. Di tutto s’aspettava dai Dieci, tranne che gli chiedessero di leggere una lettera e interrogarlo a proposito. E a chi era poi destinata? Alla Signoria? Al Consiglio? A lui? Era sospetto, davvero sospetto. Quando mai si discuteva della corrispondenza fuori da Palazzo e senza consultare gli altri membri del Minor Consiglio? Lo stavano mettendo alla prova? S’era forse troppo sbilanciato quella volta in camera del Doge? Oppure i contenuti di quella missiva avevano turbato a tal punto i Dieci, da fare uno strappo alla regola?

Il Morexini sfilò senza esitazione la lettera dalla mano di sier Hironimo e, posizionandosi dove c’era più luce, l’aprì e ne scorse avido i contenuti, suo figlio Carlo e i nipoti che spionciavano in punta dei piedi alle sue spalle, altrettanto curiosi.

Copia di la risposta dil magnifico et valoroso signor Hironimo Savorgnan fata al trombeta de li comessarij imperiali su l’invictissimo monte di Osopo, a dì 21 septembrio 1511”, lesse sottovoce il consigliere ducale, che domandò perplesso al Querini: “Come! Di già?”

“Il nostro cavallaro è stato piuttosto … incalzante nella sua fretta di portarci la risposta del Savorgnan”, commentò sornione e soddisfatto il capo dei Dieci, “nonché Maximiano un mona per aver preferito domino Antonio a domino Hironimo. Tutto si sta svolgendo esattamente come da voi previsto, sier Batista. Ma de grassia, lezete.”

Sier Batista non se lo fece ripetere di certo due volte. “Non reputa el fidel Savorgnan esser demerità da vuj, excellentissimi signori capitanei et cesarei comissarij, la presente risposta sua a la rechiesta a lui facta per el suo publico militar nuntio, anzi spiera, imo tien, per constanti da quelli reportarne non vulgar comendation, imperhò che rapresentando le signorie vostre la sacra cesarea majestà, qual sempre ha detestado jure optimo le perfidie, proditiom et rebellion di soi subditi, non dubita tal sua fidei intention, resposta et excusation esser ancora da quelle abrazata et aprobata.

Essendo adunque Jo, Hironimo Savorgnan, con mei progenitori nato, relevato et benemerito soto el mio excellentissimo dominio veneto, cognoscendo tute leze sì naturale, como civile astrenzerme a la perseverantia de fede et devotiom verso el mio signor, non mi par sequir le perfidie et exacrabil vestigie da uno altro nephandissimo proditor, indegno agnato de la casa Savorgnana, qual al presente, postposto ogni timor de Dio, postposto lo santissimo vinculo juramenti fidelitatis per ipsum praestiti, postposto li inmeriti beneficij da questo excellentissimo stato recevuti, postposto lo amor de la propria patria, postposto la propria et comune libertà, non resguardando etiam a li fidelissimi et devoti amici et fautori de la casa Savorgnana, imitando el perfido Juda Scarioto, publicamente a lo excellentissimo et inclyto dominio signor suo ha venduta la sua patria et propria libertà. Etcetera, etcetera … fidelis Hieronymus Savorgnanus … Gran mercé, quest’uomo è un genio!”, rise talmente forte sier Batista, da inumidirsi i suoi occhi di lacrime, il viso deformato in una maschera della più folle e perversa delle gioie.

Sier Hironimo Querini s’unì anch’egli alla grassa risata, complimentandosi ancora col Morexini per l’eccellente suo piano, ossia d’offrire al Savorgnan ogni proprietà e privilegio appartenenti al cugino in cambio della sua fedeltà alla Serenissima. Non aveva immaginato tanto livore tra i due parenti, da persuadere domino Hironimo ad accettare seduta stante la proposta della Signoria.

Sier Batista rilesse più volte la lettera del nobile friulano, analizzando attentamente ogni singola parola e sorridendo carnivoro a ciascuna di essa, l’umore improvvisamente migliorato, similmente alla smania di vendetta nei confronti dell’Imperatore, del Re di Francia e di tutta la loro accozzaglia di parassiti. Un’eccellente risposta, un mirato pugno in faccia all’amor proprio di Maximilian, da sempre fregiatosi del titolo di Ultimo Cavaliere e di difensore delle virtù cavalleresche: proprio l’Imperatore, che aborriva la fellonia, non poteva certo chiedere ad un nobile, per di più di antico lignaggio quale Hironimo Savorgnan, di macchiarsi di siffatto delitto contro la Signoria? La sua richiesta di tradire il suo vassallaggio verso la Serenissima corrispondeva al peggiore degli insulti, un’offerta da Gano, non da chi si vantava di possedere le qualità d’un Rolando, il cavaliere dei cavalieri!

Bone Jesu, al “da Lisbona” stava per venire un gran mal di pancia dal ridere, al solo pensiero della faccia dei comandanti e commissari imperiali, ma soprattutto quanto gli sarebbe piaciuto trasformarsi in una mosca e volare fino a Bolzano soltanto per godersi lo spettacolo di Maximilian balzare giù dalla sedia, pestare i piedi per terra, frignare petulante e mangiarsi il cappello.

Ma il colpo di grazia ai suoi sfruttatissimi polmoni fu l’ultima pagina.  

 

Soneto fato contra Antonio Savergnano, proditore.

 

Ave Rabi, iniquo traditore

Antonio Savorgnam, non sarai lieto

Haver monstrato il tuo malo concetto

A la tua patria hessendo senatore.

 

Ma il justo sangue de quelli di la Torre

Et altre nobel caxe che hai decepto,

Ha parturito in te cotal effecto

Acciò che ’l sia punito lo tuo erore.

 

Non ha persa la forza il fier leone,

Secho verà ogni bon castellano

D’um voler tutti et una opinïone.

 

Non ti varà il favor de alcun villano;

Che se non fuzi, come fu il Benzone,

Te apicherano con sue proprie mano.

 

Cussì meriti, o Gano

Star su la forcha con un pe’ atachato,

Da’ cani et corvi il corpo lacerato.

 

 

“Non è proprio Petrarca, però mi piace assaissimo!”, ripiegò allegro la lettera il Morexini, restituendola a sier Hironimo Querini. “La farete pubblicare?”

Il capo dei Dieci fece spallucce, non disdegnando l’idea di stampare numerose copie del sonetto, anche per divertire un poco la gente in quei tempi di grande tensione.

“Sier Zuam Vituri e la sua compagnia dovrebbero oramai aver raggiunto Trevixo”, si ricordò sier Batista del conterraneo comandante, uno dei più validi assieme a sier Ferigo Contarini. “Se posso darvi un consiglio, vi suggerirei di domandare al provedador sier Zuam Paulo Gradenigo d’inviarlo in soccorso a domino Hironimo Savorgnan, in segno di stima e d’amicizia perpetua da parte della Signoria.”

Sier Querini gli promise di discuterne per certo sia tra i Dieci sia in Collegio, supportandolo nella votazione finale e questo rasserenò il “da Lisbona”, giunto alla conclusione che l’altro patrizio aveva soltanto voluto consultarlo sul da farsi, evitando però di rallentare i tempi in ulteriori discussioni ufficiali. Con più di trequarti del Friuli in mano tedesca, la loro era una lotta contro il tempo e ogni ora sprecata corrispondeva ad un regalo al nemico. Inoltre, non stavano aggirando le consuete procedure per dei vantaggi personali, bensì per la salvezza della Signoria, ergo non dovevano flagellarsi troppo nei mea culpa, purché s’agisse con discrezione.

La fortezza lagunare di Marano e Osoppo rimanevano grazie alla rinnovata lealtà di domino Hironimo Savorgnan saldamente veneziane, una perpetua spina nel fianco dei tedeschi, levandoli il sonno e la certezza della totale conquista della Patria del Friuli. Ben venissero i loro saccheggi, gli incendi ai villaggi e alle città. Ben venissero le tasse, i soprusi: la popolazione friulana e gli stessi castellani si sarebbero di propria spontanea iniziativa allontanati dall’Imperatore tanto velocemente, quanto s’erano a lui avvicinati. Non si conquista l’amore dei propri sudditi a parole, mica lo capiva il Re dei Romani, ci vogliono fatti e bêçs (soldi, ndr.) La convenienza. E qualora non ci fosse stata, si cerca un padron migliore.

Anche se perduta questa prima partita, la rivincita non sarebbe tardata a giungere. Venezia aveva tempo. Le truppe tedesche stanziate in Friuli no, ché un inverno senza niente da mangiare è cosa assai brutta da sopportare. Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman. [2]

 

***

 

Il burchio scivolava pigramente sull’abbraccio fluviale del Sile e del Cagnan, staccandosi dal porticciolo tra il Ponte degli Impossibili e il bastione di San Polo e allontanandosi in placido dondolio da Treviso, finché gli alberi incominciarono ad accompagnarsi prima ed ad oscurare poi le alte torri cittadine.

Fra’ Thomà rigirava inquieto la missiva di Mercurio Bua, tentato di rompere il sigillo di ceralacca e di leggerne i contenuti: ambasciator non porta pena, ma se invece la portasse? Come avrebbe reagito la Signoria?

Alla fine non aveva resistito e, in un momento di privata tranquillità, aveva confessato al cugino Zuam Batista dell’ambasciata incaricatagli da parte del capitano di ventura.

“Se ti ha chiesto di consegnarla a sier Batista Morexini, significa che si tratta di una faccenda personale tra lui e il capitano. La Signoria non c’entra!”

“La Signoria c’entra sempre e dappertutto, zermano! E se … e se fosse qualcosa di losco? Se il consigliere si trovasse in combutta coi francesi? Con l’Imperatore? Dovrei rendermi complice di un tradimento? E se poi si scoprisse l’intero affare? Non voglio finire impiccato tre le colonne in Piazzetta!”

“Allora consegnala direttamente alla Signoria!”

“Baùco! Sier Batista fa parte della Signoria, s’impossesserebbe comunque della lettera!”

“Io non capisco … Il capitano Bua parlava di uno scambio, di riprendersi sua moglie … non capisco perché t’agiti così tanto!”

“Magari è un linguaggio in codice! Un rebus soltanto a loro comprensibile. Che ne sai? Se … se quella della moglie non sia altro che una scusa per avvicinarsi alla laguna coi suoi stradioti? Per penetrare nel territorio e conquistare fortezze così da circondare Trevixo?”

“Mah, per me tu scorgi ovunque intrighi e tradimenti!”

Fra’ Thomà si morse l’interno della guancia, il cuore in subbuglio. Sicuramente Mercurio Bua non l’aveva ingannato circa il suo sostegno nella fuga, filando ogni cosa liscia come da lui promessagli. Di conseguenza, se lui l’assicurava dei contenuti della lettera, tecnicamente doveva fidarsi.

Peccato, che i recenti avvenimenti gli avessero instillato della sana diffidenza nei confronti di chicchessia. Tutti tradivano, tutti mentivano: il suo Priore, i Conti di Collalto, i nobili friulani filo-imperiali, il maresciallo La Palice, i capitani tedeschi … perché Mercurio Bua non doveva sottrarsi a tale nefanda lista?

Che la sua fuga fosse corrisposta alla farsa di una farsa ancora più grossa? Uno scaltro complotto del Bua e del Morexini ai danni della Serenissima? Se il greco-albanese gli avesse permesso di fuggire, per poi venir ammazzato dai sicari del consigliere ducale, zittendolo per sempre?

No, non avrebbe corso il rischio di finire implicato e magari di trasformarsi in un testimone scomodo di cui sbarazzarsi. Aveva giurato di non leggere la lettera e la sua promessa fino a quel punto l’aveva mantenuta. Quanto al resto …

Il certosino strappò esagitato la missiva in piccole strisce, affidandole al vento e all’acqua, ch’allontanassero da lui quell’amaro calice.

Al diavolo Mercurio Bua, al diavolo sier Batista Morexini “da Lisbona” e qualsiasi negozio li legasse: in fede sua, lui non avrebbe portato alcun’ambasciata, nossignore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Procediamo ad oltranza verso il clou di questa storia, anche perché voglio ritornare a scrivere capitolo normali!

La vicenda di Mercurio e di Fra’ Tommaso Patavino è piuttosto oscura.

Riferisce il Sanudo: “[…] El (Mercurio) qual voria che sua mojer, ch’è qui a Venecia, venisse da lui, e la vegneria a tuor con gran scorta, ma esso frate disse, non voler portar tal imbasata.

Le parole del Bua, infatti, nella sua stringatezza e da come il monaco le ha spifferate al cugino (che a sua volta le ha riferite al Collegio), si presentano infatti assai ambigue. Il condottiero aveva incaricato il frate di portare quest’ambasciata, ma a chi nello specifico? Alla moglie, affinché si preparasse alla fuga? Alla Signoria per organizzare la partenza di Caterina? O uno scambio? Oppure, come da noi supposto, proprio a Battista Morosini, che, facendo parte del Minor Consiglio noto anche come Signoria, poteva influenzare il suo ricongiungimento con Caterina? Ma siamo sicuri in cambio di niente? Mercurio teneva comunque in ostaggio il nipote …

Secondo, questo messaggio che il Patavino doveva portare mi ha insospettita sulla fuga di questi. Impossibile che fosse fuggito e che al contempo fosse messaggero del piano del Bua. Questi gli ha permesso d’abbandonare indisturbato il campo francese, appunto per riferire le sue intenzioni di riprendersi la moglie.

Infine, perché il Patavino s’è rifiutato di fare quest’ambasciata? Lo scambio di persone non era una prassi così bizzarra, lo stesso Luca Miani era stato ad esempio scambiato per un capitano nemico. Inoltre, la richiesta di Mercurio era piuttosto innocua, voleva la moglie, non un militare.

Cos’ha insospettito il frate? O intimorito? Forse temeva in un raggiro del Bua, il quale sperava magari di prendere due piccioni con una fava, la moglie e con la sua “grande scorta” entrare indisturbato in territorio veneziano ed occupare fortezze?

Solo Fra’ Tommaso lo sa e, qualunque siano state le sue motivazioni, di sicuro a) Battista l’avrà voluto strangolare; b) il Nostro rimane fregato c) Mercurio piange.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

Un po’ di noticine:

[1] San Martino = “fare San Martino” o “sanmartin” come sostantivo, significa sia cambiar lavoro / cambio di lavoro che traslocare / trasloco, in genere poiché per i contadini in quella data – 11 novembre - terminavano i contratti di lavoro e di affitto delle terre lavorate e coloro cui non veniva rinnovato dovevano appunto cercare altrove lavoro, trasferendosi con l’intera famiglia.

[2] Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman = Anche Dio è friulano: se non paga oggi, paga domani.

 

  
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