Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    18/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

C'erano volute ore, prima che l'Alégre riuscisse a tornare a Castel Sant'Angelo. Il papa, costernato nel prendere atto della facilità con cui Caterina aveva firmato la cessione dei suoi Stati, provò a impuntarsi, dicendo che quella firma poteva essere fasulla e contestata, dato che era quasi illeggibile, e che pretendeva che la donna firmasse di nuovo, ma dinnanzi ai suoi occhi.

“O venite nelle segrete a vederglielo fare, come ho avuto l'animo di fare io – aveva allora ribattuto Yves – oppure prima la fate uscire da là e poi potrete assistere a questo spettacolo che tanto vi interessa!”

Sentendosi messo alle strette, Rodrigo, che aveva passato la notte insonne a ragionare su tutti i possibili sviluppi di quell'assurda situazione, aveva dovuto cedere e così il francese era tornato, trionfale, al castello.

Per il momento, come già deciso, la Tigre di Forlì sarebbe stata messa in una delle stanze della fortificazione e, solo dopo qualche giorno, le sarebbe stato permesso di uscire e, a quel punto, avrebbe dovuto anche firmare di nuovo il documento che la espropriava definitivamente di ogni suo possedimento.

Quando finalmente vide tornare l'Alégre, Caterina si mise in piedi, con grande fatica, ma animata da un'infinita voglia di lasciare per sempre quel buco fatto di pietra, freddo e buio.

L'uomo le offrì dapprima una mano, poi il braccio e alla fine l'intera spalla, dato che già dopo mezzo passo le gambe della Leonessa cominciarono a cedere. Si vedeva che erano passati mesi, dall'ultima volta in cui aveva camminato davvero.

Le guardie pontificie, accorse per accertarsi che il condottiero non tentasse di far scappare la prigioniera, circondavano la Sforza e il suo salvatore, ma restavano a debita distanza, come se la forza di quell'immagine – una donna fragile come un goccia di pioggia sostenuta da un robusto uomo in corazza – li spaventasse.

Arrivati alle scale, Caterina provò a mettere un piede sul primo gradino, concentrando tutta la forza che aveva sulla gamba che doveva sollevarla, ma capì di non farcela. Se ne vergognava. Lei, che aveva sempre avuto una forza erculea, tale da essere ritenuta da molti sovrumana, specie per una donna, adesso non riusciva nemmeno a salire una rampa di scale.

Yves avvertì il suo disagio e, prima che i soldati che li seguivano potessero intendere la difficoltà della Leonessa, con un guizzo improvviso, lui se la caricò in braccio: “Lasciate che faccia io.” le disse, serio.

La Sforza, che si sentiva mortificata, per quanto era sporca e maleodorante, e che avvertiva come invadente e fastidioso un contatto fisico così importante, non poté comunque che essere grata al francese che, svelto come un ragazzino, salì tutti i gradini, fino ad arrivare di nuovo in piano.

“La stanza che hanno scelto per voi è a questo livello del castello – la rassicurò, facendole appoggiare di nuovo i piedi in terra – adesso vi accompagno.”

Caterina annuì appena, e poi, attirata da un profumo che aveva creduto di non risentire mai più, seguendo l'istinto, mosse un passo verso la porta che dava sul cortile. Il francese continuò a sorreggerla, ma sentiva una forza nuova, nelle membra della Tigre. Era davvero come una leonessa in gabbia che, finalmente, rivedeva la libertà.

La donna poteva ormai avvertire il bacio tenero dell'aria fresca dell'alba di quella giornata ancora acerba di giugno. Quando finalmente sentì i polmoni riempirsi con quell'aroma inconfondibile, i suoi occhi si tinsero di rosa e rosso e di un azzurro tenue, nei punti del cielo in cui il furore dell'aurora si stava già placando nella quietezza di una mattina d'estate.

La luce che arrivava dal sole appena nato quasi la feriva. Sentiva il bisogno di chiudere le palpebre, per ridurre il fastidio che provava, ma non voleva farlo.

I soldati alle sue spalle, ormai, però, la incalzavano. Così l'Alégre, paziente, ma ben deciso a non irritare troppo i pontifici, le sussurrò un breve incoraggiamento e la convinse a riprendere a camminare.

La Leonessa, che piangeva in silenzio, di gioia e commozione per quel momento così intenso, fece quello che le veniva detto, e, anzi, lungo il breve tragitto che la portò da un cortile all'altro e da lì a una stanza ben arredata, cercò di assorbire il più possibile tutto: la brezza, il tepore, gli odori, i rumori del mondo che per tanto tempo le era stato precluso...

“Dovrete aspettare qui qualche giorno, come vi ho spiegato prima.” le disse, piano, Yves, aprendole la porta del piccolo appartamento che il papa aveva deciso di concederle: “Così, intanto, avrete anche modo di... Sistemarvi un po'.”

La donna sapeva di aver bisogno di vestiti puliti e di lavarsi. Aveva anche fame e sete e tutti i bisogni che fino a quel momento aveva imparato a tenere a freno, di colpo riaffioravano. Voleva dormire, lavarsi, mangiare, bere tutto assieme, pur sapendo che non era possibile.

Si guardò silenziosamente attorno. C'era un letto, nella stanza. Un letto vero, ossia qualcosa di molto diverso dalla terra fredda e nuda su cui aveva dormito per circa un anno. C'era una piccola scrivania, con il necessario per scrivere. Una grande finestra lasciava entrare la luce dell'alba e un piccolo camino, dirimpetto alla porta, prometteva notti calde e tranquille. Si intravedeva anche il vaso da notte, e nell'angolo c'era un piccolo mobile con una brocca vuota e un tavolinetto da toeletta: un lusso che la Sforza non si sarebbe mai sognata, in una fortificazione militare.

“Posso avere l'acqua per un bagno?” chiese Caterina, con un filo di voce.

“Certo.” annuì subito Yves: “E vi faremo portare degli abiti puliti e adatti al vostro rango. Anche se...”

“Anche se?” gli occhi verdi della Leonessa cercarono quelli più scuri dell'uomo che, dopo un breve momento di incertezza si decise a rispondere.

“Non credo che il papa vi lascerà incustodita nemmeno mentre vi fate un bagno.” ammise.

“Non mi servono dame di compagnia.” ribatté la Sforza, con il tono pragmatico che l'aveva contraddistinta prima della prigionia: “Un paggio o uno scudiero mi andranno altrettanto bene. Mi basta che sia in grado di passarmi un telo per asciugarmi quando avrò finito.”

L'Alégre trattenne un sorriso. Sapeva che era un'immagine illusoria, quella che si stava costruendo nella mente. In realtà la Tigre era cambiata, e non poco, ma in quell'istante gli sembrava la stessa donna fiera e priva di pudori che aveva dato del filo da torcere all'esercito francese, a Forlì.

“So che il vostro padre confessore è a Roma, in questi giorni, e ha chiesto di vedervi non appena fosse stato possibile.” le rivelò il condottiero, mentre la donna, quasi con cautela, si sedeva sul letto, apprezzando quasi con sorpresa la morbidezza del giaciglio: “Se volete, invece che un paggio, potrei chiedere a lui di...”

“Fortunati è qui?” chiese lei, accigliandosi.

Era convinta che il piovano fosse a Roma, a curare gli affari dei suoi figli. Era questo il patto che aveva stretto con lui, l'ultima volta che si erano visti.

“Volete che chieda al papa il permesso di farlo entrare al castello?” domandò, più incerto, il francese.

“Sì.” rispose alla fine la Leonessa, rendendosi conto che se Francesco era lì, doveva esserci un motivo valido.

“Allora, vi faccio portare l'acqua calda e i vestiti e, intanto, vedo se posso farvi incontrare anche il vostro confessore.” concluse il condottiero.

Rimasta sola, pur sentendo la presenza di più di un paio di guardie alla porta, la donna restò in silenzio per parecchio tempo, immobile, come si era abituata a restare per ore nella sua cella.

Teneva le mani strette l'una nell'altra, in grembo, e non osava far altro che fissare la porta, in attesa che succedesse ancora qualcosa. Erano successe così tante cose in poco tempo, che la testa quasi le girava. Cominciava a realizzare solo in quel momento di essere davvero di nuovo libera. O, almeno, di essere uscita dalla cella sotterranea in cui era rimasta rinchiusa per mesi.

I suoi occhi si erano ormai riabituati alla luce, anche se le bruciavano, come se perfino i raggi tenui del sole che stava nascendo, oltre la finestra, fossero fuoco vivo. Malgrado quella sensazione fastidiosa, non voleva chiuderli.

Con lentezza, passò una mano sulla coperta su cui era seduta. La trovò un po' ruvida, ma le parve comunque fantastica. Mentre compiva quel gesto, i suoi occhi caddero sulle sua mani. Stando sempre al buio, o, al massimo, nella penombra, non le aveva più osservate com'era solita fare un tempo.

Le trovò più secche, nervose, ben diverse dalle mani morbide e forti che aveva sempre avuto. Si ricordava bene come, anche nei momenti peggiori, grazie alle creme e ai trattamenti che utilizzava, le sue dita erano sempre lisce e senza calli. Adesso, invece, sembravano le dita di una vecchia: pallide e deboli.

Cercò un qualcosa in cui riflettersi, ma non trovò nulla. Si prese un appunto mentale, di chiedere se fosse possibile avere uno specchio, prima o poi, per poter vedere che cosa fosse diventata.

Si alzò, ma si dovette risedere subito, perché le sue gambe erano troppo deboli per sorreggerla. Se fosse stato possibile, avrebbe chiesto dell'acqua e del cibo: magari mettendosi qualcosa nella pancia, avrebbe ritrovato un po' le forze.

Dovevano essere passate almeno due ore, quando finalmente, dei soldati entrarono nella stanza con una tinozza di medie dimensioni. Misero da un lato un telo, uno spazzolone e un pezzo di sapone.

Poi, veloci, riempirono la tinozza con acqua calda fumante e poi, rigidamente, uno di loro le disse che presto sarebbe arrivato il suo padre confessore ad aiutarla.

“Vorrei avere uno specchio.” fece lei, sforzandosi di suonare autorevole, benché avesse riconosciuto nell'uomo che aveva appena parlato uno dei carcerieri più rigidi e volgari che avevano accompagnato la sua prigionia nelle segrete di Castel Sant'Angelo: “E del cibo. E dell'acqua fresca da bere.”

“Vedrò di fare il possibile.” ribatté lui, rigido, trattenendo visibilmente la lingua dal sibilare qualche battuta infelice.

La Leonessa guardava il vapore salire come una nebbia dall'acqua calda. Avrebbe voluto entrarci subito. Aveva patito così tanto freddo, in prigione, da desiderare sopra ogni cosa il calore. E poi sapeva di essere sporca come non la era mai stata in vita sua. Sperava che un bagno bastasse, a toglierle di dosso almeno in parte lo schifo che tutti quei mesi le avevano attaccato addosso.

Provò una seconda volta ad alzarsi in piedi, convinta che aspettare Fortunati l'avrebbe portata a farsi un bagno freddo, e questa volta riuscì a stare dritta per un po'. La porta si riaprì, però, proprio mentre lei, tentando di fare un passo, finì per doversi piegare e cercare un appiglio proprio nel bordo di legno della tinozza. Notò subito che il telone che ricopriva le doghe era molto sottile, ma pensò che potesse andare bene, dopo tutte le privazioni a cui si era suo malgrado abituata.

Il piovano, appena entrato nella stanza, si chiuse subito la porta alle spalle e corse a sorreggerla.

“Caterina...” le sussurrò, prendendola per le braccia, per aiutarla a restare in piedi.

Francesco, nel momento stesso in cui l'afferrò, avvertì appieno quanto fosse cambiata. L'ultima volta che l'aveva vista era già enormemente provata e stanca, ma adesso gli ricordava davvero una Madonna penitente.

Se non fosse stato sicuro che fosse proprio lei, avrebbe anche potuto avere dei dubbi. Le sue braccia si erano fatte sottili, il suo viso, segnato e sporco, aveva perso in parte la fierezza dei tratti che l'aveva sempre contraddistinto, e i suoi movimenti, un tempo sempre sicuri e scattanti, pieni di vigore, si erano fatti lenti, incerti, come quelli di una vecchia.

Tutto ciò, però, svaniva nella testa di Fortunati, dinnanzi al pensiero che, comunque, la Tigre fosse viva.

Sopraffatto da quella certezza, Francesco si lasciò un momento trasportare dall'entusiasmo e, cogliendo la donna di sorpresa, provò a stringerla a sé in un abbraccio.

Caterina non ragionò. Nella stretta, seppur dolce e accorata, del piovano, risentì quella cupida e cattiva di Cesare Borja, e quella pavida e viscida di Girolamo Riario. Lo scansò subito: il suo corpo aveva reagito più in fretta della sua mente.

Solo quando scorse lo sguardo un po' mortificato del fiorentino e colse il suo disagio, si rese conto di quanto fosse stata ingiusta nel respingerlo a quel modo. Tuttavia, non potendo far altrimenti, sollevò appena una mano per tenerlo a distanza, prima che provasse ad abbracciarla di nuovo.

Il piovano le sembrava uguale a come se lo ricordava, ordinato, pacato, dai bei lineamenti e dai gesti misurati. In quel momento le risultava difficile credere che anche lui, mesi prima, era stato catturato e avesse subito la prigione, anche se per meno tempo di lei.

“No...” gli sussurrò, senza guardarlo: “Sono... Sono sporca.”

Francesco annuì. In quel momento la Sforza gli sembrava un animale ferito e spaventato. Non poteva sapere che fosse successo, nella sua anima, in tutti quei mesi. Probabilmente era molto più ferita di quanto non apparisse, e lui era stato precipitoso, nel cercare così presto un contatto fisico con lei.

“Sei viva.” disse piano Fortunati, con un accenno di sorriso: “Questa è l'unica cosa che conta, adesso.”

La Leonessa deglutì un paio di volte e poi, guardando verso l'acqua ancora fumante della tinozza, decise di cambiare argomento: “I miei figli? Come stanno?”

“Tutti bene.” disse laconico l'uomo: “Ne parliamo con calma... Adesso non affaticarti.”

La Leonessa fece un cenno con la testa, come a dire che aveva ragione, che l'importante era che stessero tutti bene: “Aiutami, per favore... Voglio lavarmi.”

Il fiorentino disse subito di sì, pensando che per Caterina doveva essere stata una grande sofferenza, vivere in condizioni igieniche tanto precarie, dato che, andando controcorrente rispetto al pensiero comune, lei era sempre stata abituata a lavarsi spesso, in certi momenti, quando le era stato possibile, perfino ogni giorno.

“Aiutami a togliere questi vestiti...” lo pregò la Sforza: “Li porto da troppo... Non li sopporto più...”

Francesco, con attenzione, cercando di non toccare più del necessario la donna che aveva davanti, fece del suo meglio per soccorrerla come lei chiedeva.

Non fu una cosa semplice come aveva creduto. La stoffa, ormai consunta, sfregava la pelle fragile della Leonessa e in alcuni punti sembrava quasi che il vestito avesse cercato di fondersi con lei e con la sporcizia che, nei mesi, si era sedimentata sul suo corpo.

Malgrado le difficoltà, comunque, nel giro di una manciata di minuti, finalmente Caterina si trovò nuda e pronta a immergersi nell'acqua. Con cautela, così, aggrappandosi all'avambraccio di Fortunati, la Tigre gli fece capire di aiutarla a entrare nella tinozza.

Il piovano cercava di non mostrarsi imbarazzato, anche se il suo sguardo non poteva evitare di cadere di quando in quando sul corpo della donna. La Sforza, di contro, si meravigliava quasi di se stessa, invece, nel non provare il minimo pudore, in quel momento. Forse era colpa della sua lunga alienazione dal mondo, o forse, banalmente, troppi uomini l'avevano vista spogliata, negli anni, fatto restava che non si sentiva a disagio come, forse, avrebbe dovuto.

Mentre ella scavalcava il legno della tinozza, Francesco notò la brutta cicatrice che campeggiava sulla sua coscia. La guardò più del necessario, senza nemmeno accorgersi della fissità dei propri occhi. Paradossalmente, quello era il dettaglio di lei che più aveva attirato la sua attenzione.

La Leonessa, seguendo lo sguardo dell'uomo, capì e borbottò: “Me l'hanno fatta nel corso dell'ultima battaglia... Quella ferita mi è costata la sconfitta. E la prigionia.”

Sapeva che era semplicistico, spiegarlo a quel modo, ma era certa che se non avesse ricevuto quel brutto colpo, Giovanni da Casale forse non avrebbe chiamato così presto alla ritirata e, magari, avrebbe avuto la grazia di morire in battaglia, sottraendosi a tutto quello che era successo dopo la caduta di Ravaldino. Anche se ormai cominciava a credere di potersi davvero salvare la vita e tornare dai suoi figli, scappando una volta per tutte ai Borja, Caterina non poteva scordare l'onta di aver perso contro Cesare, né il dolore che ne era seguito.

Cercando di scacciare, almeno momentaneamente, tutti i suoi fantasmi, la donna avvertì con piacere il calore che la lambiva, man mano che si immergeva nella tinozza, e, ben prima di ragionarci sopra, si piegò in modo da sparire del tutto sotto al pelo dell'acqua.

La sensazione di trovarsi come avvolta in un bozzolo liquido e tranquillo la pervase. Se non fosse stato per i suoi polmoni, che reclamavano aria, non sarebbe riemersa più: sarebbe rimasta volentieri per sempre sospesa in quella sorta di incoscienza, lontana da tutto e tutti, eterna e immutabile, sicura e familiare come il ventre materno.

Con lentezza, percependo come fastidiosa e crudele l'aria che le faceva accapponare la pelle via via che riemergeva, la Tigre si passò una mano sugli occhi, prima di riaprirli. Fortunati era ancora lì, che la osservava in silenzio, cauto come se si trovasse davanti a un animale selvatico e imprevedibile.

“Mi passi il sapone? E la spazzola...” fece la Sforza, cercando di usare il tono più neutro possibile, quasi a fargli capire che, in fondo, stava bene e non avrebbe fatto o detto nulla di aggressivo.

Malgrado, per il momento, l'unico guizzo che aveva avuto era stato quello di respingere l'abbraccio del piovano, la Leonessa percepiva distintamente la tensione del suo amico. In effetti lui la conosceva da tempo, e di lei sapeva tante cose. L'aveva vista in molti frangenti e, forse, si aspettava che la lunga reclusione l'avesse segnata ancora di più, portandola a perdere il senno, magari, o a sospettare di tutto e tutti, fino a renderla pericolosa anche per chi voleva solo aiutarla.

In realtà la donna si sentiva così debole e stanca che non sarebbe riuscita nemmeno a scacciare una mosca che le si fosse posata sul naso.

Mentre Francesco le dava ciò che lei aveva chiesto, la milanese borbottò: “Chissà se mi porteranno qualcosa da mangiare... Non devo esagerare, all'inizio, ma mi piacerebbe mettermi qualcosa sotto i denti...”

Fortunati annuì appena e poi, vedendo quanta fatica stesse facendo la donna a lavarsi da sola, si offrì per aiutarla, e lei lo lasciò fare.

Mentre l'uomo, con le maniche della veste scura arrotolate fino ai gomiti, le massaggiava pazientemente la schiena con la spazzola, Caterina domandò: “I miei figli? Come stanno? Dove sono?”

Il piovano, passando a strofinarle con cura le spalle, si mise a spiegare di come Ottaviano, Galeazzo, Sforzino e Bernardino – che ormai, le fece presente, si fa chiamare Carlo praticamente da tutti – fossero da Alessandra Scali: “Che è molto provata per la morte di Michele – soggiunse – ma che ha comunque continuato a onorare la promessa fatta da lui, e li sta curando come fossero figli suoi.”

E poi le raccontò di come Cesare, invece, avesse fatto quasi la spola, in quegli ultimi mesi, tra Pisa e Firenze, scusando spesso i suoi viaggi come missioni di pace tra le due città, che di recente si erano trovate a metter mano alle armi.

“E Giovannino? E Bianca?” lo incalzò la Sforza, lasciando che il piovano provasse a cimentarsi con i suoi capelli rovinati, insaponandoli come meglio riusciva.

“Quando sono partito da Firenze erano ancora alle Murate, sapete bene perché.” disse piano lui, inclinando la testa di lato: “Ma appena avremo la conferma definitiva che sei libera, raggiungeranno i loro fratelli da Madonna Alessandra.”

“Perché li vuoi far spostare?” si informò la donna: “Non sono più al sicuro dalle suore?”

“Sono in contatto con gli Otto di Balia.” fece Francesco, appena più secco: “Anche Firenze farà pressioni per renderti libera, e il nostro intento è quello che far sì che il papa ti faccia venire a casa con me, a Firenze.”

Il modo colloquiale con cui Fortunati le dava del tu e le parlava con tanta franchezza stava dando sicurezza alla milanese. Lui non era mai stato così diretto, nei suoi confronti. Aveva sempre avuto un velo di reverenza verso di lei, una sorta di sudditanza, che, ormai, sembrava scomparsa, ma non si trattava di irriverenza, quanto più di una familiarità che per troppo tempo era stata trattenuta. In fondo entrambi desideravano trovare un piano d'intesa di quel tipo, e il momento particolare che stavano vivendo lo permetteva, finalmente.

Per un po', la donna fece domande al piovano e lui, una dopo l'altra, rispose a tutte. Dalla salute dei figli, passarono alla politica, alla guerra, a quello che sarebbe successo da quel giorno in poi, alle loro conoscenze comuni: “Paolo Riario, Antonio Baldraccani e Bernardino da Cremona.” riassunse il religioso, quando lei gli chiese chi, dei suoi fedelissimi, fosse al momento a Firenze.

Mentre Fortunati stava riassumendo chi poteva dirsi dalla loro parte, arrivarono un paio di soldati con ciò che la Sforza aveva chiesto: vestiti puliti, uno specchio, del cibo e dell'acqua.

“Lasciate pure tutto lì.” fece lei, con un piglio che ricordava solo da lontano il modo in cui aveva dato ordini per anni, alla sua rocca.

Non appena i pontifici lasciarono la stanza, Caterina pregò Francesco di aiutarla ad asciugarsi. Si alzò da sola e, sentendosi rigenerata dal lungo bagno, riuscì perfino a scavalcare le pareti di legno della tinozza senza doversi aggrappare a lui.

Si lasciò avvolgere dal telo da bagno e poi, con attenzione, cominciò a tamponarsi i capelli.

“Accenderesti il camino?” chiese, e, vedendo il volto sorpreso del piovano, aggiunse: “So che è estate, ormai, e che fa caldo, ma... Ho avuto troppo freddo, in questi mesi. Non ne voglio avere più.”

La fiamma era ormai viva, e la Tigre poteva dirsi quasi del tutto asciutta. Si alzò dal letto, lasciò scivolare in terra il telo e si diede una lunga occhiata allo specchio, del tutto dimentica degli occhi del fiorentino, che la fissavano, senza poter distogliersi da lei nemmeno un secondo.

La superficie riflettente era piccola e poco uniforme, ma la donna poteva comunque scoprire quanto fosse cambiata, dall'ultima volta che aveva potuto vedersi a quel modo. I suoi fianchi, un tempo floridi e larghi, si erano sfatti. Le sue cosce, poderose e lisce, si erano smagrite e una era deturpata dalla cicatrice informe che le ricordava la sua sconfitta. Il ventre era piatto, quasi rientrante e il seno si era come svuotato, perdendo la sua generosa rotondità e contribuendo a farla sembrare vecchia e patita.

Non sopportando altro, si fece passare l'abito – un vestito da donna molto semplice, forse preso a qualche serva – e se lo infilò subito. Si sedette alla scrivania e si fece mettere davanti il cibo e versare l'acqua.

“Pane bianco...” sussurrò, vedendo ciò che il vassoio portava, ovvero pane, qualche pezzo di formaggio e una pesca.

Fortunati avrebbe voluto offrirsi volontario per assaggiare tutto, per tranquillizzarla e per tranquillizzare anche se stesso, dato che, comunque, il rischio che il vitto fosse avvelenato non era inesistente, ma non fece in tempo a proporsi, che la Leonessa già stava bevendo e mangiando.

Mentre assaporava il pane, così diverso da quello secco e ammuffito che a volta le gettavano in cella, e si sforzava di mandar giù il formaggio senza vomitarlo per colpa dello stomaco troppo vuoto, Caterina decretò: “Dobbiamo tirare fuori di cella anche frate Lauro – e poi, sollevando un sopracciglio, mentre la voce le tremava appena – e Baccino.”

“Frate Lauro è qui al castello.” confermò Fortunati: “In qualche modo ci riusciremo.”

“E Baccino?” si informò la donna, provando ad addentare la pesca, assaporando per la prima volta da oltre un anno la dolcezza di un frutto fresco.

“Non so dove sia, al momento...” ammise Francesco, percependo nella voce della donna qualcosa di particolare.

“Allora va trovato.” fece lei, mettendo da parte la pesca e bevendo ancora un po' d'acqua: “Lui non lo lascio in mano al papa.”

Dicevano tutti che Baccino fosse uno dei suoi tanti amanti e forse, vista la noncuranza solo apparente con cui lei ne parlava, era vero. Il piovano non avrebbe voluto sentirsi così geloso, per quel fatto, ma non poteva evitarlo. Fece appello a tutta la sua carità cristiana per provare a considerare il cremonese come un uomo da salvare e nulla di più.

“Parlerò anche con l'Alégre.” promise Francesco: “Lui saprà meglio di me come fare.”

Finito di mangiare e di bere, la Leonessa guardò a lungo il piovano e poi, sentendosi stanca, gli chiese: “Posso riposare un po', adesso?”

“Certo.” sorrise lui: “Ti aiuto a coricarti...”

Cullata dalle lenzuola, ruvide, ma confortevoli, e dal calore del camino, Caterina si abbandonò completamente alla morbidezza del materasso. Congedò Francesco, che comunque promise di far mettere alla porta anche un paio di guardie francesi, per sicurezza, e poi, sola, si rigirò tra i guanciali, soverchiata dalla sensazione impagabile di benessere che provava.

Era pulita, era al caldo, su un letto comodo e, compatibilmente con tutto il resto, era anche al sicuro.

Prima di potersi controllare, scoppiò a piangere, ma si trattava di lacrime di gioia, di sollievo e di libertà. Si addormentò senza nemmeno accorgersene, e nei suoi sogni, una volta tanto, non rivide né Ludovico Marcobelli, né il Valentino, né il suo primo marito, ma sempre e solo un soldato francese in mezza armatura che la sollevava senza fatica da terra, e, agile come un puledro, saliva le scale con lei in braccio, restituendola alla vita.

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas