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Autore: Adeia Di Elferas    29/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina, consultandosi di quando in quando con Fortunati, che, rispetto a lei, era molto più informato, ovviamente, riguardo la situazione politica del momento, passò quasi tre ore a vergare lettere in cui chiedeva comprensione e, soprattutto, denaro per colmare il debito che nutriva verso il papa.

Fosse stato per lei, in realtà, non avrebbe versato nemmeno un ducato a Rodrigo, ma voleva dimostrarsi volonterosa e scacciare da sé ogni sospetto di essere in malafede. Anche Francesco glielo aveva detto abbastanza chiaramente: i Borja dovevano essere convinti della sua mansuetudine, per abbassare un po' la guardia.

Quando ebbe finito, stremata, fece un lungo sospiro e poi chiese: “E adesso dove devo andare?”

“Il Cardinale di San Clemente non ha dato la sua disponibilità ad avervi in casa sua – le fece presente il Troches, avanzando verso di lei e facendole segno di alzarsi in piedi – perché pretendeva di essere pagato per farlo, e il Santo Padre non ha voluto.”

Il modo in cui il carceriere si stesse rivolgendo a lei con il voi, probabilmente solo a vantaggio del notaio pontificio, che, seppur apparentemente disinteressato, stava osservando tutto, fece rabbrividire la Tigre.

Aveva, nei mesi, preso l'abitudine di sentirsi apostrofare in modo anche volgare, dai suoi aguzzini, e dunque quel tono formale, quasi cordiale, la metteva in guardia.

“E dove la porterete allora?” chiese il piovano di Cascina, che aveva creduto che quel palazzo fosse la tappa finale.

“L'unico che ha accettato di prendersela è il Cardinale di San Giorgio.” ribatté secco Francisco, recuperando, almeno in parte, i modi bruschi che la Leonessa conosceva: “Lui è stato l'unico ad accettare di tirarsela in casa.”

Sorvolando sui toni con cui parlavano di lei, la donna sentì il cuore aprirsi in una sorta di giubilo contenuto. Il Cardinale di San Giorgio era Raffaele Sansoni Riario.

Era un uomo che, negli anni, aveva disprezzato e a tratti odiato, ma, di fatto, in quel momento il suo solo nome le sembrava una fiammella in più che andava ad aggiungersi alla torcia che la stava guidando fuori dal pozzo oscuro in cui era caduta.

Così, senza protestare, e lanciando a Fortunati uno sguardo significativo, per fargli capire che le stava bene quella sistemazione, si lasciò scortare di nuovo fuori dal palazzo del Cardinale Serra e si fece aiutare nel montare nuovamente in sella.

Era a pezzi, e le faceva male la schiena, aveva sonno e fame e sentiva che tutta la tensione di quel giorno rischiava di travolgerla da un momento all'altro e farla crollare, eppure, nel momento stesso in cui si rimisero in marcia, sentì il bisogno di chiedere: “Posso prima incontrare Yves d'Alégre?”

“Ci sarà tempo, per organizzare un incontro.” rispose, freddo, il Troches.

“No.” si oppose la Sforza, deglutendo e guardando dritto davanti a sé: “Voglio vederlo adesso.”

“Siamo di strada...” provò a dire Fortunati, che si era a sua volta messo a cavallo, pronto a scortare la sua signora fino al palazzo in cui dimorava il Cardinale Sansoni Riario.

Caterina si sorprese nel vedere lo spagnolo cedere all'istante e dire: “E va bene: ma che si trattenga poco.”

L'Alégre, era, in effetti, alloggiato non molto lontano da dove si trovavano. La Leonessa chiese di poter parlare con lui in privato, e, anche questa volta, le venne concesso. Anzi, davanti al francese, Francisco Troches riuscì perfino a esibirsi in un sorriso carico di disponibilità e calore.

“Volevo ringraziarvi, innanzitutto.” iniziò a dire la milanese, quando si trovò sola con il condottiero.

L'uomo sembrava incuriosito da quell'iniziativa spontanea della Tigre. L'aveva fatta accomodare e poi, silenzioso, si era messo a osservarla. A lei non dava fastidio, quell'atteggiamento, ma avrebbe trovato più semplice imbastire il discorso che si era prefigurata in mente, se lui avesse reagito in qualche modo alle sue parole.

“Voi siete stato generoso, con me.” continuò comunque la donna: “Un generoso liberatore.”

Finalmente Yves reagì, sussurrando: “Ho fatto quello che credevo giusto e che... Credevo conveniente anche per il mio re.”

Bastò quell'accenno alla politica per risvegliare in Caterina la voglia di un contatto umano differente da quelli che aveva avuto fino a quel momento, da che era uscita da Castel Sant'Angelo.

Ciò che le serviva era un contatto umano 'normale'. Non sapeva come altro definirlo, nella sua mente. Voleva, almeno per qualche minuto, poter discorrere con qualcuno come se non fosse successo nulla, come se lei fosse stata ancora la donna di un paio d'anni prima. Come se ancora il suo nome valesse davvero qualcosa...

Senza sforzo, assecondata dal francese, che pareva trovare naturalissima quella situazione, la Sforza cominciò a parlare del passato, della guerra, di persone che anche l'Alégre conosceva. In breve i due, come dei vecchi soldati incontratisi per caso in una locanda, cominciarono a ragionare e discutere delle cose passate.

La Leonessa aveva ormai perso la cognizione del tempo, trascinata da Yves nel ricordo della prima discesa dei francesi in Italia, di come lei fosse riuscita, seppur solo per qualche mese, a fare da vero ago della bilancia della penisola. Stavano per rivangare questioni dolorose, ma importanti per entrambi, come la strage di Mordano, quando qualcuno bussò alla porta della saletta in cui si erano sistemati.

“Messer Troches non vuole aspettare oltre.” disse piano Fortunati, facendo capolino a testa bassa, con le mani strette l'una nell'altra, come un penitente: “Si deve ripartire...”

“Devo lasciarvi.” disse subito Caterina, cercando di alzarsi, e vedendo subito Yves correrle in soccorso, porgendole il braccio per aggrapparvisi: “Ma spero che in questi giorni avremo modo di parlare di nuovo assieme. Mi ha fatto bene, poterlo fare.”

“Non desidero altro.” confermò il francese, che, arrivato quasi ai cinquant'anni, apprezzava quel genere di incontri.

Ripartiti dal palazzo in cui era alloggiato il francese, gli uomini che scortavano Caterina tagliarono per la via più breve. Ormai era passato il mezzogiorno, e molti di loro iniziavano ad avere fame.

Anche la Leonessa, in realtà, stava pensando al pranzo, e sperava, in tutta sincerità, che Raffaele avesse avuto il buongusto di farle preparare un pasto degno di tal nome. Almeno lui, pensava la donna, non avrebbe badato a spese, per ospitarla, anche calcolando che, di fatto, viveva nella casa che avrebbe dovuto essere di Ottaviano.

Il cuore di Roma pulsava di vita, in quel mercoledì 30 giugno del 1501, e quella confusione, per quanto contenuta e tutto sommato ordinata, bastava a far girare la testa della Tigre. Trovarsi catapultata, dopo un lungo e tragico isolamento, in mezzo alla gente, la stava provando molto. Un turbinio di colori, odori e voci che la confondeva e basta: ecco cos'era per lei l'Urbe, in quel momento.

Accolse con un sospiro di sollievo la vista del portone di quello che tutti ormai chiamavano il palazzo del Cardinale di San Giorgio, ma che lei ricordava ancora con il nome che aveva usato per anni: palazzo Riario.

Ricordava anche troppo bene la profonda e disillusa infelicità che l'aveva accompagnata, nel tempo in cui aveva vissuto tra quelle mura. Eppure, quella che un tempo le era parsa una prigione, perché era stata costretta a condividerla con Girolamo Riario, ora le pareva la promessa di una nuova vita.

Fu subito chiaro – e il Troches non se ne stupì, probabilmente perché già lo sapeva – che il Cardinale non era in casa. Arrivò un suo segretario, spiegando, solerte, come Raffaele fosse andato presso Giuliano Della Rovere, ma che il palazzo fosse a completo uso e consumo di Madonna Sforza.

La Leonessa rimase spiazzata da quella novità, tanto che fu sul punto di chiedere una diversa sistemazione, ma Fortunati, che sapeva che la donna aveva già tirato troppo la corda, quel giorno, la convinse, posandole una mano sulla spalla, ad avanzare ed entrare comunque nel palazzo.

“Il Cardinale – spiegò il segretario – vi lascia questa dimora a vostra completa disposizione, dato che...”

“Dato che sarebbe casa di mio figlio.” tagliò corto Caterina, varcando l'ingresso, già stanca dei modi affettati che vigevano tra i membri della Curia e i loro tirapiedi.

Senza badare troppo al commento della Leonessa, l'uomo si offrì di mostrarle il palazzo, ma lei rifiutò, dicendo che, a meno che Raffaele non avesse distrutto qualche parete per costruirne di nuove, ricordava ancora bene la geografia di quel posto.

“Purtroppo ci ho vissuto anni.” soffiò e poi precisò quale stanza volesse eleggere a suo appartamento privato.

Ovviamente non aveva scelto la camera che aveva condiviso con Girolamo, ma una di quelle che, ai tempi in cui viveva lì, era destinata ad eventuali ospiti.

“Vorrei mangiare qualcosa di caldo.” disse poi la donna, seguita da Fortunati e dal segretario del Cardinale: “E voglio un bagno caldo.”

“Vi faccio portare tutto in camera, mia signora.” rispose, accomodante, il servitore di Raffaele, fermandosi subito, per voltare indietro e riferire gli ordini alla servitù.

“Devo parlarti.” sussurrò Francesco, mentre lui e la Tigre iniziavano a salire le scale: “Il Troches resterà qui fuori, assieme ai soldati del papa per farvi la guardia e io...”

“E tu devi partire per Firenze. Lo so.” fece lei, a voce bassa, mentre ogni gradino le costava fatica e le toglieva il fiato: “Puoi andare a prepararti. Non mi succederà nulla, qui.”

In realtà nemmeno lei ne era sicura, ma aveva il desiderio di restare per un po' sola. Aveva passato così tanti mesi in solitudine che passare, all'improvviso, tutte quelle ora assieme ad altre persone cominciava a pesarle davvero.

Il piovano rimase in silenzio per un po', seguendola, sorpreso nel vedere come, dopo anni, la Sforza ancora si orientasse bene in quel palazzo, e poi bisbigliò: “Posso tornare a salutarti, prima di ripartire?”

Devi farlo.” rispose lei: “Ci sono molte cose di cui dobbiamo discutere...”

Arrivarono davanti alla porta della stanza che Caterina aveva scelto e, nel momento stesso in cui ella l'aprì, il fiorentino si congedò con un semplice: “Allora tornerò qui questa sera.”

Aveva, in effetti, intenzione di far partire una lettera, prima di lasciare Roma. Voleva avvisare gli Firenze che la Leonessa di Romagna aveva lasciato incolume Castel Sant'Angelo. Forse era una mossa inutile, ma voleva tutelare come meglio poteva quella donna. Se anche la Signoria avesse saputo tutta la faccenda, pensava, il papa avrebbe avuto meno libertà d'azione.

“A stasera.” lo salutò lei e, dopo avergli indirizzato un breve sorriso, entrò in stanza, chiudendo la porta.

Era un ambiente spazioso, molto luminoso, esattamente com'era rimasto impresso nella sua memoria. Eppure c'era qualcosa di diverso. Caterina ci mise un po', prima di capire di cosa si trattasse, ma poi se ne rese conto. Rispetto a quando aveva abitato in quel palazzo, i soprammobili, gli affreschi e la mobilia stessa erano stati in parte sostituiti. Ovunque c'erano oro e marmi, e più che una stanza degli ospiti, quella pareva la dimora di un re.

La donna, stanca, si disse che avrebbe dovuto far confezionare – o, magari, farsi prestare – degli abiti: non aveva altro, in quel momento, se non ciò che indossava. Avvertendo le pianelle ai piedi come scomode e a lei estranee, se le tolse, rammaricandosi di non aver con sé degli stivali di cuoio da caccia, a lei molto più congeniali.

Fece il piccolo gradino che teneva il letto sollevato da terra, e poi vi sedette. Era molto soffice, probabilmente si trattava di un materasso fatto interamente di piume d'oca. Poteva immaginarselo, Raffaele Sansoni Riario, a dare ordine che venissero spiumate solo le oche più belle e bianche...

C'era solo una cosa che stonava, in quell'incantevole alloggio: il letto a baldacchino.

Erano anni che la Sforza non dormiva sotto a un baldacchino, e non era certa di essere pronta per farlo. A Ravaldino aveva sempre usato dei letti semplici, da soldato, come le dicevano tutti.

Provò a coricarsi, stando sopra le coperte. Le metteva ansia, quel complesso di legno e tendaggi che la circondava. Guardò con attenzione l'impianto sapientemente modellato dagli artigiani che avevano costruito quel baldacchino, ma non riuscì a provare ammirazione, per chi aveva messo a punto quel gioiello.

Con un sospiro greve si alzò di nuovo e andò verso la scrivania, che stava in un angolo, accanto all'inginocchiatoio e a un enorme crocifisso di metallo e marmo. Guardò di nuovo il letto, sentendosi quasi stupida nel provare tanta avversione per un mobile di uso molto comune, tra le persone del suo rango. Non poteva certo chiedere che lo smontassero solo per farle un piacere...

“Potete farmi portare anche un altro letto?” chiese, quando i servi arrivarono con il cibo che aveva chiesto e con due caraffe, una d'acqua e una di vino.

“Avrete... Ospiti?” chiese quello che sovrintendeva gli altri domestici.

“No.” la Tigre si schiarì la voce e poi, abbassando lo sguardo, disse solo: “Voglio un letto che non abbia baldacchini. Mi va bene anche un giaciglio da serva, non mi interessa. Anche una branda. Se non c'è, chiedetela alle guardie di questo palazzo, di certo ne avranno una da prestarmi.”

Il servo non fece domande, si limitò a inchinarsi appena e poi, quando vide che gli altri avevano sistemato il pasto sulla scrivania come si doveva, aggiunse: “Appena avrete finito, vi porteremo il necessario per il vostro bagno caldo.”

La Sforza ringraziò con un cenno del capo e poi, quando tutti se ne furono andati, si sedette a mangiare. Carne, uova, formaggio, pane bianco e anche frutta: sembrava proprio che Raffaele avesse lasciato detto alla cucina di metterla all'ingrasso, come si sarebbe fatto con un animale denutrito e convalescente da una lunga detenzione in gabbia, quale lei era.

Scelse con calma cosa mettere sotto i denti. Avrebbe ingurgitato tutto, se solo non fosse stata certa che poi avrebbe dato di stomaco per il troppo cibo. Le sue nozioni mediche le avevano permesso di imporre il buon senso sul suo istinto: non voleva stare male e quindi doveva trattenersi.

Annusò anche il vino, ma preferì non versarsene. Era ancora in via di ripresa e, tutto sommato, aveva mangiato poco. Così spostò di lato la caraffa di bianco e bevve solo acqua.

Quando finalmente un servo tornò per recuperare i piatti, Caterina gli chiese entro quando sarebbe arrivata l'acqua per il bagno e il letto che aveva richiesto. Cominciava a essere incredibilmente stanca e voleva riposarsi.

La tinozza – molto più agevole e liscia di quella che le era stata concessa a Castel Sant'Angelo – le venne portata in camera quasi subito. Mentre dei servi la riempivano, due guardie sistemarono accanto al letto a baldacchino una branda da soldato. Due serve, poi, le stavano sistemando degli abiti – molto femminili e abbastanza eleganti, seppur, verosimilmente, non nuovi – nella cassapanca. La Leonessa osservava tutti senza dire nulla, aspettando di essere di nuovo sola, per potersi rilassare.

Rimase stranita quando, dopo che tutti furono usciti, una donna restò accanto alla porta, fissandola.

“Potete andare, non mi serve nulla.” disse, un po' sulla difensiva, Caterina.

“Sono qui per aiutarvi con il bagno.” ribatté a bassa voce la serva.

La Sforza ci ragionò un istante. Le avrebbe fatto comodo, in effetti, qualcuno che le facesse da appoggio in entrata e in uscita dalla tinozza, e che le passasse anche lo spazzolone sulla schiena, dato che, malgrado si fosse lavata da pochi giorni, sentiva di avere addosso ancora la sporcizia di un anno e mezzo di galera. La sola idea di spogliarsi davanti a una donna, però, la metteva in imbarazzo.

Era strano pensare che la presenza di Fortunati non le aveva dato alcun fastidio, così come, a ben pensarci, non gliene avrebbe dato la presenza di qualsiasi altro uomo. Avrebbe trovato la cosa alquanto curiosa e quasi buffa, se non fosse stata per lei motivo di confusione.

“No, no, faccio da sola.” ribadì, scuotendo il capo e smettendo anche di perdersi nei suoi ragionamenti.

La serva, un po' sorpresa, fece un piccolo inchino e, finalmente, se ne andò.

L'acqua era molto calda. Caterina l'apprezzò in modo particolare. Restò immersa per parecchio tempo, e poi, con calma, uscì e si asciugò con cura.

Scelse un abito da camera, rendendosi subito conto di quanto le stesse largo. Trattenne una risata, la prima che le nasceva in gola da mesi e mesi, dicendosi che, prima di finire tra le grinfie del Valentino, probabilmente quel vestito le sarebbe stato troppo stretto anche solo per provarlo.

Si sedette sulla branda da soldato che le avevano portato e la trovò abbastanza comoda. Vi si coricò e, anche se fuori il sole del 30 giugno era ancora alto, si addormentò.

Si svegliò solo quando la voce di Fortunati richiamò la sua attenzione: “Caterina, sei sveglia..?” le sussurrò.

“Adesso direi di sì...” sbadigliò lei, schiacciando gli occhi e guardandolo.

L'uomo era accanto al lettuccio e sembrava perplesso di vederla rannicchiata lì, con un bel baldacchino morbido e spazioso in quella stessa stanza.

“Stai partendo?” chiese lei, con un colpo di tosse.

“Sì.” annuì l'uomo e poi, con attenzione, le spiegò cosa dovesse, secondo lui, fare nei prossimi giorni.

Le fece presente che non tutti i francesi erano partiti da Roma, come, per esempio, Yves d'Alégre, ma che la maggior parte di quelli che potevano definirsi suoi difensori, tra le fila del re di Francia, si erano incamminati alla volta di Capua, dove ci si aspettava a breve una battaglia importante.

“Forse anche il figlio del papa sta per andare là.” rivelò il piovano, con una smorfia indecisa: “Ma non ho saputo nulla di certo in merito.”

La Tigre deglutì e poi, sollevando un sopracciglio, commentò solo: “Se andrà a Capua, spero che lo infilzino con una picca e che lascino il suo cadavere a marcire in mezzo a una strada.”

Francesco fu sul punto di commentare la cosa, ma l'astio che aveva udito nel tono della sua signora fu sufficiente a fargli cambiare argomento: “Frate Lauro dovrebbe essere liberato a breve, mentre per Baccino... Non sono ancora certo di dove sia carcerato, e per ora non ho chiesto con troppa insistenza, per non farlo credere più legato a te di quanto non pensino sia...”

La Leonessa approvò quella finezza, ma soggiunse: “In ogni caso, cercherò anche io di aver notizie sue. Non posso permettere che resti in prigione.”

Il piovano annuì e poi soffiò: “Mentre per Argentina e le altre donne, non ho proprio nessuna traccia da seguire...”

La Sforza si morse il labbro. Ricordava ancora le grida che aveva sentito poco dopo il suo arresto a Castel Sant'Angelo. L'avevano anche derisa, dicendo che quelle donne erano le sue dame di compagnia e che quindi era giusto che stessero assieme a lei nelle viscere del castello. Non sapeva, in realtà, chi fossero di preciso, né aveva idea di che fine avessero fatto, ma le bastava per immaginare cosa potesse essere accaduto anche ad Argentina.

“Un'ultima cosa.” il tono di Fortunati si era fatto più concitato: “Alzati un momento e vieni a vedere, per favore.”

Accigliandosi, la donna lasciò il suo lettuccio e si avvicinò a lui, che, nel frattempo, era andato alla finestra e guardava fuori. Fece così anche lei e rimase attonita nel vedere una piccola folla assiepata alla luce del sole morente proprio davanti al palazzo.

“Si è sparsa la voce che sei qui.” spiegò Francesco, con un'espressione strana in viso, quasi triste, per non dire molto preoccupata: “Tutti vogliono vederti e incontrarti.”

“Il papa non lo permetterà.” sussurrò lei.

“Lo farà, invece.” la corresse il piovano: “Fa parte della tua nuova condizione di protetta, poter incontrare chi vuoi.”

Caterina passava in rassegna i volti che affollavano la piazza antistante il palazzo. Sembrava che tutti i colli di tutti i romani fossero tesi per cercare di rubare anche solo uno sguardo a lei, che, nell'immaginario collettivo, doveva sembrare ormai una sorta di mostro mitologico.

“Finché lui sarà lì a farti da cane da guardia, però – le fece presente il piovano, indicando con un cenno del capo verso destra, all'imboccatura di una stradina, in cui stava Francisco Troches – si dovrà stare tutti attenti.”

“Sono libera, ma sono sempre sotto il controllo dei cani da guardia del papa.” riassunse la donna, incrociando le braccia sul petto.

“Potrai anche scrivere lettere – le disse Francesco – e per quelle ti consiglio di cominciare solo dopo averne discusso con l'Alégre.”

“Avete accordi che io non conosco, voi due?” indagò lei, ritraendosi appena dalla finestra, dopo aver visto una dozzina di romani indicare con il dito proprio verso il punto in cui era affacciata.

“No, ma so che tiene quanto meno a portarti presto in salvo in modo definitivo, e lui ha più potere e più cervello di me.” ammise il fiorentino: “Come te, ha la testa di un uomo d'armi, e sa come eludere altri uomini d'armi.”

La Tigre prese per buona quella spiegazione e poi chiese: “Devo accettare tutte le visite che mi verranno proposte?”

Non era abituata a prendere ordini, ma sapeva che, in quel momento, era l'unica cosa che le convenisse fare. Era stata lontana dalla politica e dal mondo per troppo tempo: le regole del gioco erano sicuramente cambiate, perché lo facevano di continuo.

“Sì.” rispose laconico Francesco.

“Va bene.” deglutì lei: “Ma allora credo sia meglio, prima, incontrare di nuovo l'Alégre. Voglio avere chiaro il piano, prima di fare passi falsi.”

Il piovano annuì e poi, guardandola, promise: “Gli chiederò di venire qui domani mattina, e poi partirò.”

“Ti prego, abbraccia i miei figli da parte mia.” lo pregò la donna.

“Lo farò.” fece lui e poi, evitando di abbracciarla per non farsi respingere com'era già successo, le prese una mano nella sua e si congedò: “Mangia, dormi e riposati: devi tornare a ruggire il prima possibile, mi raccomando.”

 

“Come sarebbe a dire che questa mattina ha rivisto l'Alégre, ma che non possiamo sapere che cosa si sono detti?!” Cesare era furibondo e non faceva nulla per nasconderlo.

Alessandro VI, di contro, si sentiva stanco e stremato, come un telo usato e riusato fino a essere diventato uno straccio da buttare. Era seduto in poltrona e teneva la testa appoggiata a una mano, coprendosi un occhio con il palmo. Gli pulsavano tremendamente le tempie e il mal di schiena lo stava uccidendo. Ascoltare le sterili lamentele di suo figlio gli stava solo facendo digerire male il pranzo.

“Se non l'hai ancora capito – si decise a parlare Rodrigo – quella donna non è più affar tuo. E, comunque, finché è qui a Roma, è sotto il mio controllo, non te ne devi preoccupare.”

“Io non mi preoccupo di lei!” sbottò il Valentino, che aveva percepito una sfumatura che non gli piaceva, nella voce del padre.

Da come gli si era rivolto, sembrava quasi che fosse convinto che lui avesse paura di Caterina Sforza.

“Quella donna me la sono rigirata come ho voluto per settimane!” si infervorò il Duca di Valentinois: “Per quanto mi riguarda non vale di più di quelle pezzenti che...”

“Taci!” tuonò il papa, stufo marcio di sentire la voce di Cesare, che, quando era così arrabbiato, si faceva più acuta e veloce, risultando ancora più irritante: “Tu non rovinerai tutto solo per avere la tua schiava personale! E poi ti sei già preso Dorotea Malatesta, se non erro, e non sai che cosa ho dovuto dire e giurare, per tenerti fuori dalle mire di suo marito!”

“Giovanni Battista Caracciolo è solo un imbecille!” colse l'occasione di recriminare il Valentino, le guance rosse come il fuoco e gli occhi sgranati: “Se non è stato in grado di tenersi stretta sua moglie, non vedo perché dovrei essere io a pagarne le conseguenze!”

“Ringrazia che sono il papa e non posso commettere il peccato di ammazzare mio figlio solo perché dice delle fesserie!” lo redarguì il pontefice, alzandosi in piedi con fare minaccioso: “Ora piantala di dar aria a quella tua bocca arrogante e stolta e pensa a fare i bagagli.”

“Ho già detto che a Capua non andrò.” si incaponì il giovane, allargando le spalle: “Napoli non è un mio obiettivo. Il mio Ducato è in Romagna e...”

“E dipende dal benvolere dei francesi!” gli ricordò Rodrigo: “A volte sei così sciocco che mi sorprende pensare che tu sia mio figlio! E tua madre, Vannozza, santa donna, è una cima di intelligenza, al tuo confronto!”

“Se mi avete fatto venire qui solo per insultarmi...” fece, con aria da teatrante il Duca, muovendo già un paio di passi verso la porta.

“Sei tu che sei venuto qui, non sono stato io a chiamarti.” gli ricordò il papa: “E comunque ti avrei fatto convocare, questo sì, per dirti di prepararti a partire. Ho già avuto due solleciti da parte dell'Aubigny, quindi vedi di non mettermi nelle condizioni di litigare con uno dei comandanti più apprezzati da re Luigi...”

“Va bene, andrò a Capua e da lì a Napoli.” concluse Cesare, indignato: “Ma questa sarà l'ultima cosa che faccio per vostro ordine.”

Alessandro VI sollevò l'angolo della bocca e commentò, ironico: “Se mi avessero dato un ducato per ogni volta che l'hai detto, potrei davvero far ricostruire la chiesa di San Pietro e farne il Duomo più grande del mondo...”

Il figlio, a quel punto, se ne andò quasi di corsa, evitando solo all'ultimo di sbattere la porta, la risata grassa del padre che ancora gli rimbombava nelle orecchie e una voglia di rivalsa così feroce e violenta che, se avesse potuto, avrebbe messo a ferro e fuoco Napoli tutto da solo, senza nemmeno aspettare l'ausilio dei francesi.

 

   
 
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