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Autore: Quasar93    17/02/2021    0 recensioni
Gintoki, dopo le battaglie di Iga e dell'isola prigione Kokujo contro Takasugi e Utsuro, si ritrova più di quanto vorrebbe fare a pensare al passato. Sono le nuove e forti emozioni mischiate ai vecchi ricordi a scatenargli nuovamente quella paura tanto profonda quanto immotivata che lo scuote dall'interno, facendogli credere di non essere altro che un samurai difettoso sull'orlo della pazzia.
Mentre si nasconde dagli occhi dei suoi amici per celare il suo stato d'animo ripensa alle prime volte in cui ha sperimentato quel terrore.
[Spoiler Shogun Assassination arc e oltre] [Gincentric] [TW: attacchi di panico, guerra]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Kotaro Katsura, Sakamoto Tatsuma, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tried to walk together
But the night was growing dark
Thought you were beside me
But I reached and you were gone

 
Erano passati alcuni mesi da quella mattina in cui Katsura, Takasugi e Gintoki avevano diviso per sempre le loro strade.
Durante quel periodo la guerra, che già durante le loro ultime battaglie sembrava aver preso una direzione chiara, andò verso la sua conclusione con la vittoria degli amanto e la sconfitta dei samurai. Erano quindi iniziate le purghe, il Bakufu guidato da SadaSada, che si era venduto agli amanto, stava usando infatti la fazione di Hitotsubashi per fare piazza pulita dei samurai superstiti, etichettando tutti i guerrieri Joi sopravvissuti come criminali di guerra da eliminare al più presto.
L’anima dei samurai, le loro katana, furono messe fuori legge dall’editto Haitorei e chiunque fosse trovato in giro con una spada in cintura veniva arrestato e giustiziato, con l’accusa di essere un ribelle nemico del governo.
Inoltre le purghe non colpirono soltanto i patrioti e i soldati che fino a poco tempo prima stavano dando anima e sangue al proprio paese, ma anche le loro famiglie: donne, bambini e anziani. Nessuno veniva risparmiato.


Durante questo periodo Gintoki non era stato bene.
Gli ci erano voluti diversi giorni per riuscire a comprendere appieno cos’era successo.
Cosa aveva fatto.
Il giorno in cui finalmente aveva rotto il guscio di apatia dietro il quale si era trincerato il dolore fu così forte che non riuscì a far nulla se non urlare e piangere, da solo, nel rifugio in cui era nascosto. Era rimasto per ore rannicchiato in un angolo mentre la voragine che si era aperta nel suo petto lo dilaniava. Non riusciva nemmeno a dormire, perché ogni volta che chiudeva gli occhi si immaginava lì, su quella rupe, con in mano la katana e il sensei Shoyo inginocchiato davanti a lui. Puntualmente si svegliava urlando, il respiro affannoso e il volto imperlato di sudore. Ma accanto a lui non c’era nessuno a prenderlo in giro o a consolarlo. Era solo. Era tornato tutto a come quando aveva otto anni, prima che Shoyo lo trovasse.
Ci vollero altri giorni prima che riuscisse a fare altro che restare rannicchiato in quella tenda sudicia in cui si stava nascondendo dalle prime incursioni degli Hitotsubashi. Era dimagrito molto, non mangiava e beveva solo il necessario per sopravvivere. Chissà se anche i suoi compagni stavano come lui? Se lo chiese più volte, inizialmente, ma poi pensare a loro lo faceva solo stare peggio e così smise di farlo.
Dopo due settimane fu costretto a uscire, le purghe stavano aumentando di ritmo e numero e quel posto non era più sicuro. Si vergognò a scappare in quel modo ma l’istinto di sopravvivenza fu più forte della depressione in cui stava scivolando. Non voleva morire.
Anzi, non era nemmeno l’istinto a gridargli “sopravvivi”. Era la volontà di rispettare almeno l’ultimo desiderio di Shoyo e di non gettare al vento la propria vita per nulla. Anche se, come si era ritrovato a pensare spesso, non era sicuro che quella che stesse conducendo si potesse propriamente chiamare ‘vita’. Stava sopravvivendo, e a stento anche, senza la minima certezza di poter, un giorno, tornare quello di una volta. Chi o cosa avesse salvato Shoyo con la sua morte non gli era più chiaro, non di certo il ragazzo allegro che aveva cresciuto. Ma, nonostante questo, continuò a cercare di salvarsi. Fosse stata anche una vita misera e strappata costantemente agli artigli della morte doveva preservarla, non voleva deludere il suo sensei, non di nuovo.
Sometimes I hear you calling
From some lost and distant shore
I hear you crying softly
For the way it was before

 
Gintoki vagabondò per un po’, finché non trovò un rifugio in una vecchia magione abbandonata nei pressi di Edo, occupata da altri ribelli Joi e dalle loro famiglie, che la stavano usando come nascondiglio dagli Hitotsubashi. Lo riconobbero come Shiroyasha e lo accolsero immediatamente tra di loro.
Per quanto odiasse che tutti si riferissero a lui come Shiroyasha e che lo elogiassero per le sue prontezze sul campo di battaglia, vivere in quell’accampamento gli fece decisamente bene. Più di una volta infatti si era ritrovato a occuparsi delle sentinelle del Bakufu che ronzavano troppo intorno alla magione e, gradualmente, gli altri Joi che vivevano lì avevano iniziato a sentirsi più al sicuro grazie alla sua presenza.
Per la prima volta dopo tanto tempo aveva trovato qualcosa che potesse essere definito uno scopo. Qualcuno che aveva bisogno di lui. Forse, se non si fosse imbattuto in loro, non avrebbe trovato la forza di rialzarsi.
Era però altresì vero che del ragazzo allegro e compagnone di una volta non era rimasta che l’ombra. Gintoki era rimasto molto schivo, diffidente all’idea di legarsi di nuovo a qualcuno, timoroso che la sua amicizia portasse solo disgrazie. Rimaneva quindi sempre sulle sue, sorrideva raramente. Faceva quello che doveva fare per la comunità in cui si era ritrovato a vivere, aiutava chi aveva bisogno, ma poi, la sera, era sempre solo nel suo alloggio. Respingeva chiunque gli porgesse una mano, incapace di aprirsi di nuovo a un rapporto che andasse oltre la collaborazione per necessità. Le notti poi erano terribili, raramente riusciva a dormire senza sogni, per quanto si ammazzasse di lavoro durante il giorno o per quanto il poco cibo che poteva mettersi nello stomaco lo faceva restare sveglio per la fame. Spesso si ritrovava a raggomitolarsi in un angolo, spaventato, come se fosse di nuovo sul campo di battaglia ma solo e disarmato. Vere e proprie scene della guerra si dipanavano davanti al suo sguardo terrorizzato come se le stesse rivivendo nel suo alloggio.
In quei momenti pensava che sarebbe impazzito e allora chiudeva gli occhi e si stringeva le gambe al petto aspettando che passassero come gli incubi notturni, anche se, essendo sveglio, non poteva aprire gli occhi per mandarli via.
 
You took it with you when you left
These scars are just a trace
Now it wanders lost and wounded
This heart that I misplaced
 
Quella sera era una di quelle in cui, per quanto Gintoki stesse provando a rimettere insieme i pezzi della sua vita, le cose non stavano andando bene per niente.
Aveva bevuto, nella speranza di addormentarsi velocemente, ma non era servito e i suoi pensieri erano tornati a quel giorno sulla rupe, ai suoi amici sperduti chissà dove, ai campi di battaglia e agli innumerevoli avversari contro cui si era misurato, portando sempre a casa la pelle per un pelo.
Fu questione di un attimo e lo scenario attorno a sé iniziò a cambiare. Era di nuovo là, in guerra. Attorno a sé c’erano i suoi compagni e tutt’attorno erano circondati dai nemici.
Sbattè le palpebre, cercando di tornare alla realtà. Sapeva che era solo un delirio, che quella scena che vedeva non era reale, che non era più stato bene dopo la guerra.
Lo sapeva?
O forse la vera follia era pensare che non fosse reale?
E se fosse stato davvero sul campo di battaglia?
Improvvisamente sentì un rumore alle proprie spalle. Era stato nella visione o nella realtà? Quale delle due era la realtà?
Non poteva rischiare così sguainò il pugnale che teneva in cintura e si voltò di scatto, vedendo con la coda dell’occhio una figura alle proprie spalle. In pochi secondi Gintoki gli fu dietro, tenendolo sotto tiro col pugnale puntato alla gola, il respiro reso affannoso dall’agitazione e dalla paura.
“Kintoki! Sono io! Tatsuma!” esclamò più sorpreso che spaventato il ragazzo che aveva appena varcato la soglia dei suoi alloggi.
Gintoki spalancò gli occhi e improvvisamente riuscì a tornare alla realtà. Non appena si rese conto contro chi stesse puntando il pugnale, che portava veramente in cintura, lo lasciò cadere di scatto producendo un rumore metallico che riecheggiò nella piccola stanza.
“Tatsuma io… Scusami” disse soltanto il samurai coi capelli argentati, per poi lasciare andare il vecchio amico.
“Colpa mia, sono entrato all’improvviso. All’ingresso mi hanno riconosciuto e mi hanno indicato la tua sistemazione” rispose comprensivo Sakamoto. Si era accorto da subito, vedendo lo sguardo di Gintoki, che c’era qualcosa che non andava.
Tatsuma era sempre stato il più attento agli altri del loro gruppetto, placava le liti tra Takasugi e Gintoki e tirava in mezzo Katsura quando se ne stava troppo per le sue. Per lui, sia divertirsi che combattere insieme a quei tre scavezzacollo era la cosa che preferiva in assoluto. Almeno prima che le cose degenerassero.
Gintoki non disse nulla in risposta al vecchio amico, più per abitudine a stare sulle sue e per via del suo umore sotto zero che per vera maleducazione. Di nuovo Sakamoto intuì la situazione e parlò ancora: “Sai, quando finalmente mi sono ripreso, se così si può dire, dalla ferita al braccio…” indugiò giusto un attimo, stringendosi il polso destro con la mano sinistra “… sono subito venuto a cercarvi. Ma ormai la guerra stava volgendo al termine, nessuno sapeva dove foste, tutti si stavano nascondendo per evitare di rimanere coinvolti nelle purghe. Mi hanno detto… So che vi siete separati. Ho trovato soltanto te. Gintoki, cos’è successo?” chiese Sakamoto, guardandolo intensamente con uno sguardo profondamente triste.
Il ragazzo coi capelli argentati sostenne il suo sguardo per un po’ e poi abbassò la testa. Quello sguardo non apparteneva al Tatsuma Sakamoto che conosceva. Non aveva neppure sbagliato il suo nome e questo, di per sé, bastava a sottolineare la gravità della situazione. Gli doveva una spiegazione, lo sapeva. Quello che non sapeva era se sarebbe stato in grado di parlarne. Improvvisamente vide Sakamoto avvicinarsi a lui e mettergli le mani sulle spalle, costringendolo di nuovo a guardarlo negli occhi.
“Gintoki, se non vuoi non sei obbligato a dirmi nulla. Ma in tutta sincerità penso che tu ne abbia bisogno. Da quant’è che non parli con qualcuno? Da quando hai deciso di chiudere fuori tutti? Quando gli altri patrioti qui ti hanno descritto come taciturno e schivo pensavo di aver sbagliato posto o persona. Non serve che mi racconti tutto nei dettagli, ma parlami. Parla con me. Lo vedo che non stai bene” disse il ragazzo castano, con la voce incrinata dalla preoccupazione. Vedere l’amico in quelle condizioni l’aveva turbato più di quanto pensasse.
“Tatsuma…” si limitò a dire Gintoki “io…” balbettò, faticando a sostenere l’intensità dello sguardo dell’altro.
“Scusami” disse poi improvvisamente Sakamoto, cambiando tono ed espressione “ho esagerato, sono arrivato qui all’improvviso e ti ho chiesto una cosa assurda. Capisco se non vuoi dirmi nulla o se vorrai cacciarmi” abbozzò un sorriso senza allegria e spostò le mani dalle spalle dell’amico per andarsene, ma Gintoki lo fermò.
“No Tatsuma, hai ragione. Non parlo davvero con qualcuno da mesi e poi… Te lo devo. Per tutto. Hai il diritto di sapere cos’è successo”
 
Where are you now? Are you lost?
Will I find you again?
Are you alone? Are you afraid?
Are you searching for me?
 
I due ragazzi si erano seduti su due cuscini vicino a un tavolino basso, unico mobile presente nella stanza di Gintoki oltre a un paio di armadietti e al futon.
Il ragazzo coi capelli argentati tirò fuori una bottiglia di sake già bevuta per metà e due piattini scheggiati da uno scompartimento e versò da bere per entrambi, scusandosi per le condizioni dei suoi pochi averi.
Iniziò a raccontare all’amico a grandi linee tutto quello che era successo da quando aveva dovuto abbandonare il fronte, fermandosi di tanto in tanto quando sentiva il suo cuore accelerare o il respiro farsi più difficoltoso. Non voleva certo avere una crisi, come le chiamava, davanti a lui. L’ultima volta che qualcuno l’aveva visto stare così era stato Takasugi e non voleva che nessun’altro lo sapesse e potesse rinfacciargli che ormai era solo un samurai fallito in balia delle proprie emozioni. In quei momenti Sakamoto non diceva nulla, lasciando all’amico il tempo e lo spazio di cui aveva bisogno, ma sapeva che non erano questi racconti il problema. Anche lui era un veterano di guerra e capiva le sofferenze del ricordare certe battaglie ma, proprio per questo, capiva che c’era altro. Che c’era di peggio.
Quando Gintoki fece una pausa più lunga delle altre il ragazzo castano capì che era arrivato il momento in cui avrebbe scoperto la verità. Sperava solo di essere in grado di gestirne le conseguenze. Il suo amico non stava bene e, se già quando l’aveva incontrato gli era sembrato brillo, ora era praticamente ubriaco, e questo non migliorava le cose.
“L’ultima notte prima che ci dividessimo fu quella in cui pensavamo di essere sul punto di salvare Shoyo” disse di colpo Gintoki, senza convenevoli, buttando giù in un colpo solo un altro piattino di sake senza guardare l’amico negli occhi.
Sakamoto strabuzzò gli occhi, avrebbe dovuto immaginarlo che qualsiasi cosa avesse separato quei tre doveva aver avuto a che fare col loro maestro. Quanto era stato stupido a non averci pensato prima?
“Partimmo ognuno col proprio plotone, avremmo attaccato da tre punti diversi. Io e i miei uomini stavamo andando abbastanza bene ed ero convinto che anche gli altri fossero a buon punto quando un soldato del Kiheitai venne da me di corsa, l’armatura distrutta e il volto insanguinato. Mi disse che erano stati sconfitti e che avevano catturato Takasugi. Mi informò inoltre che la stessa cosa era successa a Katsura e al suo gruppo. Katsura capisci? Kotaro il fuggitivo era stato catturato. Quanto dovevano essergli andate male le cose?” Sakamoto si chiese da quanto tempo Gintoki si stesse tenendo dentro tutto questo. Sembrava che qualcuno avesse buttato giù la diga che tratteneva i suoi pensieri che ora si stavano riversando come un fiume in piena. Non era nemmeno sicuro che ne stesse davvero parlando con lui, anzi. Sembrava quasi dire quelle cose a sé stesso. Come se dirlo ad alta voce lo rendesse finalmente vero. Non disse quindi nulla e lo lasciò continuare.
“Sapevo benissimo cosa dovevo fare. L’avevo promesso. L’avevo promesso al sensei Shoyo, finché non ci fosse stato lui avrei protetto io i miei compagni, come mi aveva chiesto. E così lasciai perdere la mia missione e andai a salvarli ma mi stavano aspettando. Mi catturarono. Mi portarono…” la voce di Gintoki si spezzò un attimo, nella sua mente l’immagine di quella rupe e dei suoi compagni, di Shoyo, legati davanti a sé era più vivida che mai. Si sentì girare la testa e stringendo i pugni si accorse che aveva le mani sudate. Si fece forza, ignorò la paura che iniziava a farsi strada dentro di lui e continuò il racconto “… mi portarono su una rupe. Lì c’erano Takasugi e Katsura, legati e disarmati, a terra. Davanti a loro… Davanti a loro…” Il ragazzo chiuse gli occhi, mentre i capogiri aumentarono al punto da fargli venire la nausea, ma doveva finire il racconto. Doveva dirlo a qualcuno.
Inconsciamente una parte di sé sapeva che doveva farlo anche se temeva che, dopo aver saputo la verità, anche Sakamoto lo avrebbe abbandonato così come avevano fatto gli altri. Se non per le condizioni patetiche in cui sarebbe stato a fine racconto per le cose orribili che aveva fatto. D’altro canto chi mai vorrebbe essere amico di un samurai difettoso come lui?
“Gintoki, se non te la senti...” provò a dire Tatsuma, appoggiandogli una mano sulla spalla. Gintoki scosse la testa e riprese a parlare: “Io ero in piedi, mi avevano dato una katana. Mi… Mi misero di fronte a una scelta…” il respiro del ragazzo coi capelli argentati diventò affannoso, rendendogli difficile parlare. Sakamoto aveva già capito cosa stava per dirgli e inorridì al pensiero “…Potevo scegliere se… Se… Se uccidere Takasugi e Katsura o il sensei e io… L’ho fatto Tatsuma, ho ucciso Shoyo. Con le mie mani. Ho ucciso l’uomo che mi ha cresciuto con la mia spada. Io l’ho fatto capisci? L’ho fatto” Gintoki era ormai fuori di sé, aveva perso ogni controllo sulle proprie emozioni. Colpì il tavolo con un pugno e abbasso la testa, cercando di fuggire lo sguardo dell’altro, di nascondersi dentro sé stesso, tremando appena, mentre una lacrima solitaria fuggita al suo controllo gli scendeva sul viso.
Sakamoto inorridì, non sapeva cosa dire, era molto peggio di quanto avesse pensato. Come? Come avevano potuto metterlo di fronte a una scelta del genere? Era un miracolo che l’avesse trovato ancora vivo!
“E’ colpa mia, della mia debolezza” disse ancora Gintoki, senza muoversi dalla sua posizione “anche adesso ho paura, paura da non reggere. E non ne so il motivo, non c’è un motivo. Takasugi quel giorno mi disse che faccio schifo, che i samurai non hanno paura. Bhè aveva ragione. Se non fossi il fallito che sono, incapace di controllare le proprie emozioni, forse Shoyo sarebbe ancora vivo”. Dentro di sé si sentiva come risucchiato da un tornado, frasi, immagini, ricordi si mescolavano e vorticavano confondendolo e facendolo impazzire. Aveva detto tutto, e ora anche Sakamoto, così come Takasugi e Katsura, l’avrebbe abbandonato. Rimase immobile, tremando, sforzandosi di trattenere le lacrime per salvare quel minimo di dignità che gli era rimasta in attesa di sentire i passi dell’amico che se ne andava per lasciarlo solo.
Poi, improvvisamente, sentì le braccia dell’amico avvolgerlo e stringerlo piano e il vortice che lo avvolgeva si placò. Tutto si aspettava fuorché quel gesto, così rassicurante nella sua semplicità da lasciarlo completamente disarmato. Per la prima volta dopo tantissimo tempo si sentì accolto invece che respinto. Tra lui, Zura e Takasugi comportamenti del genere erano impensabili, i loro modi di esprimere i sentimenti erano tutt’altri. Ma con Tatsuma era sempre stato diverso, era l’unico che non aveva paura di dimostrare ciò che provava, tenendo emotivamente unito il loro gruppo, e fu veramente contento che in quel momento fosse lì, a dargli quel minimo di conforto che loro tre, quel giorno, su quella rupe, non erano stati in grado di darsi a vicenda. Non disse nulla, non ce n’era bisogno e qualunque parola sarebbe stata superflua. Il significato di quell’abbraccio era chiaro e valeva più di mille ‘mi dispiace’ e ‘non sei solo’ e il samurai dai capelli argentati fu grato all’amico per non aver detto nessuna di quelle cose ad alta voce.
 
Why did you go? I had to stay
Now I'm reaching for you
Will you wait?
Will you wait?
Will I see you again?
 
Quando Gintoki smise di tremare Tatsuma lo lasciò andare, lasciando solo una mano sulla sua spalla, permettendosi finalmente di parlargli.
“Non fai schifo e non sei nemmeno difettoso, Kinotki!”
Il ragazzo alzò finalmente la testa, sorpreso che proprio in quel momento l’amico l’avesse chiamato in quel modo e con quella voce squillante, e fu ancora più sorpreso di vedere il suo solito sorriso da ebete sul suo viso.
“Anche io non sono stato bene sai? Dopo la ferita. Continuavo a rivedere la scena in cui mi hanno colpito ancora e ancora, sia di notte che di giorno. Tutt’ora a distanza di mesi lo sogno più spesso di quanto mi faccia piacere ricordare” era incredibile come Tatsuma potesse dire quelle cose con quell’espressione sorridente.
“Penso sia normale stare male, con quello che abbiamo passato. Sono sicuro che anche quei due musoni siano da qualche parte rintanati in loro stessi, proprio come noi. Per questo Takasugi ti ha attaccato tanto aspramente, ne sono convinto”
“Tatsuma io… Anche se fosse vero quello che dici ho comunque…”
“Ti hanno messo davanti a una scelta che non era una scelta. Sarebbe andata a finire così in ogni caso. Ma non sono così presuntuoso da pensare di poterti convincere, ci vorrà tempo. Dovrai scendere a patti con te stesso e non è facile. Io… Io devo ancora convincere me stesso che non potrò mai più impugnare una spada, eheheh” rise senza allegria e Gintoki capì.
Per la prima volta quel giorno capì che non era il solo a portare le cicatrici di quella guerra e che non tutte le ferite si sarebbero rimarginate velocemente, fossero esse del corpo o dell’anima. Gli sarebbe servito del tempo. Era vero, Tatsuma l’aveva assolto dalle sue azioni ma l’assoluzione vera, quella che l’avrebbe guarito, poteva arrivare solo da sé stesso.
“Ci rialzeremo, amico. Ci metteremo del tempo e non sarà più come prima, ma ce la faremo” disse soltanto Sakamoto, quasi come se gli avesse letto nel pensiero, poi versò da bere a entrambi.
 
I due amici passarono la notte a bere finché non si addormentarono ubriachi l’uno accanto all’altro. Non parlarono più molto, quello che dovevano dirsi era già stato detto. Gli bastava sapere che almeno un’altra persona, nell’universo, si sentiva come loro e già questo sarebbe stato sufficiente a darsi la spinta per ricostruire sé stessi, un passo dopo l’altro. Perché in fondo, se Sakamoto era andato là quella sera era perché anche lui, così come Gintoki, aveva bisogno di sapere che non era solo, che non era difettoso o inutile, che era normale non stare bene e che non succedeva solo a lui. Aveva parlato dandosi arie da grand’uomo ma la verità era che quanto stava dicendo all’altro l’aveva appena realizzato lui stesso proprio grazie all’amico.
 
La mattina dopo si salutarono, Sakamoto sarebbe partito per realizzare il suo sogno di commerciare nello spazio. Invitò più volte Gintoki a partire con lui ma il ragazzo rifiutò. Avrebbe trovato il suo scopo lì, sulla terra. Ci sarebbe voluto del tempo e non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, ma sapeva che sarebbe rimasto lì, nella terra dove una volta lui e i suoi compagni erano stati felici.
Quando si scambiarono l’ultimo saluto entrambi sorridevano, davvero sta volta.
  
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