Pulcherrima
~ Perché hai condiviso le stelle con me ~
Nemmeno
il buio della notte poteva cancellare il bianco dei corridoi del Castello
dell’Oblio.
Forse perché il bagliore spento di Kingdom Hearts
filtrava l’oscurità dalle finestre, come in altri mondi la luna
piena era in grado di smorzare le tenebre; forse perché il bianco era
più impenetrabile del nero, in quel luogo in cui ogni cosa era destinata
a diventare pallida e vuota; forse perché gli occhi di chi era abituato
all’oscurità riuscivano a scorgere in essa il colore dei muri, dei
pavimenti, di tutto quanto.
Il Burattinaio Mascherato non sapeva perché, ma
anche di notte quel posto riusciva ad apparirgli bianco.
C’era stato un tempo in cui, tra le altre cose,
aveva studiato il comportamento dello spettro cromatico. Ricordava di aver
constatato che il bianco altro non era che l’insieme di tutti i colori.
Una volta, anche lui era stato bambino, anche lui era andato a scuola, e anche
lui aveva osservato con stupore come, facendo ruotare velocemente un cerchio di
cartoncino composto da colori, l’unico che diventasse visibile e
riconoscibile a quella velocità fosse proprio il bianco. E tuttavia,
oggi che si era lasciato alle spalle le ingenuità bambine e il mondo
colorato, oggi che per lui tutto era buio, oggi che era un Nessuno, non
riusciva a portare quella giustificazione al fenomeno.
Oggi supponeva che il bianco del Castello filtrasse il
nero della notte soltanto perché era inevitabile che fosse così.
Perché ogni cosa, là dentro, in quella
squallida e insipida imitazione di vita, era destinata a diventare pallida e
vuota. Bianca.
Il piccolo Ienzo si era appassionato alla conoscenza a
partire da quel piccolo cerchio di colori. Il nuovo Zexion si ritrovava in un
posto bianco senza poter uscire dall’incomprensione.
Perché, malgrado tutti i suoi studi, nonostante
tutti gli obiettivi raggiunti, non capiva.
Ne valeva davvero la pena? Conservare una forma umana
quando si era perso tutto dell’umanità, fingere di essere vivi
quando da un pezzo si era perduta l’anima, attaccarsi ad una speranza su
cui forse non si possedeva alcun diritto, e combattere per raggiungere uno
scopo che magari non si meritava. Ne valeva davvero
la pena?
Il membro numero VI dell’Organizzazione conviveva con
quei pensieri ogni notte, e ogni notte camminava nel buio bianco del Castello
per lasciarseli alle spalle, senza mai riuscirci.
Era una notte come tante, come tutte. I suoi passi lenti
e regolari erano l’unico suono nel silenzio, la sua figura incappucciata
l’unica ombra che le finestre aperte su Kingdom Hearts proiettassero sui
muri delle stanze vuote.
Ma quando svoltò un angolo, una nuova ombra lo
fece fermare.
Immobile davanti ad una finestra spalancata, le mani
strette sul davanzale e i lunghi capelli biondi scossi da una brezza leggera,
la ragazzina guardava il cielo come in cerca di qualcosa, forse di se stessa.
Era lei, lo strumento dell’Organizzazione, l’asso nella manica del
numero XI, la sua proprietà
privata. Solo una ragazzina, con un potere immenso dalle origini
sconosciute, che in quel momento se ne stava in silenzio alla finestra a
scrutare la notte del Mondo Che Non Esiste. Proprio come lui.
Zexion si tirò sulle spalle il cappuccio,
scoprendosi il volto, e camminò verso di lei.
Naminé si voltò a guardarlo, per nulla
sorpresa né spaventata. Anche nella penombra i suoi occhi erano di un
azzurro tanto pulito da risultare semplicemente inammissibile in un posto come
quello.
«Cosa fai fuori dalla tua stanza?»
l’aggredì senza preamboli, a mezza voce. «Marluxia non ne
sarebbe contento.»
Lei parlò senza abbassare lo sguardo. «Non
riuscivo a dormire.»
«Questo non ti dà il diritto di andartene in
giro per il Castello a tuo piacimento. Non dimenticare che sei sempre una
nostra prigioniera.»
Naminé sospirò profondamente; poi, a
sorpresa, gli rivolse un sorrisetto triste. «Non c’è bisogno
che me lo ricordi, numero VI. Immagino che mi sentirei prigioniera anche se qui
dentro fossi libera.»
Zexion si fermò, a pochi passi da lei.
L’impulso di metterla a tacere passò in
secondo piano davanti alla comprensione verso le sue parole. Sì, aveva
ragione. La vera prigionia di un Nessuno stava nella sua esistenza. Tutti loro,
anche lui, erano prigionieri della loro condizione: vivevano, e al tempo stesso
non erano altro che gusci vuoti, destinati a non poter vivere per davvero. Senza un cuore.
La ragazzina bionda continuò a guardarlo per
qualche istante, gli occhi blu pieni di tutte le cose e i rimpianti e le
domande che lui aveva sempre e soltanto soffocato nel profondo di sé.
Ricambiò il suo sguardo, e pensò che lei era la cosa più vera che gli capitasse di vedere da
molto, molto tempo.
Si odiò e la odiò per quel pensiero.
Senza rompere il silenzio, Naminé tornò a
guardare fuori, nel cielo nero reso indaco dal chiarore.
Senza riflettere né chiedersene il motivo, Zexion
le fu accanto.
La notte sembrava l’unico elemento che colmasse la
distanza infinita tra loro. La guardavano insieme, eppure lontani, due Nessuno
che avevano due modi diversi di guardare, due ragazzi che non erano amici
né compagni e neppure potevano dire di conoscersi davvero.
Poi, lei sospirò di nuovo.
«Posso dirti una cosa?»
Non le rispose. Non era sicuro di volerglielo negare.
La ragazza dovette interpretare il suo silenzio come un
assenso. Sentì il tremolio di un altro sorriso triste nella sua voce.
«Vorrei tanto che qui ci fossero le stelle.»
Zexion si voltò a guardarla.
Per la prima volta, si accorse che sul davanzale, tra le
sue piccole mani serrate a pugno, c’era l’immancabile album da
disegno, aperto su un foglio vuoto, bianco.
Naminé sollevò gli occhi. «Tu te ne
ricordi, vero?»
«Certo che me ne ricordo.» Per qualche
assurdo motivo, si ritrovò a dire più di quanto intendesse
all’inizio. «Ricordo di aver studiato astronomia, era… era la
mia materia preferita.» Continuò a guardarla, confuso. Era un
ricordo che non aveva mai condiviso con nessun altro.
Lei sorrise. Questa volta sembrava serena. «Allora
devi sapere molte cose sulle stelle.»
Zexion alzò le spalle, in silenzio.
Naminé posò lo sguardo sul suo album, lo
strinse, ancora un po’ di più. All’improvviso sembrava
imbarazzata.
«Mi… spiegheresti?»
Il suo sussurro impacciato lo sorprese quasi più
delle sue parole.
«Cosa?»
La ragazzina tornò a guardarlo, una lieve traccia
di rossore sulle gote pallide.
«La verità è che sono stanca
di… di sfondi bianchi. Voglio… un cielo, voglio imparare a
disegnare le stelle. Ma non ne sono capace.» Sollevò il blocco,
mostrando alla sua vista la scatola dei colori sul davanzale, e poi gli rivolse
un altro mezzo sorriso. «Può una prigioniera
dell’Organizzazione chiedere al Burattinaio Mascherato una lezione di
disegno astronomico?»
Zexion sostenne a lungo il suo sguardo, chiedendosi cosa
avesse quella notte di diverso dalle altre, cosa avesse scatenato quella
strana, inedita, improvvisa lunghezza d’onda. Non trovò una
risposta.
Forse c’erano cose che non si potevano spiegare
razionalmente. Come quel bianco che vinceva il buio.
Naminé lo guardava ancora, pura e sincera nel
centro delle domande inutili. Per la prima volta da che esisteva – sia
come Ienzo, sia come Zexion – lui si ritrovò costretto ad
abbassare lo sguardo.
Non disse nulla, ma si avvicinò, prese la sua mano
chiara e sottile e la portò sulla scatola aperta, serrandogliela delicatamente
intorno ad un pastello.
La ragazza lo prese e seguì docile i movimenti
della mano di lui, fin sull’album che sorreggeva con il braccio sinistro;
sotto la sua guida, tracciò sul primo foglio una piccola macchia giallo
chiaro.
Lo ripeterono più e più volte. Il tempo
sembrava immobile, mentre la mano di Zexion conduceva quella di Naminé a
tracciare i contorni delle stelle che ricordava di aver studiato. Lasciò
che ne colorasse di giallo la maggior parte; ma per una, più insolita,
dalla forma doppia, volle farle usare l’arancio e il verde-azzurro. Alla
fine, quando le offrì il pastello blu e lasciò le sue dita libere
di colorare uno sfondo che finalmente non fosse bianco, davanti ai loro occhi
vi fu una costellazione, una delle meno note ai più, che nella sua vita
precedente ricordava di aver conosciuto come Boote.
«Sono belle» sussurrò Naminé,
ancora intenta sugli angoli del foglio, per non lasciare neanche la minima
traccia di bianco.
«Sono solo stelle» mormorò Zexion,
alzando le spalle.
La vide sorridere, e di nuovo distolse lo sguardo dal suo
visetto di bambina.
«È una costellazione, vero?»
«Sì.»
«Che cosa rappresenta?»
Zexion si sporse nuovamente sul foglio e le mostrò
le linee invisibili che davano l’illusione di una figura. «Un
mandriano che guida un’orsa. Questa color oro è la stella
principale: Arturo, “guardiano
dell’orsa”, appunto.»
Naminé finì di colorare il cielo e
indicò la stella più variopinta. «E questa?»
«Quella è Pulcherrima.»
Alzò su di lui i suoi occhi immensi, di un azzurro
infinitamente più intenso del pastello che aveva usato, e di colpo lui
realizzò quanto fossero vicini ai suoi.
«Che cosa significa?»
Zexion era certo che se – da qualche parte dentro
quel suo vuoto essere – ne avesse ancora avuto la capacità,
sarebbe arrossito. Rispose soltanto dopo aver distolto per la terza volta lo
sguardo.
«“Bellissima”.»
Non vide la sua espressione, ma era quasi certo che
stesse sorridendo di nuovo.
Dopo un solo lungo istante di silenzio, Naminé
parlò ancora.
«Oh… Guarda!»
Sorpreso dalla sorpresa nella sua voce, obbedì.
Gli stava indicando un punto fuori dalla finestra. Nel
cielo scuro e vuoto del Mondo Che Non Esiste, esattamente all’altezza dei
loro sguardi, si stagliava la costellazione di Boote, identica a come
l’avevano disegnata.
Zexion fissò Naminé, confuso. Erano state
le sue facoltà ancora semisconosciute a materializzare le stelle dalla
carta? O c’era… qualcos’altro, magari, qualcos’altro di
irrazionale che mai avrebbe saputo spiegarsi?
La ragazzina dai capelli biondi non sembrava preoccuparsi
di tutto questo: aveva gli occhi persi nella costellazione,
un’espressione sognante sul visetto di porcellana.
«Bellissima…» ripeté, in un sussurro.
Il Burattinaio Mascherato tacque e, di nuovo,
rinunciò a trovare una risposta.
Passò ancora del tempo, quanto non avrebbe saputo
dirlo, prima che la ragazzina rompesse ancora il silenzio. All’improvviso
la sentì staccare delicatamente il disegno dall’album.
Voltò il viso, e si vide porgere il foglio colorato, insieme ad un altro
sorriso sereno.
«Tienilo tu. Vuoi?»
Zexion andò con gli occhi dal foglio a lei.
«Perché?»
Lei posò l’album sul davanzale, accanto ai
pastelli; poi gli prese una mano e vi lasciò cadere il disegno.
«Perché hai condiviso le stelle con me.»
Il ragazzo strinse istintivamente le dita sulla carta. In
qualche modo, quel regalo si era deciso da sé. Come la notte appena
trascorsa.
Annuì.
Naminé sorrise di nuovo, prese tra le braccia il
blocco di fogli e la scatola di colori, e infine si allontanò dalla finestra,
lanciandogli un ultimo sguardo azzurro e pulito.
«Buonanotte, Zexion.»
La guardò allontanarsi lungo il corridoio,
così piccola e chiara, bianco vivo nel bianco smorto.
«Buonanotte, Naminé.»
Ebbe solo il tempo di mormorarlo. L’attimo dopo,
era già sparita.
Quando tornò a guardare la costellazione di Boote,
il membro numero VI dell’Organizzazione si rese improvvisamente conto che
quella notte, per la prima volta, era davvero riuscito a lasciarsi alle spalle
tutti i suoi pensieri.
E il bianco non gli sembrava più così vuoto
e freddo.
Nessuno
le disse che quel disegno l’aveva tenuto tra le pagine del suo libro fino
alla fine, come un tesoro da tenere segreto al mondo. Nessuno le disse che,
quando si era dissolto nell’aria, lo aveva fatto stringendolo tra le dita. Nessuno
avrebbe potuto dirle che il suo ultimo pensiero era stato per lei. Non le
dissero nulla, perché nessuno sapeva, nessuno aveva mai saputo che il
Burattinaio Mascherato e la piccola strega schiava dell’Organizzazione
avevano condiviso le stelle.
Ma la notte in cui accadde, Naminé trovò un
foglio sul suo letto, un semplice foglio di carta strappato in fretta da un
libro che lei aveva visto soltanto in qualche fugace occasione tra le mani del
numero VI. Trovò il foglio e lesse la scritta, e allora una lacrima le
solcò la guancia, facendole chiedere se anche in quella vita in cui si
sentiva così prigioniera non fosse possibile provare un dolore che con
la prigionia non avesse niente a che fare.
Strinse il foglio tra le dita, ricordò, e pianse.
Buonanotte,
Pulcherrima.
[La costellazione di Boote è davvero
una costellazione reale, così come Pulcherrima è una stella
esistente; magari il fatto che si veda dalla Terra esclude che si possa vedere
anche dal Mondo Che Non Esiste, ma, suvvia, consideratela una licenza poetica.]