Film > Star Wars
Segui la storia  |       
Autore: _Lightning_    02/04/2021    3 recensioni
Dopo aver lasciato Nevarro, Din Djarin ha ormai poche certezze: è ancora un Mandaloriano, deve trovare il pianeta natale del Bambino, e i compagni sfuggiti al massacro di Gideon sono vivi, da qualche parte nella Galassia. Quest'ultima è più una speranza, e lui non ha idea di come si viva di speranza. Soprattutto quando tutte le altre certezze, quelle che ha sempre custodito tra cuore e beskar, sembrano sgretolarsi con ogni passo che compie.
Non tutti i suoi fantasmi sono marciati via.
Dall'ultimo capitolo: Il Moff lo conosceva – sapeva il suo nome, da dove veniva, chi fosse la sua famiglia.
Anche Din lo conosceva. Ricordava il suo nome sussurrato di elmo in elmo come quello di un demone durante le serate attorno al fuoco della sala comune, l’unica luce che potessero concedersi in quegli anni di persecuzione. Ricordava il Mandaloriano mutilato e con la corazza deforme che narrava singhiozzando della Notte delle Mille Lacrime, quando interi squadroni d’assalto erano stati vaporizzati a Keldabe dalle truppe imperiali.

[The Mandalorian // Missing Moments // Avventura&Azione // Din&Grogu // Post-S1 alternativo]
Genere: Avventura, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Jango e Boba Fett, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 
•••
 

•••
 
 

Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte III


Da soli, noi Mandaloriani non siamo nulla. Senza un legame che ci unisca, non siamo nulla.
Viviamo perché altri vivono, sono vissuti e vivranno.
Ed è
 il manda a guidarci.
Ci permette di non perderci mai, di vivere e morire, di ricordare ed essere ricordati.
Chi segue la Via non sarà mai solo.

Bes, Armaiola della Tribù, ai nuovi Trovatelli

 

 

Concord Dawn, dintorni di Aq Vetina [1], 20 BBY

La guerriera tende la mano verso di lui. Din a malapena riesce a scorgerne il contorno, nel buio pesto della foresta. La afferra alla cieca, lasciandosi issare su dal terreno muschioso e ricoperto di rugiada notturna che gli ha appena infradiciato i pantaloni dopo essere inciampato in un ramo nascosto.


Si spazzola il terriccio di dosso, mentre il visore a T di Ruusaan si sofferma su di lui, muovendosi dall’alto verso il basso per poi tornare sul suo volto. Din sente il calore dell’imbarazzo accendergli le guance, ma lei non dice una parola. Gli intima solo di rimettersi in cammino con un impercettibile cenno dell’elmo, per poi avviarsi a sua volta sulle orme degli altri Mandaloriani che li precedono.

Sono una ventina, forse più: sagome aguzze e tintinnanti che si stagliano di tanto in tanto tra il nero dei tronchi. Sono sorprendentemente silenziosi, per avere tutto quel metallo addosso – beskar, si chiama, così ha detto Ruu. Din ha l’impressione di essere l’unico a fare tutto quel rumore smuovendo il sottobosco e pestando rametti secchi coi piedi stanchi.

Non ha mai camminato così tanto in vita sua, né ha mai visto così tanti alberi tutti assieme. Aq Vetina è polverosa e arida, e le uniche piante davvero rigogliose sono gli sterminati campi ocra di kisiwa tutt’intorno, punteggiati da qualche raro albero o arbusto.

È la prima volta che vede coi suoi occhi le foreste di Concord Dawn, anche se suo zio, che ci era nato, gliene ha parlato spesso. Si intristisce al ricordo, che porta con sé echi di esplosioni ancora non del tutto svaniti.

Dirotta quei pensieri, concentrandosi sulla foresta. Gli sembra di essere circondato da esseri altissimi che cercano di rimanere immobili, ma che non possono fare a meno di muoversi di tanto in tanto, emettendo scricchiolii e gemiti legnosi, o sussurrando parole incomprensibili quando il vento scuote i rami. 

Non sa ben dire se gli facciano paura o meno. Forse, se fosse da solo avrebbe paura, ma finché riesce a vedere l’ombra di Ruu e dei suoi compagni davanti a sé sa di non dover temere nulla. Se non di inciampare, come gli è già capitato più volte.

Quella mattina si sono inerpicati sulla montagna che per anni ha solo guardato dal basso, e da un momento all’altro Aq Vetina era scomparsa oltre il crinale, come se non fosse mai esistita. Di tanto in tanto, Din si getta ancora inutili occhiate alle spalle, ma vede solo il versante brullo e scosceso che hanno appena valicato. Anche se da un’altra prospettiva, riconosce ancora lo sperone roccioso vicino alla cima che sembra il muso di un blurrg. 

Non ha paura di quegli alberi enormi, né del buio, né di non sapere dove stiamo andando, ma di vedere sparire del tutto quella forma conosciuta. Poi, non saprebbe più dove appuntare lo sguardo, se non sulla schiena di Ruu. È per questo che continua a voltare il capo, cercando il blurrg di pietra sempre più piccolo – e a incespicare perché non guarda dove va.

Si è già sbucciato le mani e un ginocchio, ma non ha voglia di dirlo a Ruu, né lei l’ha mai rimproverato. È diventata taciturna, dopo quella prima notte in cui gli ha dato il ciondolo di beskar e raccontato dei mitosauri e insegnato quelle strane parole impronunciabili per ricordare chi è marciato via

Din si incupisce, chinando il capo a fissare i propri passi incerti, e il cappuccio gli scivola quasi davanti agli occhi. A marciare via sono loro, adesso, e la cosa non gli piace. Ma cerca di non pensarci. Cerca di non pensare a niente, se non a dove cammina, al verso bubolante di un qualche animale che non riconosce e alla pressione fredda del ciondolo contro il petto.

Accelera il passo. Nel buio, mette di nuovo il piede in fallo su una radice bitorzoluta. Incespica goffamente, e stavolta sente una decisa schicchera di dolore risalirgli la caviglia in un lampo. Mantiene comunque l’equilibrio, ma si lascia scappare un lamento sommesso quando poggia di nuovo il piede dolente; Ruu si volta più bruscamente, stavolta, quasi avesse avvertito fisicamente la sua fitta.

«Ti sei fatto male?» chiede, ed è la prima cosa che le sente dire da quando è calato il sole.

Fa cenno di no con la testa: è solo una slogatura, come tutte quelle che si è rimediato correndo per i tetti di Aq Vetina, senza per questo fermarsi o lamentarsi. Può camminare. Ruu fa comunque per avvicinarsi a lui, ma Din sussulta nel sentire passi molto più pesanti coprire i suoi.

Ruu si volta prontamente, un palmo sul calcio del blaster. La sagoma slanciata di un Mandaloriano avanza verso di loro con falcate ampie; Din vede Ruu irrigidirsi e raddrizzare il mento, spostandosi un poco di lato in un modo che gli impedisce di vedere chiaramente il nuovo arrivato. Non può dire che gli dispiaccia.

Sa chi è. Durante la marcia Ruu, quelle poche volte che ha parlato, gli ha indicato questo o quel Mandaloriano – tutti uguali ai suoi occhi se non per i segni di blaster sull’armatura – rivelandogli pian piano i loro nomi. Ne ricorda pochi, sa pronunciarne alcuni e sa abbinarne ancor meno al legittimo proprietario. Azi Sten’ka è l’unico che gli sia rimasto impresso a fuoco sin dal primo istante. Il solo vederlo fa scattare la sua mano verso quella della guerriera, in un impulso che non gli riesce di sopprimere. La stringe, ma lei non ricambia la stretta se non per un breve istante, lasciando poi le dita molli.

Azi è l’alor, gli ha detto semplicemente. Il capo. E l’ha detto in un tono che, non sa dire come o perché, gli ha fatto sentire freddo nelle vene, nello stomaco. Azi non è più grande o massiccio degli altri guerrieri, ma è l’unico ad avere sullo spallaccio dell’armatura un simbolo rosso sangue e non bianco come tutti gli altri. 

Adesso si pianta davanti a Ruu, più alto di lei, e fa un brusco cenno col capo. Ruu scuote la testa, così piano che Din a malapena la vede; Azi reagisce con una scrollata dell’elmo, che inclina poi di lato. Parlano senza parlare, come hanno già fatto più volte durante la marcia, quando sono abbastanza vicini tra loro.

Din odia quel silenzio finto, che lo esclude e fa sentire insignificante. Vorrebbe avere un elmo anche lui. Punta gli occhi su Azi, scrutandolo da sotto l’orlo del cappuccio in quello che forse è un gesto di sfida, o una semplice richiesta di essere considerato – non saprebbe dirlo nemmeno lui, sa solo che è sciocco – ma il guerriero non lo degna di uno sguardo.

Lui e Ruu proseguono quella che sembra una discussione sempre più accesa, racchiusa a stento nei caschi e nelle armature a giudicare dai gesti. Azi, a un certo punto, volta il capo verso l’alto in un modo che sembra suggerire una risatina. Il flebile riverbero lunare che filtra tra i rami e le nuvole riluce sul beskar blu notte, accentuando ogni movimento.

A quel punto, Ruu avanza di mezzo passo verso di lui, il busto che si protende in avanti. Per un istante, Din crede che stia per lanciarsi all’attacco e trattiene il respiro. Ma lei si arresta, Azi si limita ad alzare le spalle – e Din sobbalza sul posto, rilasciando troppo rumorosamente il fiato, quando si vede indicare da lui con un gesto quasi distratto della mano. Non lo guarda. Poi dà loro le spalle e si avvia di nuovo verso i suoi compagni, il cui tramestio di passi è quasi sfumato del tutto.

Ha già compiuto qualche passo quando Ruu parla di nuovo, stavolta davvero, le parole che si levano nel cuore della notte attutite dal bosco e dal buio:

«Kaysh ven’cuyir verd.»

Azi non si ferma, né si volta. Din deglutisce, sentendo di nuovo freddo e caldo assieme, come se avesse la febbre. Stringe la presa sul guanto di Ruu, ancora inerte.

«Ni bajur kaysh sa verd!» parla ancora lei, stavolta con la voce che si gonfia, stentorea, rimbalzando da un tronco all’altro.

Azi arresta infine la sua marcia, un piede rialzato a issarsi sopra una formazione rocciosa assediata da arbusti e radici. Guarda Ruu – e poi guarda lui, per la prima volta. Din prova la tentazione di celarsi dietro le gambe della guerriera, ma rimane paralizzato dov’è, inchiodato dal brillio freddo e ostile del visore a T. Quando parla di nuovo, Azi lo fa in Basico, cogliendolo alla sprovvista. La sua voce è gutturale e densa, come se provenisse da un pozzo e ci fosse dentro qualcosa di marcio ad appesantirla.

«Allora trattalo da guerriero

Din si sente scorrere addosso quell’affermazione priva di senso, con l’impressione di aver appena aspirato una boccata d’acqua. Alza lo sguardo su Ruu quando la sagoma di Azi sparisce oltre la linea d’ombra del sottobosco, ma lei non abbassa il capo a guardarlo.

Gli lascia d’un tratto la mano – la scansa via – e Din è convinto di essere caduto di nuovo, prima di realizzare che le vertigini che gli avvitano lo stomaco non hanno nulla a che fare con la gravità.

«Ke’taab,» lo incita Ruu, facendo già un passo avanti e incitandolo con una spinta secca tra le scapole.

A Din ronza la testa, bombardata da quella lingua estranea e aguzza, ma annuisce comunque e si rimette in marcia, cogliendo lo stesso quel semplice comando e l’urgenza nella voce della guerriera.

Quella seconda notte, solo la terza luna di Concord Dawn fa bella mostra di sé nel cielo sgombro da nubi. Din ricorda ancora bene le leggende sui tre fratelli che si rincorrono tra le stelle senza mai incontrarsi se non in poche, pochissime occasioni – giorni di festa di cui ha ancora le risate impresse nella mente, anche se non in volto.

Gliele raccontava sua madre, quelle storie, sdraiati sul tetto piatto della loro casa quando la calura estiva diventava insopportabile. Din ringrazia tra sé il Terzo Fratello, quello più piccolo ma più luminoso, bianco e accecante rispetto ai suoi compagni violetti e un po’ invidiosi del suo bagliore. Grazie a lui, stanotte riesce a scorgere dove mettere i piedi e a non scivolare sul muschio viscido che ricopre il terreno accidentato su cui stanno ancora arrancando.

La foresta si è fatta ancora più folta, e la montagna è solo una scheggia di roccia che fa capolino oltre le cime degli alberi di tanto in tanto, col blurrg ormai invisibile – non sa quando è scomparso perché ha smesso di voltarsi a controllarlo. 

Ruu ha detto che stanno perlustrando quella zona e che si stanno dirigendo al rendez-vous coi Protettori, anche se non è sicuro di cosa voglia dire tutto ciò. Sa solo che, lì dove stanno andando, ci saranno altri Mandaloriani e delle navi dal nome strano in loro attesa. 

E sa solo che è stanchissimo e ha i piedi pieni di vesciche e le gambe assediate dai crampi e la caviglia gonfia, ma dopo quello che è successo con Azi non osa fiatare al riguardo. Sta attentissimo a dove mette i piedi per non cadere e ringrazia ancora il Terzo Fratello, perché con quella luce è riuscito a non inciampare nemmeno una volta da quando è calato il crepuscolo, tenendo il passo con Ruu.

Anche se non sa se sia davvero una cosa buona, quella. Più vanno veloci, più camminano. Più tempo passa, meno ha senso chiederlo a Ruu – quella domanda che gli preme sulla lingua da ieri o forse da ancor prima. Più si allontanano, meno probabilità ci sono che Ruu gli dica di sì.

Din si arrischia a reclinare il collo all’indietro, rallentando l’andatura. Lancia lo sguardo verso le stelle. Suo padre gli ha insegnato a leggerle per orientarsi e sua madre a vedervi le costellazioni. Cerca la cima della Rupe e ne segue il versante fino a intersecare l’Occhio del Narglatch. Di fianco a lui trova ciò che cerca: il Guerriero, col braccio teso a indicare l’orizzonte. Quella figura rassicurante assume d’un tratto tinte più scure. 

Rimane con l’indice puntato su di essa, il naso all’insù, dimenticandosi per un attimo cosa stesse cercando nelle stelle. Quasi inciampa su un sasso – sente il cuore sobbalzare a tempo col sussulto, piombando nel vuoto – ma riesce a non perdere l’equilibrio e recupera frenetico i passi persi – veloce, prima che Ruu si giri o Azi se ne accorga o–

Adocchia di nuovo il Guerriero, che gli dice che stanno proseguendo verso sud, verso l’ignoto, e quella sagoma non gli sembra sempre meno rassicurante. C’è un che di sinistro, nel brillio delle stelle, nel modo in cui il Terzo Fratello sembra fuggire lontano, lontano dai suoi fratelli più grandi e verso il Guerriero che gli indica la strada.

Din si ferma, col respiro accelerato, come se il prossimo passo fosse quello definitivo che lo separerà per sempre da tutto. Come se compiendolo i suoi genitori diverranno del tutto polvere. Strizza gli occhi: non vuole davvero pensare a come siano adesso – a cosa siano. A cosa diventeranno. Non sa nemmeno se potranno "marciare via", così, se– se non–

«Ruu?»

Non sa se è riuscito a farsi uscire la voce dalla bocca, per quanto piano ha sussurrato, premendo a forza contro il groppo che gli ostruisce la gola. La Mandaloriana, però, si arresta come a comando. Ruota subito l’elmo verso di lui, ormai rimasto indietro di qualche passo.

«Lo so che sei stanco,» sospira lei, dura come lo è stata da ieri. «Ma ormai manca poco ai Kom’rk. Poi potremo–»

«Dobbiamo tornare indietro.»

Non è quello che voleva dire, ma è la prima frase che gli riesce di pronunciare. Si lancia un’occhiata istintiva alle spalle, verso la montagna che ormai quasi non c’è più ed è ammantata dall’oscurità degli alberi. Vede Ruu esitare e sa di averla presa alla sprovvista, anche se non può a vederla in volto.

«Ruusaan, k’olar!» arriva subito una voce, attutita dal fogliame ma troppo rumorosa, tanto che un uccello notturno interrompe il suo bubolare, creando un improvviso, denso silenzio.

«K’uur! Olaror!» sibila secca lei, girandosi brusca e tornando altrettanto rapidamente a fissare lui. «Ad’ika, non possiamo.»

«Perché non possiamo?» ripete Din, con un picco d’ansia che trapela dalla voce nel realizzare che, se davvero non possono, i suoi genitori rimarranno lì, nella polvere, per strada, e non potranno–

Le successive parole di Ruu disintegrano quei pensieri come i blaster di quei droidi enormi hanno disintegrato casa sua:

«Perché non c’è più nessuno ad aspettarti. Non è casa. Non potrà esserlo mai più, per te.»

Il suo tono è improvvisamente aguzzo, privo d’inflessione. Din, sgomento, si sente schiacciare dall’alto, come se d’un tratto il Terzo Fratello avesse deciso di precipitare proprio su di lui. Ruu si avvicina di un passo e, per la prima volta da quando la conosce, la sua armatura la rende minacciosa quasi quanto Azi – quasi quanto il droide. Reprime un passo indietro.

«Ke’taab, ad’ika. Ke’taab,» ripete con più veemenza, con un cenno perentorio del braccio in avanti, verso il resto dei Mandaloriani già scomparsi nella boscaglia.

Din sa che anche lei ha paura. Lo sente nel modo in cui la sua voce è più acuta, più stridente. Ha paura di Azi Sten’ka e quella paura tenta di inghiottire anche lui, ma non è comunque più grande di quella che lo sta divorando adesso – anche se forse è la stessa paura, in realtà. Perché non vuole essere solo, né qui, né altrove.

Così non si muove di un passo, anche se si ritrova improvvisamente la vista annacquata, che rifrange l’intensa luce lunare e rende la sagoma di Ruu labile e sfocata.

«Se non li seppelliamo, non potranno... marciare via,» riesce a dire, con la voce che gli trema nel dire quell’ultima parte così estranea, ma al contempo così vicina al cuore che ha preso a battergli impazzito, in scariche ravvicinate.

Ruu, a quel punto, inclina l’elmo di lato, fissandolo in un modo che, assurdamente, gli ricorda Tobo quando gli mostrava qualcosa di nuovo, che suscitava la sua curiosità. Inclinava di lato la testa esattamente così. E non è qualcosa che vuole ricordare, al momento

Tobo, il loro vecchio massiff, era morto qualche anno fa. L’avevano sepolto in profondità nel loro orto, piantandovi sopra un veshek. Così, gli aveva spiegato suo padre, Tobo avrebbe continuato a vivere: il suo corpo si sarebbe trasformato in albero e in nuova vita. Gli aveva spiegato anche come. E adesso non vuole pensare a come i suoi genitori potranno donare nuova vita. Non nel dettaglio. 

Sa solo che non potranno farlo, se non sono sottoterra. Se sono ancora su quella strada polverosa ad Aq Vetina. Se sopra di loro non potrà crescere alcun albero – non se lui non ve lo pianterà. Tobo non è marciato via: è rimasto lì, con loro.

Fissa Ruu, cercando di dirle con lo sguardo tutto questo, perché non ha idea di come dirlo, né di quanto stupido possa sembrare una volta detto ad alta voce, anche se nella sua testa ha perfettamente senso. Gliel’ha detto suo padre e anche sua madre. E Ruu lo fissa di rimando, in silenzio.

I passi degli altri Mandaloriani divengono sempre più attutiti. Din crede di udire solo il battito del proprio cuore, così rapido che quasi non batte affatto. Si porta le mani al petto, come se così potesse riuscire a placarlo – fa troppo rumore e c’è così tanto silenzio, lì – e sente sotto la stoffa la sagoma del ciondolo che gli ha dato Ruu. Lo stringe con tanta forza che il metallo duro gli fa dolere le dita e gli intacca la pelle vicino alle clavicole.

Ruu è inginocchiata di fronte a lui, adesso.

Non sa se non l’ha vista avvicinarsi per via delle lacrime che gli offuscano gli occhi, o se semplicemente stesse vedendo altro – il loro orto, l’alberello di veshek che iniziava a inverdire, a far sbocciare piccoli fiorellini rossi in primavera che sua madre amava mettere tra i capelli.

«Ad’ika

Ruu pronuncia quella parola a cui non ha ancora dato un significato, ma che gli infonde quel senso di calma, come se fosse sempre aggrappato a una mano forte che lo tira verso l’alto, lontano dal buio ammuffito. In quel momento, le mani di Ruu si stringono sulle sue e allentano con delicatezza la morsa delle dita. 

Din la asseconda e inclina il viso verso l’alto per non far traboccare gli occhi; Ruu, però, glielo porta di nuovo verso il basso premendogli con una nocca sul mento. Din sente le scie bollenti che gli solcano le guance e batte le ciglia umide. Ignora le lacrime, fissando la linea orizzontale del visore a T. Fissandola negli occhi. Aspettando un . Anche se è sempre più lontano.

Ruu, però, non parla. Invece, porta le mani ai lati dell’elmo e stringe la presa. Din sobbalza e sgrana gli occhi come se avesse appena preso la scossa toccando il metallo quando la vede sollevare l’elmo verso l’alto, scoprendosi il volto. 

E Din continua a fissarla, stavolta davvero negli occhi. Uno sguardo nocciola e dai contorni sottili ricambia il suo, intento a osservarla come mai gli sembra di aver mai osservato un volto in vita sua.

È giovane, molto più giovane di quanto si sarebbe aspettato nel sentire la sua voce resa metallica dal casco. La pallida luce notturna ricalca lineamenti decisi e aguzzi, in altorilievo, col naso alto e lungo incurvato da una lieve gobba. Un piccolo neo le segna lo zigomo, mentre macchioline più chiare le screziano la pelle ambrata sotto il mento, proseguono lungo la linea decisa della mandibola e scompaiono sotto il colletto alto della tuta di volo. 

Ma ciò che più di ogni altro dettaglio cattura la sua attenzione sono le sottili treccine in cui sono raccolti i suoi capelli scuri, che le ricadono esattamente all’altezza del bordo dell’elmo. Senza pensare, Din tende una mano esitante a sfiorarne una, prendendola tra due dita e facendole scorrere su quei rilievi morbidi.

Vede Ruu irrigidirsi e fa per lasciarla, temendo di aver fatto qualcosa di male, per poi vedere le sue labbra piccole piegarsi in un sorriso morbido, anche se le pupille sono intente a seguire ogni più piccolo movimento della mano che le stringe la treccia.

«Ascoltami,» dice poi, piano, riportando lo sguardo su di lui. La sua voce è bassa, vellutata, gli richiama le vibrazioni basse di un flauto nel modo in cui modula ogni sillaba che pronuncia. «I tuoi genitori sono già marciati via.»

Din scuote appena la testa, senza capire, ma negando quel fatto impossibile. Lascia andare la treccina. No. Se non possono tornare a dare vita, non possono nemmeno marciare via. Non cambia niente. Ripiega le labbra su se stesse, combattendo contro un’altra ondata liquida che gli risale agli occhi e che di nuovo rimane in bilico sugli argini, pronta a farsi cascata.

«Ascoltami,» ripete Ruu, e stavolta il suo sguardo si fa duro, con le iridi che si fanno più scure, della sfumatura del miele cristallizzato sul bordo di un barattolo. «Tu diventerai un Mandaloriano. Lo sei già, in parte.» Gli sfila il ciondolo da sotto la tunica, adagiando il teschio del mitosauro al centro del suo petto. «E noi Mandaloriani non abbiamo bisogno di seppellire nessuno. Non serve una tomba: tutti trovano la loro Via, una volta che iniziano a marciare.»

«Ma dove marciano?» insiste Din, per nulla convinto.

Ruu a quel punto sorride di nuovo, mestamente.

«Verso di noi,» risponde, senza esitare. «A volte ci raggiungono, e riusciamo a sentirli. Altre volte sono troppo distanti e ci sembrano lontani, ma finiscono sempre per tornare da noi, alla fine, o noi da loro.»

Din tace. Tocca con la punta delle dita il teschio del mitosauro, liscio e ancora tiepido, scaldato dal suo corpo. Tira silenziosamente su col naso. Lui non sente proprio niente, ma non lo dice.

«E come fai a capire quando sono vicini?»

Stavolta è Ruu a scuotere la testa.

«Lo capirai e basta. Te ne accorgerai nei momenti più impensati. Non saprai spiegarti perché quel suono o quell’immagine o quell’odore ti abbia riportato da loro, ma lo sentirai.»

Fa una pausa, unita a un piccolo sospiro che si condensa nel buio. Din la guarda, aspettando ancora un  nascosto dietro a tutte quelle parole, un desiderio che si fa sempre più minuscolo fino a rifugiarsi in un anfratto nascosto del suo cuore. Una spina piccola, ma dolorosa, di quelle invisibili che rimangono sottopelle e sembrano non andare mai via.

«Però io adesso non li sento,» confessa infine, sviando per un secondo lo sguardo, come aspettandosi di vedere qualcosa che gli ricordi sua madre e suo padre. 

Di vederli, magari. Trova solo il nero bluastro della foresta e il brillio delle stelle. Ruu gli inclina di nuovo il viso verso di lei con una spinta gentile sul mento. Din sente la ruvidezza delle lacrime prosciugate sulle ciglia, ma non porta la mano a sfregarsi gli occhi.

«Lo so. Anche a me manca chi ho perso,» pronuncia, con una stilla di tristezza che quasi punge anche lui. «Ma siamo tutti parte del mandaadi’ika. Parte dell’anima di coloro che sono marciati via, ma che continuano a guidarci. Non ci perdiamo mai e non perdiamo mai nessuno, non per davvero. Li ritroveremo sempre, basta seguire la Via.»

A quell’ultima affermazione Din la guarda, serio. Con i pensieri che, per un attimo, si staccano dal presente e vanno indietro, anche se solo di poche ore: vanno a Azi Sten’ka, alla sua armatura massiccia e alla sua voce ringhiante. Vanno a ciò che lui ha detto a Ruu – che non ha capito, ma forse può intuire. Vanno a quella parola che gli ha rivolto, guerriero. Una parola che, per lui, esiste solo nelle costellazioni... esiste solo per ritrovare la strada di casa. 

La Via.

E tutto ha improvvisamente senso – in quell’attimo di fronte a Ruu, sotto lo sguardo feroce ma benigno del Guerriero, lontano da casa ma vicino, da qualche parte che ancora non conosce, ai suoi genitori. Ha senso, in un mondo che ha cessato di averne da quando quell’esplosione gli è rimbombata nelle orecchie spazzando via sua madre e suo padre e la sua vita.

«Solo i Mandaloriani seguono la Via.» 

Voleva che fosse una domanda, ma l’intonazione gli sfugge all’ultimo, ricadendo verso il basso.

«Sì,» risponde Ruu senza guardarlo. Gli ripone il ciondolo sotto alla casacca. «Anche se non ce n’è solo una,» mormora, a voce così bassa che stenta a sentirla.

Ciò che ha appena detto rischia di non avere di nuovo senso, così sceglie semplicemente di ignorarlo. Prende un grosso respiro, inalando l’aria umida e screziata di caprifoglio che ristagna nel bosco notturno.

«Devo diventare un Mandaloriano.»

Ruu esita, a quella affermazione che racchiude anche una domanda. Per un istante i suoi occhi schizzano via per poi tornare fermi e incrollabili.

«Sì,» ripete, ancora più piano.

Din abbassa lo sguardo e si chiede se i Mandaloriani dicano le bugie. Si chiede se sia vero, che i suoi genitori stanno già marciando verso di lui – e se è vero quello, è vero anche che lui deve trovare la Via per raggiungerli. E ha bisogno che sia vero.

«Come si fa?» chiede infine, rialzando il viso.

Così come pochi giorni fa le ha chiesto, confusamente, come si onorasse qualcuno che è marciato via.

Ruu non risponde. Sorride e basta, anche se ha gli occhi tristi, per poi farsi scivolare di nuovo in testa l’elmo. Din la fissa in volto finché questo non viene del tutto coperto dal visore, e scopre di riuscire comunque a vederlo, come in trasparenza. Quel pensiero lo fa sorridere senza un vero motivo, come se adesso condividessero un segreto. Ruu gli dà un buffetto sul mento, riscuotendolo, e fa un cenno deciso del capo verso la direzione in cui sono spariti i suoi compagni.

«Ke’taab, ad’ika,» gli ripete soltanto, stavolta dolcemente, prima di incamminarsi davanti a lui.

Din guarda verso l’alto, verso il Guerriero stagliato nella volta celeste. Per la prima volta, nella sua figura angolare scorge la sagoma di un visore a T. Inspira a fondo, prima di muovere quel primo passo.

Poi, riprende a marciare sulle orme sicure di Ruu.


 


 



Note&Glossario:

[1] Aq Vetina è il pianeta su cui è nato Din. Quando ho scelto Concord Dawn come suo luogo di nascita, questa informazione non era ancora stata rilasciata... quindi, mi sono attaccata a un cavillo per far quadrare le cose: nella guida ufficiale, la formulazione è "his home Aq Vetina". Non vi è alcun riferimento diretto al fatto che sia un pianeta (on Aq Vetina)... quindi, in questa storia, è diventata una cittadina su Concord Dawn :D
– Il mito delle tre lune è blandamente ispirato a quello norreno di Hati e Sköll + tropo dei tre fratelli presente in molte fiabe/favole.
– I tooka, i blurrg, i massiff e i narglatch sono esseri esistenti nell’universo di Star Wars, così come l’albero di veshek. La pianta di kisiwa, invece, è di mia invenzione.
NB. Il massiff è l’animale da guardia dei Tusken che Din accarezza dell’episodio 2x01.


 Kaysh ven’cuyir verd-> Lui diventerà un guerriero.
– Ni kaysh bajur sa verd!-> lett. Io lo educherò/crescerò come un guerriero. Nel voto matrimoniale mandaloriano figura la frase "ba’juri verde", ovvero "cresceremo guerrieri". Di qui la crucialità di questa frase, che contiene la volontà implicita di un’adozione.
– Ruusaan, k’olar!-> Ruusaan, muoviti!
– K’uur! Olaror!-> Zitto! Arrivo!
– Ke’taab-> Continua a marciare aka il leitmotiv della storia

 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori... credevate di esservi liberati di me? E invece!

Ho patito molto per scrivere questo capitolo... o meglio, ho patito a scrivere il prossimo, che è la diretta continuazione degli eventi nella miniera. Questo, a dir la verità, è uscito fuori di cuore.
Era dagli inizi della storia che avevo in mente questa scena, ovvero Ruu che si mostra in volto a Din e la successiva spiegazione sul manda (che aspettavate da un po’, lo so, e anche se non è ancora completa spero che il concetto generale vi sia piaciuto). Insomma, ho capito che dovevo scrivere questo momento, prima di far proseguire la trama principale: avevo bisogno di esplicitare alcuni concetti e dinamiche finora rimaste in sordina.

Se vi sembra che ci siano delle incongruenze... vi assicuro che non ci sono. Se vi sembra che Ruu si comporti in modo strano, è così. Se il nome Azi Sten’ka non vi suona familiare, vuol dire che avete avuto la fortuna di non studiare storia russa. Se vi state chiedendo da dove escano quelle leggende&costellazioni, la risposta è: "dalla mia testa" (con un input prezioso da parte di Helmwige ♥). Se non vi tornano i flashback di Ruu e il ruolo della Tribù, don’t panic, ci stiamo arrivando.

Dopo queste note esose, posso solo dire che spero di aggiornare presto e di tornare dai nostri "tizi in miniera"... che adesso posso far accadere cose :D
Alla prossima, e grazie a tutti voi che seguite, commentate e supportate questa storia ♥

-Light-

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Star Wars / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_