Il
giorno che mi cambiò la vita
9-10
luglio 1935
Mi
porto una
mano ai capelli appena accorciati. Li sento ancora estranei, come non
appartenessero al mio corpo, ma so che è solo
un’impressione e presto mi
abituerò. Ciò che mi duole notevolmente, dopo
questo improvviso cambio di
acconciatura, è il modo in cui si prende gioco di me
Aberforth. Comprendo che
possa essere geloso del successo che riscuoto tra le fanciulle del
paese, ma
non credevo trovasse così tanto interesse nel rendermi
ridicolo in qualsiasi
occasione. Questo è l’unico vero motivo per cui
aspetto con ansia la ricrescita
dei miei meravigliosi capelli color della pece.
Mi
specchio
incerto sull’acqua cristallina del ruscello appena a est del
paese dove con la
mia famiglia vivo dalla nascita. Il riflesso che lo specchio
cristallino
rimanda è il volto di un bel ragazzo adulto, i capelli scuri
che cadono in
riccioli scomposti sul viso, gli occhi di un incredibile blu oceano che
mi
rende estremamente fiero e il viso di un ragazzo che diventa uomo. Devo
ammettere, anche se con estrema riluttanza, che questo taglio di
capelli mi
rende più affascinante di quanto già non sia.
Allungo
un
braccio verso lo specchio d’acqua, che al mio minimo tocco
s’infrange creando
piccole onde circolari che si propagano per una breve distanza.
Ritraggo il braccio
con la mano grondante acqua. L’avvicino al viso e mi disseto
con un certo
sollievo: per essere appena incominciata, l’estate appare
molto calda rispetto
a quelle passate.
“Se
dipendesse
da te, passeresti il resto della tua vita al fiume” risuona
la voce di Miren,
chiara alle mie orecchie. Sorrido tranquillo, distendendomi sulle
pietre chiare
che fanno da sponda a questo ruscello. Abbasso le palpebre per un
secondo
infinito e mi abbandono allo scrosciare tranquillo dell’acqua
contro il letto
pietroso del fiume.
Sento
delle
pietre scricchiolare lievemente quando Miren si accomoda al mio fianco.
“Ti
senti così
bene in questo luogo, fratello?”
Sorrido,
volgendo il mio sguardo verso la ragazza. Ha la carnagione scura, come
dev’essere la carnagione di una fanciulla che, incurante dei
suoi doveri verso
la madre, passa le sue giornate a esplorare i boschi non lontani dal
paese.
“C’è
aria pura
e non disdegno il suono melodioso del fiume” è la
mia semplice risposta, poco
più di un sussurro e meno di un’esclamazione.
Anche Miren si abbandona ad un
sorriso.
“Aberforth
ti
cercava. Così nostra madre. Come me, anch’ella non
comprende la tua avversione
verso il paese”.
“Non
ho alcuna
avversione verso il paese. Semplicemente, preferisco i boschi. Come,
d’altro
canto, mi pare li preferisca tu”.
Il
suo
sguardo, prima di leggera derisione, ora si riempie di
felicità.
“Forse
posso
darti ragione. Devo dunque riferire a nostra madre che rientrerai in
paese solo
verso il volgere del tramonto?”. La sua espressione da
bambina cattura un altro
mio sorriso. Miren ha quindici estati, ancora, ma dimostra la
maturità di una
donna di venti, anche se dal corpo si capisce la sua dolce
immaturità.
“Credo
che sia
questo ciò da dirle. E, ti prego, non dire ad Aberforth dove
mi trovo, per un
giorno preferirei stare lontano dalle sue derisioni”. Le
strizzo un occhio, un
sorriso che increspa le mie labbra. Miren non può fare a
meno di ricambiare.
“Non
ti
preoccupare, Emmett, con me il tuo segreto è al
sicuro” e dette queste poche
parole, mi scruta ancora un attimo con i suoi grandi occhi blu e si
volge verso
gli alberi, che l’accompagneranno per un breve sentiero fino
a casa. Non ho
paura a lasciarla andare da sola, sono più che convinto di
avere una sorella
con un buon orientamento e anche un certo buonsenso. La vedo dunque
sparire tra
il folto della foresta con un ultimo, aggraziato svolazzo della veste
color del
cielo.
Mi
abbandono
dunque alla musica del fiume, chiudendo le palpebre e portando le
braccia
dietro al capo, creando così un cuscino provvisorio per la
mia nuca.
Ho
scoperto da
poco la presenza di una nuova fanciulla, in paese. L’ho
incontrata poco tempo
fa al mercato, mentre accompagnavo Ariana e Miren, stranamente
silenziosa, a
comprare alcuni ingredienti utili a nostra madre per la cena. Eravamo
alla
ricerca di pesce, quando è spuntata questa ragazza quasi dal
nulla, in
compagnia di altre due fanciulle che conosco molto bene. La fanciulla
mi ha
guardato, abbracciando con lo sguardo tutto il mio corpo, come a voler
valutare
la mia bellezza. Poi, con un sorriso raggiante indirizzato al
sottoscritto, si
è voltata verso le sue due amiche e ha incominciato a
confabulare cose che, tra
il caos del mercato, non sono riuscito a cogliere.
È
una bella
ragazza. Ha la pelle chiara, di chi non esce molto spesso di casa, il
viso dai
lineamenti gentili e i capelli color del grano maturo. E ha anche uno
sguardo
penetrante, che in poche fanciulle sono riuscito a scorgere durante la
mia
modesta vita. Credo che anche questa nuova ragazza si sia infatuata di
me, come
d'altronde metà della popolazione femminile del paese. Non
me ne dispiaccio, ci
sono fanciulle molto carine nel semplice paesetto in cui vivo.
Ridacchio
mentre ricordo che Aberforth, di due estati più vecchio di
me, si dispiace
molto spesso di questa mia popolarità. E mi diverte
notevolmente vederlo
fumante d’invidia mentre, durante una delle nostre
passeggiate per conto di
nostro padre, una fanciulla si ferma a guardarmi maliziosamente. Devo
ammettere
che è un toccasana per il mio orgoglio.
Ricordo
con un
certo piacere due giorni fa, quando, in compagnia del mio fratello
geloso e
Miren, mi sono presentato davanti alla soglia di casa dei nostri vicini
per
chieder loro un favore da parte di mia madre. La figlia dei coniugi
Pilcher è
una ragazza di appena quattordici estati, ma non appena ha posato i
suoi occhi
scuri su di me ha incominciato a lanciarmi occhiate maliziose e sguardi
accattivanti. Non sono riuscito a contenere le risate mentre vedevo mio
fratello furente di rabbia. Lui -che per sua innata sfortuna ha
ereditato i
capelli rosso fuoco e ricci più di un nido di uccello di mio
padre- non attira
molto l’attenzione, come invece il sottoscritto riesce a
fare. Inoltre, con la
sua aria da severo intellettuale, dubito fortemente che molto presto
anche una
sola ragazza possa posargli gli occhi indosso. Al contrario mio, che a
detta di
alcuni occupo i sogni di molte fanciulle del paese.
Scappa
un’altra risata.
Passo
il resto
della giornata così, ha ridere delle sceneggiate di gelosia
di mio fratello, a
riempire lo stomaco dei volatili che tranquilli mi si avvicinano -poco
tempo
fa, mentre un pettirosso grande come il palmo della mia mano mi si
avvicinava
tutto tranquillo, Miren ha scherzato dicendo che anche gli uccelli mi
venerano,
scatenando così un’altra sfuriata da parte di
Aberforth- e a dissetarmi con
l’acqua limpida del fiume.
Arriva
il
tramonto che sono comodamente seduto sulla riva sassosa ad accarezzare
un
castoro che, particolarmente incuriosito dal raduno di volatili, si
è
avvicinato in cerca di cibo. Ha il pelo fulvo e morbido come i capelli
di
Ariana. I denti che fanno bella mostra di sé sulle labbra di
questo magnifico
animale luccicano mentre l’astro dorato del giorno lascia
posto a quello
argenteo della notte.
“Mi
dispiace
amico, ma Miren mi ha intimato di ritrovarmi a casa al calar del sole,
e certo
non posso attardarmi. Ti auguro, mio piccolo amico, di non vedere mai
mia
sorella arrabbiata” dico con un sorrisino compiaciuto sul
volto. Il castoro mi
guarda mentre mi alzo e mi sgranchisco le membra indolenzite. Poi, dopo
che gli
lancio un’ultima occhiata fugace, capisce che non
potrò restare ancora con lui
a ‘chiacchierare’ e si allontana sgambettando
fiero. Mi avvio dunque verso la
strada di casa.
“Emmett!”
mi
accoglie la voce cristallina di Ariana non appena varco la porta
d’entrata di
casa.
“Ciao
peste” saluto
prendendola in braccio. La bambina -di appena dieci estati- ride con la
sua
tipica risata cristallina e mi scocca un bacio in guancia.
“Incominciavo
a preoccuparmi fratello. Ma infondo, dovevo ricordare che sei famoso
per i tuoi
ritardi” risuona la voce di Miren. Guardo oltre il corpicino
di Ariana e le
sorrido. Questa mi guarda per un attimo, trafiggendomi con il suo
sguardo blu
notte, quindi si volge verso nostra madre, appena spuntata dalla porta
della
cucina.
“Sono
delusa,
figlio mio. Credevo che ancora un po’ di buon senso
albergasse nella tua testa.
Quando una madre chiama, il figlio deve rispondere. Mi ferisce questa tua
ostinazione a non ascoltare le persone” mi dice, ma il suo
sguardo sorride.
“Mi
dispiace
madre. Cercherò di farmi perdonare”.
“Bene,
è
quello che volevo udire. Vieni in cucina, apparecchia la tavola per una
persona
in più. Questa sera viene a cena da noi un amico di tuo
padre” e sparisce di
nuovo in cucina. Aggrotto le sopracciglia in direzione di Miren, che
alza le
spalle con non curanza.
“Chi
sarebbe
l’amico di nostro padre?” chiedo, facendo scendere
dalle mie braccia Ariana.
“Un
collega.
Viene dalla città. Porta notizie importanti di lavoro, credo
voglia discutere
con nostro padre su un nostro possibile trasferimento vicino alla casa
dove lui
abita con la moglie e le due figlie. Dice che pagano molto meglio in
città” e
noto dal suo sguardo che porta rancore a questa persona sconosciuta.
Non
posso biasimarla,
so quanto adora il paese in cui viviamo e come disapprova i
cambiamenti. In
fondo, neanch’io mi sento particolarmente soddisfatto di
questa notizia. Adoro
il nostro umile paese e le città caotiche non le tollero
volentieri.
“Per
me
dovrebbe ritornarsene alla sua città. Noi vogliamo restare
qui e non
interessano a papà le offerte di lavoro che
quest’uomo ci porta” borbotta
Ariana, mostrando il suo appoggio. Le sorrido.
“Non
dire
queste cose, oggi. Tienile per te. Anche se, devo ammetterlo, hai tutto
il mio
sostegno” e le scompiglio i capelli fiammeggianti. Ariana mi
sorride e sparisce
verso le camere da letto, dove so che incontrerà Aedan e gli
spiegherà quello
che è stato detto.
“Aberforth
non
è ancora rientrato in casa?” domando a Miren.
Questa, dopo aver lanciato uno
sguardo oltre i vetri della finestra, scuote la testa pensierosa e si
allontana
senza aggiungere altro.
Mi
avvio così,
un po’ sconcertato, verso la cucina, dove un buon odore si
espande e mi
solletica le narici.
“Cosa
cucini?”
chiedo a mia madre, voltata di spalle.
“Qualcosa
di
accettabile per un uomo che ha fatto tanta strada”
è la sua risposta.
Alzo
le spalle
ed incomincio ad apparecchiare la tavola per otto. Stento a credere che
in un
tavolo così piccolo possano mangiare tante persone, ma non
faccio commenti e in
poco tempo mi ritengo libero di potermi rifugiare in camera da letto.
Mi
allontano
dunque dai profumi dolci della cucina e vado in cerca della stanza di
Aedan, il
mio fratellino più piccolo, di appena cinque estati. Entro
in camera sua che
sento la voce trillante di Ariana. La mia sorellina è seduta
sul duro pavimento
di pietra e sta giocando con il piccolo Aedan ad un gioco con i sassi.
Ne ha in
mano proprio in questo momento uno tondo e dal colorito molto scuro.
“Ciao
piccoli.
Lo sai, Aedan, che non devi distenderti sul pavimento,
giusto?” chiedo, una
nota di divertimento nella voce a guardare quel bambino piccolo e
minuto che
tanto mi assomiglia, disteso a pancia in giù sul freddo
suolo, a guardarmi con
i suoi occhi incredibilmente blu e il suo visino tutto paffuto.
“Certo
capo”
esclama, ma non accenna a muoversi.
Sbuffo
con
finto nervosismo e mi siedo accanto al piccolo.
“Vostra
sorella?” chiedo, immaginando già la loro risposta.
“In
camera
sua, immagino”.
“Ovviamente”
commento, ironico. Noto che ora mi guardano e non giocano
più.
“A
cosa
stavate giocando?”
“Aedan
voleva
costruire una torre di sassi. Io gli stavo spiegando che con questi
sassi a
forma di uovo la torre crollerebbe subito. Non mi crede”
borbotta Ariana, e
capisco dal suo tono di voce che è dispiaciuta della poca
fiducia che il
fratellino ripone in lei.
“Dai,
vediamo.
Prova a fare questa torre, Aedan” dico allora, incitando il
bambino con lo
sguardo. Vedo Ariana gonfiare le guance e incrociare le braccia,
offesa. Allora
le sorrido e volgo il mio sguardo di nuovo sul piccolo Aedan. Questi,
la lingua
tra i denti in un’espressione di concentrazione, ha messo un
sassolino
abbastanza piatto per terra e ora sta poggiandoci sopra un secondo
sasso, molto
più rotondo rispetto al primo.
Quando,
però,
abbandona l’oggetto contro il sasso piatto, il sasso tondo
scivola sulla
superficie liscia del primo sasso e cade a terra con un rumore
soffocato. Vedo
Ariana sorridere, trionfante.
“Io
che avevo
detto?”
“Forza
Aedan”
dico, cercando di trattenere il sorriso alla vista di Aedan tutto
deluso.
“prova ancora”.
Aedan
poggia
un altro sasso, un po’ più piatto del precedente,
sul primo sasso e questa
volta -Ariana sbuffa infastidita- riesce a farlo star in equilibrio.
Rido
senza
freni.
“Avanti
Aedan.
Il prossimo” e, per non far arrabbiare la mia sorellina, le
regalo un
occhiolino. Ma Ariana volta il capo e gonfia ancor di più le
guance, sembrando
così una gallina particolarmente paffuta.
Aedan
prende
il sasso che per primo era scivolato sul pavimento e lo poggia sui
primi due
sassi. Come previsto da Ariana, il sasso cade trascinandosi dietro
anche quello
che era riuscito a star fermo.
Così
il mio
fratellino continua per qualche tempo ad ammontare sassi su sassi,
arrivando
così alla conclusione -non senza molta riluttanza- che
probabilmente Ariana
aveva ragione.
In
quel
momento entra Miren.
“La
cena è
pronta. Porta Aedan e Ariana a lavar le mani, Emmett” dice, e
chiude nuovamente
la porta.
Mentre
mi alzo
e aiuto Aedan a far altrettanto, mi rivolto ad Ariana.
“Miren
ha
avuto problemi quest’oggi?”
La
bambina ci
pensa su.
“Credo
abbia
parlato con Delmar. Hanno avuto una discussione, a quanto so. Miren era
molto
arrabbiata quand’è rientrata in casa”.
Annuisco,
soprappensiero, mentre porto i miei due fratellini a sciacquarsi le
mani.
Delmar
è un
vecchio amico di giochi di Aberforth e, si sa da molto, fa la corte a
Miren.
Lei non l’ha mai voluto, ma stando lui continuamente nelle
vicinanze di mia
sorella sono divenuti in qualche modo amici. Se hanno avuto una tale
discussione da far arrabbiare Miren, allora Delmar deve aver fatto
qualcosa di
sciocco.
Quando
entriamo in cucina il profumo che prima era solo una brezza permea
tutta la
stanza. Al tavolo sono seduti Aberforth, Miren, nostro padre e un uomo
che
dev’essere l’amico di cui ha parlato Miren.
Mi
siedo di
fronte proprio a quest’uomo, così che ho il
permesso di guardarlo senza
sembrare invadente. Noto che ha il viso rigato
dall’età, molto più di quello di
mio padre. In compenso, ha due occhi azzurri come l’acqua
più cristallina.
Mentre incrocio il suo sguardo mi sento quasi in soggezione a fissare
quegli
occhi tanto chiari, tanto che distolgo velocemente i miei occhi.
Si
presenta a
noi come Joseph Cavendish. Ha una voce profonda e lenta, dello stesso
suono di
una musica lontana dal tempo.
A
contrario di
come la mia mente l’aveva figurato, sembra un uomo tranquillo
e posato, che
pensa molto alla salute di mio padre e che crede seriamente in un
beneficio nel
trasferimento nostro in città. Da come lo guarda Aberforth,
capisco che la
pensa al mio stesso modo. E anche incrociando gli occhi di mio padre
percepisco
il mio stesso pensiero in lui. Forse ci sarà un nuovo
trasferimento tra qualche
giorno.
All’alba
del
giorno dopo la cena con Joseph Cavendish sono già in piedi a
guardare fuori
dalla finestra della camera che divido con Aberforth. Mio padre
è sembrato
molto deciso sul fatto di volersi trasferire e le continue suppliche di
Miren
non sono servite a nulla. Il risultato è che, molto
probabilmente, tra una
decina di giorni saremo in viaggio per la città. Miren, dopo
una discussione
animata con nostro padre, è uscita dalla cucina sbattendo la
porta e si è
chiusa in camera sua e di Ariana. Nessuno è riuscito a
parlarle e la porta è
stata aperta solo per far entrare Ariana a dormire. Ho il sospetto che
non
rivolgerà più la parola né a nostro
padre né ad Aberforth, che durate la
discussione ha costantemente sostenuto la parte di nostro padre. Forse
proverò
a parlarle io, in questa giornata. Non è per vantarmi, ma
credo di essere il
suo preferito tra i nostri fratelli. Sarà, forse,
perché abbiamo solo due
estati di differenza e ci comprendiamo più di altri.
Sento
distintamente mio fratello mugugnare qualcosa di insensato. Mi volto e
lo trovo
ancora immerso nel mondo dei sogni. Ha un’espressione
tranquilla, quando dorme,
molto più angelica della sua espressione da sveglio. Forse
devo dire di
preferirlo immerso nel mondo dei sogni...
Cercando
di
far il meno rumore possibile, esco dalla stanza e mi dirigo verso la
cucina. Lì
trovo mia madre che, come molte delle volte che la guardo, cucina. Mi
rivolge
un saluto stanco e non alza il volto dal suo elaborato.
Mi
siedo così
alla tavola e la guardo mentre taglia delle fette di pane scuro. Da
piccolo mi
piaceva passar la giornata a guardarla cucinare, osservare il modo in
cui si
aggirava tranquilla tra i fornelli e tagliava le varie pietanze con
dimestichezza, senza mai ferirsi. Quest’oggi, mentre la
guardo, mi sembra di
ritornar bambino.
Passano
alcuni
minuti e poi la porta si apre, svelando il volto assonnato di Ariana.
“’Giorno”
biascica, accasciandosi sulla sedia accanto alla mia.
“Buongiorno
tesoro. Come mai sveglia di così buona mattina?2 chiede mia
madre, volgendo
finalmente lo sguardo lontano dal cibo. Ariana scuote il capo, poi si
stropiccia gli occhi con le mani e mi fa un gran sorriso.
“E
tu, Emmett,
come mai sveglio già all’alba?”
Mi
stringo
nelle spalle e le sorrido di rimando.
“Pensieri,
mia
piccola Ariana. Molto pensieri per la testa” è la
mia risposta.
“Vediamo
che
non ti scoppi la testa, allora” giunge una voce alle mie
spalle. Voltandomi
vedo il volto da bambina di Miren.
“Buongiorno
anche a te, Miren. Ancora rabbuiata per ieri sera?”
La
risposta di
mia sorella è una linguaccia.
“Miren,
su.
Non fare quella faccia, vieni qua ad aiutarmi, piuttosto”
dice mia madre, di
nuovo rivolta al suo cibo. Miren, dopo avermi lanciato
un’occhiata che
significava con buone probabilità ‘salvami, ti
prego’, si avvicina a nostra
madre e incomincia -di malavoglia- ad aiutarla.
Passano
ancora
attimi di silenzio, in cui Miren posa sul tavolo, davanti a me ed
Ariana, una
tazza di latte e delle focacce.
Poi
nostra
sorella si siede accanto a me ed incomincia a mangiare, mentre anche
nostra
madre si riposa un attimo e beve un sorso di latte. Ariana beve tutta
la sua
tazza con un gran sorriso soddisfatto in viso e addenta una focaccia
tutta
pimpante.
Quando
il sole
è già alto in cielo io sono già uscito
di casa al fianco di Miren -lei deve
andare a comprare altro pane per nostra madre, mentre io mi
dirigerò come mio
consueto nei boschi per godere della poca aria pura che mi rimane prima
di
ricominciare il lavoro e bere ancora dal ruscello che tante volte mi ha
visto
affacciato alle sue acque.
“Ci
vediamo
stasera, Miren” la saluto mentre l’incrocio che
dividerà le nostre strade si fa
più vicino. La vedo storcere il naso.
“Non
sperar
troppo Emmett. Può darsi che venga a disturbare la tua
quiete estiva anche
prima del calar del sole” è la sua risposta mentre
si allontana. Sorrido e scuoto
il capo. So che farà proprio quello che ha detto.
*§*
Vedo
l’enorme
animale farsi sempre più vicino. Non ho
possibilità di vincere contro la mole
dell’orso, né una minima possibilità di
fuga. Posso solo aspettare la mia
morte, qui, acanto a questo albero dalla corteccia ruvida, chiudendo
gli occhi
e usando i miei ultimi attimi di vita per ripensare l’ultima
volta ai miei
familiari.
Il
primo
attacco dell’animale giunge presto, facendomi piegare
così in due dal dolore. Mi
scaraventa lontano dall’albero a cui ero inchiodato e
l’impatto con il suolo mi
toglie il respiro.
Si
dice che
nel mentre il corpo esala il suo ultimo respiro vien da pensare alla
vita che
si ha avuto e la ci si vede scorrere davanti come un fiume in piena.
Ciò che i
miei occhi vedono, però, oltre all’orso bruno
pronto per un nuovo attacco, non
è la mia vita che mi scorre davanti al viso.
Vedo
il volto
di Aedan, piccolo ma già consapevole di ciò che
fa. Vedo il volto rigato dalle
lacrime mentre i nostri genitori annunciano la mia morte. Vedo Ariana,
accovacciata
accanto a lui, fissare con insistenza il vuoto a lei di fronte, intenta
a fare
chissà quali pensieri su quello che le hanno appena
comunicato. La vedo
singhiozzare sommessamente, cercando forse di nascondere le sue
debolezze come
suo solito. Vedo Aberforth accanto a lei, una mano sulla sua spalla e
l’altra a
tenersi il viso. Vedo un brillio, in quella mano, forse la sua prima
lacrima da
che è venuto al mondo. Vedo i miei genitori abbracciati, il
volto di mia madre affondato
nella spalla di mio padre, il corpo che si muove in preda a singhiozzi
che non
riesce a reprimere, mentre mio padre, stranamente privo di espressione,
le
batte dei colpetti lievi sulla spalla. E infine vedo Miren, mentre
torna a casa
dopo avermi cercato insistentemente lungo le rive del fiume dove mai
più
metterò piede. La vedo chiedere spiegazione ai miei
genitori, ricevere poche
parole frammentate dai singhiozzi. Mentre la consapevolezza si fa
spazio nella
sua mente, la vedo urlare un “No” deciso, il cui
eco si propaga per tutta la
stanza in cui è radunata la mia famiglia. La vedo correre
fuori di casa,
incrociare qualcuno che le chiede spiegazioni, che lei non fornisce. La
vedo
correre di nuovo al fiume, guardarsi intorno, poi buttarsi sulle pietre
chiare
della riva e stare lì, distesa, a guardare il vuoto, mentre
gli occhi piano
piano diventano lucidi per le lacrime che vorrebbe trattenere.
L’orso
sferra
un nuovo assalto e, mentre torno a terra con una fitta al fianco, sento
qualcosa
di appiccicoso e caldo scorrermi lungo il viso, inumidirmi gli occhi,
arrivare
fino alle labbra. Sento l’odore dolce e ferroso del sangue,
del mio sangue. E sento il ringhio
eccitato
dell’orso.
Sono
strani i
pensieri che mi giungono alla mente mentre l’animale sferra
il suo attacco
decisivo.
Penso
ad
Aberforth e Aedan, che quest’oggi non ho avuto il tempo di
salutare, e al
prossimo trasloco che aveva in mente di compiere mio padre. Si
farà, o solo per
causa mia disdiranno tutto? La mia morte farà restare la mia
famiglia in questo
luogo impregnato dei miei ricordi o li farà fuggire via,
troppo scossi e addolorati
per restare ancora dove le piante, il terreno, gli animali e le persone
mi
hanno visto crescere?
Poi
penso a
Ariana, che oggi non ho salutato come si deve perché avevo
urgenza di discutere
con Miren di ieri. Penso a mia madre, con cui ho litigato prima di
uscire
perché lei vorrebbe che dedicassi più tempo alla
famiglia che alla foresta. Si
sentirà in colpa per avermi lasciato uscire di casa che
eravamo entrambi
arrabbiati?
Il
mio ultimo
pensiero va a Miren. Mentre passeggiavamo per le strade, diretti in due
luoghi
diversi, mi ha raccontato il sogno che l’ha fatta star
sveglia da notte fonda
fino all’alba.
Mi
ha
raccontato di aver visto un bosco, molto simile al bosco vicino al
paese, in
cui ora io sto morendo, ma con molte più foglie e con una
luce stranamente
rossa. Mi ha detto di aver seguito un orso, che poi si è
scansato per mostrarle
l’immagine di me, disteso tra le foglie rosse del mio sangue,
gli occhi
spalancati e un’espressione di terrore dipinta in volto.
Guardava la mia fronte
macchiata di sangue, le braccia aperte come a chiedere un ultimo aiuto
dal
cielo, lo sguardo vitreo.
Quell’immagine
di me da morto, mi ha raccontato, l’ha tormentata per tutto
il giorno,
distraendola perfino dalla litigata con nostro padre. Ora, che
saprà di aver
sognato proprio quello che è accaduto, cosa
penserà di se stessa? Si sentirà in
colpa -assurdamente, vorrei aggiungere- per non avermi fatto restare in
casa,
al posto di farmi andare dritto in bocca alla morte?
Un
ringhio
riempie le mie orecchie. È strano, ma sembra diverso da
quello della bestia che
sta distruggendo la mia vita. Più... feroce, meno di
desiderio.
Attendo
con il
sangue che mi cola dalla gola l’ultimo colpo decisivo che mi
toglierà il
respiro. Ma i secondi scorrono e, dopo aver sentito il tipico rumore di
un peso
morto che cade al suolo, incomincio a capire che il ringhio che ho
sentito non
era dell’orso propenso ad uccidermi. Forse, pensa il mio
cervello prossimo alla
morte, è un altro orso che mi vuole tutto per sé.
Ma
ciò che mi
solleva dal suolo, un attimo dopo questo pensiero, non sembrano per
nulla le
possenti zampe di un orso affamato. Sembrano, invece, delicate braccia
di un
uomo. Molto delicate, dal modo in cui mi prendono con loro con
leggerezza e
attenzione.
Mentre
apro
gli occhi in un ultimo disperato tentativo di individuare la persona
che mi
vedrà morire, il sole sfugge alle fronde voluminose degli
alberi e illumina il
mio volto. E così si mostra alla mia vista affaticata chi mi
ha salvato la
vita.
È
una donna,
la carnagione chiara, i capelli dello stesso colore dei raggi di sole e
due
profondi, penetranti occhi scuri.
È
un angelo, pensa
la mia mente morente. E
le do ragione.
L’ultima
cosa
che vedo, prima di lasciarmi abbandonare all’oblio che mi
reclama, è il mio
angelo che mi porta in cielo con una velocità che avrei
creduto impossibile. Finalmente,
dopo questa visione, sono sicuro di aver visto tutto quello che
c’è da vedere
al mondo. Ma non so ancora quanto mi sbaglio...