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Autore: Julie Sarret de Angrogne    07/04/2021    0 recensioni
E se Erik e Jack the Ripper fossero amici di vecchia data legati da una misteriosa maledizione? Feroci delitti, simili a quelli avvenuti a Londra undici anni prima, turbano la Parigi di fine secolo. L'ispettore Michaud indaga, ma una intraprendente e pasticciona giornalista si mette di mezzo scombinando i piani di tutti quanti. Pastiche benevolmente ironico delle tematiche e i personaggi creati da Leroux, Kay, ALW, Rider Haggard e Pierre Benoit, con debiti verso scene di film famosi. Fantastico, ironia, un pizzico di grand guignol, malizia, sesso soft, qualche parolaccia, molte sorprese.
Genere: Azione, Satirico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/Il fantasma, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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SUI TETTI

(Dove cercando un assassino si trova un Fantasma)

 

Sapeva quanto l’ispettore Michaud la odiasse; dal più profondo delle viscere, con tutta la sua anima e le sue forze. Lei aveva riso di gusto quando il suo informatore le aveva rivelato la tremenda scenata avvenuta negli uffici della polizia, dopo la soluzione del caso della “Bambina dal vestito verde”.

- Quella suffragetta mancata! Quella specie di George Sand! Quella novella Nathalie Lemel!|Non perde occasione per ridicolizzarmi!

Il vecchio bacchettone non aveva ancora capito che alla fine della sua epoca mancava davvero poco; anzi, con la punta delle scarpe stavano già nel ventesimo secolo. E come ogni maschio non riusciva a capacitarsi del fatto che il futuro appartenesse alle donne, almeno in buona parte.

Ovviamente, una delle cose che gli davano particolarmente fastidio era che lei indossasse tanto spesso i pantaloni. In quel caso, la rimirava con assoluto e palese disgusto. Sotto le sopracciglia aggrottate, a lei sembrava di vedere sfilare, scritti a caratteri di fuoco, gli anatemi della saggezza popolare: "La donna onesta ha le ginocchia sporche”; “Una donna che porta i pantaloni si porta male”.

Comunque i pantaloni erano comodi in occasioni come questa, che la vedeva arrampicarsi per i tetti dell’Opéra di Parigi.

Uscire su quei tetti inondati di sole, dopo la semioscurità delle scale, era stato come entrare in una fucina. Dovunque lampeggiavano riflessi abbaglianti e roventi: dai camminamenti tappezzati piombo agli spioventi laminati di zinco e le cupole di rame ossidato, al biancore e le dorature delle statue. Quella era un’altra città sospesa, meandrica quanto il sottotetto e i sotterranei. E non meno pericolosa, considerata la preda della caccia.

Al buon Michaud sarebbe venuto un infarto se avesse soltanto sospettato che lei si trovava lassù mentre lui e i suoi uomini si perdevano dabbasso, tra i marmi e le dorature del teatro, nelle consuete procedure di investigazione. Domande inquisitive, risposte perlopiù inconsistenti, sguardi sbigottiti, ricerche inconcludenti, verbali… Insomma, una perdita di tempo.

La pistola puntata, la donna si mosse su quel terreno sconosciuto. Scivolare era un attimo, magari pur senza volare di sotto ma rischiava di farsi abbastanza male. Cercò di ricordare i particolari della mappa del tetto, ma ogni elemento, così ingrandito e abbagliante, era pressoché irriconoscibile.

Le statue sogghignavano al suo smarrimento dall’alto della loro fulgida intoccabilità.

Passando accanto a un lucernario colse la propria immagine. Se non fosse stato per i capelli castani annodati dietro la nuca in una lunga treccia, quello avrebbe potuto essere il riflesso di un giovanotto alla moda, in calzoni color crema e giacca turchina. Forse però si sarebbe dovuta mettere un cappello. Il sole estivo picchiava sui rivestimenti di metallo come un martello su un’incudine.

Si muoveva cercando di fare il minimo rumore possibile per non spaventare i piccioni che nidificavano ovunque, e da subito aveva escluso dall’attenzione i suoni che salivano dalla piazza e dai viali attorno al teatro, riducendoli a un’eco di risacca in sottofondo. Tutti i suoi sensi erano concentrati in quello spazio incastonato tra cielo e terra.

L’aria era percorsa da un tremolio scintillante che distorceva i contorni delle cose. A margine del suo campo visivo, la città si protendeva all’orizzonte come uno sconfinato miraggio.

Silenzio. Luce. Silenzio...

Uno sciabordio come di acqua smossa. La donna si fermò, cercandone la fonte con lo sguardo. Sapeva dalla mappa che non lontano da lì si trovavano le cisterne nelle quali le piccole ballerine a volte sguazzavano e imparavano a nuotare, ma non si sentiva il vociare che quella attività avrebbe inevitabilmente prodotto.

Strisciò cautamente lungo il fianco della cupola.

C’era qualcuno, a non troppi metri di distanza da lei, ma l’intensità della luce riflessa non lasciava distinguere altro che una sagoma nera e sottile, come pennellata sullo scenario abbagliante dei tetti. Quella sagoma si stava avvolgendo pigramente in un ampio pezzo di stoffa simile a un mantello.

La donna prese un profondo respiro; quindi, in tono fermo e chiaro intimò:

- Polizia, fermo...

Nemmeno il tempo di completare la pur breve consueta battuta. Un guizzo, un turbinio del mantello che sembrò accendere i riflessi delle dorature in un fuoco d’artificio abbagliante. Lei batté le palpebre, accecata per un attimo. La forma scura era scomparsa, come se avesse spiccato il volo aldilà della cupola.

Ma lei non si lasciava spiazzare facilmente. Superato quell’attimo di disorientamento, riprese ad avanzare con cautela. Sapeva che la struttura del tetto, fra statue, spioventi, lucernari e camminamenti posti a diversi livelli si prestava a creare anfratti e nascondigli di ogni genere.

Piano piano, due passi alla volta, guardandosi attorno…

Inutile.

Non udì alcun suono, prima di sentirsi afferrare alle spalle. Un braccio sotto al mento le immobilizzò la testa, un altro le cinse la vita.

- Non muoverti o ti spezzo il collo.

- Oh merde!

Una voce maschile calma, profonda, priva di emozioni.

- Una gentile signora che dice parolacce.

"Spiritoso!"

- Questa è meglio che la tenga io, per ora.

Un tocco gentile sulla mano liberò la pistola dalla sua stretta.

L’uomo le respirava tranquillamente nell’orecchio. Sentiva il calore della sua pelle, l’aroma del sudore ingentilito da una qualche fragranza esotica ma leggera, rose primaverili e limoni. Il braccio che la stringeva al collo era fermo, ma non brutale.

- E adesso dimmi chi sei e cosa fai qui.

- L’ho detto. Sono della polizia. Agente Rasselie Reymondet. Ormai non hai scampo, Jack.

- Jack? Credo che tu mi confonda con qualcun altro, bella signora.

La stretta attorno al suo collo si allentò, anche se il braccio continuava a tenerla ferma.

Sentì all’altezza delle reni, attraverso la stoffa della giacca, premere la canna della pistola. La sua pistola.

- Non ho niente contro di te, a parte che detesto che mi si disturbi mentre prendo il sole. continuò la voce con quel tono distaccato e cortese. - Ti farò uscire da qui, ma devi giurarmi di tacere sul nostro incontro.

Il braccio scivolò attraverso il suo petto, la mano le afferrò una spalla, spingendola leggermente.

- Quella porta laggiù.

Era una delle tante porte che davano sul tetto. Rasselie si incamminò, con l’uomo che la guidava davanti a sé e teneva la pistola contro la sua schiena. Avrebbe dovuto reagire immediatamente all’aggressione, ma il suo corpo non era riuscito a obbedire con prontezza alla mente, come soggiogato dal braccio che la stringeva alla gola. Eppure sapeva come liberarsene, i gesti sarebbero dovuti venire automatici, poche mosse basilari e adesso l’uomo sarebbe disteso ai suoi piedi, stordito e dolorante nelle sue parti più vitali. E invece lo aveva alle spalle, con quella mano che la sollecitava a camminare in fretta ma senza alcuna brutalità. Muovendo lo sguardo, vedeva le dita abbronzate contro il bianco della sua camicetta. Al mignolo luccicava un anello ornato di una gemma scura.

La luce la stordiva e quando attraversavano qualche ombra era come attraversare le tenebre. Il panorama attorno a lei sembrava sfarfallare come le immagini del cinematografo. Mentre oltrepassava la porticina mosse lievemente la testa, in parte per allontanare una ciocca di capelli che le era ricaduta sul viso, in parte attratta dal luccichio dell’anello.

La voce, per la prima volta, suonò secca e sibilante al suo orecchio.

- No, non osare voltarti. Comincia scendere le scale e ricordati che sono dietro di te. E ho la tua pistola.

Come dimenticarsene, con quella canna prepotentemente piantata nelle costole.

Piccole, buie e strette, così erano quelle scale, pressoché uguali a tutte le altre che portavano sui tetti. Rasselie cominciò a scendere cautamente. Gli scalini di legno scricchiolavano a ogni passo.

- Se non sei la persona che stiamo cercando, tutta questa scena è superflua. Non ci interessano gli stravaganti che prendono il sole sui tetti.

- E chi state cercando?

- Lo Squartatore di Londra, quello che è riuscito a fare fessa Scotland Yard. Quando i delitti cessarono di colpo, lo diedero per morto. Invece ha ricominciato a colpire qui a Parigi.

La mano che in parte la spingeva e in parte la guidava, aumentò la stretta sulla sua spalla.

- Zitta, zitta! Taci per un attimo. Non capisco di cosa parli.

- Leggi i giornali? Quella poveretta ammazzata in rue Monjol, ti dice nulla?

- Quasi ogni notte qualcuno finisce ammazzato da quelle parti.

- E ieri sera c'è stata un'altra vittima in rue Bréda.

- La polizia sospetta che questi delitti siano opera dello squartatore di Londra?

- Le modalità sono le stesse.

Rasselie ebbe l’impressione che l’uomo alle sue spalle avesse cominciato a tremare. Il passo sulle scale aveva esitato, il respiro si era fatto più leggero e veloce.

- Dunque pensate che dopo tutti questi anni...

- Se non è lui, si tratta di un emulatore. Comunque sia, deve essere fermato.

La scala sbucò su un angusto corridoio illuminato dai raggi di sole che piovendo da un lucernario si facevano strada a fatica fra travature, cavi, enormi verricelli, ingranaggi e marchingegni dall’aspetto minaccioso. Un incrocio tra il cuore di un orologio e il ventre della balena.

- Se io fossi chi tu credi, a quest’ora i tuoi organi interni decorerebbero già la mensola del mio caminetto. L’uomo alle sue spalle sembrava aver ritrovato la compostezza. La voce era calma, il passo di nuovo sicuro; e la mano, ferma, continuava a guidarla. Un’altra scala, un altro corridoio. Rasselie non aveva ormai idea di dove si trovassero. La mappa mentale mandata a memoria era ormai a brandelli.

Non sapeva in quali mani fosse capitata; ma era piuttosto difficile che fossero quelle spietate dello Squartatore londinese, pensò con sollievo. La voce che le parlava all’orecchio lo faceva in un francese perfetto, privo di particolari inflessioni. Forse solo l’ombra di un accento del Sud. Incuriosita, accennò di nuovo a voltarsi.

- Non farlo, se vuoi uscire da qui.

In effetti non avrebbe saputo cavarsela da sola, lì nel ventre della balena meccanica.

- Dove andiamo?

- Ci siamo quasi. Oltre quella tenda.

Si ritrovarono in uno dei tanti ambienti del sottotetto, una stanzetta ingombra di materiale di scena assortito e difficilmente identificabile, accatastato senza apparente ordine logico e evidentemente di nessun valore o utilità, dal momento che non si meritava la dignità di una vera porta a propria difesa, soltanto una vecchia tenda di broccato stinto, evidente scarto di sartoria, appesantita da anni di polvere. Lì la luce era davvero fioca e proveniva soltanto dal corridoio. Per questo nelle pareti erano infissi diversi portacandele schermati soltanto da lastre di vetro incrostate di nerofumo.

La mano dell’uomo si allungò sopra la sua spalla a indicare uno di essi, a lato di uno scaffale.

- Togli la candela.

Rasselie obbedì. Senza troppi cigolii, una sezione verticale alta ma piuttosto stretta dello scaffale ruotò su se stessa rivelando un’apertura ancora più stretta.

- Per tua fortuna sei magra. Altrimenti avrei dovuto strizzartici dentro a forza.

Un altro breve passaggio buio; poi, dopo un gomito del corridoio, una visione inaspettata.

Una grande stanza inondata dalla luce del sole che filtrava attraverso tende di merletto e giocava in ombre e scintillii sulla superficie laccata, il metallo e le corde di un gran numero di strumenti musicali sistemati senza apparente ordine logico: un pianoforte a coda; un’arpa; un violino posato su una panchetta tappezzata di velluto; un flauto lucente come uno stiletto, abbandonato su una pila disordinata di spartiti sopra quella che sembrava la custodia di un contrabbasso. E dappertutto, sul pavimento e diversi scaffali, decine e decine di libri.

Di fronte a loro un’altra porta, più ampia e decorata da fregi dorati.

- Entra.

La nuova stanza era ampia quanto la precedente ma illuminata in modo più discreto in quanto pesanti tende di velluto rosso scuro erano parzialmente chiuse su quelle di pizzo sottostanti.

L’uomo le alitò sul collo uno di quei sospiri che abitualmente ci strappa la visione delle mura domestiche.

- Se permetti… disse poi - vorrei rendermi presentabile. Il mio abbigliamento non è adatto a un rendez-vous con una signora.

Il mantello nero la sfiorò passandole accanto, scomparve dietro un alto paravento dipinto in stile orientale. Di nuovo il movimento era stato così rapido e repentino che lei non era riuscita a vedere null’altro che quel mantello: velluto nero e ricami di giaietto.

- Continua a raccontare. Perché la polizia dovrebbe cercare lo Squartatore qui a teatro?.

- Perché potrebbe averlo eletto a suo nascondiglio. Prima che venisse scoperto il cadavere in rue Bréda, un vetturino ha visto un uomo correre ed entrare attraverso il cancello che dà su rue Scribe.

- Impossibile, quel cancello è chiuso da anni. E poi come si possono mettere in relazione i due fatti? La gente corre per i più svariati motivi. E rue Bréda non è così vicina.

- Diciamo che la polizia sta valutando ogni possibile indizio.

- E cercano sui tetti un sospetto che dovrebbe trovarsi nei sotterranei?

- Una perquisizione deve pur cominciare da qualche parte.

- Mandando una donna in cerca di un assassino di donne?

- In realtà... Rasselie cercò freneticamente una scusa abbastanza plausibile - È un'idea che mi è venuta mentre perquisivamo i camerini. Voglio dire... salire sui tetti.

Un suono da dietro il paravento, simile a una risatina di scherno.

- Il povero ispettore Michaud non sa più come mantenere la disciplina.

La voce dell’uomo misterioso suonava divertita. Intanto Rasselie si guardava attorno. La porta che aveva appena oltrepassato, all’interno era ricoperta di cuoio rossobruno decorato di borchie. Tutto intorno c’erano poltrone, sedie e un lungo divano, tappezzati di velluto damascato scarlatto abbastanza scolorito e consumato, tavolini e scaffali, e dietro il paravento si intravedeva una sorta di guardaroba. C’erano tappeti sul pavimento e arazzi e quadri alle pareti. Ma l’elemento più imponente dell’arredamento era un ampio letto di mogano dalla testiera intagliata e ornata di un medaglione in ceramica, sormontato da un baldacchino dai tendaggi di broccato rosso. Sembrava che chi dormiva in quel letto si fosse alzato da poco dopo una notte abbastanza agitata. Le lenzuola e un cuscino erano finiti sul pavimento.

“O qui manca una cameriera.”

- Cos’è questo posto?

- Il mio appartamento.

La figura che uscì da dietro il paravento la stupì. L’uomo era molto alto e sottile, ma non dava un’impressione di magrezza; anzi, dal portamento appariva solido e forte. Ma ciò che più colpiva era il suo abbigliamento.

Indossava una specie di veste in stile orientale, che sembrava rubata al guardaroba di un mandarino o forse più semplicemente al reparto costumi del teatro, un tripudio di seta scarlatta, nappine e ricami dorati ornati di lustrini di ogni forma, dimensione e colore, che ricadeva in pieghe morbide sulle babbucce di velluto altrettanto ricamate e decorate. Rasselie avrebbe potuto pensare di non aver mai visto nulla di più sgargiante e di cattivo gusto se la sua attenzione non fosse stata attratta da un particolare ben più sconcertante. Una maschera di velluto nero che gli copriva la fronte e tutta la parte superiore del volto scendendo sulle guance fino al mento, e lasciava scoperte solo parte di questo e le labbra; sottili ma ben disegnate e in quel momento atteggiate a un sorriso divertito che scopriva appena i denti. I capelli gli sfioravano le spalle e erano di un innaturale colore argenteo dai riflessi azzurrini.

L'uomo mosse la mano destra in un gesto fluido ed elegante, a indicare tutto e nulla nella stanza.

- Accomodati, considerati mia ospite. E per dimostrarti che non ho cattive intenzioni... Le porse la pistola, chiaramente divertito dalla sua espressione confusa.

Rasselie la prese e la ripose nella borsetta che teneva a tracolla. Era una sua creazione, fatta con un ritaglio di robusta stoffa da tappezziere a fiori rosa e arancio su un fondo verde pallido, un vero insulto alla moda del momento che imponeva gentili sacchetti in pizzo.

In quel momento la porta borchiata dietro di lei si spalancò di colpo, e una voce concitata di donna disse: - Nell’ufficio di Rémy ci sono i poliziotti!

Rasselie si voltò. La nuova arrivata era piccola di statura, con i capelli bruni raccolti in una crocchia, e indossava un fine abito bianco che rivelava una figura sottile, quasi spigolosa; le clavicole erano pronunciate e fragili, il collo un po' troppo lungo; e gli occhi scuri lampeggiavano in una espressione bellicosa.

- Lo so, Meg. Madame, questa è la signorina Giry, direttrice del corpo di ballo e mia… tuttofare. Meg, questa è Madame Reymondet, lavora per Michaud.

Gli occhi della donna si arrotondarono in una espressione di sgomento. - Come è arrivata quassù? E senza soluzione di continuità: - Dobbiamo liberarcene.

- Non essere frettolosa. Intanto… Perquisiscila. Ma non badare alla pistola.

Rasselie desiderò scappare via, ma ovviamente non poteva farlo. L’altra non dovette frugare troppo a lungo. Trovò subito quello che cercava in una tasca interna della borsetta. Aprì la piccola busta di pelle azzurra, diede un’occhiata al contenuto, e poi lo porse all’uomo con una risatella beffarda.

- Guarda qui. Sei sempre il solito ingenuo, Erik. Questa è peggio di qualunque poliziotto.

L’uomo considerò pensosamente i documenti e i biglietti da visita, rigirandoli fra le lunghe dita abbronzate. Tra le parentesi di velluto della maschera, un sorriso triste e amaro.

- Ogni tanto qualche giornalista in cerca di storie eccentriche si sveglia e cerca di resuscitarmi.

- E va bene, non sono della polizia. Ma anch'io do la caccia allo Squartatore.

La donna bruna scrutava di nuovo i documenti tra le mani dell’uomo mascherato.

- Rasselie Reymondet Joly. Che nome assurdo

- Piantala, Meg disse lui e le passò la busta con i documenti. - Ridaglieli.

Nell’obbedire a quell’ordine, la donna bruna gettò a Rasselie un’occhiata di puro odio, mentre l’uomo con la maschera continuava: - Immagino che non sia stato l’ispettore Michaud a mandarti quassù.

- Se sapesse che sono qui gli scoppierebbe il fegato.

Quella conversazione aveva qualcosa di irreale, per non parlare della stanza che la circondava e del personaggio che le stava davanti. Rasselie aveva l’impressione di trovarsi davanti ai pezzi scombinati di un puzzle.

- Davvero cerchi lo Squartatore? Non hai paura? chiese Meg in tono sarcastico.

- So difendermi. Me l’ha insegnato mio marito. Era un poliziotto.

- Comunque… riprese l’uomo con la maschera - perché cercare quell’assassino proprio sui tetti, se l’hanno visto entrare dalla parte dei sotterranei?

- Perché lui ama i tetti. È il solo modo nel quale può scomparire senza lasciare traccia.

- Perspicace. E la polizia che ne pensa?

- Loro lo cercheranno nei sotterranei.>

- Non possiamo permettere che vadano in giro a loro piacimento intervenne la donna bruna. Poi, con un’espressione stizzita, andò a raccogliere le coperte cadute sul pavimento. - Hai di nuovo sognato Christine?

- La tua impertinenza a volte è davvero sgradevole, Meg ribatté l’uomo mascherato in tono tagliente.

- Be’, comunque cosa dobbiamo farne di questa impicciona? continuò lei, buttando con malgarbo le lenzuola sul letto. - Non mi dirai che merita un trattamento migliore degli altri solo perché è una donna.

- Qualcuno potrebbe sapere che è venuta qui, e di conseguenza cercarla. Non diamo a Parigi un motivo per tornare a parlare del Fantasma dell’Opera.

Nella mente di Rasselie, i pezzi scombinati del puzzle cominciarono a vorticare cercando il proprio giusto collocamento, per quanto il disegno che andava componendosi fosse improbabile e grottesco.

- Il Fantasma… No, non dirmi che saresti… Anche non si trattasse di una leggenda, a quest’ora dovresti essere morto. O perlomeno vetusto.

- Invece sono vivo. E non troppo vecchio dopotutto. E aprì leggermente le braccia come a dire “Eccomi qui” rivelando in tutto il loro sgargiante cattivo gusto i sontuosi ricami delle ampie maniche.

Rasselie si lasciò sfuggire una risatina incredula e un po’ nervosa.

- È così difficile credermi? Solo perché vivo quassù, vicino al cielo, e non in un sotterraneo? Il sedicente Fantasma mosse qualche passo verso di lei.- Andiamo, chi sarebbe così stupido da vivere sulle rive di un malsano lago sotterraneo, fra i topi e la muffa, perennemente a lume di candela, e dormire in una bara come un vampiro?

- Così si racconta.

- L’umidità è nociva per gli strumenti musicali. E le storie che hanno inventato su di me sono una gran montagna di buffonate. È vero, devo nascondermi agli sguardi del mondo e il mio viso non è certamente quello che vorresti vedere al tuo fianco sul cuscino quando ti svegli la mattina. Ma guarda le mie mani.

Le aveva stese davanti a sé, allungando appena le braccia, così che le ampie maniche ricamate scoprivano anche i polsi: ossatura sottile, pelle abbronzata, dita affusolate e forti. - Non sono quelle di uno scheletro. E i miei occhi non sono fanali gialli che brillano nel buio. Certo, ho sviluppato qualche capacità, come quella di vedere abbastanza bene laddove per gli altri esseri umani è oscurità profonda, ma tutto qui.

Adesso era a pochi passi da lei, in tutta la sua altezza che era davvero notevole, e chinò leggermente la testa. Tra le fessure della maschera, gli occhi erano di un colore insolito, un verde così chiaro da apparire dorato, ma decisamente non si trattava di fanali gialli.

- D'accordo, signor Fantasma...

- Puoi chiamarmi Erik.

- Be’, intanto che decidi cosa fare della signora giornalista continuò Meg raccogliendo le lenzuola dal letto - io vado a fare il bucato.

Mentre apriva la porta, si udì un miagolio e il muso color crema di un gatto siamese si affacciò nella stanza.

- Vieni, piccola disse l’uomo. - Non avere paura.

Il gatto si stirò, avanzò con lentezza ed eleganza, si strusciò contro il divano, quindi al bordo della tunica dell’uomo, il quale si chinò a farle una carezza.

- Lei è Ayesha. Come se giudicasse necessaria quella presentazione.

La gatta indugiò un attimo davanti a quella sconosciuta, scrutandola con profondi occhi azzurri. Poi si allontanò, indifferente e regale, oscillando la coda.

- Lo so che la mia stanza non è quello che ti aspetteresti continuò Erik avvicinandosi a un tavolino sul quale si trovava un vassoio d’argento con una teiera e una tazza. - Niente bara, niente paramenti funebri o arazzi con le note del Dies Irae… Gradisci una tazza di tè? Immagino che il sapore ti sembrerà insolito, è fatto con le foglie di cannabis. Un’abitudine che ho preso in Persia.

Rasselie scosse la testa.

- Per me puoi essere fuggito dalla Salpêtrière o soltanto dal coro di “Un ballo in maschera”. Ma se pretendi che ti creda… Allora mostrami il tuo orribile volto.

Il becco della teiera tintinnò leggermente contro il bordo della tazza, come se la mano che stava versando il liquido avesse tremato leggermente.

- Questo, mi spiace, va oltre ogni concessione che sono disposto a fare.

- Davvero mi faresti fuori per evitare che si sappia che vivi appollaiato quassù?

- No. In passato è stato necessario, qualche volta. Diciamo che da parecchio tempo ho stipulato un accordo di pace con il resto del mondo. E con me stesso. Ma dimmi qualcosa di più dello Squartatore. Cosa sai?

- Solo che nelle notti parigine circola qualcuno che ha già ucciso un paio di donne con le stesse modalità di quel Jack a Londra, tanti anni fa. Sgozzamento, squartamento...

Lui annuì lentamente, con fare pensoso.

- E non hai paura a dargli la caccia? Potresti essere tu la prossima a finire in prima pagina.

- Se volevo un lavoro tranquillo avrei fatto la maestrina in campagna.

Erik scosse la testa, bevve un sorso di tè e poi disse in un tono che a Rasselie suonò come di sfida: - E va bene. Sei venuta qui in cerca di una storia? Te la darò. Domani sera, a mezzanotte, se lo vuoi sarai mia ospite a cena nel Salone della Luna. Mettiti qualcosa di più elegante, se ce l’hai. E adesso vattene. Meg ti mostrerà la strada, così non rischi di perderti. Altrimenti potrebbero ritrovarti fra cent’anni mummificata in qualche sottopalco.

 

 

   
 
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