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Autore: Joy    12/04/2021    1 recensioni
“Entri in acqua anche tu?” gli chiede Jean, abbandonando le braccia sui bordi della vasca.
Marco scuote la testa e gli posa la mano sulla schiena.

JeanxMarco
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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JeanxMarco

Angst come se piovesse

Hurt/Comfort

PTSD

What if

Marco sopravvive a Trost.

Cameo Eruri

 

 

 

 

Cicatrici

 

 

 

 

 

“Ero sicuro che non ce l'avrei fatta, stavolta.”

Le prime parole che Jean gli rivolge, in piedi sulla soglia del loro alloggio, sono quelle.

Marco non riesce a distinguere il colore dei suoi occhi, tanto sono grigi e spenti.

Lo osserva mentre si chiude la porta alle spalle e si piega sulle sue stesse ginocchia, boccheggiando il fiato trattenuto e se Marco non fosse pronto a scostare una sedia dal tavolo e a guidarcelo sopra, lo avrebbe visto anche accasciarsi sul pavimento.

“L'intera ala destra è stata annientata all'improvviso; non hanno nemmeno fatto il tempo a sparare un fumogeno” esala, le braccia inermi abbandonate ai lati della sedia.

Non lo guarda negli occhi. Non lo fa mai dopo una missione.

Marco sa cosa ha dovuto vedere.

Sa anche cosa ha dovuto fare.

Ogni volta che torna a casa ci sono macerie nel suo sguardo.

Marco ha imparato a scavare tra i frammenti, a trovare ciò che è sopravvissuto di lui tra i resti bruciati della sua coscienza. Nella maggior parte dei casi lo trova subito, altre volte lo perde per giorni.

Eppure Jean torna sempre.

Coperto di cenere, certo, ma torna.

“Ci siamo ritrovati completamente scoperti” biascica, e c'è qualcosa di umido che gli impasta la bocca e le ciglia. “Ci siamo ritirati come un branco di inutili codardi” rimarca.

Marco gli afferra la mano e la stringe, sa che ha bisogno di un'ancora per risalire la marea del dolore: lo ha visto mentre attraversava le mura con lo sguardo distante e la mano posata sul collo del suo cavallo. Tre mesi prima la teneva sul suo braccio, quello che ora non ha più.

Quando s'inginocchia di fronte a lui, Jean china la testa e appoggia la fronte sulla sua spalla.

“Pensavo che almeno l'ala sinistra avrebbe avuto il tempo di deviare, li ho avvisati, e invece...”

Digrigna i denti e il tessuto della sua casacca si bagna, Marco non sa se siano lacrime o saliva.

Vorrebbe dirgli che alla morte non frega niente di quello che uno pensa, arriva all'improvviso e se qualcuno riesce a sfuggirle è solo una casualità, un colpo di fortuna.

Ma sarebbe inutile: lo sanno già. Tutti loro.

Quando solleva lo sguardo, le lacrime hanno scavato due scie pallide tra la fuliggine del suo viso.

Marco vi posa sopra le labbra.

La pelle di Jean, sotto la cenere, sa di sangue.

 

***

 

Un tempo riusciva spogliarlo con estrema naturalezza, non doveva neanche pensare, le sue dita scorrevano da sole sulle asole, un bottone dopo l'altro.

Gli rideva sulle labbra mentre lo faceva, già impaziente del piacere preannunciato.

Adesso invece è faticoso.

Deve concentrarsi, piegare la stoffa, trovare la giusta angolazione del bottone o la sua unica mano non riuscirà a slacciare l'interminabile fila di bottoni. A volte è talmente frustrante che vorrebbe usare i denti.

Jean lo anticipa, tenendo la stoffa in tensione per lui. Non importa in che condizioni sia, riesce comunque ad intuire il suo punto di rottura.

Marco si ferma per un attimo e sospira via la rabbia.

“L'acqua è calda, ma si raffredderà nel tempo che impiegherò a spogliarti” ammette. “Finisci da solo ed entra dentro.”

Jean lo scruta con la stessa espressione di quando studia la formazione del Corpo di Ricerca in un nuovo assetto, sa che la sua mente analitica gli mostrerà anche quello che non è evidente all'apparenza, ma si impegna lo stesso a sostenere il suo sguardo e a mettere sotto chiave le sue difficoltà.

Jean che ovviamente lo sa, accenna ad un sorriso ironico.

“Se non fossi così distrutto, azzarderei a pensare che vuoi goderti lo spettacolo” se ne esce, mentre finisce di spogliarsi ed entra nella vasca.

Marco sorride e rimpiange i tempi in cui una battuta come quella, li portava a rotolarsi nell'erba dietro i dormitori comuni.

I tempi in cui non prestavano più di tanto attenzione a quella condanna, ogni giorno più celata dal nome altisonante di “sacrificio eroico”.

“Entri in acqua anche tu?” gli chiede Jean, abbandonando le braccia sui bordi della vasca.

Marco scuote la testa e gli posa la mano sulla schiena.

“Rilassati” gli dice, sciogliendo i muscoli contratti uno alla volta. “Sei pieno di lividi...” aggiunge poi, in un commento sommesso.

Jean scrolla le spalle come se non gli importasse.

Non è una novità per loro avere impressi sulla pelle i segni lasciati dall'attrezzatura per il movimento tridimensionale, ma quelli sulla schiena di Jean questa volta sonno rossi e infiammati, e in alcuni punti la pelle è lacerata.

Marco sa cosa significa.

Sente un bolo di saliva bloccargli la gola e soffocargli il respiro.

Li deterge delicatamente, consapevole che se Jean ha combattuto come una furia, lo ha fatto principalmente per tornare da lui.

“Mi mancano i nostri bagni condivisi” confessa Jean dopo un istante. Il nodo nella gola di Marco peggiora. “Mi manca anche condividere il letto.”

“Lo so” gli risponde in un sussurro mesto.

E vorrebbe scoppiare a piangere, perché davvero Jean non si merita questo. Non merita di avere un compagno come lui, vivo a metà, incapace di affrontare l'intimità senza farsi travolgere dal senso di inadeguatezza. Dalla vergogna.

“Quando lascerai che possa vederti di nuovo?” insiste Jean ad occhi chiusi, rovesciando la testa contro il bordo della vasca.

Marco non pensa di conoscere la risposta.

“Più avanti” taglia corto.

Le labbra di Jean si piegano in un sorriso triste.

“Va bene” gli risponde.

Marco respira, ed è fin troppo consapevole che quella situazione non potrà protrarsi ancora a lungo.

Sono passati mesi dalla prima volta che Jean gli ha posto quella domanda e la risposta non è mai cambiata.

E il suo senso di colpa sta diventando una piaga infetta.

Marco non pretende che la loro vita non lasci cicatrici, ma vorrebbe almeno poterle lavare come fa con quelle del corpo.

 

***

 

Quella sera, la sua branda solitaria è troppo fredda.

Marco la usa da quando, dimesso dall'infermeria, aveva ferite ancora troppo recenti per rischiare di riaprirle con involontari movimenti notturni, e Jean ha sempre avuto il sonno agitato.

Anche adesso può sentirlo rigirarsi tra le lenzuola, preda dei suoi sogni inquieti.

“Jean?” lo chiama.

La prima volta che ha tentato di riscuoterlo da un incubo, si è ritrovato intrappolato tra le sue braccia ed è entrato nel panico.

Ha urlato e Jean si è svegliato di soprassalto, lo sguardo atterrito e il fiato corto.

Hanno passato l'intera giornata a scusarsi l'uno con l'altro.

E ad allontanarsi un po' di più.

La lampada sul tavolo è illuminata dalla luce fioca della luna.

Marco solleva il vetro e accende lo stoppino.

La sfera di luce che si estende al letto di Jean, gli mostra una sagoma sudata e scomposta, parzialmente coperta da lenzuola annodate.

“Jean?” tenta di nuovo.

Quello digrigna i denti e serra i pugni sul lenzuolo.

Marco sposta la lampada vicino al letto e posa una mano incerta sulla sua spalla.

“Svegliati Jean” gli dice. “È solo un sogno.”

Le sue palpebre rimangono immobili per un istante, poi si spalancano mentre si solleva di scatto, con un gemito strozzato.

Marco balza indietro.

Jean gli rivolge un sguardo confuso e appannato dalle lacrime.

“Stavi solo sognando” ribadisce Marco. “Va tutto bene.”

La sua voce si incrina su quelle parole, perché è chiaro ad entrambi che niente sta andando bene, ma adesso che è sveglio, Marco può sedersi sul suo letto e annullare la distanza tra loro.

Gli passa il braccio intorno alle spalle e lo tira verso di sé: l'onda del tremito che lo scuote si spegne contro il suo petto e Jean sospira, il viso quasi completamente nascosto nell'incavo del suo collo.

“È tutto passato” gli sussurra con tono rassicurante contro l'orecchio.

Jean strofina il naso e la fronte contro la sua maglia, solleva le braccia per avvolgergliele attorno a sua volta e Marco non può fare a meno d'irrigidirsi.

Si odia per questo.

Jean le lascia ricadere inerti lungo i fianchi.

“Non passa mai” mormora amaro dopo un istante.

 

***

 

I giorni dopo sono quasi peggio.

Marco comincia a temere che questa volta non riuscirà a riportarlo indietro, non con le difficoltà con cui deve venire a patti ogni giorno.

E i problemi si accumulano uno sull'altro.

Distoglie gli occhi dalla carte stropicciate che sta archiviando e raddrizza la schiena dolorante.

È stato curvo sul suo lavoro di archivio per tutto il giorno. È l'unico contributo che riesce a dare alla legione e lo tiene abbastanza impegnato da evitargli di pensare.

Quella mattina Jean si è alzato presto, ammesso che abbia dormito, ed è uscito per l'addestramento senza salutare.

Marco avrebbe voluto avere le parole giuste per fermarlo, prima ci riusciva, ma a quanto pare ha perso quella capacità insieme al braccio e all'occhio.

Si alza dalla scrivania, raduna le sue cose, ed esce nel cortile della caserma in tempo per vedere il Corpo di Ricerca rientrare dalle esercitazioni giornaliere.

Jean cammina leggermente in disparte rispetto agli altri. Avanza a passo stanco e non lo cerca, sebbene conosca esattamente il punto in cui lo aspetta ogni giorno.

Marco sa che sta cercando di resistere il tempo necessario ad essere congedato e a riconsegnare il dispositivo per il movimento tridimensionale, poi forse si concederà di crollare, quando saranno soli.

Forse.

Nemmeno quella è più una certezza ormai.

“Quell'idiota si farà ammazzare ancor prima della prossima spedizione, se continua così.”

La voce che gli arriva alle spalle lo fa sussultare.

Si volta di scatto e si ritrova a fissare lo sguardo immobile del Capitano Levi, alle sue spalle il Comandante Erwin inarca le sopracciglia in un'espressione interrogativa.

Marco non sa cosa aspettarsi; di loro conosce solo i resoconti ammirati che Jean condivide con lui nelle serate buone.

Una falda del mantello svolazza e la mano del Capitano gli porge il sacchetto di pelle che ha estratto da sotto.

“Usale per fare un tè e getta nel braciere quel che resta” gli dice con tono imperturbabile.

“G..grazie” riesce a balbettare prima che quello gli volti le spalle.

Il Comandante Erwin gli rivolge un breve cenno con la testa, facendolo scattare sull'attenti, poi il suo sguardo si sposta sul Capitano.

“Cosa gli hai dato” gli sente chiedere.

“Melissa, tiglio e passiflora.”

La curiosità che Marco aveva scorto prima nello sguardo di Erwin si trasforma in ricordo.

“Funzionano ancora?”

“Sì” ammette Levi, mentre si allontanano insieme.

Marco fa sparire il sacchetto nella tasca della sua casacca, si sforza di nascondere lo stupore che ancora lo annebbia e raggiunge la figura malconcia di Jean.

 

***

 

Il bollitore gorgoglia e emette un flebile fischio.

Jean sonnecchia con le braccia piegate sul tavolo e la testa sepolta nel mezzo. Di tanto in tanto digrigna i denti.

Marco non l'ha visto così pallido e con occhiate tanto marcate nemmeno quando passava giorni interi al suo capezzale, dopo lo scontro a Trost.

Gli accarezza la mano distesa sul tavolo e le palpebre di Jean fluttuano, un angolo della sua bocca si piega verso l'alto ed emette un sospiro lieve. È sempre stato sensibile al contatto fisico.

Marco vorrebbe che non fosse così difficile per lui concedergli il sostegno di cui ha bisogno, invece il massimo che riesce a fare è depositargli un bacio tra i capelli e alzarsi per togliere dal fuoco il bollitore.

Versa nell'acqua quasi tutto il contenuto del sacchetto e getta quello che resta nel braciere.

Sa che Jean non ha mai creduto agli infusi miracolosi, a lui però, l'odore che si diffonde lentamente nella stanza ricorda l'infanzia: ha il sentore dolce e fiorito del grembiule di sua nonna, quando lo usava per trasportare in casa le erbe raccolte nei dintorni.

E si sente nostalgico e felice in egual misura.

Si sente anche a casa e non più su un campo di battaglia.

Socchiude l'unico occhio, reduce di quelle battaglie, e sospira.

Sente anche un vento tiepido che gli svuota la mente.

Quando lo riapre Jean lo sta fissando incuriosito.

“Cos'è?” gli chiede.

“Solo tè” gli risponde, porgendogliene una tazza. “Bevi, dovrebbe farti dormire meglio.”

“Dovrebbe?” ripete Jean sollevando le sopracciglia.

Marco sorride.

“Lo berrò anch'io. Non vedo come possa peggiorare le nostre nottate.”

Jean abbassa lo sguardo e Marco sa che si sente in colpa quanto lui.

“Oh, al diavolo!” esclama d'un tratto. Poi afferrala tazza, aspetta che si sia freddata e la trangugia d'un fiato.

“Sai” inizia Marco dopo aver bevuto a sua volta, “l'intento era di farti dormire tranquillo. In genere funziona meglio sul letto.”

“Divertente” commenta piano Jean, sollevandosi a fatica dalla sedia per gettarsi sul materasso.

Marco lo raggiunge e si siede sul bordo.

“Chiudi gli occhi” mormora ravviandogli i capelli con le dita. “Respira lentamente.”

Jean mugola un apprezzamento e si volta su un fianco per essergli più vicino.

“Rilassati” continua Marco quando la sua mano incontra il collo in tensione. “Sei a casa, al sicuro. Non hai bisogno di restare vigile.”

Mentre lo dice si rende conto che il suo stesso respiro si è regolarizzato e che la stanchezza ha preso il sopravvento.

L'aria profuma come le sere miti tra primavera e estate, e la schiena di Jean si espande a cadenza ritmica sotto la sua mano. Non ricordava quanto fosse calda la sua pelle prima di dormire.

“Marco...?”

È poco più di un soffio flebile, attutito in parte dal cuscino, ma è abbastanza per scacciare momentaneamente il torpore.

“Sì, sono qui” gli risponde piano.

“Vorresti sdraiarti accanto a me?” biascica. “Come prima.”

Marco lo vorrebbe.

Lo vuole.

E la sua testa è molto più leggera del solito.

Si sdraia sul fianco destro e avvolge il braccio sinistro attorno alle sue spalle, tirandoselo contro.

Jean si lascia manovrare quasi non avesse volontà propria.

“Puoi allontanarmi facilmente, vedi?” gli dice con tono impastato dal sonno. “Non sono poi così forte...”

Marco vorrebbe spiegargli che non ha davvero paura di lui, è solo il suo corpo che risponde d'istinto, senza che lui abbia la possibilità di controllarlo.

Ma Jean raccoglie le mani davanti a sé, in un punto innocuo contro il suo torace, abbastanza vicino da sentirgli il cuore rombare nel petto -Marco ne è sicuro-, e incastra il viso nell'incavo del suo collo, esalando un respiro esausto contro la sua pelle.

E Marco non ha mai percepito in lui tanta vulnerabilità.

Scorre la mano su e giù per la sua schiena e il mormorio che esce dalle labbra di Jean somiglia ad un disperato resta qui.

Forse dovrebbe farlo, pensa.

In fondo è più facile tenere a bada la paura, quando un ciuffo dei capelli di Jean gli solletica insistentemente il naso.

Lo soffia via un paio di volte e quando si decide a togliere la mano dalla sua schiena per lisciargli le ciocche ribelli, sia accorge che Jean è già addormentato.

Gli deposita un bacio sulla testa e lascia che il sonno vinca anche su di lui.

 

 

 

Fine.

 

  
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