Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
Ricorda la storia  |      
Autore: _Ella_    14/04/2021    3 recensioni
"Le stelle marine sono echinodermi invertebrati detti asteroidi, appartenenti alla classe Asteroidea. La loro parte dorsale è cosparsa di piccoli fori da cui entra l’acqua, che poi si immette nei canali acquiferi; questi canali formano il sistema acquifero, che consente loro di svolgere tutte le funzioni vitali: respirare, muoversi, cacciare.
Jotaro si sentiva così, quando perdeva la presa sul lazo che tratteneva il suo raziocinio: sott’acqua, e pienamente (finalmente) in grado di svolgere tutte le sue funzioni vitali."
-
[attenzione: leggere con attenzione le note all'interno prima di proseguire con la storia]
[Jotaro Kujo/Higashikata Josuke centric, Jotaro/Kakyon menzionata, Joseph/Caesar menzionata]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Joseph Joestar, Josuke Higashikata, Jotaro Kujo
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prima di mettermi a blaterare e passare ai convenevoli, voglio subito passare all'elefante nella stanza.
Leggete con attenzione i punti che seguono:
1. questa shot è una Jotaro/Josuke ambientata nell'universo di Diamond is Unbreakable, questo significa che Jotaro ha 28 anni, Josuke 17; esiste una versione esplicita di questa shot, e potete trovarla qui su AO3, ma per ovvie questioni di regolamento, tutte le parti porn NON sono presenti in questa versione;
2. in questa storia è nominata Jolyne, protagonista di Stone Ocean: se non avete idea di chi sia, e di come sia legata alla famiglia Joestar, non proseguite assolutamente con questa shot. A parte questo, non troverete nessun altro tipo di informazione che sia postuma a DiU.
Ok, il bugiardino delle controindicazioni finisce qui; potete passare direttamente alla fic, o leggere prima i miei blatereggiamenti.

Salve! 
Be', che dire?
Ho iniziato a vedere JoJo al massimo tre mesi fa, catapultandomi nella visione da Phantom Blood a Vento Aureo senza sapere assolutamente nulla di quello che mi avrebbe aspettato; non sapevo davvero niente della storia, né dei personaggi, l'unica cosa che sapevo era che la mia sugar boo mi stava pregando di vederlo da una cosa come secoli.
Perciò, eccomi qui, con una JotaJosu perché sono una lurida amante dell'age gap e dell'incest. Un classico intramontabile, insomma, che mi ha "costretta" anche a decidermi finalmente di farmi un account su AO3 per non farmi bannare per sempre da efp XD
Detto questo, spero che questo disastro vi piaccia, e non potete davvero immaginare quanto sia esaltata ad allungare il mio piede in questo fandom.

Alla prossima
 

 

underwater 

Under the sea 
Under the sea 
Darling it's better 
Down where it's wetter 
Take it from me 

 

Il funerale di Higashikata Ryohei fu accolto a Morio Cho da una giornata mite e soleggiata, e da un gruppo numeroso di persone raccolte silenziosamente nel loro dolore, nel loro affetto, e nel loro rispetto per un ufficiale di polizia che aveva fatto bene il suo lavoro per oltre trent’anni.  

Jotaro restò in disparte dall’altro lato della strada per tutto il tempo, poggiato contro la sua auto presa in affitto, macinando grammi su grammi di nicotina: la sua presenza lì era poco meno di una intrusione, ma forse mantenendo la distanza sarebbe riuscito a non ferire la sensibilità di Tomoko (sua – inserire un intenso yare yare – nonna?)  

In realtà non aveva nemmeno idea di cosa lo avesse spinto a presentarsi lì quel mattino: certo, Josuke era suo zio (per quanto ancora gli sembrasse assurdo) e di conseguenza poteva considerare sua madre e suo nonno anche i propri parenti, ma non era questo che lo aveva portato lì. Non era stato nemmeno il senso di colpa: se Jotaro si fosse sentito responsabile per ogni vittima innocente che aveva incrociato la strada di un portatore di Stand, a questo punto della sua vita sarebbe già diventato pazzo (non lo era diventato, vero?). Forse a portarlo lì era stato il profondo senso di empatia che aveva nei confronti di Higashikata Josuke: sapeva come si sentisse ad avere troppi pochi anni ed una vita capovolta in meno di ventiquattro ore. 

Josuke uscì dal cimitero con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni neri eleganti, completamente out of character senza la sua divisa scolastica, il viso abbassato a fissarsi le punte delle scarpe, ed i suoi capelli con quella strana acconciatura impeccabili come sempre. Una signora anziana gli si avvicinò, toccandogli la spalla e dicendogli qualcosa nell’orecchio che lo fece sorridere di cuore; quando incrociò il suo sguardo, Jotaro fece un cenno col capo in segno di saluto, ed avrebbe fatto dietrofront e si sarebbe infilato in auto, se il ragazzino non avesse iniziato a camminare verso di lui. 

“Jotaro-san” lo salutò, puntando gli occhi blu nei suoi: erano lucidi, ma non rossi, né tantomeno gonfi. “Io... non voglio che ci siano altre vittime”. 

Jotaro aspirò dal filtro, prima di sfilare la sigaretta dalle proprie labbra. Le ultime parole famose. “Ce ne saranno, Josuke” il suo sguardo vacillò un attimo, e Jotaro si chiese se ci fosse il bisogno di essere così diretto e letale con un diciassettenne che aveva appena perso suo nonno, “e non ci sarà mai niente che tu possa fare” ma, si rese conto, non avrebbe saputo che cosa altro dirgli se non la verità.  

L'espressione di Josuke si incrinò, e senza che potesse dirgli o fare altro (non aveva fatto già abbastanza, del resto?) si ritrovò la sua fronte premuta contro il petto, il suo respiro tremulo a riscaldarlo attraverso la stoffa della maglia.  

“Mi dispiace” era la verità. Gli spiaceva che la maledizione dei Joestar avesse già ferito anche lui, e che avrebbe continuato a fare sempre, sempre più male di così. Non riuscì a dire altro, non lo abbracciò né lo allontanò, rispettò soltanto il suo dolore, mentre la sigaretta gli si consumava tra le dita, sotto il cielo terso di Morio Cho. 

 

 

La sua stanza nel Grand Hotel a Morio Cho era lussuosa, una suite di quelle che ti aspetteresti incluse nel pacchetto completo della Fondazione Speedwagon: spese pagate e una serie di nuovi traumi e cicatrici come souvenir da riportare a casa. Di suo c'era ben poco: qualche giornale locale con ritagli interessanti, libri per lavorare alla sua tesi, il pacchetto di sigarette posato sul davanzale interno della finestra su cui aveva anche poggiato il posacenere, la valigia che non si era disturbato a disfare in un angolo del pavimento. Jotaro era abituato ai ritmi frenetici, ad arrivare con un peso nello stomaco e andarsene con una voragine nel cuore nel più breve tempo possibile.  

Questo soggiorno non avrebbe dovuto fare differenza da tanti altri, e invece ne faceva. 

Era diverso perché il vecchio Joseph non brillava più come un tempo, ma nei suoi occhi c'era il fantasma del ragazzo e dell'uomo che era stato, qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno di cui ascoltare i ragionamenti sopra le righe. Jotaro non avrebbe voluto qualcun altro di cui doversi preoccupare (hai preso le medicine?, hai chiamato Suzie obaachan?, hai controllato il pannolino della bambina?, non avrai mica esagerato col vino a pranzo, jiji?) ma la sua sola presenza riusciva a far tremare meno le sue spalle sotto il peso delle responsabilità che si era caricato addosso. 

Era diverso perché questa volta, a differenza di dieci anni fa, l'adulto era lui: le lezioni di vita erano tutte a carico suo e lui non si sentiva neanche lontanamente in grado. 

Tutto quello che poteva insegnare era basato sulle sue esperienze personali, sui suoi sbagli, sui suoi errori di calcolo. Quando era un ragazzo seduto sul sedile troppo piccolo di un fuoristrada in viaggio verso l'Egitto, aveva sempre pensato che con gli anni niente avrebbe potuto più coglierlo impreparato, che non si sarebbe mai più sentito annaspare di fronte a novità impreviste: niente di più sbagliato. Non passava giorno che non si sentisse come quel diciassettenne chiuso in una cella che provava a ficcarsi una pallottola nel cranio. 

A volte osservava Joseph, quando prendevano assieme il tè nel pomeriggio, seduto sulla poltrona di fronte la finestra, con in braccio quella bambina invisibile che aveva deciso di accudire a tempo indeterminato. Jotaro non ricordava di averlo mai visto vacillare, e non riusciva a smettere di chiedersi come fosse possibile, come potesse avere ancora così tanta energia al punto di prendersi la responsabilità di crescere una nuova vita: Jotaro non l'aveva avuta. Era molto più giovane di lui, aveva soltanto ventotto anni contro i suoi settantanove, eppure gli sembrava di essere mortalmente più stanco, nonostante le loro vite potessero essere sovrapposte come una fotografia ed il suo negativo: battaglie contro esseri (quasi) immortali, compagni (amori?) persi nel tragitto, una moglie, una figlia... ed una maledetta sbandata dal carattere esuberante e la bocca di zucchero a Morio Cho. 

 

 

Le spiagge di Morio Cho erano bianche, piene di piccole conchiglie dal guscio colorato, nascoste sotto la superficie: bastava infilare una mano nella sabbia e smuoverla un po', per riuscire a raccoglierne una manciata. Tra un capitolo e l'altro della tesi, Jotaro raccoglieva la sabbia nel palmo: lasciava cadere via i granelli di troppo, caldi come piccole braci, poi posava sul foglio bianco del quaderno le conchiglie più belle che aveva trovato. Ogni giorno si diceva di conservarle, si diceva che le avrebbe portate a casa, fino in America, per sistemarle una ad una sul comodino della stanzetta di Jolyne, per farle capire che l'aveva pensata, ogni giorno, ogni singolo giorno in cui era stato lontano, ma poi le lasciava sempre ricadere nella sabbia, infossandole esattamente come cercava di fare coi suoi sensi di colpa e la percezione di non essere all'altezza. 

Oggi, però, non era interessato alle conchiglie; con i piedi nudi in acqua e i pantaloni bianchi raccolti fino alle ginocchia, era chino in avanti, tenendo in una mano il taccuino dei suoi appunti, e nell'altra una stella marina, facendo attenzione a non tirarla fuori dall'acqua. Star Platinum, accanto a lui, guardava con attenzione, riproducendo sul foglio la perfetta riproduzione di quell'esemplare. 

"Così è barare" la voce morbida di Josuke gli arrivò a malapena, coperta dal verso dei gabbiani.  

Jotaro, suo malgrado, si ritrovò ad accennare un sorriso, nascosto dall'ombra del cappello. "Barare? Finché non scoprono il trucco, non è barare". 

Josuke alzò un sopracciglio, arricciando le labbra lucide. "Che vorrebbe dire?". 

Jotaro non gli rispose: continuò a tenere la stella marina fin quando Star Platinum non fu soddisfatto del disegno, poi la lasciò andare ed uscì dall'acqua, risalendo sulla spiaggia.  

"Non sarebbe meglio guardarla fuori dall'acqua, Jotaro-san?". Josuke si era sfilato le scarpe ed i calzini, e li aveva poggiati sul telo: i suoi piedi bianchi, con le ossa sporgenti, erano affondati in parte sotto la sabbia.  

Jotaro si sedette accanto a lui, restando però fuori dal telo, occupato da tutti i suoi libri ed i suoi appunti sparsi, tenuti fermi con delle pietre che avevano raccolto lì in spiaggia, così che il vento non potesse portarli via. "Le stelle marine hanno nella loro struttura dei canali attraverso cui passa l'acqua: in questo modo riescono a respirare, e a muoversi. Hanno per loro la stessa esatta funzione che hanno per noi vene e arterie: se entrasse dell'aria, l'embolo le ucciderebbe". 

La leggera risata di Josuke fu abbastanza per attirare la sua attenzione, e fargli volgere lo sguardo verso di lui: aveva gli occhi socchiusi, le labbra tirate in alto in un sogghigno divertito. Quando li riaprì per fissarlo, il ghigno lasciò spazio ad un sorriso più leggero, e l'espressione divertita ad una più morbida, intima, una di quelle che Josuke gli rivolgeva quando erano soli e sapeva di non essere visto. "È la frase più lunga che tu mi abbia mai detto: non ci posso credere che sia stata su una stella marina".  

Jotaro, suo malgrado, si ritrovò a sbuffare una risata.  

"Sai" Josuke si alzò in piedi per avvicinarsi di più a lui: gli si inginocchiò di fronte, le mani in fondo alle tasche dei pantaloni, gli occhi puntati sulla sabbia. "È sexy, quando... quando parli di quello che ti interessa. Sei sexy. Ecco tutto". 

Jotaro cercò il suo sguardo da sotto la fitta corolla di ciglia scure, ma non riuscì a trovarlo; in un altro momento avrebbe riso, forse si sarebbe preso gioco di lui, delle sue idee ed atteggiamenti infantili, del suo modo immaturo di flirtare. Quando capì che Josuke non avrebbe ricambiato il suo sguardo, lasciò scivolare l’attenzione dai suoi occhi alla sua bocca morbida, bellissima, che gli faceva venire voglia di pizzicare tra le dita. Questa volta si permise di accettare senza angoscia il bacio che Josuke lasciò sulle sue labbra, un tocco appena percepibile, così leggero da poter volare via con la brezza marina 

Josuke si coprì il viso paonazzo con le mani e si lasciò cadere nella sabbia. Jotaro, invece, tirò più giù la visiera del cappello: yare yare daze.  

 

 

La prima volta che successe, Jotaro non si sarebbe nemmeno aspettato di trovare Higashikata Josuke a quell’ora di notte di fronte la porta della sua stanza, la 324. Probabilmente nemmeno Josuke si sarebbe aspettato di trovarlo lì, anziché dentro, perché appena gli arrivò alle spalle, sobbalzò, schiantandosi con le spalle contro la porta in legno. 

Jotaro si limitò ad alzare un sopracciglio per mostrare la sua evidente confusione, e Josuke tossì, schiarendosi la gola. “Ero venuto a controllare che le ferite fossero a posto”. 

Jotaro cercò di alzare ancora più in alto il suo sopracciglio. “Torna a casa” disse, tirando fuori dalla tasca la carta magnetica per entrare in stanza. Non c’era bisogno che spiegasse perché fosse meglio per lui e per tutti che facesse dietrofront ed uscisse dal Grand Hotel, ed anche se fosse stato necessario, non avrebbe perso il suo tempo per farlo: Josuke era abbastanza intelligente per poterlo capire da solo, prima o poi. 

Il ragazzino, però, non si mosse di un millimetro: restò fermo con le spalle contro la porta, bloccandogli il percorso. Si umettò le labbra, e tenne gli occhi blu fissi nei suoi. “E tu?” chiese, come se non avesse sentito nemmeno una delle sue parole, la parte alta delle guance rossa e l’espressione da schiaffi. “Dov’eri, invece?”. 

Liberarsi di Josuke non sarebbe stato difficile per lui. Praticamente parlando, se solo avesse voluto, Jotaro avrebbe potuto: bloccare il tempo il necessario per rientrare in camera senza nemmeno che se ne accorgesse; colpirlo con un pugno (di Star Platinum, o suo, faceva poca differenza) ben assestato e lasciarlo svenuto in corridoio; infine, ma non per importanza, afferrarlo di peso in braccio e portarlo fin fuori dall’albergo.  

Uno dei principali problemi di Jotaro, era sempre stata la calma, o meglio: il momento in cui non riusciva più a trattenerla. Adesso ce la stava mettendo tutta, davvero tutta, per restare padrone di sé. “Josuke” lo fissò negli occhi, cercando di essere più autoritario possibile. “Piantala”. 

“Jotaro-san” lui gli fece eco, afferrando i lembi della sua giacca e dando uno strattone verso di sé: Jotaro non fece fatica a restare fermo dov’era, ma la pressione della stoffa che premeva contro la schiena gli fece formicolare lo stomaco. “Piantala tu”. 

Quella fu la prima volta che Josuke riuscì a fargli perdere la calma, e non poteva nemmeno sapere quanto gli sarebbe costato. 

Le stelle marine sono echinodermi invertebrati detti asteroidi, appartenenti alla classe Asteroidea. La loro parte dorsale è cosparsa di piccoli fori da cui entra l’acqua, che poi si immette nei canali acquiferi; questi canali formano il sistema acquifero, che consente loro di svolgere tutte le funzioni vitali: respirare, muoversi, cacciare.  

Jotaro si sentiva così, quando perdeva la presa sul lazo che tratteneva il suo raziocinio: sott’acqua, e pienamente (finalmente) in grado di svolgere tutte le sue funzioni vitali.  

Spalancò la porta con un calcio, ed afferrò Josuke per la sua divisa scolastica prima che potesse cadere sul pavimento della sua stanza: lo sbatté contro la porta per richiuderla e “Aggiustala” disse, con la bocca quasi premuta contro la sua, continuando a tenerlo fermo. 

Josuke aveva i suoi occhi blu spalancati per la sorpresa, forse anche per paura, ma annuì: Crazy Diamond comparì giusto il tempo di sistemare la serratura della porta, poi sparì via in un soffio, e quello che rimase fu soltanto il sogghigno di Josuke premuto contro la sua bocca. “Mi hai fatto entrare, però”. 

Jotaro assalì le sue labbra come avrebbe voluto fare fin dal primo momento, nell’unico modo in cui gli venisse davvero naturale: con aggressività, mordendogli la bocca come se fosse pronto a strappargliela coi denti. La rabbia era l’unica emozione che fosse mai riuscito ad incanalare, e mentre Josuke sospirava nella sua bocca, aggrappandosi alle sue spalle per tenersi in equilibrio, ancora schiacciato contro la porta della camera 324, Jotaro riuscì a sentirla scorrergli in gola insieme ai suoi gemiti di dolore. 

Gli tornò in mente Kakyoin. Non in modo romantico, né sessuale, né malinconico, solo: gli tornò in mente. Pensò a quella volta in cui avevano dormito coi sacchi a pelo nel deserto, sotto le stelle luminose come fari, e Kakyoin gli aveva spiegato che scopare con lui era come mettere la mano nella gabbia di una tigre addomesticata, ma che non mangiava da giorni. Quella volta Jotaro aveva roteato gli occhi, si era coperto il viso con il cappello, e gli aveva tirato un pugno nello stomaco prima di mettersi a dormire perché, ancora una volta, la rabbia era il solo modo in cui riuscisse ad esprimersi.  

Jotaro-san” Josuke dovette stringere le gambe intorno ai suoi fianchi per riuscire a stare in equilibrio, visto che lui continuava a tenerlo schiacciato contro la porta, e sollevato dal pavimento; era un ragazzo giapponese di un metro e ottanta, probabilmente non avrebbe mai immaginato di poter avere a che fare con qualcuno che potesse essere più grosso di lui quasi venti centimetri. Poi gli leccò la bocca, passò la mano contro la sua nuca, tirandogli via il cappello. “Andiamo sul letto”. 

 

 

Kishibe Rohan era un ragazzo di vent’anni che viveva sull’onda del successo; capitava spesso che senza nemmeno che lo volesse, le riunioni per fare il punto della situazione avvenissero nella sua costosissima villa arredata con oggetti di design fin troppo costosi: era sempre Koichi-kun ad autoinvitarli lì, e Rohan non fiatava, sebbene l’espressione esasperata fosse piuttosto eloquente, ed apriva la porta per lasciarli entrare, ma solo dopo aver raccomandato Josuke ed Okuyasu di non toccare nulla, stupidi animali

Quel pomeriggio, suo malgrado, il vecchio Joseph aveva fortemente insistito ad andare lì con loro: Jotaro non aveva dubbi che le sue (seppure rallentate) capacità non fossero da sottovalutare, ma era anche vero che (considerando la situazione attuale di un pluriomicida libero in giro e una serie di portatori di Stand non meglio identificati) non riteneva la più ottima delle idee andare in giro con un vecchio di novant’anni ed un infante invisibile che non era nemmeno in grado di controllare i propri poteri. 

E così, per le strade pulite e soleggiate di Morio Cho, Jotaro camminava lentamente al fianco di Joseph, che aveva voluto a tutti i costi andare a piedi e portare il passeggino, perché, sue parole: “La bambina ha bisogno di una bella passeggiata ed aria fresca”. 

Jotaro non aveva avuto la forza di dire nulla, sebbene il passo lento di Joseph avrebbe fatto impiegare il doppio del tempo per arrivare a destinazione, ed era piuttosto palese che questo sarebbe bastato per fare ulteriormente alterare Rohan, che prendeva la puntualità come un dogma imprescindibile.  

“Ohhhh, che bei fiori” Joseph rallentò il passo, fermandosi accanto una piccola aiuola ben curata, sistemandosi gli occhiali tondi sul naso, come se il gesto potesse migliorare le sue diottrie andate. “Ne raccoglieresti qualcuno per lei, JoJo?”. 

Jotaro guardò negli occhi pieni di speranza Joseph, poi la bambina, con quegli occhiali da sole troppo grandi per lei. Sospirò. “Siamo già in ritardo, jiji”. 

“Quindi qualche minuto non fa differenza, no?”. 

Sospirò ancora. “Yare yare” borbottò, chinandosi sull’aiuola a raccogliere i fiori indicati dal vecchio, che poi sistemò i fiorellini nella piega del berretto della bambina, entusiasta.  

“È bellissimo avere delle bambine, ne, JoJo?”. 

Jotaro fissò la sua espressione serena e soddisfatta, il suo sorriso dolcissimo, lo stesso che gli aveva visto rivolgere un milione di volte a sua mamma Holly, nonostante fosse adulta. Infilò le mani in tasca, ignorando il bruciore nel petto. “Muoviamoci, vecchio”. 

 

Ad aprire la porta fu Koichi, che li accolse sorridendo a pieni denti. “Jotaro-san! Joseph-san!”. 

Jotaro fece un cenno col capo “Koichi-kun” disse, lasciando entrare prima Joseph col passeggino. 

Non fu difficile immaginare dove fossero tutti gli altri: le voci di Josuke e Rohan erano anche fin troppo alte, mentre litigavano su chissà cosa.  Koichi rivolse loro un’espressione imbarazzata, come se fosse una madre profondamente dispiaciuta dell’indole indisciplinata dei suoi figli. “La situazione è sfuggita un po’ di mano” ammise. 

Jotaro, suo malgrado, sospirò per la terza volta nell’arco di mezz’ora. 

 

Quello che non poteva sapere, era che la situazione sarebbe ancor di più sfuggita di mano. Avrebbero dovuto osservare le fotografie scattate da Rohan, mettere insieme i pezzi di quel puzzle intricato, e invece chissà come, la scena che si trovava di fronte in quel momento era la seguente: Joseph seduto su una poltrona, la bambina tra le sue braccia che si divertiva a martoriare i petali dei fiorellini con le sue mani grassocce da infante, e Josuke, Okuyasu e Koichi seduti sul pavimento di fronte a lui, le gambe incrociate e le espressioni sorprese, mentre Joseph raccontava di quella volta che aveva menato due poliziotti razzisti a New York. 

Lui e Rohan, invece, erano seduti come due persone normali sulle poltrone, ma anche Rohan sembrava fin troppo interessato a quella storia: deformazione professionale. 

“Aspetti un attimo, Joseph-san" Rohan alzò la mano, forse per zittirlo, ma a Jotaro ricordò più uno studente che interrompe un insegnante. “Che significa che lei ha fatto esplodere una bottiglia di cola con l’uso dell’Hammon? Che diavolo è?”. 

Joseph si schiarì la voce. “Sono onde di energia che si propagano nella materia. Avevo ereditato questa abilità da mio nonno Jonathan, che le usò alla fine del 1800 per sconfiggere Dio Brando, il vampiro”. 

La reazione fu: silenzio. Jotaro si portò la mano in faccia. 

“Dio Brando?” a parlare fu Josuke, che buttò verso di lui un’occhiata incerta, come se cercasse la conferma che quello che suo padre stesse dicendo fossero solo i vaneggiamenti confusi di un vecchio rincoglionito. “Non è il tizio delle frecce? Quello ucciso da Jotaro-san dieci anni fa?”. 

Rohan, accanto a lui, si sistemò meglio sulla poltrona, con dei gesti nervosi. Iniziava ad essere chiaramente su di giri. 

Quando Jotaro riaprì gli occhi per trovarsene puntati contro troppi dall’espressione curiosa, capì che stessero tutti aspettando la sua conferma. “È lui, sì. Ma è sopravvissuto impiantando la sua testa sul corpo di Jonathan Joestar”. Dirlo ad alta voce lo faceva sembrare ancora più assurdo.   

“Oi, oi, oi, oi” Rohan si alzò di scatto in piedi. “Non prendetemi in giro!”. 

Joseph arricciò il naso, ed aggrottò le sopracciglia. “Se voi marmocchi pensate che qui a Morio Cho stiano accadendo cose bizzarre” iniziò, puntando un dito verso di loro. “Non avete davvero idea di quello che abbiamo passato io e JoJo”. 

Heaven’s doo-”. 

Josuke fu più veloce: Crazy Diamond tirò un pugno in piena faccia a Rohan, ancora prima che il suo Stand potesse attaccare Joseph. 

“Non osare, Rohan-sensei!” urlò, saltandogli addosso ed afferrandolo per il colletto della maglia, mentre Koichi ed Okuyasu correvano verso di lui per tirarlo via dal mangaka. “Non leggerai i ricordi di Joseph-san, bastardo!”. 

Jotaro batté lentamente le palpebre, tenendoli d’occhio con distaccato disinteresse: non sarebbe stata una piccola rissa tra ragazzini a preoccuparlo.  

Joseph, dalla sua poltrona, ridacchiò, mentre la bambina iniziava a succhiare il suo dito. “Ah” sospirò, sorridendo malinconico. “La gioventù. Mi torna in mente Caesarino”.  

I ragazzi si bloccarono, tutti: Rohan col pugno a mezz’aria, pronto a colpire la faccia di Josuke; Josuke coi denti conficcati nel suo braccio; Okuyasu e Koichi tra di loro, ancora impegnati a separarli. 

Rohan deglutì. “Chi è Caesarino?”. 

Jotaro scivolò più in basso sulla poltrona, coprendosi la faccia con la visiera del cappello. Non la storia sull’amore di gioventù di suo nonno. Non di nuovo. L'aveva sentita fin troppe volte, ed ogni volta con dettagli di troppo. 

Yare yare daze, pensò, mentre Joseph iniziava dal principio, da quel giorno a New York, in cui aveva rapidamente sconfitto un vampiro come se fosse un giovedì sera qualsiasi, prima di partire per Roma. 

 

Josuke aveva iniziato a seguirli nella strada del ritorno verso l’hotel, anche se casa sua era dalla parte opposta di Morio Cho: aveva preso l’iniziativa ed aveva iniziato a spingere il passeggino, e Joseph semplicemente gli era rimasto accanto, tenendo una mano sulla sua per sorreggersi e non perdere l’equilibrio, visto che aveva lasciato il bastone nella camera d’albergo.  

Jotaro era rimasto qualche passo indietro, per lasciare che quel momento rubato potesse essere più intimo possibile, fumando pigramente ed osservando la linea delle loro spalle con disattenzione, cercando di non puntare i suoi occhi sui fianchi stretti di Josuke – non era il momento, non lo era affatto, di pensare a come li avrebbe stretti tra i palmi mentre si spingeva tra le sue cosce. 

Prese un tiro più intenso della sua sigaretta, distraendosi col bruciore alla gola. Non avrebbe davvero mai, mai pensato, di arrivare a questo punto: era sempre stato fottuto in testa, certo, come avrebbe potuto non esserlo, dopo una adolescenza passata ad odiare qualsiasi tipo di interazione umana ed essere stato catapultato poi in una via crucis egiziana da un nonno che vedeva forse tre volte l’anno mentre sua madre quasi moriva, ma, cazzo, avrebbe dovuto esserci un limite. Provare una feroce attrazione per suo zio più giovane di dieci anni era sicuramente oltre ogni limite del fottuto. 

La risata di Joseph fece vibrare l’aria fresca di quella serata estiva. Jotaro riuscì ad immaginare l’espressione soddisfatta di Josuke, a tratti imbarazzata: ogni loro interazione era pericolosa, e doveva essere pesata, ben calibrata. Jotaro li guardava e vedeva dei bambini giocare a mosca cieca in un campo minato, ma ammirava la forza con cui continuavano a provarci. 

Quando arrivarono di fronte al Grand Hotel, Jotaro era a metà della sua ennesima sigaretta accesa durante la strada del ritorno. “Rientro tra poco, jiji” disse, sbuffando il fumo.  

“Allora a domani, JoJo” Joseph gli sorrise, poi si girò verso Josuke: strizzò la sua guancia, poi gli diede un paio di pacche sulle spalle, prima di avviarsi verso l’ingresso con il passeggino.  

Jotaro continuò a fissare nella sua direzione anche quando fu sparito dietro la porta d’ingresso, cercando di mostrarsi disinvolto mentre si impegnava a non incrociare il suo sguardo con quello di Josuke: si sistemò il cappello ed aspirò, sentendosi profondamente stupido, ed immaturo, per trovare quel gesto ancora in grado di farlo sentire al sicuro.  

“Ehi, Jotaro-san". 

Josuke però non fu compassionevole, e non gli diede la possibilità di continuare ad ignorare la sua presenza: si avvicinò a lui lentamente, con le mani nelle tasche. Era passata l’ora di cena da un pezzo, eppure aveva ancora addosso la sua divisa scolastica. Jotaro lo capiva. Per settimane aveva avuto il bisogno di sentirsi uno studente, a tutti i costi, mentre la sua vita andava alla deriva. 

Jotaro puntò gli occhi su di lui, senza smettere di fumare. I suoi meccanismi di difesa erano ridicoli, ma gli occhi di Josuke brillavano alla luce dei lampioni, e le sue labbra umide sembravano davvero troppo, troppo invitanti, per non essere baciate. Osservò la linea marcata della sua mascella, non ancora definita come quella di un uomo concluso, e scivolò con gli occhi fino alla linea delle sue clavicole sporgenti, il petto ampio, su cui i vestiti sembravano essere incollati. 

Josuke gli si avvicinò abbastanza da poter sentire l’odore pungente della sua lacca per capelli, ma Jotaro fu distratto dal suo sogghigno sfacciato, che aveva messo su per nascondere il suo disagio: le sue orecchie erano rosse, e la linea delle sue labbra continuava a tremare. “Non mi dai il bacio della buonanotte?”. 

Jotaro sapeva di non essere una delle persone più semplici con cui poter flirtare, o anche solo avere a che fare in modo civile. Ammirava, di Josuke, il modo diretto e semplice in cui pretendeva, sebbene non ne avesse alcun diritto, come se fosse certo che infilando il braccio in un nido di serpi ne sarebbe uscito illeso. O meglio: Josuke non aveva la certezza di uscire illeso, anzi, il suo nervosismo rendeva chiaro il fatto che fosse sicuro che ne sarebbe uscito ricoperto di morsi. Eppure, per qualche motivo estraneo ad entrambi, non succedeva mai. 

Jotaro accennò un sorriso, tenendo gli occhi socchiusi. “Cosa faresti, se lo facessi davvero?”. 

A lui non era mai importato del parere della gente, degli sguardi, dei sussurri. Avrebbe potuto baciare Josuke anche subito, di fronte l’ingresso dell’hotel, rischiando di essere visti dai passanti o, peggio, da Joseph che magari aveva deciso di prendere il fresco sul balcone. Ma Josuke era un ragazzino che vestiva firmato e che non aveva messo piede in un negozio per bambini per paura che qualcuno lo vedesse. Come avrebbe reagito, se Jotaro lo avesse baciato lì, in quel momento, esposti a qualsiasi tipo di sguardo? 

La faccia di Josuke, nemmeno a dirlo, divenne paonazza nel giro di un attimo. “M-magari” borbottò. “Sarebbe meglio più in disparte”. 

Jotaro si sfilò la sigaretta dalle labbra, la guardò giusto il tempo di rendersi conto che, al massimo, era rimasto forse un tiro o due. “Buonanotte, Josuke” disse, portandogliela alla bocca. Non pensava che Josuke sarebbe potuto diventare più rosso di com'era già, ma evidentemente Jotaro aveva fatto male i suoi calcoli: sorrise della sua faccia, sentendosi stranamente leggero, poi si sistemò il cappello fece dietrofront, avviandosi verso l’ingresso del Grand Hotel. 

 

 

C'erano alcune notti in cui la sensazione di solitudine riusciva a sovrastare anche i sensi di colpa e, in generale, il buonsenso. Erano quelle le sere in cui Jotaro, appena uscito dalla doccia, si avvicinava al telefono, e componeva il numero di casa Higashikata: teneva tra le mani il taccuino su cui aveva segnato le cifre come se dovesse autoconvincersi di avere una dignità, come se non le avesse invece imparate a memoria, e poi chiedeva a Josuke se gli andava di passare; breve, coinciso, diretto, esasperante come ci si sarebbe aspettati da Jotaro Kujo. 

Quelli erano anche i momenti in cui si rendeva conto che il vizio del fumo gli stava davvero sfuggendo di mano: guardava le poche sigarette rimaste in un pacchetto che aveva aperto quella stessa mattina, e si rendeva conto di quanto profondamente gli mancasse essere a bordo di una nave. Quando navigava, per mesi non c’era altro che disciplina: sapere che non avrebbe potuto fumare quanto voleva, poiché altrimenti sarebbe rimasto senza sigarette ancora prima di attraccare in un porto per i rifornimenti, lo aiutava a dare un ritmo calcolato ai suoi vizi. 

Doversi attenere obbligatoriamente alle regole lo aiutava a non pensare. Faceva le cose che dovevano essere fatte senza fiatare, senza lasciare spazio ai tentennamenti, ai se e ai ma. 

Con Josuke seduto a cavalcioni su di lui sul bordo del letto, invece, Jotaro sapeva di essere completamente alla deriva: non c’era nessun manuale di istruzioni a spiegargli come agire, nessuna regola, nessuna legge, nemmeno un suggerimento. 

A volte lasciava che fosse lui a dettare il ritmo dei baci; quando accadeva, erano sempre più lenti, più umidi e languidi, con schiocchi di labbra e sospiri bollenti, e davano ad entrambi il tempo di assaggiarsi con curiosità. Jotaro era sicuro che avrebbe potuto continuare a fare soltanto quello anche tutta la notte, ignorando la propria eccitazione, ma era sentire quella di Josuke premuta addosso, che gli mandava in cortocircuito il cervello. 

“Sono contento che tu mi abbia chiamato” sussurrò Josuke sulla sua bocca, il petto premuto contro il suo; le sue mani erano aggrappate alla sua schiena, infilate sotto la maglia nera a mezze maniche che Jotaro aveva infilato velocemente dopo la doccia, solo per non farsi trovare già svestito. “Mi mancavi” ammise, non senza arrossire, ma la sua espressione rimase decisa, perfettamente a suo agio. 

Jotaro ritornò a baciarlo perché non era mai stato bravo con le parole, e strinse le braccia intorno ai suoi fianchi per premerselo di più addosso, imbevendosi col calore del suo corpo, mentre Josuke iniziava a muovere il bacino per strofinarsi contro di lui. “Ti prego” Josuke si allontanò dalla sua bocca giusto il tempo di pregarlo, e Jotaro annuì: fece un bel respiro, poi fu come ritornare sott’acqua. 


 

Jotaro, nemmeno a dirlo (ce n’era bisogno, davvero?) non era un tipo da coccole dopo il sesso. Le conoscenze che aveva in merito al contatto fisico riguardavano due cose: il sesso, e la violenza (soprattutto la violenza), mentre per il resto non solo era tabula rasa, ma c’era anche il fischio acuto del blocco delle trasmissioni audiovisive. Questo non voleva dire che non gli facessero piacere, se ben moderate e se non aveva bisogno di partecipare in maniera più attiva, e così Josuke era steso accanto a lui nel letto, con ancora soltanto la parte superiore del suo corpo vestita, il viso schiacciato tra il cuscino e la sua spalla, una mano sul suo petto, infilata sotto la maglia nera, tenuta ferma senza alcuna malizia.  

Quello, ecco, quello Jotaro poteva accettarlo: sentire il calore del suo corpo contro il proprio, il suo respiro rilassato che gli faceva increspare la pelle del collo, il solletico dei suoi capelli sciolti, ma ancora rigidi per tutta la lacca che ci metteva sopra.  

“Jotaro-san?” la voce di Josuke era flebile, quasi incerta; fece un mugugno per fargli capire che stesse ascoltando, ma tenne ancora gli occhi chiusi. “Mi parli di qualcosa?”. 

“Qualcosa?”. 

“Qualunque cosa”. 

Jotaro girò la testa quanto necessario per riuscire a vedere il suo viso: Josuke era nascosto dal naso in giù dalla sua spalla, sui cui teneva premute le labbra asciutte, ma i suoi enormi occhi azzurri lo fissavano speranzosi come quelli di un cerbiatto. Jotaro sarebbe stato intenerito, lo avrebbe addirittura trovato adorabile, se non avesse saputo che Josuke, come lui e tutti gli altri Joestar, potesse essere un letale bastardo. 

Jotaro si ritrovò a riflettere per un po’, senza davvero sapere cosa potergli dire. Non era una cosa che facesse poi così spesso, parlare. Si rese conto di non avergli mai raccontato del suo viaggio in Egitto e di sua madre Holly, di quello che avesse fatto dopo, dei suoi viaggi in America alla ricerca delle frecce, dell’università, o di avere una figlia. Ma era anche ovvio che non avrebbe iniziato a farlo adesso, né mai. 

“Non saprei” ammise. Mentì.  

Josuke continuò a fissarlo; sembrava addirittura sorpreso che gli avesse risposto, e che non avesse lasciato cadere il discorso senza aggiungere altro. Jotaro sentì la sua mano risalire lungo il suo addome, posarsi all’altezza del suo cuore. “Va bene tutto” insistette, abbassando lo sguardo, poi sorrise: “anche le stelle marine”. 

Jotaro sbuffò una risata. “Scommetto che ti piacerebbero di più i delfini”. 

“Delfini” ripeté Josuke, soppesando la possibilità, poi annuì, sporgendosi rapidamente verso di lui per lasciargli un bacio veloce e casto sulle labbra. “Vada per i delfini”. 

 

 

Quando la nave della fondazione di Speedwagon lasciò definitivamente il porto di Morio Cho, Jotaro si ritrovò a stringere la mano sulla spalla del vecchio Joseph, senza sapere bene cosa dirgli: era strano dover anche solo pensare che ci fosse bisogno di consolarlo, dopo aver salutato per l’ultima volta suo figlio, dopo non essere riuscito a vedere nemmeno una volta il suo amore di vecchiaia.  

Jotaro osservò i gabbiani in volo, e continuò a fissarli mentre uno ad uno iniziavano a sparire in puntini sempre più piccoli, segno che ormai fossero abbastanza lontani dalla costa, pronti per il mare aperto. 

Si rese conto che forse, le loro vite sarebbero riuscite a sovrapporsi anche in questo: nessuno di loro sarebbe mai riuscito a recuperare quella parte di cuore che avevano seppellito a Morio Cho. Jotaro si rese conto che non avrebbe creduto, fino a quel momento, di averne ancora abbastanza disponibile anche per questo: era più che sicuro di averlo vomitato tutto nelle strade di El Cairo. 

“Ti va di sentire come ho incontrato Tomoko, JoJo?”. 

Jotaro annuì, e si chiese se un giorno avrebbe mai potuto avere il privilegio (o la capacità) di raccontare a qualcuno di Josuke, di quanto era stato sbagliato, e di come però si fosse sentito nel posto giusto per la prima volta in anni.  

Socchiuse gli occhi, cercando di prendere un lungo respiro che però gli morì in gola: era di nuovo fuor d’acqua. 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo / Vai alla pagina dell'autore: _Ella_