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Autore: mercutia    15/05/2021    0 recensioni
L'esperienza in Caerdicca Unitas ha cambiato Imriel, ma ha solo parzialmente rimosso la tensione dal suo rapporto con Phèdre. Per quanto sia felice di riaverlo a casa, a pochi mesi dal suo ritorno è chiaro che ancora tra loro esistano questioni in sospeso, attriti spinosi e ingombranti che solo una persona al mondo dice di poter dissipare. Con questa promessa Mélisande Shahrizai rientra improvvisamente nella vita di Phèdre, proponendole un patto controverso per quanto irrinunciabile.
A dodici anni di distanza la prescelta e l'erede di Kushiel si ritrovano faccia a faccia: chi delle due avrà la meglio nel loro eterno duello d'amore e d'odio?
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La storia è narrata dal punto di vista di Phédre anche se si colloca nella seconda trilogia, per la precisione dopo "Il sangue e il traditore", di cui però ignora il finale in cui Imriel decide di leggere le lettere di sua madre.
[fanfiction Phédre/Mélisande]
[piccoli spoiler fino a "Il sangue e il traditore"]
Genere: Erotico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Imriel nó Montrève de la Courcel, Joscelin Verreuil, Mélisande Shahrizai, Phèdre nó Delaunay, Ysandre de la Courcel
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Bondage
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«Voi?»
Non riuscii a dire altro quando, aggirandomi tra i modellini e gli utensili impolverati della veranda che Mastro Louis Grandier definiva il suo laboratorio di scultura, mi voltai seguendo istintivamente il lieve fruscio del passo lento di qualcuno che mi si avvicinava. Louis, pensai, oppure più probabilmente il suo premuroso assistente Marcel, che si veniva a scusare per il classico ritardo del suo padrone. Ruotai leggermente su me stessa, le mie labbra che si preparavano a sorridergli, a rassicurarlo del fatto che quell'attesa non mi avrebbe affatto offesa e che una tazza di infuso di ribes rosso e miele sarebbe stata sufficiente per farsi perdonare l'affronto, come ogni volta.
Ma quel giorno non fu come ogni altra volta.
Quel giorno non trovai il solito mortificato Marcel alle mie spalle. Nemmeno l'eclettico e distante Louis. Quel giorno il mio sorriso s'infranse per lo stupore, misto a un dedalo di sensazioni così forti ed eterogenee da non poterle nominare tutte. Quel giorno il mio fiato restò sospeso tra il razionale terrore e la più intima nostalgia. Quel giorno le mie gambe si bloccarono, incerte se fare un passo indietro, lontano da quella donna, o piuttosto farne uno in avanti, per inginocchiarmi al suo cospetto. Quel giorno i miei occhi incontrarono quello sguardo celeste che non vedevo da ormai dodici anni, sebbene lo ritrovassi ogni giorno, quasi dannatamente identico, sul viso del mio Imriel, suo figlio. Quel giorno il mio cuore si divise tra il desiderio di maledire quella traditrice una volta per tutte e quello di obbedire ancora una volta al richiamo del sangue che scorreva nelle sue vene. Quel sangue divino. Il sangue di Kushiel. Quel sangue che riempiva la mia vista di una foschia cremisi, crudele e vergognosa.
«Voi?» sussurrai soltanto.
Mélisande Shahrizai aveva a sua volta fermato il suo incedere verso di me, a un passo da me, forse due. I suoi occhi non nascosero un'emozione quando incrociarono i miei. Mi era difficile dire quale, fin troppo facile congetturarvi sopra, sebbene volessi evitarlo. Per quanti anni fossero passati dal tempo in cui l'avevo amata, per quanto odio fosse trascorso tra noi da quando avevo conosciuto l'avidità del suo animo, il potere che aveva di piegare a sé ogni mio anelito era ancora dolorosamente inequivocabile. Non invincibile, come avevo sempre dimostrato, ma era lì, tanto ingombrante da sembrare tangibile, pesante e vischioso.
Lentamente sorrise. In modo elegante, sereno, quasi impercettibile, eppure caloroso e sincero.
«Sì» replicò poi, senza più alcuna traccia di quell'accenno di sorriso che mi aveva rivolto un attimo prima.
Mi parve una risposta laconica quanto irrisoria, lì per lì, ma dietro quella semplice e banale affermazione c'era un significato così grave e profondo da farmi rabbrividire, quando lo percepii, con un attimo di ritardo. Mélisande Shahrizai si era fatta numerosi, potenti nemici da che la conoscevo e ognuno di essi non voleva altro che la sua morte. Il Doge della Serenissima, così come ogni città stato sua alleata in Caerdicca Unitas, la Skaldia, Alba e chissà quante altre nazioni in tutto il continente avevano una buona ragione per volerla morta. Terre d'Ange, sopra ogni altra, agognava la sua testa e in quel momento Mélisande Shahrizai era lì, davanti a me, in tutta la sua matura perfezione, in Terre d'Ange, a poche ore di carrozza da Città di Elua, dove un editto affisso al muro del palazzo reale ricordava la sua condanna capitale da trent'anni.
Continuavo a guardarla intanto, non oso pensare con quale espressione, mentre imperversava ancora in me l'aspra diatriba tra la ragione e la mia natura, lotta che mi lasciava incapace di muovermi, parlare, reagire in una qualsivoglia maniera. E lei reggeva il mio sguardo, indecifrabile, avrebbe detto chiunque altro, ma non io. A me appariva seria, determinata, triste anche. Certamente non spaventata, nonostante la minaccia che rappresentava per lei il solo calpestare il suolo di quella terra ostile. D'altra parte avevo visto la paura offuscare il viso di quella donna una sola volta ed era stato per la vita di Imriel, mai per la propria. Perciò non ero stupita, non certo dalla sua espressione.
«Sono qui per parlarti.»
Avrei potuto chiederle di che cosa, avrei potuto chiederle con che diritto, avrei potuto semplicemente rifiutare e andarmene.
Invece restai immobile, annuendo incredula quando umilmente chiese «Posso?»
Un sorriso. Ancora. Breve, sincero, grato.
Si guardò attorno, individuò due sgabelli vicini l'uno all'altro e vi si diresse, dandomi le spalle, certa che l'avrei seguita.
Lo feci.
Lo feci senza fiatare, solo osservando la sua figura che sfilava davanti a me, austera come  se non di più, rispetto alla prima volta che l'avevo vista, quand'ero poco più che una bambina, restando subito folgorata dal suo fascino ammaliatore, senza minimamente immaginare a quale folle desiderio mi avrebbe portata poi. Indossava un abito grigio scuro, quasi nero, dalla foggia semplice, stoffa economica, senza fronzoli, ricami o decori a impreziosirlo, se non una cinta di pelle chiara che, larga e robusta, le avvolgeva l'addome, tra il seno e la vita. Avevo già visto qualcosa di simile, ma non ricordavo dove: a mente fredda forse il ricordo sarebbe tornato a darmi indizi sul luogo da cui Mélisande proveniva, ma forse era solo un trucco per depistarmi. A che scopo? Pensai, dal momento che ormai era uscita allo scoperto.
Smisi di interrogarmi sulla fattezza del suo abbigliamento quando lei si girò di nuovo verso di me, invitandomi a sedere con un gesto della mano. Eseguii, ancora muta, ancora osservando lei, il suo viso, sempre di una bellezza disarmante nonostante gli inevitabili segni dell'età, i capelli, sempre neri come la più oscura delle notti se non per alcune sfumature d'argento, le mani, che si andarono a intrecciare pacatamente nel suo grembo. Mi accorsi di fissarle quando un brivido, bollente e penetrante, mi percosse con violenza dal ventre fino alla nuca al ricordo di quelle dita su di me, sul mio corpo, sulla mia carnale vulnerabilità.
Mi obbligai a distogliere lo sguardo e posarlo, fermo quanto il mio stato d'animo potesse concedermi, sul suo volto. Solo ora che l'avevo di nuovo lì, mi rendevo conto di quanto mi fosse mancato poterlo ammirare.
Dischiuse le labbra, poi le serrò di nuovo, come se avesse voluto dire qualcosa, per poi ripensarci. Cominciò a parlare dopo poco.
«Phèdre.»
Elua!
Io non so se avesse idea di ciò che muoveva in me sentire la sua voce pronunciare il mio nome, non lo so davvero, ma ho sempre sospettato che ne fosse pienamente consapevole e lo usasse come uno dei suoi crudeli giocattoli di tortura. Dovetti prendere un lungo respiro e battere le palpebre un paio di volte per liberarmi dal torbido languore in cui quel suono aveva cercato di farmi scivolare.
E fu quando credevo di aver riguadagnato la mia lucidità che le sue parole vibrarono per portarmela di nuovo via.
«Non ricordavo cosa significasse stare vicina a una anguissette.
Avevo, nuovamente, sottovalutato ciò che significhi
tu per me.»
E le sue mani si contrassero e si strinsero tra loro, mentre i suoi occhi sembravano volermi divorare. Fu un momento, solo un brevissimo istante, ma io dovetti lottare con tutta me stessa per trattenermi, per restare seduta dov'ero, per non cercare un contatto con lei, con la sua pelle, con il suo calore.
Lessi in lei uno sforzo simile e mi costrinsi a non gioirne, rifugiandomi in una durezza che non mi apparteneva.
«Siete venuta incontro al patibolo per dirmi questo?»
Sorrise con espressione amara.
«No.»
Abbassò lo sguardo, pensierosa, prendendosi una lunga pausa di silenzio prima di darmi una spiegazione. Quindi rialzò gli occhi ai miei e cominciò a parlare, calma e posata a dispetto di quanto stava per dire.
«In alcuni momenti, sai, penso che l'esilio sia una condanna ben più dura della morte.»
La soppesai, poi replicai, cinica quanto onesta.
«La scelta è stata vostra, Mélisande. Vi basterebbe raggiungere Città di Elua per essere accontentata: credo non trovereste nessuno contrario a commutare l'una nell'altra.»
Un altro sorriso amaro.
«Non lo metto in dubbio.
Come ho detto, finora è stato solo un pensiero. 
Ma si fa sempre più assiduo.
Sempre più doloroso.»
Disse quell'ultima parola in un sospiro che mi rese chiaro per quale motivo fosse lì, ma la lasciai parlare.
«Penso che la morte sarebbe un sollievo da una parte, una resa dall'altra.
Finché vivo, finché sopravvivo, posso coltivare una speranza. È la sola cosa a cui mi sono aggrappata finora, la mia sola ragione di vita.
Ed è la ragione per cui sono qui.»
Tacque attendendo di leggere comprensione nel mio volto, ma non glielo permisi, restando impassibile. Comprensione avrebbe significato compassione, lo sapevo io quanto lo sapeva lei. E la mia compassione sarebbe stata per lei già l'implicito assenso alla richiesta di aiuto che era venuta a farmi. No, non potevo lasciarle guidare la mia volontà, non così facilmente. Anche se ero lì, anche se avevo in fin dei conti accettato di partecipare a quell'incontro proibito, cosa di cui già mi recriminavo, non le avrei concesso nulla di più.
Lei distolse lo sguardo da me.
«Il tempo passa tuttavia e trascina con sé quella mia speranza, non nel verso che avevo previsto» disse «Mi capita, sempre più spesso, di farmi assalire dal timore che il tempo a mia disposizione possa esaurirsi prima che io...»
Tornò a guardarmi mentre lasciava in sospeso quella frase.
«So che sai cosa provo a stargli lontana, a non poterlo vedere, a non poterlo toccare.
So che hai patito la sua mancanza, so bene con quanta impazienza hai atteso il suo ritorno.»
Si prese ancora una pausa e quando tornò a parlare il suo tono assunse un vigore diverso, via via più accorato.
«Ciò che non puoi sapere è cosa provo al pensiero di non conoscere che suono hanno la sua voce, la sua risata, i suoi passi. Ciò che non puoi nemmeno lontanamente immaginare è cosa provo all'idea di non essere in grado di distinguere il suo profumo, il tocco della sua pelle, il calore del suo corpo. Ciò che mai potrai provare in vita tua è l'invidia nei confronti di qualcuno che può tutto questo al posto tuo.»
Quelle parole ferirono, nel profondo, la sensibilità con la quale mi ero da sempre rapportata al fragile legame che mi stringeva tra lei e suo figlio.
«Io...»
«Non mi fraintendere, Phèdre» mi bloccò «Non ti sto accusando di nulla. Riconosco tutto ciò che hai fatto per lui, e per me, e ti sono grata per non aver mai smesso di ricordargli la mia esistenza, tuttavia...
Tuttavia io non posso stargli accanto. Tu sì.
È diventato insopportabile.
So che lo ami come fosse tuo figlio. Ma… Ma lui è una parte di me.
E io ho bisogno di lui. Ho bisogno di sapere di poterlo vedere prima di morire.»
La fissai, indecisa sul peso che dovevo attribuire a quelle parole e all'impeto, affatto usuale, con cui erano state pronunciate.
Abbassò gli occhi, cercando di calmarsi, in modo forse troppo evidente, pensai, o forse ero io che vedevo misurata malizia in ogni suo gesto. Sembrava davvero esasperata e non me lo voleva nascondere. Recita plateale o vera disperazione? Per quanto fossi convinta di conoscerla bene ormai, una tale manifestazione emotiva era del tutto atipica per lei, che essa fosse vera o simulata, e mi rendeva pertanto del tutto incapace di interpretarla.
«Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto, ma prova per un solo istante a metterti al posto mio e capirai che non ti sto chiedendo nulla, paragonato al mio tormento.»
Da sempre riflettevo su quello che provasse lei, avevo cercato di calarmi nei suoi panni ogni volta che mi accorgevo della gioia che Imriel aveva dato alla mia vita. Quella gioia, lo sapevo, sarebbe stata sua. Provavo pena per lei, nonostante lei stessa si fosse ampiamente guadagnata la condizione in cui viveva. Non dovevo darglielo a vedere.
«Cosa volete, esattamente?» le chiesi secca, più che altro per evitare che mi rigirasse con giochi di parole.
Mi penetrò con lo sguardo, a lungo, dannatamente a lungo.
«Un giorno, con lui. Solo questo.»
Risi lieve, reggendo la sua serietà.
«Solo questo» ripetei ironica.
«Sì» rispose scacciando la mia derisione.
«Non dovreste nemmeno essere qui.»
«Era inevitabile. Non potevo lasciare a una lettera la delega di spiegarti il mio dolore.»
«Perché ora?»
«Ha bisogno di me.»
«Perché ora?»
«Perché so cosa sta passando. Per quanto tu sia stata una brava educatrice per lui, tu non puoi capire le oscurità del suo sangue. O meglio, puoi capirle, ma non puoi aiutarlo a usarle.»
«Non
deve usarle.»
«Mi hai dato la tua parola in proposito, Phèdre» replicò secca «Non sei tu a dover decidere ciò che deve o non deve fare.
Lui è ciò che è. Dovresti saperlo bene.»
«Non è così uguale a voi, Mélisande.»
«Nemmeno così diverso. E sai anche questo.»
Mi guardò, oserei dire, con pietà, prima di proseguire.
«Nelle sue vene scorre il mio stesso sangue. Tu, Phèdre, sei l'ultima persona adatta a stargli accanto ora, non nel ruolo che ti sei ricucita, non nel ruolo a cui caparbiamente forse ancora ti attacchi. Ormai lo avrete capito entrambi.
Lui ha bisogno di me.
E anche tu.»
«Io non ho...»
Allungò una mano fino a raggiungere la mia e io ammutolii, spiazzata dal fremito che mi scosse.
«Nega che con lui sia diverso.»
Osservai le sue dita sul dorso della mia mano, le sue unghie che ne scalfivano lievemente la pelle e ricordai il mio polso stretto nella mano di Imriel, poco prima che lui partisse per Tiberium, il modo in cui mi aveva guardata e l'infame brama con cui il mio corpo aveva reagito.
Non potei negare.
Mélisande ritirò la mano, mettendo fine al nostro contatto velocemente. Troppo velocemente perché io non ne restassi delusa.
«Se vuoi essere onesta con te stessa, non serve che io aggiunga altro per spiegarti perché sono qui» disse alzando appena le spalle.
Io reagii lenta, ancora invischiata tra le sensazioni di quel breve contatto.
«Quali...» cominciai con voce malferma «Quali che siano le vostre ragioni, non sono sufficienti per...»
«Non sono le
mie ragioni, Phèdre, ciò di cui stiamo parlando. Non soltanto. La mia presenza qui, ora, è dettata da un bisogno. Di Imriel. E tuo.
Continuare a ignorarlo non risolverà nulla, sei troppo intelligente per continuare a insistere.»
«Io non ho bisogno di voi» quasi lo sibilai.
Lei sorrise prima di replicare.
«Quante altre insoddisfacenti visite al santuario di Kushiel dovrai fare prima di ammetterlo?»
Mi accorsi di aver sgranato gli occhi nel vedere la sua espressione assumere una traccia d'indiscutibile divertimento.
«Sei quel che sei, Phèdre» sentenziò, pietosa.
Lenta alzò poi una mano verso il mio viso, sentii i suoi polpastrelli tracciare l'arcata sopra il mio occhio sinistro, quello colpito dal dardo di Kushiel. Il suo sguardo penetrava la mia coscienza, blu come il cielo all'imbrunire, implacabile come la lama delle
flechettes che anni prima aveva usato su di me.
«Sei la prescelta, Phèdre. E Imriel è mio figlio. Non puoi impedire al tuo corpo di reagire al legame divino che vi lega.
Ma io... io posso accudire la dannazione che ti divora. Soltanto io, Phèdre, posso condurti attraverso gli abissi del misericordioso castigo che stai bramando.»
Chiusi gli occhi e rabbrividii.
La mia mente vacillò cullata da quel pensiero, accarezzata da quella promessa e dal tocco bollente delle sue dita sulla mia palpebra.
«Osi negarlo?»
La sua voce, appena un sussurro, vibrò profonda fino ai recessi più remoti del mio essere e io, totalmente disarmata e alienata da me stessa, gemetti «No».

   
 
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