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Autore: _Lightning_    24/05/2021    0 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo IX

Sotto assedio

 

 

Now everybody do the propaganda
And sing along to the age of paranoia
Welcome to a new kind of tension
All across the alien nation
Where everything isn’t meant to be okay”
[American Idiot – Green Day]

 

22 giugno, Casa Parker, Queens
 

Come si viveva con una minaccia di morte sulla testa?

Peter fissava il soffitto della sua stanza, ovviamente senza trovare risposta a quell’interrogativo che, di per sé, suonava già ai limiti dell’assurdo. 

Peccato che fosse fin troppo tangibile. Per un attimo, quasi rimpianse di non avere delle stelline fluorescenti attaccate in camera, come Morgan. Il suo sguardo vagava nel bianco, incapace di appuntarsi su un punto fermo che non fossero le tenui macchie d’umidità negli angoli. A volte l’intonaco assumeva sfumature calde, arancioni, che lo riportavano a Titano e al vero vuoto, quello che aveva quasi imparato a riconoscere come parte di sé.

Chiuse infine gli occhi, che negli ultimi giorni si erano fatti così pesanti e difficili da tenere aperti.

Come si viveva, con quella consapevolezza incastrata nel cuore?

Stava iniziando suo malgrado a scoprirlo. Assieme alla paura recondita, irrazionale e del tutto antiscientifica, che il cassetto della sua scrivania si liquefacesse per la densità di segreti che si trovava costretto a contenere.

Alla foto – quella col cerchio rosso indelebile sul suo volto – si era aggiunto il foglio con la corona. Due minacce, una latente e una molto più attiva, che gli pendevano addosso come una duplice spada di Damocle.

Ormai Peter attraversava a sguardo basso il salotto di casa per non vedere quella stessa foto esposta sulla libreria, tra un souvenir dell’Egitto e un bonsai finto, posti lì quasi a renderla falsamente innocua. E stava a capo chino anche nel camminare per le strade del Queens, pur di non vedere il marchio FISK impresso sulle gru e sui camion da trasporto nei pressi dei suoi cantieri sparpagliati per tutta la città.

Kingpin sapeva. Sapeva chi fosse Spider-Man e si era premurato di condividere quell’informazione con lui con gelida naturalezza, quasi fosse una semplice trattativa d’affari.

Era un fatto talmente terrificante, che Peter non riusciva a coglierne del tutto la portata. Certo, aveva paura e gli batteva nello stomaco a ogni ora del giorno e della notte, che fosse sveglio o colto da un sonno agitato. Ma era convinto che quella quantità di paura non fosse nemmeno lontanamente adeguata alla situazione. 

Forse i suoi istinti di conservazione avevano imposto un blocco, un limite oltre il quale quel sentimento paralizzante non poteva crescere... altrimenti si sarebbe trovato a rattrappirsi collassare su se stesso, incapace di muoversi ancora o di pensare – come quando aveva ricordato il vuoto sconfinato di quei cinque anni passati nel limbo.

Era un bene che ci fosse quel limite, si ripeteva Peter. Era un bene, perché non si sentiva così lucido da mesi, da quando era tornato. Non brancolava più nel buio, adesso.

Aveva un nome e una minaccia ben definita a cui attribuirlo. Aveva tra le mani mille fili apparentemente ingarbugliati, ma che dovevano necessariamente condurre da qualche parte, verso Kingpin e il signor Li e Osborn. 

Aveva modo di reagire.

Kingpin sapeva di lui da mesi, come minimo da settimane – quanto tempo ci voleva per organizzare un attentato in modo così contorto e certosino? Per ingaggiare Li e mettere i bastoni tra le ruote a Osborn, per tessere una tela sotterranea di accordi e depistaggi? Per accorgersi del ragazzino strambo che ronzava attorno al FEAST?

C’era solo da chiedersi cosa stesse aspettando per rivelarlo; perché non avesse fatto pervenire la notizia con tanto di fiocco a Jameson e alle altre testate giornalistiche. Quello era l’unico interrogativo in grado di far vacillare la sorta di calma illusoria che l’aveva posseduto.

Peter strizzò gli occhi, comprimendo con forza i bulbi oculari fino a sentirli pulsare.

No, non era calma. Rabbia latente, piuttosto, di un tipo che non gli era mai capitato di provare. Perché gli stava bene tornare pesto e contuso a casa una notte sì e l’altra pure, e gli stava bene rischiare una caccia all’uomo per mano della Sable, e anche giocare al “vigilante” e inimicarsi Tony e tutti i Vendicatori. Ma se c’era qualcosa che non gli stava bene, era una minaccia diretta alla sua famiglia.

E due persone erano morte per colpa sua e della sua irragionevolezza. Per quanto May tentasse di ripetergli che lui avesse fatto tutto il possibile; per quanto lasciasse ad accumularsi le chiamate e messaggi in segreteria di Tony, probabilmente colmi di parole simili; per quanto, in fondo, sapesse di aver evitato il peggio al Municipio, quelle due macchie sporcavano solo la sua coscienza.

Peter fece appello a tutte le sue energie per tirarsi su a sedere sul letto, dopo più di un giorno in cui era diventato il suo tiepido rifugio di passività ed elucubrazioni.

In poco meno di quarantotto ore era giunto a una consapevolezza così amara da scacciare qualunque volontà di intraprendere altri colpi di testa, e di iniziare invece a usarla. Ovvero, che non era più questione di meritarsi il titolo di miglior eroe che New York avesse mai avuto – ma di meritarsi ancora il titolo di eroe.

 


 

23 giugno, Casa Parker, Queens


La risposta a molte delle sue domande arrivò pochi giorni dopo la comparsa del biglietto minatorio e della sua decisione di “ripartire da capo e usare la testa”. Quell’intento si era concretizzato in un modo tutto sommato semplice: disporre fisicamente i pezzi del puzzle di fronte a sé e tentare di riordinarli.

Da ore, Peter era intento a stampare, scrivere e incollare i pezzi del proprio collage personale, non così dissimile da quello di Martin Li... solo che lui preferiva usare come piano di lavoro il soffitto della sua camera. 

Stare attaccato a testa in giù gli dava l’impressione di riuscire a pensare meglio – o forse solo quella di essere Spider-Man intento a venire a capo di qualcosa, e non un neodiplomato che brancola nel buio della malavita e degli intrighi politici.

Grazie a Karen era riuscito a reperire molto del materiale secretato sulla Oscorp, giacente negli archivi della NYPD e dello SHIELD. E stava scoprendo, con suo profondo imbarazzo e rammarico, che ragionare sulla situazione invece di buttarcisi dentro a capofitto poteva essere molto più fruttuoso di quanto credesse. 

Certo, stava scalfendo solo la punta dell’iceberg, perché le informazioni veramente scottanti erano ancora fuori dalla sua portata, a meno di parlare coi diretti interessati... ma a quello avrebbe pensato dopo. Un passo alla volta, si ripeté.

Per ora, l’unica certezza era che tutto partiva dall’odio di Martin Li per Osborn e la Oscorp. Peter aveva lasciato da parte le trame politiche per concentrarsi su quello. Non ne capiva nulla, del resto... ma se c’era una dote che era certo di possedere, quella era l’empatia. Cercare di ricostruire gli apparenti vaneggiamenti di un folle – che tra l’altro, considerò con un brivido, conosceva – gli sembrava enormemente più semplice che trovare il bandolo della matassa di ritorsioni tra Wilson Fisk e Norman Osborn.

Nel riesaminare il marasma di foto e articoli accumulati in quell’ufficio, Peter aveva finito per trovare un filo logico dietro a quelli che sembravano solo i deliri di un folle accanito contro Osborn: gli esperimenti della Oscorp.

Erano un tema ricorrente, non solo per le accuse e gli scandali in cui era stata coinvolta la società al riguardo. Vi era un’ossessione di fondo al riguardo che legava tra loro tutti quei mille tasselli ridondanti... inclusa la sua foto, ma non nel modo in cui aveva creduto e temuto all’inizio.

Non era la sua identità segreta, il fulcro. Il rischio di essere smascherato era solo un danno collaterale. Martin Li non avrebbe tratto alcun vantaggio personale nel rivelarla. Fisk sì, certamente, o anche Osborn... ma non lui in prima persona.

No, no, c’era altro. Doveva esserci altro.

Molleggiò sui talloni, come a incitare una soluzione rapida, poi si alzò in piedi a testa in giù, attaccato al soffitto. Scrutò da una distanza maggiore il miscuglio di informazioni cartacee e digitali che aveva raccolto attorno a sé nella penombra della stanza, spezzata dagli ologrammi azzurrini proiettati dal costume. L’intonaco era tappezzato di segni di scotch e da qualche sbaffo di pennarello sfuggito ai margini di fogli e foto, ma a quelli e all’ira di May avrebbe pensato dopo.

Incrociò le braccia, assottigliando gli occhi come a scorgere qualche collegamento invisibile in controluce, infine li chiuse del tutto, ripercorrendo al contempo i passi di quell’ultimo periodo.

Esperimenti illeciti. Un odio ancestrale per Osborn. Kingpin e Fisk. Il collage di foto lasciato in bella vista. Il modo in cui erano arrivati al magazzino. I poteri da incubo di Mr. Negative.

Non siamo poi tanto diversi. Forse siamo persino dalla stessa parte, Peter.

Fu quando la voce distorta di Martin Li gli risuonò nei timpani, e mise l’accento sulla parte giusta della frase, che Peter sgranò gli occhi. Non tanto il fatto di essere dalla stessa parte – mai, non sarebbero stati mai dalla stessa parte – quanto quello di assomigliarsi, in qualche modo.

Non erano diversi? Ovvio, aveva pensato finora Peter: erano entrambi dei superumani o potenziati, che dir si volesse. 

Peter non l’aveva scelto. Era stato un banale incidente con un ragno OGM sfuggito al suo terrario Oscorp. E Li, invece? Come li aveva ottenuti, quei poteri? C’entrava la Oscorp anche in quel caso? Non gli sembrava poi così assurdo, adesso.

Peter si mordicchiò il labbro e si passò le dita tra i capelli dritti per la gravità, scavando ancora nella propria mente. L’unica persona di sua conoscenza che avesse volontariamente accettato di potenziarsi era il Capitano Rogers. Ma quelli erano altri tempi, altre situazioni, altre moralità.

Anche tra i supercriminali con cui aveva avuto a che fare nel corso degli anni non c’era nessuno che avesse desiderato i propri poteri. Electro, Rhino, Tombstone, Scorpion, Lizard... tutti loro erano capitati nel mezzo di incidenti più grandi di loro che li avevano privati dell’umanità e di una vita normale. Cosa avessero scelto di fare coi loro poteri, poi, era unicamente imputabile ai diretti interessati – ma lui stesso e Murdock erano la prova vivente che si poteva scegliere.

Martin Li, qualunque fosse la sua storia, non aveva scelto per il meglio. Anche se aveva aperto e gestito il FEAST con dedizione per così tanto tempo. Anche se aveva aiutato May e lui quando i tempi si erano fatti economicamente duri. Anche se era rimasto vicino a sua zia per cinque anni, dandole una causa per andare avanti. Anche se gli aveva detto che sarebbe stato bello, essere colleghi di Spider-Man. Anche se l’aveva visto così spesso parlare con senzatetto o disoccupati o emarginati nel tentativo di garantire loro un futuro, una possibilità. La stessa che, forse, era stata strappata a lui.

Che Norman Osborn gli aveva strappato.

Ma perché proprio adesso?

Peter riaprì con lentezza gli occhi, fissando l’accozzaglia di fogli strappati di fronte a lui e identificando la risposta in un articolo sul punto di staccarsi. Si accovacciò di nuovo e allungò le dita a strappare il ritaglio di giornale, che annunciava la candidatura di Osborn alle elezioni di New York.

Un criminale sotto mentite spoglie, causa dell’incidente che ti sconvolge la vita, che si pone a capo di una città... era un’ipotesi sensata. La prospettiva faceva bruciare lo stomaco a lui, che alla fine non poteva lamentarsi più di tanto del suo lato ragnesco. 

Deglutì un groppo di saliva amara.

A distanza di così tanto tempo, era in grado di dire che non era colpa di Osborn, se lui aveva compiuto delle scelte sbagliate e non aveva accettato le responsabilità dei suoi poteri sin da subito. Non provava simpatia per lui, era vero; e non gli piaceva avere un conto in sospeso con una persona del genere. Ma non si era mai guardato alle spalle e aveva semplicemente finto che nessuna Oscorp o Norman Osborn fossero mai esistiti.

Qualcun altro avrebbe ragionato nello stesso modo? Cosa avrebbe potuto scatenare una sete di vendetta tale in una persona come il signor Li?

Peter accartocciò nel palmo la carta sottile del giornale, spedendo la pallina nel cestino con un tonfo leggero. Si trovò a stringere i denti, gli occhi puntati sulla corona nera che spiccava sul soffitto – l’altra estremità del filo, opposta a Mr.Negative. Da qualche parte nel mezzo, c’era la causa che aveva innescato di tutto quell’incastro di ingranaggi in cui era finito schiacciato.

Un unico interrogativo gli risuonava martellante in testa, in cerca di risposte: cosa aveva perso Martin Li?


 




Uscì dalla stanza con più domande che risposte, un cipiglio che gli scuriva il volto e una nuova, folle determinazione a farsi strada in lui con ogni pulsazione del cuore. La sentiva scorrere nelle vene, riempiendole una goccia di sangue alla volta. 

Non poteva concedersi distrazioni. Non poteva concedersi passi falsi. Era tutto in bilico, appeso al filo di una ragnatela. Il mirino di Kingpin era puntato su di lui – su May – e se fino a pochi giorni prima si era sentito terrorizzato e allo sbando a pensarci, intento a dimenarsi su una mina vagante in procinto di esplodere alla minima sollecitazione, adesso che la minaccia si era addensata e concretizzata sapeva di dover rimanere immobile.

Almeno, immobile agli occhi di Kingpin. 

Non poteva prenderlo di petto, ovviamente. Non poteva avvicinarsi a Osborn ed estorcergli informazioni. Non poteva nemmeno contattare Tony o Yuri, vista la pressante paura che Kingpin potesse vederla come una "infrazione" di quel tacito accordo di non aggressione stipulato tra loro senza essersi nemmeno mai visti. 

Ma poteva rimanere a distanza e trovare gli incastri mancanti del meccanismo. Kingpin voleva che Spider-Man sparisse e... beh, sarebbe sparito, almeno dal suo radar.

Anche se sentiva un principio di nausea al pensiero di lasciare che i suoi illeciti fiorissero all’ombra della sua negligenza volontaria. Magari avrebbe comunque potuto fare qualche piccola ronda nel suo territorio abituale, un paio di sortite sporadiche nei luoghi più malfamati, qualche occasionale intervento anticrimine che non avrebbe turbato gli equilibri...

Con quei pensieri in testa, si diresse in cucina per mettere sotto i denti il primo vero pasto in due giorni, ma si bloccò a metà tra la penisola e il salotto, trattenuto dal telegiornale che blaterava in televisione. 

Zia May era seduta rigidamente sul divano, seguendo con occhi nervosi le immagini e i titoli brillanti che scorrevano sullo schermo:

NUOVA REGOLAMENTAZIONE DEI SUPERUMANI? WASHINGTON ANNUNCIA CONTROLLI PIÙ RIGIDI E NORMAN OSBORN PROMETTE SICUREZZA A NEW YORK”.

Il Municipio di New York era ben distinguibile alle spalle di una giornalista, recintato da transenne che a malapena contenevano una folla di manifestanti. Su più di uno striscione, si intravedeva il simbolo della sua maschera sbarrata da un divieto.


ONESTÀ E TRASPARENZA NON PORTANO MASCHERE, recitava un altro.

Peter si avvicinò cauto, in punta di piedi, fermandosi dietro sua zia. Lei non si mosse di un millimetro, nonostante non l’avesse visto per più di una manciata di minuti negli ultimi giorni. Gli aveva lasciato i suoi spazi, anche se in modo sofferto, e Peter aveva apprezzato quella concessione.

«Pete,» mormorò quando le si avvicinò ancora, in modo insolitamente distratto, anche se non privo di premura.

Gli strinse il braccio, tirandolo appena per farlo avvicinare. Lui non oppose resistenza, ma rimase in piedi, diritto come un fuso. Il senso di ragno scampanellava. Se da una parte colse il sollievo di May, nello sguardo rapido che gli rivolse, dall’altra percepì con chiarezza la sua ansia a malapena contenuta e probabilmente causata dal telegiornale in onda.

May era stanca, quanto lui e forse anche di più. La notizia di Martin Li l’aveva devastata, oltre che intimorita. Lei eEra praticamente il suo braccio destro: avevano collaborato per anni e si era instaurato un rapporto di fiducia. Peter riusciva a malapena a concepire che Mr. Negative convivesse con la pacata gentilezza del signor Li, ma era chiaro che May stesse combattendo una vera e propria battaglia interiore per razionalizzare quel fatto. Per accettare che il suo collega più fidato fosse un supercriminale pluriomicida che aveva quasi ucciso suo nipote.

Le fece una carezza sulla mano e si poggiò coi gomiti sullo schienale, posandole poi un palmo discreto sulla spalla. Si mise a seguire le notizie con lei, con una vibrazione più marcata a scuotergli il senso di ragno. 

Era solo il suo nervosismo ad acuirlo, lo sapeva, ma c’era aria di novità, in quel servizio straordinario che ondeggiava dietro lo schermo. Ne ebbe conferma nel vedere i capelli rossicci di Norman Osborn comparire nell’inquadratura, che lo mostrava seduto alla lucida scrivania di un ufficio amminsitrativo.

Non indossava la solita espressione spavalda, anzi. Rughe di preoccupazione adornavano il suo volto che, privo della patina di bonaria affabilità, rivelava ogni suo angolo e spigolo più aguzzo, rendendolo freddo e decisamente poco amichevole. L’impressione era acuita dal completo verde bottiglia, che sembrava far emergere ombre altrettanto verdastre nei suoi occhi. Si sistemò il fermacravatta d’oro prima di parlare, con voce grave:

«Le accuse a me rivolte sono assolutamente prive di fondamento. La Oscorp può vantare le regolamentazioni e i controlli di gran lunga più stringenti sulla piazza rispetto ai propri metodi di sperimentazione e ricerca. La malavita ha di certo altri canoni al riguardo... consiglierei a chi di dovere di indagare negli ambienti giusti, prima di infamare l’operato di una ditta rispettabile, che ha alle spalle decenni di lotte ambientaliste e stretta collaborazione con la NYPD. Il caso di Martin Li, o "Mr. Negative", che dir si voglia, non può essere imputato a noi sulla base di illazioni fomentate dalla ricerca di un capro espiatorio.»

L’indignazione di Osborn sembrava quasi genuina. Non c’era da stupirsi che fosse il candidato prediletto per le elezioni e che così tanta gente avesse scelto di appoggiarlo.

«A riprova della mia buona fede, non posso che garantirvi la totale sicurezza per la nostra amata città. E non ho intenzione di farlo con semplici ed evanescenti chiacchiere: la Sable International, mio corpo di protezione privato che ha dimostrato la propria efficienza nei tragici eventi al Municipio, offre la propria cieca collaborazione alla polizia e alle forze armate nel contenimento dell’ormai innegabile minaccia rappresentata da potenziati e superumani. Se è la guerra, che vogliono, l’avranno.»

Peter si sentì essiccare la lingua, mentre il comunicato si interrompeva bruscamente, lasciando la parola ai commenti agitati dello studio stampa. Si attendeva un annuncio ufficiale da Washington, ma Peter quasi non gli diede peso. Sapeva già quale sarebbe stato, come l’aveva saputo Tony mesi prima, da quel giorno a Capitol Hill.

Aveva altro di cui preoccuparsi: “sparire” rimanendo operativo si sarebbe rivelato più complesso del previsto, con la Sable a dare manforte alla polizia. Ma non impossibile, non per Spider-Man. Non per qualcuno che conosceva la città come le proprie tasche e che aveva ancora qualche asso nella manica. Sotto il letto, per la precisione, anche se presentava delle complessita con cui doveva ancora fare i conti.

Scosse la testa, seguendo distratto le immagini che si susseguivano sullo schermo – dibattiti su dibattiti. La cosa più assurda di tutta la situazione era che Norman Osborn stesso non fosse stato che una marionetta nelle mani di Kingpin. Pur di non veder infangata la sua reputazione, ormai comunque compromessa, Norman aveva mobilitato un corpo paramilitare per tenere a bada i super, lasciando di fatto campo libero alla malavita e ai suoi traffici.

Adesso iniziava a capire perché Kingpin fosse considerato il vero re di New York. Aveva la città alla sua mercé e non aveva nemmeno dovuto esporsi in prima persona: Fisk rimaneva arroccato nel suo grattacielo, seduto dietro la buona facciata di magnate filantropo mentre tesseva la propria tela diabolica, in cui lo stesso Spider-Man, il signor Li e Osborn erano rimasti intrappolati.

Fu solo dopo una manciata di secondi che si accorse dello sguardo di May fisso su di lui, ustionante.

«Tu sai cosa sta succedendo, vero? Oltre a quello che ci fanno vedere, dico.»

Peter annuì con lentezza, sentendosi il detentore di verità che non riusciva ancora del tutto a comprendere, ma che, finalmente, riusciva almeno a inquadrare.

«Il governo... hanno finalmente la scusa perfetta per promulgare l’Atto. Adesso tutti ci odieranno,» sintetizzò, alzando le spalle e non osando aggravare il suo carico di preoccupazioni.

May scosse la testa, scomponendo i lunghi capelli castani e facendosi quasi scivolare gli occhiali dal naso.

«Non odieranno Spider-Man, Pete. Non potrebbero mai.»

«Aspetta e vedrai,» sorrise amaro lui, abbassando gli occhi sulle cuciture sfilacciate del divano e prendendo a tormentarne una.

Ci fu un silenzio teso, inframezzato solo dalla voce di un reporter sul luogo dell’attentato. Si scorgevano ancora le striature nere delle esplosioni e degli stralci di ragnatele attutenti qua e là sul piazzale. Un servizio sui defunti Campbell e Davidson prese a scorrere in sottofondo, con un encomio funebre pronunciato dall’attuale sindaco, un ometto insignificante e stempiato pronto a cedere una poltrona divenuta fin troppo scottante.

Poi, sullo schermo, presero a scorrere delle foto di Martin Li, immortalato nel pieno delle sue attività al FEAST. Cercavano di ricostruire come una persona così generosa e dedita al volontariato potesse essersi tramutata in un mostro. Con un balzo al cuore, Peter pregò che in nessuna di esse figurassero lui o May, ma i giornalisti sembravano aver mantenuto il focus unicamente sull’insospettabile Mr. Negative.

E Peter pensava di sapere chi dover ringraziare per quell’insolita discrezione. Pepper era sempre stata molto abile a fare in modo che l’attenzione della stampa non divagasse, e non si sarebbe stupito nel sapere che Tony avesse deciso di sfruttare la sua autorità in merito.

«Pete,» lo chiamò May, e non seppe se fosse la prima volta o meno.

Quando spostò lo sguardo su di lei, vide che aveva gli occhi lucidi. Si sentì mancare capendo cosa stesse per chiedergli.

«May...»

«Devo saperlo,» ribatté lei, scuotendo la testa. «Tu sai... sai qualcosa su Martin? Sai quando... da quanto...» si coprì la bocca col palmo, intrappolando il tremito nelle sue parole e voltandosi di scatto verso la televisione. «Perché ha–»

Peter lasciò crollare in avanti il capo, prendendo a tormentarsi le dita, pizzicando i polpastrelli sin quasi a farsi male.

«Non... non so nulla di certo, ma...» prese un grosso respiro, «... ma forse posso immaginarlo.»

Anch’io sono così per colpa di Osborn, non disse, anche se avrebbe voluto. Anch’io sono stato arrabbiato con lui e col mondo.

May si voltò di nuovo, quasi captando quei pensieri. I suoi occhi erano furenti.

«Tu non lo faresti mai.»

Peter tacque. C’era stato un momento, anni prima – troppi rispetto a quelli effettivi – in cui forse l’avrebbe fatto. In cui avrebbe usato i propri poteri per punire chi gli aveva portato via zio Ben. Ma... no, alla fine non l’aveva fatto, perché le responsabilità avevano avuto la meglio sui poteri. E quindi scosse piano la testa, sentendo la mano di May che saliva ad accarezzargli la guancia.

«Non lo faresti mai,» ripeté, afferrandogli il mento e costringendolo a guardarla.

«No,» confermò Peter, sforzando un sorriso rassicurante.

May allentò la stretta, scostandogli poi delle ciocche di capelli dalla fronte. Non ebbero modo di proseguire il discorso, perché sullo schermo si palesò l’annuncio di una diretta dalla Casa Bianca, e pochi secondi dopo comparve il Presidente Ellis al leggio.

Dietro di lui erano schierati gli alti ranghi del governo – incluso Ross, coi baffi che nascondevano la piega truce delle labbra. E, con profondo sconcerto di entrambi, al margine estremo del gruppetto di funzionari faceva capolino Tony, con un paio di immancabili occhiali appuntati sul naso e l’ormai caratteristica postura un po’ sbilenca.

Peter sbiancò le nocche, sordo ai primi istanti del discorso di Ellis, lo sguardo fisso unicamente su quella figura impettita nel suo gessato d’alta sartoria, le mani incrociate davanti a sé e gli occhi schermati, insondabili.

Era lì volontariamente? Perché appoggiava l’Atto? O perché, come gli piaceva dire, stava “tenendo d’occhio la situazione da ogni lato”? O magari era stato obbligato in quanto rappresentante dei Vendicatori... e allora, dov’era il Capitano Rogers?

Di nuovo inganni e sotterfugi e bugie. Peter fu lieto di non aver risposto alle sue chiamate e di aver ignorato i suoi messaggi. Era un’indifferenza che Tony si meritava appieno – chissà che non l’avesse fatto ravvedere sui suoi errori. 

Ma, sotto quell’irritazione latente, si faceva strada la consapevolezza che, nella pratica, Tony non aveva mai davvero avuto voce in capitolo sull’Atto. Forse era quello che gli era piaciuto credere e far credere a lui. Ma, vedendolo ammassato sullo sfondo insieme a tutte le altre giacche e cravatte anonime, gli fu chiaro che la sua influenza non fosse mai stata così grande da garantirgli una posizione privilegiata.

E ne ebbe la conferma definitiva nell’udire la promulgazione ufficiale dell’Atto e i suoi dettagli. Perché Tony, per quanto sfuggente e doppiogiochista e pragmatico, non avrebbe mai avallato nulla del genere.

Per un secondo, gli occhi di Tony furono visibili dietro di lenti: sembrò fissare esattamente l’obbiettivo di una telecamera. E, Peter ne fu certo, guardava esattamente lui, perché lo vide intascare il telefono nel momento esatto in cui una vibrazione scuoteva il suo nella tasca posteriore dei pantaloni. 

Lo estrasse, continuando a fissare lo schermo davanti a lui, dove Ellis prendeva a rispondere alla miriade di domande scatenate dal suo discorso epocale, e trovò infine la forza di abbassarlo su quello più piccolo del telefono.

Decine di notifiche invadevano la home, ma le ignorò, concentrandosi sull’ultima, di cui aprì l’anteprima con un pollice tremante.


 

Tony Stark
Non leggerai neanche questo, ma ci provo. Da oggi, usa la Iron-Spider. La odio anch’io, ma usala. Se non vuoi farlo per te stesso o per me, fallo per May. Basso profilo, Spidey. Te lo dico da Tony e non da Iron Man.


 

Non si irritò per quel messaggio, né provò l’impulso di scagliare via il telefono, né si rimproverò per aver appena infranto il voto d’indifferenza totale. Trovo quelle parole sensate, in realtà, e al contempo terrificanti. Non aveva mai letto un Tony più serio di quello. Più impaurito... tanto che le sue stesse parole sembravano vibrare. 

Si rese poi conto che era in realtà colpa della sua mano, scossa da un tremito che gli risalì ogni nervo ipersensibilizzato e in qualche modo incapace di registrare la stretta convulsa di May sul suo braccio.

Rialzò gli occhi verso il televisore, dove scorreva un riassunto scritto di quanto appena pronunciato da Ellis, in qualche modo ancor più definitivo delle semplici parole emesse nell’etere su cui non si era voluto concentrare finora.

I superumani non registrati erano ufficialmente clandestini su suolo statunitense – ogni superumano, potenziato e mutante era tenuto a consegnarsi alle autorità o a rivolgersi ai Vendicatori per essere identificato e registrato entro le successive quarantotto ore. La Sable, di stanza a New York, era autorizzata a intervenire oltre i confini statali e aveva facoltà di neutralizzare qualunque non registrato gli fosse capitato a tiro. I Vendicatori, unico fronte unito ufficiale, erano tenuti a convertire all’Atto i potenziati di loro conoscenza con qualunque mezzo.

Peter deglutì, i pugni stretti, e intercettò lo sguardo angosciato di May.

Ecco, cosa stava aspettando Kingpin: la guerra aperta.


 



 

26 giugno, Casa Parker, Queens


Alla calma solitamente segue la tempesta – e viceversa.

Ma quello che si era abbattuto sugli Stati Uniti era un uragano con l’occhio del ciclone che, invece di essere un fragile porto sicuro incentrato su New York, si era trasformato nell’epicentro di un ancor più devastante terremoto.

Peter faticava a tener conto di tutto ciò che stava accadendo e accumulava un post-it dopo l’altro sul suo collage appeso al soffitto, cercando di non rimanere indietro rispetto alla valanga di novità che lo investiva ogni giorno, facendolo sentire un naufrago in balia delle onde.

Il telegiornale strepitava ininterrottamente dal salotto e non aveva cuore di imporre a May di spegnere quella scatola infernale, non quando lui stesso si ritrovava masochisticamente ad ascoltare le invettive di Jameson ogni sera. Il progetto che aveva in mente, la riconquista che avrebbe voluto attuare in quei giorni, sfumò di fronte alla nuova emergenza.

Raccoglieva ogni goccia d’informazione che fuoriusciva dai suoi altoparlanti. E non erano mai buone nuove.

Iron Fist era stato arrestato e incarcerato nella sezione speciale di Ryker’s senza mezzi termini, trattato alla stregua di un criminale quando si era rifiutato di collaborare. 

Daredevil era sparito ufficialmente dalla circolazione, facendo perdere le sue tracce nei vicoli bui e nebbiosi di Hell’s Kitchen. Quel pazzo di Deadpool aveva inviato una trasmissione clandestina dal Canada, invitando tutti i supereroi reietti a varcare il confine verso il “paese della gentilezza” – molti di loro erano stati trattenuti con la forza alla frontiera. 

Dalla Costa Ovest, quattro nuovi volti erano emersi identificandosi come “I Fantastici 4”: si erano dichiarati istantaneamente a favore dell’Atto di Registrazione, preferendo però rimanere sulle loro nell’assolata California, senza prender parte alla guerra civile ormai in atto nelle strade di New York, dove la Sable pattugliava senza sosta ogni Avenue e Boulevard in cerca di trasgressori. 

Tony era apparso più di una volta in veste di portavoce dei Vendicatori, condannando i mezzi utilizzati dalla Sable e invitando i clandestini a rivolgersi al Complesso per una “transizione pacifica”. A quelle parole, Zia May aveva quasi scagliato la tazza della colazione contro lo schermo.

Peter, in quel marasma di arresti, dichiarazioni e scontri a fuoco tra vigilanti, Sable e polizia, usciva a malapena di casa nelle vesti di adolescente del Queens, e aveva limitato le sue ronde notturne agli angoli più limitrofi del Bronx e di Brooklyn. Luoghi che esulavano dai suoi soliti schemi, nella speranza di riuscire comunque ad aiutare qualcuno, anche una singola persona per notte. 

Yuri, non sapeva con quale coraggio e sprezzo del pericolo per se stessa, gli inviava di tanto in tanto aggiornamenti sulle retate e posti blocco organizzati dalla NYPD, ma non aveva alcun potere sulle iniziative individuali della Sable.

Resisti, Spider-Cop. Abbiamo ancora bisogno di te, gli aveva scritto una sera, facendogli capire che tutto ciò era reale – che era davvero un supercriminale e che sarebbe davvero potuto finire a Ryker’s e poi alla RAFT, scontando la colpa di aver voluto rendersi utile.

Per la prima volta in vita sua, vide la sua New York come una gabbia, con le sbarre che diventavano sempre più serrate e stringenti. 

Non respirava più, quando scendeva dal suo appartamento per fare spesa alla bodega all’angolo, cercando di affrettarsi il più possibile. Non respirava più, quando declinava gli inviti di Ned e MJ a casa loro, accampando la scusa dopotutto vera di volerli tenere al sicuro – non vedeva l’ora che partissero a fine mese per visitare le loro future università. 

Non respirava più, quando rientrava a casa alle quattro del mattino e veniva trafitto dagli occhi enormi e colmi di sonno di zia May, sollevata nel vederlo sano e salvo di ritorno da una ronda. Non respirò più, quando si rese conto che, ormai da tre giorni, le chiamate e messaggi di Tony erano cessati del tutto, sprofondandolo in un silenzio radio totale.

L’ultima volta che non aveva respirato a quel modo era ad anni luce dalla Terra, su un pianeta ricoperto di sabbia rossastra e asfissiante. 

E adesso stava per accadere la stessa cosa. Stava per sparire di nuovo, un pezzetto alla volta. e non come si era prefigurato né in modo momentaneo. Sarebbe stato per sempre.

Sarebbe arrivato l’ultimo giorno in cui avrebbe indossato il costume di Spider-Man. Si avvicinava, lo sentiva ormai dietro l’angolo... e non poteva permetterlo. 

Non quando finalmente iniziava a raccapezzarsi e incollare insieme i pezzi frastagliati del mosaico, non quando le figure di Norman Osborn e Wilson Fisk avevano acquisito una parvenza di senso. Non quando era a un passo dalla leva d’emergenza dell’intero macchinario – gli mancava solo la chiave, ma sapeva dove trovarla. 

Gli mancava solo l’occasione. E l’aria.

Doveva tornare a respirare. C’era un unico modo per farlo, l’unico che non avrebbe mai voluto accettare e che lo rincorreva a perdifiato da mesi.

Quando rientrò a casa, quella notte, trovò come sempre zia May ad attenderlo, rannicchiata sul suo letto con una tazza di tè forte in mano nonostante l’afa di giugno. I capelli scomposti le ricaddero sulle spalle nell’alzarsi quasi di corsa, rischiando di rovesciare la bevanda ormai fredda.

Gli andò incontro a braccia tese, stringendolo subito a sé con forza. Come ogni volta, ormai, come se tornasse ogni volta da un fronte in guerra.

Si tolse la maschera dopo aver cautamente abbassato le tapparelle e respirò l’aria chiusa ma familiare della sua stanza. Rilassò le spalle, anche se un cavo d’acciaio continuò a tendergli l’intero corpo da capo a piedi mentre si metteva il pigiama. 

Non intimò a May di uscire – sapeva che era inutile e che sua zia aveva bisogno di sapere che fosse illeso, sotto al costume, o non sarebbe riuscita a chiudere occhio nemmeno per quelle poche ore che li separavano dall’alba. Poi sarebbe andata al FEAST, tentando di mandarlo avanti da sola con la manciata di volontari superstiti, nel tentativo di distrarsi dalla minaccia costante che correva lui. E inconsapevolmente, anche lei.

Peter sospirò, scacciando quei pensieri. Era stata una nottataccia. Aveva speso più tempo a schivare le ronde della Sable che a compiere il suo dovere e aveva dovuto compiere un immenso giro di depistaggio prima di tornare a casa, nel caso qualcuno lo stesse pedinando. La prospettiva dell’Iron-Spider, dotata di un sistema mimetico all’avanguardia, si faceva sempre più allettante. Ma non era ancora il momento di usarla.

Si stava giusto infilando una maglietta scolorita di Ritorno al Futuro, quando May ruppe il silenzio:

«Mi ha chiamata Tony.»

Peter si bloccò con l’orlo della maglia ancora stretto tra le mani, sentendosi cadere la mandibola.

«E tu hai risposto?» scattò prima di rendersene conto, ma un semplice dito alzato di May lo obbligò a tacere, anche se non scacciò il cruccio dalla sua fronte.

«Ho pensato di non farlo per principio. Poi ho pensato che tu sei là fuori ogni notte col rischio di essere arrestato, o peggio, e ho deciso che tenevo più alla tua incolumità che all’orgoglio.»

Peter quasi gonfiò le guance, come se quello fosse un gesto adeguato alla gravità della situazione. Poi, sentì il cuore risalirgli di scatto in gola al pensiero che Tony avesse in qualche modo scoperto di Kingpin. Non si sarebbe sorpreso – e allo stesso tempo pregava irrazionalmente con tutto se stesso che ne fosse ancora all’oscuro. Avrebbe solo complicato tutto.

«E cosa voleva?»

«Non lo immagini?» ribatté May, sollevando appena le sopracciglia arcuate.

Peter scosse la testa, lasciandosi cadere seduto ai piedi del letto, la testa china a fissare il tappeto blu notte ormai stinto. Soffiò aria dalla bocca, quasi a svuotarsi del nervosismo e dell’adrenalina ancora in circolo che lo attanagliavano.

«Sì,» rispose infine, alzando le spalle. «Vuole che faccia “la mia scelta”. Per l’ennesima volta.»

Non poté fare a meno di suonare caustico, in un modo che non sentiva appartenergli, ma che si fece largo a forza sulla sua lingua. May sedette vicino a lui, osservandolo con una tranquillità che non rispecchiava il tumulto ombroso dei suoi occhi, una muta conferma di ciò che lui aveva appena supposto. Cercò di rivolgerle uno sguardo rassicurante, ma fallì miseramente.

«Non l’ha detto esplicitamente. Ha solo ribadito che può ancora proteggerti, se ti muovi adesso.»

Peter annuì distratto, senza nemmeno soppesare davvero quelle parole ormai vuote, dette da lui. Ci aveva pensato così tanto, in quei giorni. Ogni singolo secondo; una parte del suo cervello era sempre, costantemente dedita a venire a capo di quella scelta, ineluttabile sin dal principio.

Peter Parker o Spider-Man?

Gli era sembrato così semplice rispondere, quel giorno a Capitol Hill.

Il silenzio della notte era opprimente. Non sarebbe dovuto esistere, a New York: era una città che pulsava e respirava costantemente, incapace di essere muta. Adesso, però, sembrava aver perso la propria voce sotto gli stivali della Sable intenti a marciare per le sue strade. Persino le luci che si scorgevano dalla finestra sembravano più smorte.

Colse May che si agitava sul posto, stringendo tra loro le dita in un gesto repentino. Peter serrò a sua volta le labbra, con un vuoto che gli allargò il petto. La stava facendo preoccupare di nuovo. E la stava mettendo in pericolo – era già in pericolo.

«Zia May?» la chiamò semplicemente, invitandola a esternare ciò che l’aveva turbata.

Lei si riscosse di colpo, parlando subito, come per riflesso:

«Il punto è questo, Peter: se non ti rivelerai...» ingollò una boccata d’ossigeno con difficoltà, come se fosse solida. «Se non ti rivelerai, Tony potrebbe fare comunque il tuo nome? Per proteggerti?»

Peter si irrigidì, sentendosi gelare da quella possibilità che, no, non aveva considerato.

«Non... non credo.»

«Ma non lo sai per certo.»

«No. No, non lo so,» ammise controvoglia, slittando i denti tra loro con un cigolio molesto.

Fu il suo turno di immettere ossigeno solido nei polmoni, prendendo quel coraggio che stava accumulando da giorni, dall’arrivo del biglietto, dall’annuncio dell’Atto. Perché quella era l’unica cosa che potesse fare, l’unica strada che davvero gli rimaneva.

«May, in realtà io... ho preso una decisione. Non è quella che vorrei prendere, però.»

Fece fischiare l’aria tra i denti. Le stava tacendo il pericolo che correva. Quante bugie le aveva detto, ormai? Ma questa era l’ultima, se lo ripromise. Ancora e ancora, giurando di disfare quella fragile tela di bugie in cui si era imbozzolato da troppo tempo.

«Forse, però... è quella che devo prendere.»

Perché sì, ci aveva pensato. A lungo, in circoli viziosi di “se” e di “ma” e di “forse”. Ed era arrivato a un’unica conclusione a cui non aveva voluto dare contorni definiti fino ad ora: non poteva permettere che Kingpin continuasse ad avere quell’asso nella manica. 

Non poteva permettere che fosse il re indiscusso di quella partita in eterno scacco, né poteva accettare di essere una semplice pedina sacrificabile al minimo capriccio suo e di Osborn. Avrebbe dovuto giocare lui per primo, mandare all’aria la partita rischiando il tutto per tutto.

Era una decisione basata su ideali d’adamantio, ma retta da fondamenta reali fragili come cristallo.

«Zia May... devi fidarti di me. Qualunque cosa farò, devi fidarti e fare ciò che ti dico. Ti prego.»

Lo disse d’un fiato, senza guardarla se non nel pronunciare le ultime parole. Aveva parlato con un tale miscuglio di autorevolezza e incertezza che non sapeva nemmeno lui su che tono propendesse la sua voce. 

Oscillava, come ogni altra cosa nella sua vita. Come la sua identità e i suoi ideali, come Spider-Man da un palazzo all’altro, come Peter dal limbo alla realtà, come May tra la sicurezza e il pericolo. Voleva soltanto fermarsi, e sperare che anche tutto il resto facesse lo stesso.

Infine, May rispose con gli occhi improvvisamente lucidi, e lo fece in un modo che non si aspettava.

«Quando ho scoperto che eri Spider-Man, ero furiosa.»

Peter corrugò le sopracciglia, scrutandola attento a quella dichiarazione improvvisa. Una bolla di senso di colpa risalì acida lungo l’esofago.

«Lo so. Ti avevo mentito e...»

«Non è solo per quello,» lo fermò subito lei, giungendo più strettamente le dita lunghe e affusolate. «È che... per mesi avevo sentito parlare di questo Spider-Man come un criminale, come qualcuno che prendeva la giustizia nelle proprie mani e si sostituiva a chi di dovere. Ti avevano insultato per tutto quel tempo solo perché indossavi una maschera.»

«Non mi è mai importato di cosa...» intercettò lo sguardo di sua zia, fattosi addolorato, e abbassò il proprio. «Forse... forse un po’ sì,» ammise, con un pizzico di amarezza.

Tacque, ripensando a quei primi tempi che, a dispetto delle malelingue, gli sembravano ora quasi rosei. Nonostante zio Ben fosse venuto a mancare e nonostante si fosse trovato con un fardello di responsabilità tra capo e collo, indossava il costume come se fosse la sua libertà personale appallottolata nello zaino. 

Adesso anche il costume gli pesava addosso come piombo – una fitta di nostalgia gli attraversò le ossa, colmandolo di quei momenti sul filo del rasoio, ma comunque sereni, in qualche modo. 

Quando pattugliava le strade di New York con Iron Man. Quando, tra una ronda notturna e l’altra, si fermava a prendere un churro espresso a Jackson Heights. Quando andava in trasferta a Manhattan e si fermava a fare due chiacchiere con Matt sui ponti di Hell’s Kitchen, per poi prendere nel sacco i malviventi di turno. Quando tornava a casa esausto, ma soddisfatto di ogni livido e acciacco perché era stato utile a qualcosa e qualcuno.

Gli sembrava che tutto ciò fosse stato inghiottito dalla voragine dei cinque anni che continuavano a inseguirlo – e alla fine l’avevano raggiunto, minacciando di sottrargli tutto ciò che aveva di caro.

Sentì la mano di May premergli sul ginocchio e realizzò di essersi fatto assente, perso in quella dimensione idilliaca e cristallizzata nel passato. Rialzò lo sguardo su di lei, sapendo di sembrare solo un diciassettenne spaurito, e non un eroe casualmente salvatore dell’universo. May sorrise appena.

«Io so che mio nipote non è un criminale. Sono fiera di te, Pete... lo sai, anche se non te lo dico abbastanza spesso. Non hai bisogno di una maschera per nascondere ciò che fai, perché non potrà mai essere sbagliato nelle intenzioni. Tu sei incapace di fare del male a qualcuno. Hai sempre protetto chi non poteva farlo da solo e hai sempre difeso i valori che io e Ben ti abbiamo trasmesso.» Fece una pausa, stringendo le labbra in un sorriso impaurito e commosso. «E se adesso deciderai di farlo a volto scoperto... io sono pronta a correre il rischio.»

Peter le strinse la mano d’istinto, aggrappandosi a quella stretta calda che conosceva meglio di qualunque altra.

Inspirò forte dal naso... e stavolta l’aria non sembrò acido nelle narici, né densa come melassa. Non bruciò nemmeno nei polmoni. Entrò e uscì lievemente, filtrata a dovere, senza intoppi di sorta.

Si strinse i polsi, cingendo gli spara-ragnatele con le dita in cerca di un ulteriore appiglio, ma sentiva di averlo già trovato. Fiducia

Si sentì calmo, per la prima volta da mesi. Il senso di ragno scampanellava in sottofondo... ma era un semplice scacciapensieri mosso dal vento, un cicalio tranquillizzante.

Solo allora comprese che, finalmente, anche lui era pronto a correre il rischio. Si alzò saldo sulle gambe, posando un bacio leggero sulla fronte di May.

«Prepara una borsa. Dobbiamo andarcene da qui.»







 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
eviterò qualunque tentativo di spiegare o motivare la mia assenza in questi mesi... sappiate solo che Back in Black è tornata ♥ Con i soliti aggiornamenti saltuari e sospirati, ma è tornata.

Spero abbiate gradito il capitolo. Purtroppo è un po’ di raccordo, perché andava scoperto qualche altarino e fatto il punto della situazione, ma dal prossimo ricominciamo col movimento ;)
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno continuato a seguirla, votarla, leggerla e commentarla durante tutto questo tempo. Il vostro supporto è importante, sappiatelo ♥ E grazie alla mia Guascosa
Miryel ♥ So che lo aspettavi!

Alla prossima (promesso!)

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