Never
forget we were built to last
- II parte -
Lo stipite di una porta è un punto
pericoloso, Jean lo sa.
Non può sostare lì a lungo.
L’eco dei passi di Hange che si allontana sulle assi del corridoio è risuonato
forte e costante solo per un paio di secondi, poi si è estinto nell’etere,
tramutando la presenza della caposquadra solo in una breve parentesi del
passato.
Per
tutta la notte, la sua mente aveva fuso i lamenti, i respiri, le parole
sconnesse di Marco in un unico rumore. A questo, si era però aggiunto quello
della voce di Hange, che gli aveva pericolosamente saputo dare proprio ciò di
cui aveva avuto più bisogno, e lui, come uno stupido, ha finito per prenderci
fin troppo gusto. Adesso che quel suono non c’è più, la stanza sembra piombata
nuovamente alla notte precedente e la cosa lo disorienta, lo angoscia.
E pensa che lo stipite della porta sia un punto davvero pericoloso. Il più
pericoloso che riesce ad immaginare.
Potrebbe voltarsi e da lì vedere Marco, adesso privo di bende, con talmente
tanto fuoco addosso da poter bruciare il mondo, e il pensiero è sufficiente per
fargli avvertire una mano invisibile afferrargli le budella e strizzargliele
forti, prima di rificcarle nel posto da cui erano cadute, proprio come aveva
fatto quel chirurgo dell’ospedale di Trost a Marco lì, per terra, in mezzo alle
grida disumane, alla sporcizia, e ad altrettante budella di soldati a cui
quegli organi non servivano più.
Potrebbe voltarsi e scoprire che il petto di Marco ha smesso di pulsare, che la
creatura che si agita sotto le sue suture ha avuto la meglio, e lui è diventato
il pastone perfetto per giganti – un po’ come lo avevano ritrovato tra i viali
di Trost, del resto.
Oppure, potrebbe aprire la porta e fuggire.
Ed è un’idea talmente volgare che, dimentico di ogni timore, Jean si volta di
scatto.
Forse un troppo di scatto.
Lì per lì, pensa sia il terremoto. Oppure, cosa più credibile, una nuova
breccia lì a Trost.
Si accorge che è un capogiro solo quando sente la bile gonfiargli le guance, e
quando inciampa sui suoi passi pur di raggiungere il lavamani dall’altro lato
della stanza prima che sia troppo tardi.
Piegato
dai conati e con entrambe le mani salde sulla vecchia ceramica crepata, Jean
riprende fiato.
Lo fa come se non lo facesse da anni.
E rimarrebbe ancora lì, a fissare il liquido giallognolo fuoriuscito da chissà
quale meandro del suo stomaco vuoto, se solo non percepisse una nota differente
nelle parole senza forza di Marco.
Forse è il mal di testa che ha preso a martellargli le tempie, si dice, ma è in
quella stanza da troppo tempo per non notare anche il più sottile mutamento di
quel timbro straziante.
Si volta prima ancora che la sensazione di nausea si plachi del tutto.
Marco sta invocando il suo nome.
L’occhio superstite, semichiuso come se assorto in preghiera, punta immobile
verso di lui, e non sa bene se è davvero verso di sé che sta guardando, o se è
giusto un caso– perché l’altro occhio, quello ormai andato, tremola come
tentasse di sfuggire alle suture che lo imbrigliano, ancora incapace di
comprendere che al di sotto, non vi è rimasto nulla.
“J—Jean—” gorgoglia; la palpebra si increspa come fosse di carta pesta.
Afferra un lembo del lenzuolo talmente forte da sbiancarne le nocche, e Jean
quelle nocche corre a stringerle prima che possano diventarne del tutto
bianche.
“Sono qui.”, ruzzola accanto al suo letto. Un filo di bile rimastogli
impigliato tra le labbra si trasferisce sulle dita livide che bacia, ma non
importa, “Sono qui, Marco—””
“ete—” sibila rauco “—ho—sete—”
È una
bella notizia. È un’ottima notizia, o così, almeno, Jean tenta di
convincersi.
La
notte precedente aveva provato a farlo bere, ma non ci era riuscito. Al primo
sorso, Marco aveva tossito per almeno cinque minuti in un modo così orrendo che
non volle riprovarci una seconda volta.
Adesso
però, Jean pensa sia diverso. Adesso è Marco a chiederlo, e non importa se ha
l’occhio talmente lucido o il fiato talmente affannoso da rendere surreale il
sol pensiero che in lui possa albergare qualsiasi sprazzo di lucidità.
Goffo, Jean si affretta a versare un bicchiere d’acqua dalla brocca sul
comodino e, ostentando una fiducia che non ha, fa scivolare la nuca umida di
Marco contro la sua mano, sollevandola quel che basta per portarsela
nell’incavo del gomito.
Il
movimento è troppo azzardato, Jean avrebbe dovuto capirlo prima che Marco si
irrigidisse in quel modo.
“Shhh - va tutto bene,” tamburella con le dita la
guancia buona, quella così gonfia che sembra trattenere qualcosa in bocca– “ti sto
solo dando dell’acqua—hai sete, no?”
Marco
non risponde. Trattiene il fiato più che può, prima che un singhiozzo sfugga
alle sue labbra aride.
Poi, ricomincia a tremare, e tutto torna difficile.
“Coraggio, bevi. Un sorso alla volta—” dice con voce fintamente calma. Quando
va a fermare la mascella tra il pollice e l’indice, la mano sinistra incespica
su una sutura esposta.
Marco piega il collo d’istinto, digrigna i denti, e Jean cerca di non pensare a
quanto quel gesto gli stia costando, o a quanto rovente il suo corpo possa
essere diventato, no.
Jean pensa a guidare il bicchiere verso le labbra di Marco, a far sì che
dell’acqua possa davvero scivolargli giù per l’esofago. Non può permettersi
altri pensieri, in questo momento.
Sente il bordo di vetro che gli ha accostato cozzare contro gli incisivi, non
lo forza: attende che il cervello stanco di Marco prenda consapevolezza di ciò
che sta accadendo intorno a sé, per poi piegare il bicchiere quando vede il
labbro inferiore arricciarsi contro il vetro, il pomo d’Adamo abbassarsi e finalmente,
ingoiare.
“Piccoli sorsi, avanti” raccomanda, perché non vuole cantare vittoria troppo
presto, ma Marco beve avidamente, e non può evitare di farlo - “Bene così, sei
fantastico—”
Fa appena in tempo a dire, prima di vedere Marco cominciare a tossire
esattamente come aveva fatto la notte precedente, e restituire più o meno la
metà di quanto bevuto.
Ci dovrebbe riprovare. Davvero, dovrebbe farlo. Probabilmente, è solo una
questione di posizione, o di angolazione.
Ma Marco sotto quella bava impiastrosa ha delle
labbra così scure, un respiro così acquoso tra un colpo di tosse e un altro,
che Jean si dice che anche quei pochi sorsi che sono riusciti a raggiungere il
suo stomaco e restarci, per il momento, possono bastare.
Quando
lo riadagia sui cuscini, Marco sta ancora gemendo di dolore. O forse di
frustrazione, o forse di entrambe le cose. Per questo attende un paio di
secondi, prima di essere certo di poter poggiare la mano sulla fronte, e
spostare i ciuffi scuri finiti pericolosamente tra le suture.
Non sono riuscito a farlo bere di più, ci ho provato,
caposquadra, ma non ci sono riuscito.
E
trova un ché di confortante nel prefigurarsi mentalmente la dichiarazione di
sconfitta che farà alla caposquadra Hange: lo aiuta a sentirsi meno solo in
quell’inferno.
È a quel punto che si ricorda dell’unguento. Almeno, potrà raccontare alla
caposquadra di aver fatto qualcosa di buono per mantenere fede a quel ‘lo
faremo stare bene insieme’.
Raccolto
dal comodino e rimosso il coperchio, appare come una sorta di miscuglio tra
purea di patate e miele che puzza di piscio di gatto. Ne prende un pizzico, ne
tasta la granulosità tra i polpastrelli.
“J—ean—”
Jean
solleva il volto.
Esita. Ha già le dita impiastrate di unguento, finirebbe per impiastrarlo di più
se lo toccasse adesso.
La lingua di Marco però non sta ferma, gli rivolta in bocca qualcosa di
apparentemente disgustoso, che lo fa fremere e contorcere come un pesce.
“Rei—Reiner—”
sfilaccia tra i denti, a un certo punto. Volta la testa dall’altro lato del
cuscino, ma il contatto tra la sutura e la federa sgualcita gli mozza il
respiro, e grida: “A—Annie! Berth—hold!”
Fanculo
l’unguento, Jean cede.
“Va tutto bene,” del resto, è solo l’ultima delle schifezze che imbrattano già
i suoi capelli
“Non preoccuparti. Stanno tutti alla grande e non vedono l’ora di
riabbracciarti—” striscia le nocche sulla fronte, emula la caposquadra Hange
nella gentile fermezza del tono, ma sa che non servirà. Non con un Marco che
sta gonfiando il suo petto in quel modo.
La mano che porta dietro al collo voleva essere una carezza, ma diventa subito
qualcos’altro: perché Marco brucia davvero. Brucia come un caminetto acceso.
E la pezzuola riversa sul cuscino dovrebbe stare fissa sulla sua fronte,
l’unguento che ha tra le dita, sulle suture a divorare per lui l’infezione.
Perché diamine non ha fatto niente di tutto
ciò?
“Rein—Reiner—”
chiama, dal suo inferno distante; il volto gli si riga di lacrime che non
potrebbe permettersi.
‘è la febbre, Jean’, si ripete in mente con il tono convincente di
Hange, ma Cristo - è così difficile. Pensa, mentre in silenzio il suo
pollice allontana quelle misere lacrime dalla guancia di Marco.
“J—Jean—”
Solo quando nomina il suo di nome il suo mento traballa, la voce si
assottiglia, diventa quella del Marco che conosce e che ama. E se Jean
ha una luce in grado di indicargli la strada quando disperso nelle tenebre più
oscure delle sue paure, allora è proprio quella.
Scuote
la testa, si desta dallo stato di torpore ove è finito. La stanza sembra avere
adesso un altro aspetto. Sarà il sole di quello che, dalla finestra, si
preannuncia un mattino nebbioso ma assolato, sarà qualcosa che non è in grado
di decifrare, ma va bene così.
Torna alcuni secondi al lavabo per sciacquare le mani, e già che c’è, anche il
viso.
“Non dovrebbe far male, o almeno spero—”
Ma non è sorpreso nel vedere il respiro di Marco si interrompersi bruscamente
quando, con due dita ricoperte di quella sorta di purea maleodorante, va
delicatamente a tracciare un piccolo sentiero sulle suture del viso.
“Se
dovesse farne, quando starai meglio, andremo insieme da quella quattrocchi
della caposquadra Hange e gliela faremo pagare, io e te –” prova a tirare fuori
un sorriso, ma è certo che se Marco potesse davvero vederlo, lo troverebbe più
simile ad una smorfia inquietante che altro.
“Ci
pensi? Andremo dalla Caposquadra a dirle che queste porcherie farebbe bene a
tenerle per sé, anziché rifilarle in giro al primo poveretto che ne ha bisogno.
Sono sicuro che anche gli altri commilitoni sarebbero d’accordo, mi sembra una
tizia appassionata—”, blatera, senza alcuna sosta e senza alcun senso,
fondamentalmente perché non vuole sentire Marco gemere attraverso i denti
serrati ogni qualvolta l’unguento cola tra i bordi slabbrati delle suture, né
vuole soffermarsi più di tanto sul modo in cui rovescia la testa all’indietro e
affonda gli incisivi sulle labbra, quando in punta di dita va a spalmarlo
proprio tra quei punti gonfi e viscosi che persino Hange, forse colta da un
impeto di misericordia, aveva evitato di toccare.
Di tanto in tanto si ferma un po’. Giusto perché teme che se Marco continuasse
a mordersi in quel modo ancora a lungo, probabilmente finirebbe per staccarsi
un labbro, o la lingua, o altre parti del corpo che, in considerazione di
quanto già perso, farebbero bene a restare dove sono.
“Abbiamo
quasi finito–” sussurra, incapace di ammonirlo davvero quando un punto sul
moncone, oltre che a strappargli l’ennesimo lamento, gli fa anche,
pericolosamente, piegare di scatto le ginocchia.
Ed è
davvero l’ultima noce di schifezza, quella che decide passare su
quell’intreccio sbilenco di fili scuri che chiudono una ferita che non dovrebbe
esistere. Forse ne meriterebbe di più, ma ogni qualvolta l’indice e il medio
sfiorano quel moncone, Jean sente come un branco di vermi strisciargli su per i
polsi e mangiucchiargli quell’ultimo granello di lucidità che gli permette di
essere ancora lì.
E Jean non ricorda l’ultima volta che si è sentito così male, anche se si
sorprende del non stare peggio.
“Finito, finito tutto—” annuncia, ritirando il petto e sollevando le mani quasi
in segno di resa, e Marco lo fissa come incredulo, dietro quella coltre di
sudore che gli gela la fronte e il collo.
Lo fissa, e sembra domandargli perché stia ancora lì, impalato e con un sorriso
ebete in volto, a non accorgersi che in un punto nascosto sotto il suo
lenzuolo, abbia preso a sanguinare.
Alla
vista della larga chiazza di sangue e le successive suture saltate, Jean sente
crollare qualcosa dentro di sé.
Come se all’improvviso, lo stesso gigante che ha rubato parti di Marco, gli
fosse precipitato sullo stomaco tramutandolo nella più orrenda delle voragini.
(fine
seconda parte)
NOTE:
ECCOCI!
Seconda parte di questa robina senza senso, che a
differenza della prima, ha anche la delizia di ricordare la lista della spesa.
Seriamente: è un periodo in cui non ho davvero un momento di pace. Ma devo far
credere a me stessa di avere ancora del tempo per i miei hobby, quindi fingo indifferenza,
e la posto.
Non betata e non corretta.
Ringrazio, come al solito, Joy che mi tiene altissimo l’hype per questa
storia. Se non fosse per lei, probabilmente non avrebbe mai preso vita. <3
La terza parte è già in lavorazione, e vi dirò di più: sarà talmente WTF che vi
domanderete che tipo di pigne io abbia nel cervello!
Scritta per la Secondary
To Whom? – challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia