Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Snehvide    05/06/2021    3 recensioni
Lo sguardo rimbalza sul pavimento, poi sulla la fiamma immobile del lume sul comodino, sulla grande borsa di tela scura che la caposquadra Hange, in pigiama e giacca da camera, ha trascinato con sé prima di abbandonare il suo alloggio e seguirlo.
Su qualunque cosa non siano le labbra di Marco, così costanti nel gracidare quei suoni sconnessi da un lato e poi dall’altro del cuscino che oramai, Jean dubita seriamente siano in grado di formulare qualcosa di concreto.
Di spalle, su di un ritaglio del letto, Hange assorbe quelle parole con la stessa concentrazione di chi tenta di decriptare dei messaggi nascosti, per poi annunciare, contro ogni aspettativa, un insulso ‘è la febbre, Jean’
Già. È la febbre. E anche una valanga di tante altre cose, o meglio, di non-cose – come ad esempio il suo non-più braccio , il suo non-più occhio, il suo non-più-Dio-solo-sa-cosa.
Grazie tante.
[What-if: Alive!Marco] [Jean/Marco] [Hurt/Comfort a manetta]
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Never forget we were built to last

- II parte -

 

Lo stipite di una porta è un punto pericoloso, Jean lo sa.
Non può sostare lì a lungo.
L’eco dei passi di Hange che si allontana sulle assi del corridoio è risuonato forte e costante solo per un paio di secondi, poi si è estinto nell’etere, tramutando la presenza della caposquadra solo in una breve parentesi del passato.

Per tutta la notte, la sua mente aveva fuso i lamenti, i respiri, le parole sconnesse di Marco in un unico rumore. A questo, si era però aggiunto quello della voce di Hange, che gli aveva pericolosamente saputo dare proprio ciò di cui aveva avuto più bisogno, e lui, come uno stupido, ha finito per prenderci fin troppo gusto. Adesso che quel suono non c’è più, la stanza sembra piombata nuovamente alla notte precedente e la cosa lo disorienta, lo angoscia.
E pensa che lo stipite della porta sia un punto davvero pericoloso. Il più pericoloso che riesce ad immaginare.
Potrebbe voltarsi e da lì vedere Marco, adesso privo di bende, con talmente tanto fuoco addosso da poter bruciare il mondo, e il pensiero è sufficiente per fargli avvertire una mano invisibile afferrargli le budella e strizzargliele forti, prima di rificcarle nel posto da cui erano cadute, proprio come aveva fatto quel chirurgo dell’ospedale di Trost a Marco lì, per terra, in mezzo alle grida disumane, alla sporcizia, e ad altrettante budella di soldati a cui quegli organi non servivano più.
Potrebbe voltarsi e scoprire che il petto di Marco ha smesso di pulsare, che la creatura che si agita sotto le sue suture ha avuto la meglio, e lui è diventato il pastone perfetto per giganti – un po’ come lo avevano ritrovato tra i viali di Trost, del resto.
Oppure, potrebbe aprire la porta e fuggire.
Ed è un’idea talmente volgare che, dimentico di ogni timore, Jean si volta di scatto.
Forse un troppo di scatto.
Lì per lì, pensa sia il terremoto. Oppure, cosa più credibile, una nuova breccia lì a Trost.
Si accorge che è un capogiro solo quando sente la bile gonfiargli le guance, e quando inciampa sui suoi passi pur di raggiungere il lavamani dall’altro lato della stanza prima che sia troppo tardi.

Piegato dai conati e con entrambe le mani salde sulla vecchia ceramica crepata, Jean riprende fiato.
Lo fa come se non lo facesse da anni.
E rimarrebbe ancora lì, a fissare il liquido giallognolo fuoriuscito da chissà quale meandro del suo stomaco vuoto, se solo non percepisse una nota differente nelle parole senza forza di Marco.
Forse è il mal di testa che ha preso a martellargli le tempie, si dice, ma è in quella stanza da troppo tempo per non notare anche il più sottile mutamento di quel timbro straziante.
Si volta prima ancora che la sensazione di nausea si plachi del tutto.
Marco sta invocando il suo nome.
L’occhio superstite, semichiuso come se assorto in preghiera, punta immobile verso di lui, e non sa bene se è davvero verso di sé che sta guardando, o se è giusto un caso– perché l’altro occhio, quello ormai andato, tremola come tentasse di sfuggire alle suture che lo imbrigliano, ancora incapace di comprendere che al di sotto, non vi è rimasto nulla.


“J—Jean—” gorgoglia; la palpebra si increspa come fosse di carta pesta.
Afferra un lembo del lenzuolo talmente forte da sbiancarne le nocche, e Jean quelle nocche corre a stringerle prima che possano diventarne del tutto bianche.

“Sono qui.”, ruzzola accanto al suo letto. Un filo di bile rimastogli impigliato tra le labbra si trasferisce sulle dita livide che bacia, ma non importa, “Sono qui, Marco—””

ete—” sibila rauco “—ho—sete—”

È una bella notizia. È un’ottima notizia, o così, almeno, Jean tenta di convincersi.

La notte precedente aveva provato a farlo bere, ma non ci era riuscito. Al primo sorso, Marco aveva tossito per almeno cinque minuti in un modo così orrendo che non volle riprovarci una seconda volta.

Adesso però, Jean pensa sia diverso. Adesso è Marco a chiederlo, e non importa se ha l’occhio talmente lucido o il fiato talmente affannoso da rendere surreale il sol pensiero che in lui possa albergare qualsiasi sprazzo di lucidità.

Goffo, Jean si affretta a versare un bicchiere d’acqua dalla brocca sul comodino e, ostentando una fiducia che non ha, fa scivolare la nuca umida di Marco contro la sua mano, sollevandola quel che basta per portarsela nell’incavo del gomito.

Il movimento è troppo azzardato, Jean avrebbe dovuto capirlo prima che Marco si irrigidisse in quel modo.

Shhh - va tutto bene,” tamburella con le dita la guancia buona, quella così gonfia che sembra  trattenere qualcosa in bocca– “ti sto solo dando dell’acqua—hai sete, no?”

Marco non risponde. Trattiene il fiato più che può, prima che un singhiozzo sfugga alle sue labbra aride.
Poi, ricomincia a tremare, e tutto torna difficile.

“Coraggio, bevi. Un sorso alla volta—” dice con voce fintamente calma. Quando va a fermare la mascella tra il pollice e l’indice, la mano sinistra incespica su una sutura esposta.
Marco piega il collo d’istinto, digrigna i denti, e Jean cerca di non pensare a quanto quel gesto gli stia costando, o a quanto rovente il suo corpo possa essere diventato, no.
Jean pensa a guidare il bicchiere verso le labbra di Marco, a far sì che dell’acqua possa davvero scivolargli giù per l’esofago. Non può permettersi altri pensieri, in questo momento.

Sente il bordo di vetro che gli ha accostato cozzare contro gli incisivi, non lo forza: attende che il cervello stanco di Marco prenda consapevolezza di ciò che sta accadendo intorno a sé, per poi piegare il bicchiere quando vede il labbro inferiore arricciarsi contro il vetro, il pomo d’Adamo abbassarsi e finalmente, ingoiare.

“Piccoli sorsi, avanti” raccomanda, perché non vuole cantare vittoria troppo presto, ma Marco beve avidamente, e non può evitare di farlo - “Bene così, sei fantastico—”
Fa appena in tempo a dire, prima di vedere Marco cominciare a tossire esattamente come aveva fatto la notte precedente, e restituire più o meno la metà di quanto bevuto.

Ci dovrebbe riprovare. Davvero, dovrebbe farlo. Probabilmente, è solo una questione di posizione, o di angolazione.
Ma Marco sotto quella bava impiastrosa ha delle labbra così scure, un respiro così acquoso tra un colpo di tosse e un altro, che Jean si dice che anche quei pochi sorsi che sono riusciti a raggiungere il suo stomaco e restarci, per il momento, possono bastare.

Quando lo riadagia sui cuscini, Marco sta ancora gemendo di dolore. O forse di frustrazione, o forse di entrambe le cose. Per questo attende un paio di secondi, prima di essere certo di poter poggiare la mano sulla fronte, e spostare i ciuffi scuri finiti pericolosamente tra le suture.

Non sono riuscito a farlo bere di più, ci ho provato, caposquadra, ma non ci sono riuscito.
E trova un ché di confortante nel prefigurarsi mentalmente la dichiarazione di sconfitta che farà alla caposquadra Hange: lo aiuta a sentirsi meno solo in quell’inferno.

È a quel punto che si ricorda dell’unguento. Almeno, potrà raccontare alla caposquadra di aver fatto qualcosa di buono per mantenere fede a quel ‘lo faremo stare bene insieme’.

Raccolto dal comodino e rimosso il coperchio, appare come una sorta di miscuglio tra purea di patate e miele che puzza di piscio di gatto. Ne prende un pizzico, ne tasta la granulosità tra i polpastrelli.

“J—ean—”

Jean solleva il volto.

Esita. Ha già le dita impiastrate di unguento, finirebbe per impiastrarlo di più se lo toccasse adesso.

La lingua di Marco però non sta ferma, gli rivolta in bocca qualcosa di apparentemente disgustoso, che lo fa fremere e contorcere come un pesce.

“Rei—Reiner—” sfilaccia tra i denti, a un certo punto. Volta la testa dall’altro lato del cuscino, ma il contatto tra la sutura e la federa sgualcita gli mozza il respiro, e grida: “A—Annie! Berthhold!”

Fanculo l’unguento, Jean cede.

“Va tutto bene,” del resto, è solo l’ultima delle schifezze che imbrattano già i suoi capelli
“Non preoccuparti. Stanno tutti alla grande e non vedono l’ora di riabbracciarti—” striscia le nocche sulla fronte, emula la caposquadra Hange nella gentile fermezza del tono, ma sa che non servirà. Non con un Marco che sta gonfiando il suo petto in quel modo.
La mano che porta dietro al collo voleva essere una carezza, ma diventa subito qualcos’altro: perché Marco brucia davvero. Brucia come un caminetto acceso.
E la pezzuola riversa sul cuscino dovrebbe stare fissa sulla sua fronte, l’unguento che ha tra le dita, sulle suture a divorare per lui l’infezione. Perché diamine non ha fatto niente di tutto ciò?

“Rein—Reiner—” chiama, dal suo inferno distante; il volto gli si riga di lacrime che non potrebbe permettersi.

‘è la febbre, Jean’, si ripete in mente con il tono convincente di Hange, ma Cristo - è così difficile. Pensa, mentre in silenzio il suo pollice allontana quelle misere lacrime dalla guancia di Marco.

“J—Jean—”
Solo quando nomina il suo di nome il suo mento traballa, la voce si assottiglia, diventa quella del Marco che conosce e che ama. E se Jean ha una luce in grado di indicargli la strada quando disperso nelle tenebre più oscure delle sue paure, allora è proprio quella.

Scuote la testa, si desta dallo stato di torpore ove è finito. La stanza sembra avere adesso un altro aspetto. Sarà il sole di quello che, dalla finestra, si preannuncia un mattino nebbioso ma assolato, sarà qualcosa che non è in grado di decifrare, ma va bene così.
Torna alcuni secondi al lavabo per sciacquare le mani, e già che c’è, anche il viso.

“Non dovrebbe far male, o almeno spero—”

Ma non è sorpreso nel vedere il respiro di Marco si interrompersi bruscamente quando, con due dita ricoperte di quella sorta di purea maleodorante, va delicatamente a tracciare un piccolo sentiero sulle suture del viso.

“Se dovesse farne, quando starai meglio, andremo insieme da quella quattrocchi della caposquadra Hange e gliela faremo pagare, io e te –” prova a tirare fuori un sorriso, ma è certo che se Marco potesse davvero vederlo, lo troverebbe più simile ad una smorfia inquietante che altro.

 

“Ci pensi? Andremo dalla Caposquadra a dirle che queste porcherie farebbe bene a tenerle per sé, anziché rifilarle in giro al primo poveretto che ne ha bisogno. Sono sicuro che anche gli altri commilitoni sarebbero d’accordo, mi sembra una tizia appassionata—”, blatera, senza alcuna sosta e senza alcun senso, fondamentalmente perché non vuole sentire Marco gemere attraverso i denti serrati ogni qualvolta l’unguento cola tra i bordi slabbrati delle suture, né vuole soffermarsi più di tanto sul modo in cui rovescia la testa all’indietro e affonda gli incisivi sulle labbra, quando in punta di dita va a spalmarlo proprio tra quei punti gonfi e viscosi che persino Hange, forse colta da un impeto di misericordia, aveva evitato di toccare.
Di tanto in tanto si ferma un po’. Giusto perché teme che se Marco continuasse a mordersi in quel modo ancora a lungo, probabilmente finirebbe per staccarsi un labbro, o la lingua, o altre parti del corpo che, in considerazione di quanto già perso, farebbero bene a restare dove sono.

“Abbiamo quasi finito–” sussurra, incapace di ammonirlo davvero quando un punto sul moncone, oltre che a strappargli l’ennesimo lamento, gli fa anche, pericolosamente, piegare di scatto le ginocchia.

Ed è davvero l’ultima noce di schifezza, quella che decide passare su quell’intreccio sbilenco di fili scuri che chiudono una ferita che non dovrebbe esistere. Forse ne meriterebbe di più, ma ogni qualvolta l’indice e il medio sfiorano quel moncone, Jean sente come un branco di vermi strisciargli su per i polsi e mangiucchiargli quell’ultimo granello di lucidità che gli permette di essere ancora lì.
E Jean non ricorda l’ultima volta che si è sentito così male, anche se si sorprende del non stare peggio.

“Finito, finito tutto—” annuncia, ritirando il petto e sollevando le mani quasi in segno di resa, e Marco lo fissa come incredulo, dietro quella coltre di sudore che gli gela la fronte e il collo.
Lo fissa, e sembra domandargli perché stia ancora lì, impalato e con un sorriso ebete in volto, a non accorgersi che in un punto nascosto sotto il suo lenzuolo, abbia preso a sanguinare.

Alla vista della larga chiazza di sangue e le successive suture saltate, Jean sente crollare qualcosa dentro di sé.
Come se all’improvviso, lo stesso gigante che ha rubato parti di Marco, gli fosse precipitato sullo stomaco tramutandolo nella più orrenda delle voragini.

 

(fine seconda parte)

 

 

 


NOTE:

ECCOCI!
Seconda parte di questa robina senza senso, che a differenza della prima, ha anche la delizia di ricordare la lista della spesa.
Seriamente: è un periodo in cui non ho davvero un momento di pace. Ma devo far credere a me stessa di avere ancora del tempo per i miei hobby, quindi fingo indifferenza, e la posto.
Non betata e non corretta.
Ringrazio, come al solito,
Joy che mi tiene altissimo l’hype per questa storia. Se non fosse per lei, probabilmente non avrebbe mai preso vita.  <3
La terza parte è già in lavorazione, e vi dirò di più: sarà talmente WTF che vi domanderete che tipo di pigne io abbia nel cervello!

Scritta per la Secondary To Whom? – challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia




   
 
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