Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: Bellamy    10/06/2021    0 recensioni
La battaglia tra i Cullen e i Volturi termina in maniera inaspettata: i Cullen perdono, Edward e Bella si uniscono alla Guardia di Aro e Renesmee perde la memoria. I pochi mesi di vita vissuta da Nessie vengono spazzati via.
Dopo quasi un secolo, Aro invita Renesmee a Volterra.
Genere: Malinconico, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen, Volturi | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Breaking Dawn
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Che sofferenza. Ero senza parole.
Senza parole perché credevo che l’entità del dolore che stavo provando non poteva esistere veramente. Ciò andava oltre i massimi livelli di sopportazione e realtà. Nemmeno un vampiro, neanche il più forte, avrebbe potuto resistere a quel fuoco ed io stavo cedendo...
 
La vide lì, il vento le scagliava la sabbia addosso. Sotto di lei un cadavere cui spalle erano bagnate di sangue rosso vivo. Lo stesso sangue che continuava ad uscire imperterrito dalla sua bocca spalancata.
 
La cosa che mi doleva di più era essere cosciente, consapevole che dei tentacoli incandescenti si erano aggrappati ai miei arti e al mio petto e tiravano, tiravano, tiravano…
 
La mise a pancia insù e un ringhio rabbioso tuonò dalla parte più recondita ed oscura del suo petto. Non c’era più nulla dei suoi vestiti, sostituti da graffi e lividi su tutto il corpo macchiato di sangue.
 
Mi sentivo un fiammifero usato più volte, costretto ad accendersi ogni volta che si spegneva. Ma un fiammifero, normalmente, si consuma in fretta. Quando sarebbe toccato a me? Non vedevo l’ora di spegnermi…
 
Era stata investita da un serie di morsi non ancora rimarginati del tutto. Erano ovunque nelle braccia e nelle gambe. Gli occhi, vitrei, riflettevano la luce della pallida luna che splendeva in cielo.
 
Volevo chiedere aiuto – se solo chiedere aiuto sarebbe servito a qualcosa in mezzo a tutte quelle fiamme! – ma ero intrappolata tra due muri ardenti che mi schiacciavano in entrambi lati. E poi, non riuscivo a trovare la mia bocca. Probabilmente si era sciolta…
 
Non sentiva il suo cuore battere. Non udiva nulla. Niente. Era morta. Ma la sua pelle era caldissima, bollente.
Appoggiò un orecchio sul suo petto: … … … … … … … …. … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … …
Due battiti.
 
Oltre alla mia bocca, non sentivo materialmente tutto il mio corpo.  Sapevo che era martoriato contemporaneamente dal fuoco, da spade e da frecce ovunque senza sosta. Delle corde stringevano la mia gola spezzandola. Oh, che male…
 
“RENESMEE!”
 
Perché nessuno si era accorto che stavo ardendo? Perché nessuno spegneva l’incendio e finirla una volta per tutte? Non chiedevo di essere salvata…
 
... tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump
 
I muri mi stringevano. La testa, schiacciata, minacciava di esplodere sotto la pressione e il calore mentre mille spille si conficcavano ovunque dentro di me. Non volevo essere cosciente. Non ne volevo sapere nulla. Se dovevo soffrire, volevo esserne totalmente inconsapevole…
 
Avendo ancora la testa vicino al suo corpo, sentì un odore strano, pungente. Non era il suo. Sembrava provenire dai morsi. Dopo essersi assicurato che il suo cuore batté sordo dopo cinquanta secondi dall’ultima volta, appoggiò i canini su una ferita.
C’era del veleno nelle sue vene e aveva un sapore strano. Ancora più strano era il fatto che il veleno dei vampiri era insapore. Guardò nuovamente Renesmee: nonostante il volto inespressivo teneva i denti stretti, le labbra violacee erano scoperte, dai quali dei piccoli fiotti di sangue continuavano ad uscire.
Era in agonia. I suoi occhi vuoti e ciechi incutevano una sinistra paura. Il suo corpo era abbandonato tra le sue braccia come una bambola di pezza. Si decise a succhiare via tutto il veleno.
 
Forse ero già morta e, dopo la morte, forse, avevamo sempre l’opportunità di pensare, di vagare con la mente e trovare un senso a ciò che aveva posto fine alla nostra vita. Forse. Ma la morte non indicava la fine di tutte le sofferenze? Di tutto? Che dolore, non terminava mai. Volevo che finisse immediatamente. Anzi lo pretendevo. Volevo dormire…
 
… … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … …
“Di’ ad Aro che è morta.”
“Dove vai?”
“A darle una sepoltura.”
… … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … tump … … … … … … … … … … … … … … …
 
Non riuscivo ad abituarmi alla fiamme. Mi opponevo al muro di lava cercando di spingerlo via ma questa mi inglobava a sé. Una volta, un’altra ancora e di nuovo…
 
La liberò da quella fascia scura che aveva intorno al busto. Tra le sue braccia Renesmee sembrava essere una semplice corda, manovrabile con facilità. La cicatrice pareva essere in buone condizioni. La pulì solamente e riavvolse la ragazza in quella benda dai curiosi materiali.
Il suo pendente cadde a terra, tra le loro gambe, producendo un forte rumore metallico a contatto con il pavimento. Non aveva prestato attenzione, prima, al particolare che non lo stava indossando al collo come l’aveva sempre vista.
Tenendo Renesmee in un braccio, si chinò e prese il medaglione. Non si era rotto a causa dell’impatto, i suoi formidabili occhi da vampiro videro che, durante la caduta, il medaglione era già rotto.
Il vetro che proteggeva la piccola foto all’interno si era incrinato. Osservò l’immagine per qualche secondo.
 
Quanto tempo era passato? Un giorno? Un mese? Un secolo? Le ossa e i muscoli erano diventati poltiglia e avevo tanta, moltissima sete…
 
La stese nel suo letto. Lei, supina e con gli occhi spalancati verso il soffitto, era diventata, purtroppo, una visione raccapricciante e inquietante. I lunghi e ricci capelli castano ramato coprivano, sia in lunghezza che in larghezza, tutte le lenzuola.
Aveva perso parecchio peso. Del suo corpo snello e tonico era rimasto solo lo scheletro coperto da un fine velo di pelle pallida. Quanto era fragile a volte aveva paura anche solo sfiorarla. Di quello che era stata Ren ora era rimasto solo un fantasma, un reperto antico.
I graffi che la ricoprivano si erano tutti rimarginati ma i grossi ematomi sulle gambe, sembrava che le vene fossero completamente scoppiate all’interno, erano rimasti. I lividi nel viso sparirono dopo la prima settimana ma i suoi occhi erano contornati da profonde occhiaie. Di certo non dormiva, tenendo perennemente le palpebre aperte, e, probabilmente, doveva avere sete.
 
Non riescivo più a tollerarlo. Il dolore era troppo potente da poterlo resistere…
 
Si inginocchiò e strinse le calde mani tra le sue: non proiettavano nulla. Strinse più forte, non curandosi per un momento della probabilità di poterle fare male: la sua testa non venne pervasa da nessuna immagine né voce.
“Renesmee! Svegliati! ORA!” Le urlò furioso ma, in risposta, ricevette solo un immobile, inanimato silenzio.
Si sentì stupido ma veramente sperava che, tramite il suo dono, obbedisse al suo ordine. Non batteva neanche le palpebre però, almeno, aveva smesso di vomitare sangue. Le labbra, gonfie, erano ancora viola.  
Le diede un bacio in fronte e altri nel resto del volto. Era rovente, come fuochi ardenti, e si chiese se il suo corpo era capace di tollerare una temperatura così alta ancora per molto.
Quella che stava osservando inerme era pura autocombustione. Erano passate già due settimane. Due settimane nella stessa condizione.
Si malediceva. Si malediceva perché lo aveva permesso e non si era opposto. Si malediceva perché non conosceva nessuna soluzione a quello stato semi funebre in cui lei riversava.
Si malediceva perché non sapeva se Renesmee sarebbe mai ritornata in sé. In caso contrario, era disposto anche a vivere la sua vita da immortale con lei in quello stato. Era lì con lui, al sicuro. Nessuno le avrebbe potuto più fare del male. Mai più. 
L’osservava e sguazzava nel senso di colpa. Voleva rimediare in qualsiasi modo.
 
Volevo che finisse. Per quale motivo doveva continuare? Era finita, non c’era più niente di me. Cosa era rimasto da bruciare? Neanche la cenere. Il fuoco continuava a divampare vivo…
     
Le toccò il braccio, la gola e la fronte. Ogni punto del suo corpo era in fiamme. Il calore si espandeva tutto sulla sua pelle fredda. La differenza di temperatura era spiacevole e fastidiosa al tatto.
La spostò e prese il suo posto nel letto appoggiandosi alla tastiera di legno. La riprese e, a mo’ di sedia, la mise sopra di sé, le sue spalle appoggiate deboli e involontarie contro il suo petto. I suoi capelli avvolsero tutti e due come uno scudo. La sua testa, appoggiata nella spalla, puntava in alto, verso di lui, ma io suoi occhi non guardavano nulla e nessuno.
Strinse Renesmee delicatamente, con la speranza di darle sollievo attraverso il ghiaccio della sua pelle.
Il suo cuore diede segni di vita dopo un minuto e quattordici secondi dall’ultimo battito. Il ritmo del suo respiro seguiva quello del suo cuore: ad ogni battito, un respiro smorzato. L’interruzione faceva fermare il petto dall’alzarsi di scatto, impedendole di respirare completamente.
Quelli erano gli unici segnali che dava per informargli che era, in qualche modo, ancora viva.
Sospirò, sollevato e preoccupato allo stesso tempo, e continuò ad aspettare speranzoso in un suo risveglio.
 
 
 
 
 
 
 
Avevo un forte fastidio alle palpebre. Che strano. E il cuore galoppava veloce nella cassa toracica. Sentivo le ossa e i muscoli della stessa consistenza della gelatina. La bocca, aperta, cercava di acchiappare più ossigeno possibile producendo dei fischi. La testa vorticava rapidissima ed io insieme a lei.
Ma ciò che mi premeva di più era l’assurda e urgente sete che provavo. Dovevo nutrirmi al più presto. Tutto il resto andava in secondo piano.
La mia visuale era tutta scura e offuscata come se fosse coperta da uno spesso velo nero di garza. Era abbastanza fastidioso. Costrinsi le mie palpebre a chiudersi ma sembravano essere di pietra. Il muro che mi teneva schiacciata mentre combattevo l’incendio dentro di me sembrava essere ancora presente.
Riprovai e ci riuscii guadagnandomi due fitte dolorose alle tempie. Chiusi e riaprii più volte mentre gli occhi, piano piano, mettevano a fuoco ciò che avevano davanti.
Andrew.
Andrew?
Il suo volto pallido, illuminato da una debole luce calda, era a pochi centimetri dal mio e mi osservava come se fosse in trepidante attesa di qualcosa. Era scioccato e in apprensione.
Sinceramente, non mi aspettavo di vederlo. Era morto pure lui? E come?
“Ren?” mi chiamò cauto, il tono della voce mal celava l’ansia e la sorpresa.
Ero io, l’avevo sentito chiamare il mio nome. Sgranai gli occhi: ero viva? Viva, viva? Per davvero? Wow. Volevo darmi un pizzicotto per verificare ma le braccia non rispondevano ai miei comandi.
Gli occhi girarono veloci intorno a me e notai che ovunque mi trovassi, in quel momento, era al buio tranne per la luce che illuminava, di lato, Andrew.
Cercai di concentrarmi su determinati punti della mia visuale così da poter mettere fine a quelle vertigini. Ero stesa in un letto, delle coperte ai suoi piedi, ed Andrew aveva le ginocchia appoggiate nel materasso, tra le mie gambe, a cavalcioni. Era a petto nudo e teso in avanti, verso di me. Mi guardava allibito, stupito.
“Renesmee?” mi chiamò di nuovo.   
Non riuscii a rispondergli, non riuscivo a muovere la bocca. Provai ad alzare una mano per dirgli che dovevo nutrirmi al più presto però questa cadde pesantemente nel letto e una forte fitta partì da lì fino ad arrivare alle spalle. Andrew prese la mano, la strinse e se la portò vicino al volto. La sua pelle fredda come il ghiaccio fu cosa graditissima per quella fiamma che era la mia. 
“Sangue. Ho bisogno di sangue.” Gli dissi.
Andrew non sembrò avermi ascoltato. Lasciò andare la mia mano, afferrò con le sue i due lati del mio viso e premette le sue gelide labbra contro le mie.
Ahia. La sua presa era stata troppo forte per me ma provai a non pensarci. Fu come battere contro una parete.
Mi alzò la testa di qualche centimetro dal cuscino e il collo protestò ma cercai di non farci caso lo stesso. Preferii, comunque, concentrarmi su di lui e sul suo improvviso, dolce saluto. Le sue labbra inumidirono le mie aride. 
Quella era stata la seconda volta che mi aveva baciata. Potevo anche non averci pensato, ma quante volte avevo desiderato che lo facesse di nuovo dal nostro primo scambio!
Si staccò da me violentemente e dalla mia bocca scappò un gemito di dolore mentre il mio cuore sfarfallava vivace. Con le mani continuò a tenermi i lati della faccia, il dolore sulla nuca si fece più intenso, puntò i suoi scintillanti occhi rossi contro i miei e disse furioso: “Mi hai fatto morire.”
Lo fissai, sconcertata. Che cosa gli avevo fatto per farlo morire? Perché era arrabbiato con me?
Per un breve momento pensai al fuoco, a me arsa viva. Chiusi gli occhi cercando di scacciare via quel pensiero. Ormai sembrava essere passato. Stavo osservando, stavo respirando, il cuore batteva…
Obbligai la mia mano destra ad alzarsi e toccare il braccio di Andrew: “Andrew, sangue. Ti prego.”
Lui mi guardò come se fossi un animale selvatico e dovesse anticipare le mie mosse per evitare improvvisi attacchi da me. Di nuovo, sembrò non avermi ascoltata.
Scelse dal letto leggiadro, livido in volto, fece scivolare le sue braccia sotto di me e mi prese in braccio. Nonostante fosse stato delicato, ebbi male alla schiena quando mi raccolse. Eravamo in penombra ma potei vedere lo stato delle mie braccia e gambe. Dalla gola mi uscì un lamento arrugginito.
Gli avvolsi un braccio intorno al collo, appoggiai la testa sulla spalla di Andrew e ringraziai i vampiri per essere così glaciali. Erano utilissimi quando ci si sentiva la febbre. Ero caldissima, più del normale. Pensai di nuovo a quel calore…
Andrew non ebbe nessun problema a muoversi nel buio. Sentii una porta cigolare ed entrammo in un’altra stanza. Un rubinetto venne aperto lasciando l’acqua uscire fuori.
“Nonostante tu sia sempre bellissima.” Iniziò a dire burbero, la frase suonava tanto essere una accusa. “E’ meglio che non ti guardi allo specchio.”
Non osai obiettare. Non volevo vedermi, non desideravo vedere in che condizioni mi trovavo, non dopo aver visto lo stato più che scheletrico dei miei arti. Inoltre, il sottile attacco di Andrew mi aveva destabilizzata.
“Molto gentile.”  Gli dissi comunque, premendo una mano nella sua spalla nuda che veniva sfiorata dai suoi capelli ad ogni movimento. Evitò nuovamente di rispondermi, come se non mi avesse sentita. Cosa gli prendeva?
L’acqua continuò a scorrere e, all’improvviso, il mio volto venne accarezzato da una sua mano fredda e bagnata. La passò gentile tra le palpebre, il naso, gli angoli della bocca e le tempie. La freschezza dell’acqua e la sua mano altrettanto fredda furono un balsamo, un antidolorifico.
Andrew chiuse il rubinetto e uscì da quello che presumevo fosse un bagno. Rimanemmo sempre circondati dal buio e mi chiesi perché non c’era nessuna luce accesa. Io vedevo poco e male.
Stavamo scendendo delle scale. Dove eravamo?
“Dove siamo?” Gli domandai sempre tramite il mio dono. Non mi rispose.
Si fermò, accese un interruttore e la mia vista si inondò di luce portandomi a battere le palpebre più volte. Eravamo in una cucina.
La stanza era abbastanza grande e abbondantemente arredata. A sinistra c’erano delle tavole di legno bullonate al muro. In mezzo alla cucina, occupando la maggior parte dello spazio, c’era un’isola circondata da sgabelli.
Il fattore più curioso era la presenza di tre frigoriferi: uno a muro e due ai lati dell’isola come se qualcuno si fosse dimenticato di posizionarli correttamente e li avesse abbandonati lì. Inoltre il pavimento, nero e bianco, era sporco di sangue.
Andrew, tenendomi sempre tra le sue braccia, si sedette in uno sgabello a destra e aprì con un braccio lo sportello del frigorifero accanto. Guardando il suo interno spalancai la bocca in due.
Ogni piano era occupato da tanti bicchieri contenenti un liquido rosso scuro. Non volevo immaginare come se lo ero procurato, m’importava bere e fui contenta che, in qualche modo, avesse pensato che avrei potuto avere bisogno di sangue.
Allungò una mano e afferrò un bicchiere, il suo volto era concentrato e determinato. Me lo porse e senza esitare lo presi famelica.
L’effetto che fece il sangue, linfa vitale, fu immediato nel mio organismo: sentii una improvvisa carica di energia scorrermi nelle vene, i muscoli iniziarono a rilassarsi e la mia attenzione si fece più acuta.
Terminavo i bicchieri in pochi secondi ed Andrew, pazientemente, prevedeva a porgermene altri. In meno di cinque minuti prosciugai tutto quello che conteneva il frigorifero ed Andrew passò all’altro.
Andrew rimase in silenzio tutto il tempo, preferendo passarmi i bicchieri o le tazze e ad osservarmi. Il volto era più tranquillo e steso.
A volte baciava la mia mano libera, le dita oppure il polso e con le sue labbra, o i denti, lo sfiorava. Anche lui aveva sete, si capiva dal viola leggero che circondava i suoi occhi. E non sembrava essere interessato a tutto quel sangue che ci circondava ma a quello che le mie vene nascondevano.
Come un lampo, l’immagine di Nahuel aggrappato al mio polso inondò la mia mente. Venne accostata a quella di Andew che si nutriva da me contro la mia volontà. Le scacciai con la stessa velocità con le quali erano arrivate.
Gli offrii la tazza da tè che, in quel momento, conteneva tutt’altro che tè.
Lui scosse la testa, lasciò andare via la mano e disse: “No, prima tu.”
Appoggiai una mano nella sua guancia, era diventato più facile e meno doloroso manovrare le braccia.
“Posso condividere, Andrew.” Gli dissi con il mio dono. Io ero già sazia, il sangue mi stava facendo diventare euforica, ma ad ogni bicchiere vuoto, la fame e la bramosia aumentavano.
Ancora una volta non mi rispose.
Mi sforzai a parlare, ad utilizzare le corde vocali: “Pe…rché non… mi rispondi?” Gli domandai infastidita, il tono di voce era basso, alieno e graffiato dal poco utilizzo.
Andrew sgranò gli occhi, turbato da quel mio cambio di umore. “Rispondere a cosa?”
Gli mostrai la mano libera, sventolandola davanti al suo viso. Lui corrucciò la fronte.
“Io non sento nulla.” Disse tranquillo ma confuso.
Cosa? In che senso non sentiva nulla?! Per questo non mi aveva risposto prima?
Appoggiai la tazza nel banco dietro di me, mi sistemai meglio tra le sue gambe e appoggiai entrambe le mani nelle sue tempie.
“Andrew. Andrew. Andrew. Andrew.” Lo chiamai.
Lui mi guardò e scosse la testa. “Non ho sentito nulla, Ren.”
Impossibile. Appoggiai le mani nelle sue spalle e feci forza, concentrandomi. Non avevo mai impiegato energie o concentrazione nell’utilizzare il mio dono. Era una parte naturale di me, come respirare. Semplicemente appoggiavo la mia mano su qualcuno e i miei pensieri venivano trasmessi.
Invece di dirgli qualcosa, gli trasmisi una immagine: lui dal mio punto di vista.
“Hai visto?” Gli domandai ansiosa.
“No.” Rispose confuso. “Cosa mi hai fatto vedere?”
“Te!” Sbottai furiosa.
Impossibile. Impossibile. Aveva sempre funzionato, non avevo mai mancato un colpo. Il mio dono aveva il pilota automatico: funzionava sempre, anche quando dormivo. Decidevo io quando non utilizzarlo.
Sbuffai e mi venne in mente una idea. “Obbligami!” Chiesi ad Andrew il quale mi guardò come impazzita. “Obbligami a mostrarti qualcosa! A dirti qualcosa!”
Andrew si mise a ridere, non sembrava credere a ciò che gli avevo appena chiesto. Io mi lamentai, non c’era nulla di divertente. Il mio dono. Cosa avrei fatto senza il mio dono? Come avrei comunicato? Il panico mi stava invadendo.
“Andrew!” Lo ripresi. Lui smise brusco e la sua espressione si fece più seria quando si rese conto che il mio umore era diverso dal suo. Come avrebbe reagito se foste stato lui a perdere la sua abilità di manipolare le persone?
Sospirò e puntò lo sguardo verso il pavimento. Tutto ad un tratto la mia mano, autonoma, puntò verso la sua guancia. Nella mia testa avevo l’obiettivo di perdonarlo. Perdonarlo? Di cosa?
I miei polpastrelli premettero contro la sua pelle di marmo.
“Andrew, ti perdono.”
Passò qualche secondo ed Andrew non disse nulla.
“Allora?” La mia voce si fece più acuta dall’ansia.
 Lui mi guardò, gli occhi tristi: “Non mi hai detto niente.”
“Andrew, ti perdono.”
Lo guardai cercando nel suo viso un cenno positivo. I suoi occhi erano vuoti.
“MA COME E’ POSSIBILE?!” Urlai con tutta l’aria che avevo nel polmoni, in preda al panico e alla paura. Perdere la capacità del mio dono coincideva a perdere una parte di me, letteralmente. L’idea era la stessa di quella che qualcuno, con una motosega, mi tagliasse a metà. La testa ricominciò a pulsarmi e gli occhi mi prudevano.
Andrew batté le palpebre e scosse la testa. Mi prese entrambe le mani e disse: “Ren, sei molto debilitata. Probabilmente, quando acquisirai nuove energie, riuscirai a parlare di nuovo.”
Lo guardai: il suo bel volto era tranquillo così come il tono della voce.
Era possibile? Era possibile essere così tanto deboli da avere annullato il proprio potere? Non avevo mai sentito una cosa del genere prima di quel momento. Sapevo che si poteva sviluppare il proprio dono – cosa che ancora non ero riuscita a fare nonostante ci avessi provato più volte – ma perderlo? Definitivamente, magari?
Andrew mi guardò perdermi nei pensieri. Poi mi porse un’altra tazza di sangue e mi ordinò: “Continua a bere.”
Annuii ed obbedii docile, provando a convincermi che avesse ragione: si trattava solo di riprendermi in forze. Odiavo utilizzare la bocca e le corde vocali per parlare. Erano un filtro povero e debole per poter trasmettere in maniera chiara i nostri pensieri ed intenzioni.  
Quando finii l’ultimo bicchiere di sangue rimasto in tutta la cucina, abbracciai Andrew avvolgendogli il collo con le braccia.
“Grazie.” Gli dissi mentre il suo profumo mi avvolgeva.
Non sapevo esattamente per cosa lo stessi ringraziando. Per il sangue, per avermi rassicurata, per avermi mostrato affetto, per il fatto di essere ancora viva, per essere con me… i motivi erano tanti.
Ricambiò l’abbraccio delicatamente: “Non mi devi ringraziare.” Disse cupo.  
“Cosa intendevi quando mi hai chiesto di dirti che ti perdono?” Gli domandai.
Andrew sbuffò e si alzò in piedi di scatto portandomi con sé. “Devi riposare, Renesmee. Non credo tu abbia dormito per tutto questo tempo: hai tenuto gli occhi perennemente spalancati. Eri inquietante.”
Prima di svegliarmi neanche ero a conoscenza di dove fossero i miei occhi. Mi scostai per guardarlo. “Dobbiamo parlare, Andrew.”
Aveva già iniziato a marciare senza ricambiare il mio sguardo. Mi stava evitando apertamente. La mia mente era piena di domande che urgevano risposte e man mano che il tempo passava, il loro numero aumentava.
“Parleremo dopo che ti sarai riposata per bene.” Disse, alla fine, duro mentre mi deponeva nel letto. La conversazione che ci aspettava non presagiva nulla di buono.
“Molte questioni riguardano anche te!” Gli dissi sfidandolo.
Lui scoppiò a ridere ma l’ilarità non raggiunse i suoi che brillavano sinistri.
“Anche io ho tante questioni che riguardano te, se la mettiamo su questi termini.”        
Strinsi i denti e mi misi a sedere. “Perché non iniziamo ora?”
Andrew, spazientito, si posizionò nel bordo del letto. “Hai seriamente bisogno di riposarti, Ren. Abbiamo tantissimo tempo per poter parlare.”
Tantissimo tempo. “Tu cosa farai?”
Lui mi guardò, corrugando la fronte: “Starò con te.”
Gli feci posto nel letto e lui si stese accanto a me cingendomi con un braccio, appoggiai la testa sul suo petto.
Da quella posizione potei osservare il suo viso: teneva le labbra strette in un linea, la fronte sempre corrugata e fissava davanti a sé. Era arrabbiato o estremamente pensieroso. 
Prima che potessi aprire bocca, lui mi anticipò: “Dormi.” Ordinò, mi diede un bacio nella fronte e le mie palpebre ubbidirono, chiudendosi.
 
 
 
 
 
Per le prime ore dormii male. Il petto mi doleva acuto, bruciava, e non riuscivo a respirare. Aspirare aria, calda, richiedeva un grande sforzo. Il cuore batteva forte in gola.
La mia temperatura corporea, a peggiorare tutto, era altissima. Il calore asfissiante premeva contro ogni singolo centimetro del mio corpo. Il fuoco era ritornato.
Sentii le braccia di Andrew stringermi contro il suo petto, un muro freddo al quale non volevo staccarmi per poter contrastare quel caldo incollato intorno a me.
Nel dormiveglia percepivo le sue mani accarezzarmi i capelli o le braccia. Mi stringeva forte a sé quando tentavo di allontanarmi da lui, riflesso inconscio della mia volontà di scappare dalle fiamme.
Almeno credevo, i ricordi di quelle ore erano irrazionali e confuse. Lo udii anche parlare ma, in quella afa delirante, non ascoltavo cosa diceva. Forse tentò di destarmi del tutto.
Mi svegliai, finalmente, non sapevo dopo quanto tempo. Era buio intorno a me eccetto per quella luce calda e fiacca a lato del letto. Ero sola nella stanza. Dov’era Andrew?  
Feci un respiro profondo. Il dolore al petto era svanito ma mi sentivo ancora accaldata.
Questi sintomi, tutti quei dolori, il calore insopportabile e asfissiante non erano una novità per me.
Li avevo già provati tantissimo tempo fa. Ebbi le stesse crisi dopo che mi svegliai e mi ritrovai a casa, circondata dai Cullen, da una origine a me tutt’ora oscura.
Lo stesso dolore alle gambe e alle braccia, stessa incapacità di respirare bene, stessa sete – il pianto disperato per la fame -  e uguale fuoco che mi attanagliava.
I Cullen non mi dissero mai il motivo di quel piccolo coma, la ragione per cui ero stata molto male.
Ero una bambina a quei tempi, spaventata e sola. Non ricordavo neanche il mio nome né di far parte sia del mondo degli umani che dei vampiri. Mi ero totalmente affidata a sei persone sconosciute. Quelle che, poi, sarebbero diventate la mia famiglia.
Non pensavo mai a quei giorni, li tenevo relegati in una parte nascosta della mia già compromessa memoria. Al solo pensiero, l’angoscia e lo spavento prendevano il sopravvento.  
Ricordai Nahuel e i suoi artigli dentro il mio collo. Il suo veleno, lava incandescente, che scorreva tossico nelle mie vene. Puntai gli occhi verso il polso, dove il mezzo vampiro aveva morso perché incaricato di farlo.  
Mi alzai di scatto dal letto e caddi in ginocchio sul pavimento accanto: le gambe non avevano retto.  
“Andrew?” Lo chiamai ansimando. Dov’era? Aveva detto che restava con me.
“Andrew?” Lo chiamai di nuovo. Nessuna risposta.
Appoggiandomi al materasso, mi alzai con difficoltà. Non avevo proprio forze nella gambe. Ritornai nel letto e, nell’oscurità, puntai verso destra, alla ricerca di qualche comodino e una lampada. Li trovai.
La stanza venne invasa dalla luce.
Mi trovavo in una camera di medie dimensioni, le pareti erano rosse e coperte da manifesti e poster di vari tipi e temi. Il letto occupava tutto lo spazio. A sinistra si trovava un grande cassettone e una bicicletta, la ruota anteriore era appoggiata al muro in alto. Sempre a sinistra, nel muro, c’erano fissati dei paletti di legno.
Per il resto, la stanza era vuota. Il pavimento era coperto da consolle di videogiochi, moderni computer e libri senza la copertina.
“Andrew?” Chiamai mentre mi rialzavo in piedi e, a passi incerti, entravo nella camera dentro a quella in cui mi trovavo: era un piccolo ma moderno bagno. Evitai di passare davanti allo specchio sopra il lavandino.
Uscii dalla camera da letto, cercai l’interruttore e lo accesi. Mi trovai in un lungo corridoio sporco da lunghe strisce di sangue. Nel piano in cui mi trovavo c’era una scala che portava al piano di sotto e altre due stanze.
Una porta era chiusa a chiave. L’altra, quella di fronte alla camera dalla quale ero appena uscita, presumevo appartenesse ad una bambina. Era bianca e molto femminile, piena di giocattoli e disegni. Notai che, anche là dentro, c’erano dei tasselli di legno fissati al muro coperte da tende. Per quale scopo servivano?
Lentamente e rimanendo aggrappata al muro, ogni passo equivaleva ad una fitta lungo tutta la schiena, mi avvicinai ai pezzi di legno. Aggrappai le mani in entrambi i lati e tirai con tutta la forza, cioè quasi nulla, che avevo.
“Che cosa stai facendo?” domandò furioso Andrew il quale si materializzò accanto a me e strappò secco le mie mani dal legno. Il gesto brusco mi fece barcollare indietro ma venni prontamente presa dal ragazzo.
“A cosa servono?” gli domandai mentre lui schizzava fuori da quella cameretta tenendomi tra le braccia.
Lui scese le scale in silenzio. Riprese ad evitarmi. Poteva farlo quanto voleva ma, prima o poi, doveva rispondere alle mie domande. Notai che le sue iridi ora erano di un rosso acceso e i suoi occhi non erano più circondati da occhiaie. Era andato via per nutrirsi.
Ritornammo in cucina dove ad aspettarci c’erano due uomini, umani, entrambi robusti, seduti sui sgabelli dell’isola uno accanto all’altro. Avevano la testa china sul bancone e tenevano gli occhi chiusi.
Sentii il loro odore impregnare la stanza e la mia bocca iniziò a riempirsi di saliva. La fame era ritornata.
“Non penserai che io…” Iniziai.
Andrew sbuffò, si avvicinò agli uomini e mi fece scendere dalle sue braccia. Appoggiò le mani sulle mie spalle per tenermi ferma ed in equilibrio.
“Nel bicchiere oppure direttamente nelle vene. Cosa ti cambia, Renesmee? Smettila e bevi.”
Rimasi ferma sul posto, a fissare quei incoscienti per metà distesi sul ripiano. Cambiava, c’era la differenza. Lui, semplicemente, non capiva.
Andrew, vedendomi immobile, continuò: “Il sangue che hai bevuto ieri proveniva da tre persone che io ho ucciso qualche giorno fa. Se è questione di coscienza sporca, già ce l’hai, Ren. Ora bevi.”
Fu un ordine, sentii le trame subdole del suo dono svilupparsi nella mia mente mentre mi chinavo su primo umano e affondavo i miei canini sul collo tenendolo stretto a me. Sentivo le sue vene e il suo cuore pulsare per l’ultima volta.
Qualche minuto dopo finii pure il secondo, altra energia iniziò a scorrere dentro ogni mia fibra, ed Andrew mi riprese in braccio. Ritornò verso le scale lasciando quei poveri innocenti a terra.
“Non farlo mai più, Andrew.” Gli dissi mentre si recava verso la camera da letto.
Il suo volto era sprezzante e arrogante, poi si fece scuro. “Non m’interessa. Devi nutrirti ed è questo il modo. Stanotte ho temuto che fosse ricominciato tutto daccapo.”
Mi sedetti nel letto e lui si stese a suoi piedi. Chiuse gli occhi, la mascella contratta, le braccia oltre la sua testa.
Rimanemmo in silenzio per molti minuti. All’ennesima trafitta alle costole e alla schiena, gli domandai: “Sapresti procurarmi della morfina?”
Andrew spalancò gli occhi e si voltò verso di me, incredulo: “A cosa ti serve?”
Mi morsi un labbro e risposi: “Mio nonno mi aveva dato della morfina quando, molto tempo fa, avevo gli stessi problemi che ho adesso.”
Andrew si mise a sedere e mi incatenò con i suoi occhi. “Perciò sei stata già avvelenata? Prima?”
Aveva dato voce alla domanda che io rifiutai di pormi.
Scossi la testa. “Non lo so.”
Onestamente: non lo sapevo, non lo ricordavo. Poteva essermi successo di tutto prima del mio incontro con i Cullen. Sapevo che il veleno equivaleva alla morte per gli ibridi ma non avevo idea se sopravvivervi comportasse una dolorosa disfunzione dell’intero corpo.
Carlisle, bombardandomi di sangue umano e morfina - mi informava sempre riguardo a cosa mi somministrava - era riuscito a mettermi in riga.
Ci volle più di un mese ma, poi, non ebbi più problemi… fino ad ora.
Con un balzo, Andrew saltò in piedi ed uscì fuori nel corridoio. Sentii forzare una porta e, in seguito, un gran trambusto.
Ritornò qualche secondo dopo. Rovesciò nel letto, davanti a me, quindici scatolette anonime.
Fece un passo indietro e disse disgustato: “I miei genitori si facevano di tutto ma non sapevo si facessero pure di Morfina. Non sono scadute.”   
Lo guardai e la sua espressione mi avvertii che era meglio non indagare su quell’aspetto della sua vita familiare passata.
Ogni pacchetto conteneva dieci pillole. Ottimo.
“Aspetta.” Soffiò Andrew e sparì. Tornò un secondo dopo con un bicchiere d’acqua. “Non so se ti possa servire.”
Era indifferente ma accettai lo stesso. “Grazie.”
Ingoiai dieci pasticche in un colpo solo accompagnandole con l’acqua. Assumerne una sola non aveva senso: sarebbe stata smaltita immediatamente a causa della mia alta temperatura corporea.
Misi tutto nel comodino accanto e puntai gli occhi su Andrew il quale continuava a rimanere in piedi.
“Possiamo parlare?” Gli domandai.
Lui sprofondò di nuovo nel letto. “Avanti.”
“Dove siamo?”
“Stiamo insieme.” Rispose, tenendo, come prima, gli occhi chiusi.
Un improvviso moto di ira mi investì. Chiusi le mani in pugno e sospirai.
Perché era sempre così evasivo? Mi faceva impazzire. Avevo il diritto di sapere, almeno, dove mi trovassi. Tempo prima – quanto prima? – mi trovavo nel bel mezzo del deserto. Ora mi trovavo comodamente seduta in un letto con lui.
Gli domandai di nuovo: “Dove, geograficamente parlando, siamo?”
“A casa mia. A Londra. Benvenuta. Fa come se fossi a casa tua, principessa.”
“A Londra?!” Esclamai. “Come ci siamo finiti a Londra?”
Mi lanciò una occhiata traversa: “Con le mie gambe?” Fece sarcastico.
“Dove si è tenuta, esattamente, la battaglia?”
Andrew scrollò le spalle “Da qualche parte in Medio Oriente. E per dovere di cronaca: abbiamo vinto. Nessun lupo lasciato vivo.” Disse incolore.
Avete vinto. Quella precisazione fece scattare in me un’altra domanda che richiedeva la massima priorità: “Tu perché sei qui? Con me? Aro lo sa?”
Andrew sospirò cercando di nascondere un sorriso. Si mise a sedere di fronte a me.
“Aro non sa che sono con te. Per lui, e per tutti gli altri, sei ufficialmente morta.”
Mi raggelai, divenni una pietra, immobile. Le parole di Nahuel che annunciavano che doveva uccidermi perché gli avevano affidato tale incarico rimbombavano nelle mie orecchie.
“Continua.” Riuscii solo a mormorare. “Parla.”
Andrew, violentemente, balzò in piedi ed iniziò a camminare per tutta la stanza, avanti e indietro.
“Io”, iniziò furioso e frenetico, “devo farti delle scuse. Anzi, di più!”
Ero confusa: stava cambiando argomento? “Andrew di cosa stai…”
“Zitta”, sbottò, “Fammi parlare!” Esclamò continuando a camminare come un forsennato. Teneva i denti stretti e le mani chiuse in pugno.
“Renesmee, devi sapere che sono stato… deviato. C’erano momenti nei quali… stravedevo per te. Ed altri in cui non me ne sarebbe importato nulla se Aro, o chiunque altro, avesse deciso di farti fuori in un attimo.”
Si fermò e puntò un dito verso di me, guardandomi truce: “Non guardarmi in quel modo! Non lo posso tollerare!”
Come lo stavo guardando? In quel momento avevo perso tutte le mie facoltà di reagire e ragionare.
Riprese a muoversi come un forsennato. “Un giorno ti odiavo e l’altro non mi dispiacevi. Era sempre così, un circolo vizioso, alti e bassi. Ma è stata tutta opera di Aro e di Chalsea. Lei può influenzare le relazioni tra le persone, distruggerle o crearle.”  
Chalsea? Influenzare le relazioni? Non avevo visto nessuno a Volterra chiamarsi Chalsea.
Fece un pausa così come fermò la sua marcia. I suoi occhi erano puntati verso il basso, le mani in alto come se volessero aggrapparsi ai suoi pensieri. Calò il silenzio.
Ricominciò il suo monologo esplicativo: “E l’ho capito tardi. Troppo in ritardo. Tu eri già in balìa dei Figli della Luna. Sapevo che Aro aveva intenzione di ucciderti durante la battaglia. Lo sapevo. E non ho fatto nulla. Niente di niente. L’ho lasciato fare, non mi sono opposto. Perché dovevo oppormi? Non m’importava.”
“Mi sono reso conto di essere caduto nel tranello di Aro solo dopo che ti ho visto in una pozza di sangue, in mezzo al deserto.”
Portò il volto verso di me, provato da quella confessione.
“Perdonami.” Disse ma non sembrava né una imposizione né una richiesta. Veloce si mise accanto a me, i suoi occhi cercavano i miei mentre il mio cervello scattava alla massima velocità.
Prese una mia mano e la strinse. Se era per vedere se gli stessi dicendo qualcosa si sbagliava: non stavo pensando a nulla. E, comunque, non sapevo se avevo già riacquisito il mio potere.
Rimasi in silenzio mentre, dentro di me, bolliva una strana forza fatta di tante emozioni.
Andrew con un dito alzò il mio mento per portare il volto alla stessa altezza del suo. “Avevi detto che dovevamo parlare.” Disse con voce grave.
Feci un respiro profondo. “Mi dispiace per quello che hai passato.” Dissi alla fine, la voce atona.
Lui si alzò di nuovo in piedi, il movimento fece spostare il letto. “Ti dispiace?! Non ti deve dispiacere Renesmee! E’ colpa mia!”
No. “Andrew, non è colpa tua. Non potevi saperlo.”
Mi guardò, valutando se avessi capito la sua rivelazione o meno. L’avevo capita.
“Ren, lo sapevo. Sapevo tutto. Potevo fermare Aro in tempo.” Il suo tono di voce divenne acido.
Mi mossi, le gambe contro il petto, i capelli mi nascondevano. Mi sentivo intorpidita: effetto della morfina.
“Saperlo o meno non ha importanza.” Iniziai a dirgli. “Non è colpa tua ed io non ho nulla da perdonarti.”
“Renesmee!” Urlò disperato e furioso Andrew. “Diamine! Comprendi!”
“Ho capito cosa intendi dire Andrew!” Gli risposi alzando lo sguardo. Il suo viso era sfigurato dall’ira, io continuai a mantenere un tono di voce pacato. “Credimi quando ti dico che non hai nessun motivo per sentirti in colpa! Tempo fa mi avevi detto che non potevi promettermi nulla, che non mi assicuravi di stare sempre dalla mia parte. Ovviamente lo ricorderai!”
Mi aveva avvertita di ciò dopo che ci eravamo scambiati il primo bacio. Ero costantemente consapevole che Andrew stava dalla parte di Aro nonostante avessi sperato, più volte, che stesse dalla mia.
Continuai: “Non ho mai dimenticato questo avvertimento perciò, indipendentemente dal modo in cui ne eri consapevole, non è colpa tua se Aro voleva uccidermi.”
Lo vidi scuotere la testa, continuava a pensare che io non avessi capito cosa intendesse. Decise di rimanere zitto e non controbattere ma era visibile quanto fosse arrabbiato con sé stesso, con me e la mia tranquillità.
Chiusi gli occhi. Cosa si aspettava? Urla? Pianti? Accuse? Non sarebbero arrivate.  
“Ti ringrazio per esserti preso cura di me.” Mormorai scoccandogli un bacio sulla guancia. Lui reagì sorpreso, non si aspettava quel gesto. Si allontanò dal mio contatto velocemente.
I lati della mia bocca scesero giù. “Per favore non fare così. Senza di te non sarei qui ora.”
“Sì.” Rispose immediatamente. “Non saresti qui viva e con me.” La sua mascella si indurì così come la sua espressione che si trasformò minacciosa. “E non devi ringraziarmi. Era il minimo che potessi fare. E’ stato frustrante non sapere cosa fare, vedere te con gli occhi aperti, a vomitare sangue, debole e incosciente.” Fece un pausa e un respiro profondo. “Il tuo cuore non batteva, Ren.”
Suonò di nuovo come una accusa. Oh, ben sapevo che il mio cuore non batteva: era diventato cenere.
“Per quanto tempo?”
“Cosa?”
“Per quanto tempo sono stata… per i fatti miei?” Come potevo descriverlo? Coma? Cosa si provava durante un coma? Non ne avevo idea. Non credevo neanche fosse un coma ed ero certa che le persone in quella situazione non erano pervase dal fuoco.
L’unico termine che potevo utilizzare per descrivere lo stato in cui mi ero trovata era incendio.
“Un mese e cinque giorni.” Rispose Andrew a denti stretti.

 
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Bellamy