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Autore: saltlordofold    21/06/2021    1 recensioni
Con una certa teatralità, Spadino si sventolò la maglietta contro al petto, prima di indicare la fontana della piazzetta vicina con un cenno del mento.
“Me ce farei n’tuffo,” scherzò.
“Vuoi ‘na mano?” si sentì provocare Aureliano, prima ancora di aver deciso di aprire la bocca, “Te ce butto io, se non stai attento.”
***
Amici sin dai tempi del liceo, Spadino e Aureliano portano Gabriele fuori ad ubriacarsi dopo l'ennesima rottura. Sul cammino del ritorno, Aureliano decide di riparare un errore del passato.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Con tutto il chiasso che stavano facendo a un ora del genere in quel vicoletto deserto, se qualche vicino irato si fosse deciso a chiamare la polizia Aureliano non se ne sarebbe neanche potuto risentire.

“Daje, Gabriè. Oh, daje, Lele, su! Dai che ce la fai!”

Spadino batteva le mani a ritmo tra le parole, “incoraggiando” l’arrancare di Gabriele con la solita risata da puro bastardo. Lele, a metà per il riso e a metà perché era visibilmente, innegabilmente ubriaco fradicio, si fece scappare le chiavi per l’ennesima volta, precipitando di nuovo sia lui che Spadino in una spirale di sghignazzi imbecilli. Senza speranza, sospirò in silenzio Aureliano.

Si appoggiò di gomito allo stipite del portone, accanto ai citofoni, sfregandosi un occhio esausto. Sorrideva anche lui, ma al contrario di quei due cretini dei suoi amici, pur essendo passabilmente brillo, si sentiva ancora più o meno in controllo di sé stesso.

“Sì, daje Lele, forza, che n’ciavemo tutta la notte,” infierì, mentre Gabriele raccattava al meglio il suo mazzo di chiavi dal suolo e prendeva appoggio al portone per rialzarsi con equilibrio più che precario.

“Siete proprio i peggio stronzi,” biascicò il poveraccio mentre finalmente, dopo un paio di ultimi tentativi malfermi, riusciva ad infilare la chiave nel foro e far scattare la serratura.

“Se facevi cilecca così anche co’ lei, ce credo che t’ha mann’ato a fanculo, la nonnina tua,” Spadino beffeggiò, e Gabriele rispose alla picca con un insulto farfugliato e uno spintone – o perlomeno, un maldestro tentativo di spintone, perché con tanto di tasso alcolico ben sopra il limite legale, Spadino rimaneva sempre troppo agile per lasciarsi sorprendere da un attacco del genere.

“Crepa, cesso,” si dovette accontentare di mollargli Gabriele – sentito anatema al quale Spadino rispose con una nuova risata e il solito, fiorito inchino.

Il portone ormai era aperto, ma Gabriele si fermò un attimo sulla soglia, appoggiato pesantemente al maniglione di ottone.

“Sicuro che ce la fai?” chiese Aureliano, e Gabriele annuì lentamente.

“Grazie di essere venuti,” sussurrò, lasciando scivolare un secondo la maschera per rivelare un po' dell’onesta, annebbiata tristezza che c’era dietro.

Aureliano gli mollò una sentita pacca sulla spalla, massaggiandogliela burbero. Non era mai stato bravo a parole, ma con quel gesto sperava comunque di riuscire a trasmettere l’ovvio: per forza che c’erano. Il loro migliore amico era appena stato mollato, malamente, dalla donna sposata che se lo tirava appresso da mesi – quasi anni. Portarlo fuori ad ubriacarsi in quelle circostanze era praticamente un dovere, uno al quale Spadino e Aureliano non avrebbero mai sognato di sottrarsi.

“E che scherzi?” rise appunto Spadino – che contrariamente ad Aureliano ad aprire la bocca ed esprimersi era sempre stato più che propenso – anche troppo, “Offri tu, che te paremo er tipo de scemi da rifiuta’ n’uscita del genere? Anzi, fatte scarica’ più spesso, così continuo a risparmia’.”

Aureliano conosceva Spadino da troppo tempo per non capire al volo quando stesse facendo lo scemo apposta per sollevare il morale – era praticamente la sua mossa distintiva. Anche Gabriele era più che avvezzato a quel suo modo di camuffare vero affetto sotto una valanga di provocazioni, e difatti sorrise grato.

“N’so che tipo de scemi me parete, ma un tipo di sicuro,” ribatté fiacco, e con un'ultima arruffata di capelli da parte di Aureliano, gli diedero la buonanotte e lo lasciarono tornarsene a casa.

Una volta accesa la luce alla finestra di Gabriele, senza bisogno di scambiarsi una parola, Aureliano e Spadino rimboccarono la stradina per iniziare ad allontanarsi dal centro. C’era un circuito ben stabilito, per i loro fine-serata: il rituale voleva che si accompagnassero a casa nell’ordine di vicinanza ai loro bar soliti, e la prossima tappa era come sempre da Aureliano.

“Che cazzo de iella che cià, Lele, però,” sospirò Spadino dopo un, poco caratteristico, lungo minuto di silenzio, “Prima litiga col padre, mo’ questo.”

Camminava con le mani dietro alla testa, volto rivolto verso il cielo scoperto ma privo di stelle della loro Capitale. Come al solito, a guardarlo così non pareva ubriaco per niente, malgrado i numerosi alcoolici che Aureliano lo aveva visto far sparire quella sera. Era da un po’, si rese conto, che quel tragitto non lo facevano insieme, loro due.

Quella sera c’era stata un’emergenza, ma non era facile oramai trovare il tempo di uscire a bere tutti e tre come lo facevano una volta – ossia, probabilmente, in eccesso. Poco a poco la vita lavorativa li aveva incastrati nei suoi ingranaggi monotoni, facendo diventare sempre più rare le serate libere in comune. I tempi del liceo parevano lontanissimi, e notti del genere, rare eccezioni.

“Beh, ns’omma,” obbiettò Aureliano, con una stanca stretta di spalle, “Poteva anche evita’ de bersela ‘na seconda volta, sta bufala della separazione cor marito. A sta’ così appresso a una che non se lo cagherà mai, a sto punto o è fesso, o masochista proprio.”

Si aspettava di sentire Spadino dargli ragione: a riguardo della relazione di Lele, entrambi avevano sempre condiviso lo stesso tipo di silenzioso, triste cinismo. A sua sorpresa, però, Spadino slacciò le mani da dietro al collo, e abbassò lo sguardo.

“Non lo so se so’ d’accordo,” disse piano, guardando in terra, “A volte n’se scelgono, ste cose, Aurelià. N’se po’ sempre controlla, de chi te’innamori.”

Aureliano resisté alla tentazione di rubargli un’occhiata di sfuggita, preferendo tenere lo sguardo fisso davanti a sé.

“Po’ esse,” ammise.

Aureliano lo sapeva bene – meglio di tutti: Spadino se ne intendeva, di quel tipo di problema. Tra di loro, in particolare, quella questione portava con sé un bagaglio scomodo.

Un bagaglio antico ma mai disfatto al quale, ultimamente, Aureliano si trovava a pensare sempre più spesso.

“Zì, ma quanto cazzo fa caldo?” si lamentò di colpo Spadino.

Era il suo modo, piuttosto palese, di cambiare argomento. Era piena estate e quel caldo afoso, effettivamente, senza una birra fresca in mano a contrarlo, anche a notte fonda rimaneva proprio pesante. Con una certa teatralità, Spadino si sventolò la maglietta contro al petto, prima di indicare la fontana della piazzetta vicina con un cenno del mento.

“Me ce farei n’tuffo,” scherzò.

“Vuoi ‘na mano?” si sentì provocare Aureliano, prima ancora di aver deciso di aprire la bocca, “Te ce butto io, se non stai attento.”

Spadino si girò subito a fronteggiarlo.

“Ma non credo proprio,” sbuffò col petto gonfio, fanfarone come al solito.

Aureliano gli era già quasi addosso, ma fu lui ad alzare le mani per primo ed afferragli i polsi, anticipando la presa.

Iniziarono a lottare con gesti stupidi, resi imprecisi dall’ubriacatura ancora decisamente in corso. Spadino malgrado quello rimaneva forte, molto più forte da quanto sembrasse da fuori. Aureliano quel fatto lo aveva sempre saputo – gli era sempre piaciuto – ma rimaneva comunque lui ad avere il vantaggio della stazza. Con una soddisfazione un po’ selvaggia, iniziò a costringere Spadino ad indietreggiare verso la fontana.

“Ma fai sul serio?” si ribellò l’amico, “Daje, Aurelià, falla finita, che ciò pure il cellulare in tasca.”

Rideva, però, tra due strette della mascella causate dallo forzo di resistere alla pressione del peso di Aureliano che lo trascinava indietro.

“È questa la scusa? Il telefono?” Aureliano spazzò via l’obbiezione inutile.

“’Cazzo stai a- ?” smorzò Spadino a mo’ di protesta, mentre Aureliano riusciva a tradimento ad intrufolare una mano trai loro corpi.

Ignorò i tentativi di Spadino di divincolare le anche: sapeva perfettamente in che tasca tenesse il cellulare – la destra dei jeans. Vi infilò le dita repentino e glielo rubò, prima di gettarlo – con un minimo di cautela – ai piedi del muretto che cingeva la vasca della fontana ormai vicina. Dalla tasca posteriore tirò fuori anche il suo e lo mandò presto a raggiungere l’altro.

“Ecco qua – al sicuro insieme al mio,” Aureliano dichiarò soddisfatto, “Mo’ dimme che voi fa’?”

Palesemente colto di sorpresa, Spadino rimase a fissarlo per un lungo secondo.

Un tempo non era raro finisse la serata così, tra di loro. Ubriachi, a notte fonda, da soli per le strade di Roma in compagnia di solo qualche altra povera anima ebbra in cammino incerto verso casa. A spintonarsi e fare i ragazzini che si scordano di crescere, a dimenticarsi insieme di tutto il resto per le poche ore che li separavano dallo squillo crudele della sveglia.

Un tempo. Perché oramai quel tipo di gioco non lo facevano quasi più – e non era solo perché si vedevano meno spesso. Il perché di quella distanza crescente Aureliano lo conosceva e sapeva bene anche di chi fosse la colpa.

Quella notte, però, era troppo annebbiato per trattenersi. O forse era semplicemente stufo di farlo.

“Ah, ma allora proprio così, sei, stasera,” Spadino si arrese, prima di avventarsi di nuovo contro Aureliano con un ghigno ancora più largo di prima, “Va bene, Adami. Te la sei cercata!”

La lotta riprese con energia. Qualcuno a vederli avrebbe potuto credere a una zuffa o una rapina, ma Aureliano non se ne preoccupò per niente. Era brillo a cazzeggiare con Spadino come ai vecchi tempi: malgrado il caldo e la stanchezza, si sentiva meglio così di come stesse da settimane – forse mesi. Anche Spadino sembrava felice, a giudicare dal sorriso che aveva in volto mentre si dimenava in tutti i modi pur di non farsi sopraffare.

Era mancato, ad Aureliano, quel sorriso – tanto – troppo. Quella consapevolezza lo aveva pugnalato a tradimento poco prima: mentre arrivava al tavolo del bar con in mano un nuovo giro di bevande, e trovava Spadino intento a strofinare la schiena di un Lele depresso. Spadino era così occupato ad incatenare battute pessime per cercare di far ridere l’amico da non notare il modo in cui Aureliano si era fermato in mezzo alla sala, immobile a fissare come un idiota. Quel sorriso vero, così diverso dalla maschera da pagliaccio che Spadino rivolgeva al resto del mondo.

Quello che aveva quasi smesso di rivolgere anche a lui, da una fatidica serata un po’ come quella.

Era sempre stato Aureliano, quello a prendere di più Spadino in giro per la sua assenza di ragazze, al liceo. Non lo capiva: alle tipe piaceva, eppure non ne accettava mai gli inviti ad uscire – o se lo faceva era sempre con aria stufata, e per rimanerci insieme meno di una settimana. Ironicamente, quel fatto pareva solo aumentare la sua aura di mistero, e di conseguenza la sua quota (e con quella il numero di proposte che doveva rifiutare ogni anno).

Ad Aureliano quell’attitudine incomprensibile infastidiva. La confusione col tempo si era tramutata in frustrazione, una frustrazione infantile che sfogava spesso con picche e insinuazioni di cattivo gusto. Sopratutto quando nel doposcuola si sedevano su qualche panchina con Lele e altri: quando erano radunati lì a fumare e scambiarsi racconti di conquiste e aneddoti piccanti, Spadino ascoltava sempre ridendo e rimbalzando battute senza mai, però, contribuire con nulla di suo. Già a quei tempi si camuffava dietro ad uno di quei suoi sorrisi finti, di fronte alle domande più dirette. In qualche modo riusciva sempre a cambiare discorso – spesso ribattendo con una picca abbastanza acuminata da far pentire la curiosità di chi si fosse spinto ad indagare troppo oltre. Come se Spadino fosse al di sopra di quelle questioni infantili. Aureliano impazziva in silenzio.

Passata la maturità, mentre avevano iniziato tutti chi a studiare e chi a lavorare, Aureliano macinava ragazze e Lele si affondava in quella cazzo di relazione tossica – e Spadino ancora non condivideva niente. La frustrazione di Aureliano era solo peggiorata. Non si fidava, forse? Non pensava che i suoi amici avessero consigli da dargli, o semplicemente voglia di non sentirsi tagliati fuori da quella parte importante delle loro vite, sulla quale loro nei suoi confronti erano libri aperti da sempre?

Non si fidava neanche di lui?

Alla fine, ovviamente, la verità si era rivelata essere un’altra. Alla fine, Spadino si era fidato anche troppo. Perché alla fine, era stato Aureliano a ridere, quando Spadino – col mento alto ma la mascella rigida e i pugni stretti – lo aveva preso da parte una sera un po’ come quella, alla fine di quell’anno dopo il diploma. Quando lo aveva fronteggiato con quegli stessi occhi lucidi che aveva ora e ammesso, senza fioriture, di essere gay.

Era stata una risata brutta, quella di Aureliano. Senza tenerezza.

“Hai capito. Mistero risolto, finalmente,” aveva detto – o una roba simile, perché non ricordava esattamente le parole che aveva usato. Non importava quello, lo sapeva bene anche lui.

Importava il suo ghigno teso di disagio e il modo in cui aveva sbattuto la mano sulla spalla di Spadino con innegabile condiscendenza. Importava il modo brusco con cui aveva cambiato argomento, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro – importava il fatto che quella non fosse stata nemmeno l’ultima delle sue pessime uscite, a riguardo di quella questione. Importava come aveva lasciato Spadino allontanarsi inesorabilmente da lui, senza obbiezioni, nel corso dei mesi dopo quella sera.

A conti fatti, c’era poco da stupirsi che quel fatto Lele l’avesse saputo per primo, e Aureliano per ultimo.

A furia di spinte erano arrivati al bordo della fontana. Non era particolarmente bella, e neanche grandissima – solo abbastanza da caderci. Spadino era pericolosamente vicino al bordo, ma nella lotta era riuscito a chiudere fermamente i pugni intorno a due piene manciate della maglietta di Aureliano.

“Aurelià, t’avverto,” ansimò vittorioso, “N’c’è n’universo dove se me butti dentro a sta fontana n’ce finisci anche tu.”

“Ah no?” disse Aureliano, parlando molto più piano di prima, “Voi scommette’?”

Spadino non si tirava mai indietro da una scommessa. Da quando si conoscevano lo aveva fatto una volta sola, in realtà: la notte lontana quando aveva trovato il coraggio di aprirsi al suo migliore amico, e lui a ricompensa gli aveva riso in faccia.

“Certo,” Spadino sorrise spavaldo, “Che voi scommette’?”

Quel sorriso. Ad Aureliano mancava quello insieme a tutto il resto: la vicinanza inspiegabile che avevano sempre avuto loro due malgrado i caratteri diametralmente opposti, le serate sul divano a prendere in giro i dialoghi dei film che Lele cercava disperatamente di guardare, quelle più pacate passate sui muri di un parco di notte a bere gin da poco e sputtanare le famiglie di merda dalle quali non vedevano l’ora di scappare.

Gli mancava il modo in cui Alberto un tempo gli cingeva le spalle con il braccio per stringerselo contro – gli mancava sentire il profumo troppo dolce della lacca nei suoi capelli assurdi, quando lo faceva. Gli mancava e sopratutto gli bruciava ancora di più la consapevolezza di esserselo perso tutto da solo.

Perché quella notte della confessione Aureliano si era trovato di colpo in panico senza neanche sapere perché – in panico come si era già sentito troppe volte senza capirlo, davanti a Spadino e al suo sorriso (e le sue magliette strette, e i suoi stupidi jeans neri attillati da emo del cazzo, e i suoi occhi scuri che riflettevano gli scintillii della Capitale come specchi, quando rideva brillo di notte.)

Perché in quel momento lo aveva intuito, quello che Spadino voleva dirgli veramente. Lo aveva capito fin troppo bene, ed era stato troppo codardo per lasciarglielo fare.

Quella sera invece Aureliano era ubriaco e stanco di scappare.

Cosa voleva scommettere?

“Tutto,” rispose piano, prima di avvicinarsi con la bocca al suo sorriso preferito.

Fu un bacio a stampo più che maldestro e a dirla tutta si cozzarono un po’ anche i denti. Aureliano ebbe appena il tempo di vedere gli occhi scuri di Spadino spalancarsi dallo stupore, prima che rilasciasse la presa sulla sua maglietta e nel farlo perdesse l’equilibrio.

Con un passo indietro di troppo Spadino inciampò sul muretto della vasca e vi precipitò dentro di peso. L’acqua lo accolse con un tonfo rumoroso, sommergendolo un attimo prima che riuscisse a rialzarsi, tossendo e scostandosi la cresta bagnata dal viso. La vasca non era profonda, e per un secondo Aureliano ebbe paura che si fosse fatto male sbattendo contro il fondo di cemento coperto di monete da poco. Ma non c’era dolore sul volto di Spadino, seduto nell’acqua a guardarlo dal basso. Solo pura, sbigottita incredulità.

“Ma che- ma che t’è preso?” balbettò, “Sei impazzito?”

“Forse.”

Aureliano scavalcò il muretto. L’acqua gli arrivava agli stinchi, ed era appena fredda abbastanza da farlo rabbrividire. Quel fatto non gli impedì di inginocchiarsi, né di chinarsi sopra Spadino, con una gamba da una parte e dall’altra del suo corpo. C’era poca grazia nel modo in cui si muoveva, brillo di alcol e col cuore a palla, ma non importava. Le luci della fontana erano accese, e la luce filtrata dall’acqua li illuminava entrambi dal basso – un barlume blu elettrico che ballava riflesso in modo ammaliante sulla pelle di Spadino, sul suo oro finto e nei suoi occhi scurissimi.

“Forse so’ pazzo completamente,” Aureliano ammise.

Non era mai stato bravo con le parole, ma per alcune cose per fortuna le parole non servivano. A gattoni nell’acqua fredda Aureliano si chinò in avanti e premette un secondo bacio sulle labbra dell’altro.

Fu molto più soddisfacente del primo.

“Ma che sta’ a succede veramente?” chiese pianissimo Spadino ad appena un soffio da lui – e a quello Aureliano rise ancora una volta.

Solo che quella volta la risata era giusta.

“Te pare che sto’ a gioca’?” chiese a ritorno.

Spadino non era uno timido. Una volta svelato il mistero della sua riservatezza al liceo, quel fatto era diventato subito chiarissimo. Era ovvio nel modo in cui aveva smesso di nascondersi, nel modo in cui aveva preso a parlare apertamente dei ragazzi coi quali usciva – con un sorriso sghembo e fanfarone che ad Aureliano aveva a lungo causato fastidi incomprensibili.

Era diventato ancora più ovvio quando, una volta o due, Aureliano lo aveva sbirciato muoversi con una conquista, a fine serata. Aveva intravisto – suo malgrado, ovviamente, non certo come se lo stesse spiando – il modo sicuro in cui trascinava le mani sulla vita dei ragazzi, quello lento e controllato in cui avvicinava le labbra al loro orecchio per sussurrare roba apparentemente tosta abbastanza da fare arrossire anche i tipi dall’aria meno casta.

Spadino non era uno timido per niente, quindi non fu una sorpresa sentirlo spingersi in su e prendersi di slancio la bocca di Aureliano come se fosse stata sua da sempre. Aureliano lo lasciò fare: non voleva altro. Non aveva voluto altro da molto prima di riuscire ad ammetterlo a se stesso – e ora che ce l’aveva si malediva degli anni persi a negare l’ovvio. La bocca di Spadino era bagnata di acqua clorata e sapeva ancora lontanamente di birra – era bollente e perfetta, quel tipo di buono da far girare la testa. L’acqua fredda della fontana inzuppò anche la maglietta di Aureliano mentre si lasciava trascinare in avanti, gomiti appoggiati al fondo ruvido della vasca mentre Spadino lo abbracciava stretto – finalmente, finalmente.

Doveva ricordarsi di ringraziare Lele e la sua sfiga con le donne, appena gli fosse passata la sbronza.

“So’ anni che me la sogno, sta scena,” Spadino ammise, voce rauca e mani come indecise sul dove fermarsi prima ad accarezzarlo, “Anni, Aurelià.”

Ansimava, apparentemente incapace di non riempire ogni spazio di silenzio tra due parole con baci più leggeri sul mento e la mascella che ora aveva deciso di afferrare dolce tra le mani. Aureliano era grato per il tocco gelido dell’acqua nell’incavo della schiena, a ricordargli di respirare e controllare il calore che si sentiva divampare ovunque in un modo già ben oltre quanto fosse decente in un luogo pubblico. Non era per paura, però: avrebbe potuto vederli chiunque, era vero, ma ad Aureliano in quel momento veniva da ridere solo a pensarci. Che guardassero: a lui e Spadino insieme non aveva mai potuto dire niente nessuno – e non avrebbero certo iniziato ora.

“Lo so,” Aureliano sorrise, “N’sei bravo come pensi a di’ bugie, Spadì.”

Spadino lo fissò a lungo, accarezzandogli la tempia con il pollice. Zittito – un evento rarissimo.

Per una volta sembrava ubriaco davvero anche lui.

“Semo grandi, mo’, Aurelià,” disse piano, “Pure Lele me chiama pe’ nome.”

Era vero: Aureliano era l’unico a chiamare ancora Spadino col nomignolo del liceo. Tutti credevano che fosse perché loro due avevano un legame speciale, ma forse anche quello era stato un modo per tenerselo a distanza – per fare finta che il loro rapporto non fosse mai destinato a crescere con loro.

Con deliberata lentezza Aureliano si permise di avvolgere le labbra intorno a quel nome dal sapore paradossale, sconosciuto eppure familiare allo stesso tempo.

“Albè.”

Rimasero lì a disfare il bagaglio e recuperare il tempo perso sotto al cielo senza stelle fino a sentire lo squillo crudele della sveglia suonare all’unisono dai loro cellulari dimenticati al suolo.

 






***

Piccola os di au tirata fuori dal nulla perché mi serviva un po' di tenerezza 😭 Un grazie enorme a @sono_fran per la beta! 💖
   
 
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