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Autore: Cress Morlet    24/06/2021    13 recensioni
[Alice Kingsleigh/Cappellaio Matto]
Il palmo del suo braccio sinistro sgusciò fuori dalla federa del cuscino e si pose, aperto, tra le pieghe del lenzuolo turchese.
Non temeva di offrire a Tarrant le linee spezzate della sua vita, anche se avrebbe dovuto. Forse.
Offriva quel poco che rimaneva di se stessa, una mano tremante, a delle dite avvolte da cerotti rossi e nastrini blu.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Liddell, Cappellaio Matto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Cappellaio, stringimi la mano.”
Il palmo del suo braccio sinistro sgusciò fuori dalla federa del cuscino e si pose, aperto, tra le pieghe del lenzuolo turchese. 
Non temeva di offrire a Tarrant le linee spezzate della sua vita, anche se avrebbe dovuto. Forse. 
Offriva quel poco che rimaneva di se stessa, una mano tremante, a delle dite avvolte da cerotti rossi e nastrini blu.
I suoi ricci biondi coprivano il sorriso di Tarrant e riuscivano a rendere obliquo il suo viso. Cascavano a solleticarle la clavicola scoperta e il seno stretto in un corsetto. Crollavano in mezzo a loro e si insinuavano nei loro cuori, simili a granelli di polvere di stelle.
Lo osservò stupirsi e meravigliarsi. Con gli occhi verdi che diventavano grandi e grandi e grandi. I loro polsi si incontrarono in uno scontro leggero e le loro dita si intrecciarono - avvolgendo ogni spazio svuotato dagli incubi e dagli spaventosi timori che logoravano entrambi.
In silenzio, timorosi del buio soffuso delle candele mangiucchiate dalla cera che continuava a colare lungo i bordi dei dischetti dorati dei vecchi candelabri.
“Stringimi la mano”, gli disse e poi abbassò lo sguardo.
Palmo contro palmo erano una conca naturale di dite aggrovigliate e di avambracci adagiati, una vena sull’altra, e di ossa incastrate - quasi aggrappate - ai tendini di un altro corpo. Il Cappellaio Matto biascicò una domanda mentre il suo sguardo assumeva le sembianze di un paesaggio tanto opaco e tanto distante.
“Perché?”, le chiese, senza mai smettere di stringerle la mano.
“Questo letto è troppo piccolo. Ho paura di cadere.”
La sua risposta era una bugia. Sistemandosi a fatica sul fianco destro si chiese cosa sarebbe stato giusto dirgli.
Ti voglio vicino. Ti voglio in ogni senso.
Qualcosa che si agitava tra i suoi pensieri colorati e che si addensava nel suo ventre. Prendimi.
Sarebbe stato bello trasformarsi e costringersi a scomparire. Si scostava, con orrore, dai suoi stessi desideri e da ogni suo sogno.
La mia pelle brucia e brucia e brucia.
Nascose il viso tra le stoffe e maledisse la sua stupidità. Amami di più. 
Piegò le cosce verso il suo stomaco contratto in una morsa di guanti e di lustrini che rovistavano dentro di lei e scombinavano gli organi e le zuccheriere dispettose. Si mise a borbottare contro il cuscino e si credette una teiera bisognosa di attenzioni. Buffa buffissima.
Schiuse le ciglia - incapaci di salvarla dalle situazioni incresciose - e scorse il Cappellaio piegato verso le sue labbra.
Baciami.
Tarrant stava osservando il modo in cui si era raggomitolata nel suo stesso corpo. Lui sollevava le sopracciglia in un gesto talmente tanto familiare da ucciderla con un colpo immerso nel suo torace. La sciolse in tante dolci zollette di zucchero condite con riflessi purpurei e scaglie d’argento. Si disgregò in mille giravolte e calpestò i lacci delle sue scarpe al confine di una botola oscura. Scelse di lasciarsi cadere in un abisso immenso e adornato da scheletri di ragazzine senza senno.
Stava cadendo ancora. Non pensava di aver mai smesso di farlo.
“Non è brutto cadere. Io lo trovo divertente.”
Parole sussurrate sulla sua guancia e gettate su un percorso di mattoni dorati. La spinsero a sollevare il capo dal cuscino e a ritrovare la via di casa aggrappandosi alle braccia del Cappellaio e alla sua immensa schiena. Si protese verso le cicatrici di Tarrant e comprese che altro non erano se non il riflesso delle sue.
“Non per me. Io cado e mi ritrovo in un altro mondo. In un’altra realtà.”
Lui osservava un orizzonte tenebroso oltre i vetri scuri delle finestre, allontanandosi bruscamente dal suo abbraccio. Comprese che Tarrant cercava il senso delle sue parole. 
In questo modo era esclusa dalle sue memorie e dai suoi ricordi spezzati.
Si sporse a guardare il modo in cui i suoi occhi erano intrecciati al vuoto cosmico. Lo contemplava pensieroso - un abisso che era in grado di separarli e di provocarle un’intollerabile sensazione di abbandono.
Non tollerava l'infinità solitudine in cui la relegava.
Tutto insanabile.
Voleva scuoterlo e chiamarlo a gran voce, dire il suo nome costeggiando gli angoli dell’estremità del mondo. Rubare i secondi di ogni singola apocalisse cosmica e crearsi una nuova esistenza senza dolore e silenzio. Ma non ce ne fu bisogno. Il Cappellaio avvicinò il mento contro la sua guancia e si rivolse a lei con sillabe della stessa corposa consistenza del sale.
“Tu inciampi e stai ancora correndo. Le ginocchia cedono e tu stai ancora camminando. Consumi il terreno in un modo o nell’altro. Perché non ti piace? È divertente.”
Gli mostrò il modo in cui le dita si erano intrecciate tra loro e il suo cuore ebbe un sussulto.
“Potrei scomparire di nuovo.”
Non voglio perderti ancora.
Vocali e consonanti uscirono dalla sua bocca come bottoncini rotti e scuciti da un cappotto impossibile da rammendare. Le scossero il petto che si era piegato all’indietro a causa di una morsa di pianto. Si mangiò le labbra e inspirò dal naso. Era estenuante bloccare un lamento che gorgogliava da un punto imprecisato della sua gola e che nasceva dai recessi delle sue ossa stanche. La sua mente contrasse un urlo spaventoso che tentava di sgorgare dai suoi occhi. Un urlo che si sarebbe riversato su tutte le strade del Sottomondo e che si sarebbe insinuato in ogni specchio - in ogni ombra.
Qualcosa che lei non avrebbe permesso che accadesse. Non di nuovo.
La sua testa era stremata dallo sforzo di contenere il dolore e le sue unghie erano immerse nella mano fasciata di Tarrant. Lui si mosse, adagio. Guancia contro guancia.
Le dita intrecciate in mezzo ai loro petti.
“Cadi mentre cammini. Muori mentre ami. Sei lontana da me e talmente tanto vicina da sembrare reale.”
La malinconia si ingigantì tra le ossa del suo sterno e tra le sue costole. Le mescolava i silenziosi percorsi delle sue vene rossicce. In un istante il cielo della stanza da letto assunse l’aspetto di una notte senza sogni e senza desideri. Tra i riccioli rossi del Cappellaio riuscì a intravedere porzioni di galassie, le stelle mute e impassibili, dei sassi splendenti che rotolavano su una spiaggia dimenticata. Riportarono alla sua mente strane immagini e strane realtà: tingere i chicchi di riso come perle nere mentre si strappano i veli di una sposa infedele e si buttano anelli dorati in un pozzo profondo. Lei correva sul ciglio di un burrone alla ricerca del proprio riflesso e nel disperato inseguimento di una superficie riflettente in cui gettare il suo corpo e il suo cuore a pezzi. Diviso tragicamente a metà.
Ti amo, aveva pensato.
Ti amo e voglio vivere con te.
Ti amo, Tarrant. Ti amo e non respiro lontana da te, non respiro più.
(Basta, basta. Dimentica.)
Immersa nel caldo cuscino delle sue riflessioni si accorse di riuscire ad allontanare la tristezza con un semplice gesto.
(Nascondi. Chiudi. Porta via.)
Lei sollevò le ciglia.
Un movimento infinitesimale, di lieve spostamento d’aria e gocce di secondi, che apriva la sua mente e liberava il suo cuore. Quel piccolo grumo di pigmenti rossi e battiti persi, di ali azzurre di falene e di altezzosi colibrì. Un formicolio nel suo petto sfarfallò e nelle sue orecchie si propagò il suono di un fischio. I muscoli cominciarono a pesare e le ossa ad assumere una consistenza di favola della buonanotte e di storie belle raccontate sulla fronte calda dei bambini. Cercò conforto in Tarrant, nascondendosi contro il suo collo e sotto il suo mento, incastrandosi tra le sue braccia e le sue gambe.
“Quando mi crederai? Quando mi guarderai e saprai che sono qui e che non sono un sogno? Quando?”
La sua voce aveva un retrogusto di tormento e di assurda infelicità. Inspirò il buono odore della sua camicia pulita e immerse il naso tra le stoffe. Espirò e sentì sulle labbra il cuore del Cappellaio Matto. Non c’era magia dentro di lei. Non riusciva a rimarginare le sue delicate ferite e a colorare i suoi lividi neri.
Ma come avrebbe potuto?
Non riusciva neppure a immaginare i suoi tormenti e non era in grado di placare l’immensa sofferenza che continuavano ad infliggersi.
Non erano mai riusciti a notarlo?
La loro sincerità era cruda. La realtà da cui fuggivano assumeva le sembianze di cerchi concentrici. Da lì rimanevano assenti i bei sogni, le facce pulite, i ciechi orizzonti. Doveva dirglielo.
“Tarrant...”
Doveva dirgli che il loro sole splendeva anche nell’abisso più profondo.
“Alice. Sento vuoto. Mi volto verso di te e mi sembra di cadere all’ultimo gradino. Sei assenza. Tu non ci sei. Credo che siamo entrambi morti.”
Quelle parole fermarono l’arrovellarsi impazzito dei suoi pensieri ed ogni verità che avrebbe voluto rivelargli. Il suo mondo era spezzato come le linee delle sue dita che continuavano ad avvolgersi tra i ramati capelli di Tarrant.
Un amore che scivolava dalle sue mani e che si forgiava intorno ai suoi polsi. Un accecante piacere che stringeva il tremito dei suoi nudi polpacci.
I ricordi non ebbero più pietà della sua dolce anima che avrebbe tanto desiderato affogare tra i raggi di sole.
(Almeno un’ultima volta. Prima di abbandonare se stessa nelle correnti dei mari e degli oceani mai esplorati da nessun essere umano dotato di raziocinio)
Soltanto una folle ragazzina si era buttata in quelle acque. Caduta da un alto precipizio come una bambola con dei fili usurati. In superficie non era mai più tornata.
E perché nessuno l’aveva mai più vista? Perché? 
Morta e mangiata dai pesci, alcuni stoltamente raccontavano.
Giochi di specchi, Alice sussurrava adesso all’orecchio sinistro del Cappellaio Matto.
Di vetro o di acqua, basta che sia uno specchio. No?
La sua bocca scivolò su quella di Tarrant. Lui continuava a parlare tra i suoi baci.
“Ma io credo che l’amore sia come la morte.”
Guardava inerme il soffitto della stanza. Le sue vertebre sfrigolarono, una dopo l’altra, e una scossa elettrica attraversò le sue scapole - ali spiegate di candidi cigni che desideravano volare e che erano stati puniti.
“Come puoi dire una cosa del genere?”, gli domandò, e poi gli baciò il mento.
“La morte è un abbraccio simile all’amore. Non bisogna aver timore.”
Pur non volendolo - non avendolo mai desiderato - questa strana creatura assomigliava alla loro storia.
E lei era stanca.
“Contiamo le stelle. Catturiamo ogni cometa. Cantiamo le note dei ricordi belli.”
Lo avrebbe distratto. Baciò Tarrant con un trasporto disperato mentre i capelli di entrambi si intrecciavano in onde elettriche. Tempo prima lui aveva mormorato alle sue orecchie che non esistevano stelle cadenti.
In realtà è neve che si ostina a rincorrere le punte luminose degli astri.
Poi aveva guardato i suoi capelli, immergendo le dita e le mani fino alle linee dei polsi, e aveva detto che sicuramente qualche stella doveva essere rimasta intrappolata tra i suoi nodi.
Ecco perché sono tanto biondi, tanto luminosi, anche nelle notti più buie. Le stelle, Alice, le stelle!
L’istante in cui aveva trovato la sua nuca si era dimenticato di tutte le stelle e le costellazioni dei mondi paralleli.
Lui l'aveva baciata.
Percorrendo il profilo del suo collo si era fermato a contemplare le sue clavicole e aveva mormorato qualcosa sulle sue ossa. Ossa di diamanti e rubini, care e preziose. Un tesoro inestimabile. Lo aveva scosso nel profondo. Si era fermato - aveva dovuto fermarsi - mentre Alice aveva continuato a baciargli il viso e a cercare altra pelle.
Da toccare, bramare, accarezzare. 
Tarrant aveva negato il suo sguardo e l’aria aveva assunto le sembianze di spilloni bianchi in grado di puntellare la sua anima infinitamente triste.
Si era sentita   sbagliata e inadatta.
Aveva smesso di muoversi e di proferire parola fino al momento in cui il Cappellaio non le aveva mostrato una ciotola di grappoli di uva rossa e di ciliegie. Le aveva chiesto di mangiarle insieme e le aveva dipinto il viso.
Lei aveva compreso.   .E non avrebbe più avuto paura.
"Cercare di avere il tuo cuore è come desiderare di catturare una stella. Una pazzia."
Non sapeva chi aveva pronunciato le ultime parole. Le aveva percepite in ogni punto dentro se stessa ed erano scivolate nella sua testa tramite note e suoni.
"Alice, sei nostalgia.  Sei rimpianto. Forse hai ragione, forse siamo vivi."
Un giorno mi hai detto di amarmi. Mi ami ancora?
Certo. Ti amo tanto.
Allora non mi importa niente altro.
"L'importante è che sia con te."







Angolo autrice.

Ciao a tutti! Mi piacerebbe tanto sapere le vostre opinioni su questa storia, le vostre interpretazioni. Pensavo di abbandonarla, ma alla fine eccola qui. Spero davvero vi sia piaciuta, io voglio lasciare libere le vostre idee su questo mio scritto che per me ha una motivazione particolare. Grazie, a presto :)

 

   
 
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