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Autore: Parmandil    30/07/2021    0 recensioni
Sauron il Maia fu corrotto da Melkor nel principio dei giorni. Divenne il più potente dei suoi servitori, nonché il più pericoloso, in quanto poteva assumere molte forme e ingannare chiunque, tranne i più avveduti. Così dice il Silmarillion. Ma come andarono esattamente le cose? Quali sono le origini del secondo Signore Oscuro? Quali i suoi segreti, gelosamente custoditi?
Preparatevi a un viaggio epico che inizia nella Primavera di Arda, quando le terre emerse giacciono nel giorno perenne di Illuin e Ormal, i Lumi dei Valar, e le Potenze si aggirano visibili nel mondo. È in quest’epoca di sogno che Mairon l’Ammirevole viene traviato da Melkor, imboccando quel cammino di tradimento e distruzione che lo trasformerà in Sauron l’Aborrito. La sua scelta sancirà la rovina del mondo antico e spezzerà il cuore agli altri Maiar, che dovranno affrontarlo in battaglia. Dal cataclisma dei Lumi alla Guerra dei Poteri, dal suggestivo Risveglio degli Uomini fino all’apocalittica Guerra d’Ira, ecco a voi la storia di Mairon/Sauron, di Ëonwë l’araldo, di Ilmarë la lucente, di Thuringwethil la vampira e di molti altri spiriti, coinvolti nell’eterna lotta tra Luce e Ombra.
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ancalagon, Melkor, Sauron, Thuringwethil, Valar
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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-Capitolo VIII: La Guerra d’Ira

 

   Incredulo, Eärendil si rivolse all’alta figura apparsagli sulle scale di Tirion, la città degli Elfi che aveva raggiunto dopo lunghe peregrinazioni nei mari. Era un essere alto, dai capelli biondi, rivestito di una corazza scintillante; dalla schiena gli fuoriuscivano due ampie ali marrone-dorate. Era certamente un Maia; lo aveva salutato in toni magniloquenti e ora lo osservava benevolo, mentre la polvere di diamanti scintillava sulle sue vesti e sui calzari.

   Il Marinaio s’inchinò davanti a lui, riconoscendolo come Eönwë grazie ai canti e ai racconti di sua madre Idril. «Non giungo per me stesso, ma per dar voce a tutti coloro che soffrono il giogo di Morgoth nelle Terre Mortali. Giungo per parlare a nome di Elfi e Uomini, il cui sangue scorre misto nelle mie vene. E sì, giungo anche per i Nani figli di Aulë, i Pastori di Alberi e tutte le altre genti. Se il cuore delle Potenze non è del tutto chiuso a queste sofferenze, io t’imploro, conducimi da loro, sì che possa presentare la mia preghiera».

   «Tale è appunto il mio scopo» annuì Eönwë. «Da molto attendevo il tuo arrivo. Seguimi, presto, all’Anello della Sorte in cui i Valar si stanno già radunando a consiglio. Il cuore mi dice che stavolta saranno mossi a pietà... quella pietà che il Nemico non comprende, e dunque non può prevedere. Se sarà così, anch’io ti accompagnerò nella Terra di Mezzo, per fare giustizia!» promise. E insieme si avviarono verso il Máhanaxar.

 

   Era una sera come tante nella Taur-nu-Fuin, la scura foresta che cresceva sull’altopiano del Dorthonion. Un tempo quei boschi d’abeti e larici erano stati di grande bellezza, sebbene gli inverni vi fossero rigidi; ma tutto era cambiato con l’estendersi del potere di Morgoth, e ancor più da quando Sauron li aveva eletti a propria dimora. Ora i tronchi giacevano senza foglie, morti e rinsecchiti. Là dove la vegetazione ancora resisteva, il bosco si era fatto scuro e infido; le piante producevano lunghe spine e foglie velenose. Le acque dei rigagnoli erano contaminate, tanto che berle avrebbe causato follia; ma non c’era più nessuno che percorresse quella landa spettrale, salvo le creature dell’Ombra. Tra un albero e l’altro si allungavano grandi ragnatele, tessute dalla mostruosa progenie di Ungoliant.

   Non appena l’ultimo raggio di sole svanì a occidente, gufi e civette si levarono in volo, stridendo lugubremente. Fu poi la volta dei pipistrelli, che cominciavano la loro caccia notturna. Infine una figura umanoide emerse dalle profondità della foresta. Sauron il Negromante era ancora lì, da quando Huan e Lúthien lo avevano umiliato e scacciato da Tol-in-Gaurhoth. Non osava tornare ad Angband, dal suo terribile padrone, né mettersi in proprio, ora che l’ombra di Morgoth aduggiava tutto il Beleriand. Avrebbe dovuto passare i Monti Azzurri, come aveva fatto in passato, e cercarsi un nuovo dominio nelle regioni orientali del mondo, dove gli Uomini si andavano moltiplicando. Ma qualcosa lo tratteneva. Il Maia raggiunse l’orlo di un dirupo, da cui la vista spaziava a settentrione. Là, oltre il deserto dell’Anfauglith cosparso di ossa, s’innalzavano i torrioni di Thangorodrim. Sotto di essi si ramificava il labirinto sotterraneo di Angband, dove migliaia di schiavi tra Elfi e Uomini faticavano nelle miniere, sotto le sferzate degli aguzzini, finché fame e freddo non ponevano fine alle loro miserie. E c’era anche... lei.

   Era da tanto che Sauron non pensava a Ilmarë. Nei giorni di Tol-in-Gaurhoth, quando si accompagnava a Thuringwethil, l’aveva quasi dimenticata; ma dopo la morte della vampira il ricordo del suo primo amore era riaffiorato. «Amore... che sogno infantile!» si disse il Negromante, respingendo il pensiero con rabbia. Non esisteva l’amore; c’era solo il desiderio di possesso. Questa era la verità che i Valar negavano a parole, pur mettendola in pratica col loro atteggiamento egoista; la verità che invece Morgoth gli aveva insegnato ad accettare.

   Fu allora che lo sguardo di Sauron indugiò verso occidente e qualcosa attirò la sua attenzione. Una strana luce si levava nel cielo. Pareva una stella, ma era più luminosa di ogni altra. Ed era nuova... mai prima d’ora si era levata, di questo il Negromante era certo. Con i suoi sensi di Maia, avvertì che la nuova luce era più pura e più santa di quella del Sole.

   «Un Silmaril!» comprese. La cosa era inaspettata e foriera di grandi cambiamenti. Se il Silmaril che Beren e Lúthien avevano tratto da Angband era tornato a Valinor, era perché qualcuno ce l’aveva portato. Doveva essere stato quel marinaio mezzosangue, Eärendil, con sua moglie Elwing, la nipote di Lúthien. Solo loro potevano aver realizzato l’impresa. Dunque i Valar non li avevano colati a picco, come facevano con le altre navi. Aveva senso... le Potenze certo bramavano di riavere il Silmaril. Ma allora perché lo avevano scagliato nel cielo, dov’era visibile a tutti ma al tempo stesso fuori dalla portata di chiunque? Perché non lo avevano rinchiuso tra i loro tesori? Era forse un segno che stavano per giungere a reclamare le altre due gemme? Dunque la resa dei conti si avvicinava?

   In quella Sauron udì un profondo boato che proveniva dai Thangorodrim. Anche Morgoth aveva percepito la nuova luce e certo ne aveva intuito l’origine. Un tempo il Signore Oscuro si sarebbe facilmente levato nello spazio, a ghermire quel lucente tesoro; ma da tempo aveva perso la capacità di abbandonare la sua forma incarnata, o anche soltanto di alterarla. Le sette ferite infertegli da Fingolfin in duello lo marchiavano ancora, ed egli si trascinava sul piede zoppo. Le sue mani erano ustionate dai Silmaril, da quando li aveva incastonati nella corona, e il suo viso era sfregiato dagli artigli di Thorondor. Sì, l’Oscuro Signore era un patetico relitto... aveva riversato tutta la sua potenza nelle sostanze del mondo e nelle sue creature, senza tenerne per sé. Sauron invece aveva conservato gran parte delle sue forze... sebbene non tutte... tanto che cominciava a chiedersi se avrebbe potuto sfidare il suo antico padrone, strappargli il titolo di Signore Oscuro. Se i Valar avessero davvero scordato la Terra di Mezzo, allora sì, lo avrebbe fatto. Ma quella luce che si levava sempre più alta in Occidente cambiava tutto. Se i Valar stavano arrivando, allora le forze dell’Ombra dovevano unirsi per respingerli.

 

   Nell’anno 545 della Prima Era del Sole, l’esercito dell’Ovest sbarcò finalmente sulle coste del Beleriand. Giunse con una flotta di navi bianche, così numerose e fitte da parere uno stormo di cigni che volassero a pelo d’acqua. A bordo c’erano Oromë e Tulkas, schierati in battaglia come avevano fatto negli antichi giorni, con le coorti dei Maiar guerrieri. Ecco dunque Eönwë armato di spada, Tilion col suo arco, Makar e Meássë che non vedevano l’ora di gettarsi nella mischia, e tutti gli spiriti minori. Ma stavolta anche gli Elfi di Valinor combattevano al loro fianco. C’erano i biondi Vanyar, condotti da Ingil figlio di Ingwë, che marciavano sotto uno stendardo bianco. E c’era quella parte dei Noldor che non si era recata in esilio, ma era rimasta a Tirion, governata da Finarfin. Quanto ai Teleri, avevano fornito le navi e le avevano equipaggiate con i loro marinai migliori. Tuttavia, memori del Massacro di Alqualondë, non vollero versare il sangue per coloro che li avevano decimati; così rimasero sulle navi e nessuno di loro mise piede sulle terre mortali.

   Lo sbarco ebbe luogo a Eglarest, uno degli antichi porti di Círdan, saccheggiati anni prima dagli Orchi. Qui i servi di Morgoth erano al lavoro per allestire una nera flotta che invadesse l’isola di Balar, l’ultimo rifugio dei Popoli Liberi, dove Gil-galad e Círdan resistevano precariamente. Mai prima d’allora le forze del male avevano costruito navi e sfidato i flutti, ma le circostanze lo richiedevano, perché Morgoth non tollerava che vi fosse chi non era suo schiavo. E non erano solo gli Orchi al lavoro, perché quasi tutti gli Uomini giunti dall’Oriente negli ultimi tempi avevano giurato fedeltà all’Oscuro Signore. I cantieri fervevano di lavoro; la Flotta Nera era quasi completata e l’esercito che avrebbe dovuto riempirla era già accampato fuori città.

   Ma Ulmo emerse dall’acqua, tremendo nella sua collera, e levò il suo tridente. Lo immerse nei flutti ed ecco, il Mare si gonfiò in una gigantesca ondata, che sommerse le navi coi carpentieri al lavoro e squassò i porti. Mentre i superstiti fuggivano nell’entroterra per dare l’allarme, le navi di Valinor attraccarono ai moli diroccati. Gli armati ne scesero in fretta, schierandosi per la battaglia. Avevano appena approntato il muro di scudi che l’esercito di Morgoth gli fu addosso.

   Allora ebbe luogo la Battaglia di Eglarest, primo scontro della Guerra d’Ira. E fu una clamorosa vittoria per le armate dell’Ovest, perché nessuno degli avversari le aveva mai affrontate prima: non gli Orchi, nessuno dei quali era tanto vecchio da ricordare la Guerra dei Poteri, e certo non gli Uomini giunti di recente. L’esercito oscuro fu spazzato via e i pochi superstiti fuggirono ad Angband, portando la notizia che i Grandi Nemici dell’Ovest erano sbarcati.

   Approfittando della tregua, i Valar completarono lo sbarco, portando a terra anche i cavalli, i carri e le provviste. Cominciarono subito a costruire un accampamento fortificato, mentre altre navi giungevano dall’Ovest, con il resto delle truppe. Malgrado l’iniziale vittoria, quella sera non ci furono canti né festeggiamenti. Per respingere l’esercito di Morgoth, infatti, le truppe di Valinor avevano dovuto versare il sangue di molti Uomini, e questo pesava sul loro animo.

   Nei giorni seguenti Eönwë volò a Balar, dove prese contatto con Gil-galad e Círdan, rivelandogli che i Signori dell’Ovest erano giunti a sfidare Morgoth. «Siamo qui per liberarvi dalla sua tirannia» promise. «Ma le sue armate di Orchi sono cresciute a dismisura. E ahinoi, anche molti Uomini mortali sono proni alla sua volontà e combattono per lui. Non sta ai soccorritori chiedere l’ausilio di coloro che erano venuti a salvare, ma devo dirvelo: chiunque tra voi se la senta ancora di combattere, sarà il benvenuto tra le nostre schiere».

   «Io verrò, assieme alla gente della mia Casa» promise Gil-galad. Così nelle settimane successive vi fu un gran viavai dall’isola di Balar alla terraferma. Gli Elfi si riunirono ai loro congiunti d’oltremare, che non vedevano dai tempi dell’Esilio. Anche i superstiti fra gli Uomini delle Tre Case fedeli ebbero sentore dei grandi eventi che erano in moto. Poco alla volta lasciarono le foreste e le terre desolate in cui avevano cercato scampo dalle persecuzioni e si unirono alle schiere dell’Ovest, venendo da queste equipaggiati con le armi migliori. Un mese dopo lo sbarco, le coste da Eglarest alla Baia di Balar erano in mano alle forze della Luce, che avevano costruito molti accampamenti e si preparavano a marciare nell’entroterra. Ma di tutto questo, Morgoth era informato; e malgrado tutto aveva ancora qualche asso nella manica.

 

   Mentre le coste del Beleriand risuonavano delle trombe di Valinor e degli inviti a unirsi, un analogo appello corse nell’entroterra. I servi di Morgoth furono richiamati da tutti gli angoli oscuri del mondo per difendere il suo regno. In via straordinaria, l’Oscuro Signore promise il perdono anche a quei servi che in precedenza lo avevano deluso ed erano fuggiti per nascondersi alla punizione. Fu così che Sauron fece ritorno ad Angband.

   «Quanto tempo» lo accolse Morgoth nella sua sala del trono. «L’ultima volta che udii tue notizie, seppi che eri stato sconfitto da un cane e da una fanciulla» lo derise, ricordandogli l’umiliazione di Tol-in-Gaurhoth.

   «Se parli del cane che ha ucciso il tuo lupo Carcharoth e della fanciulla che ti ha fatto addormentare col canto, sì da rubarti un Silmaril, ebbene lo ammetto: furono loro a scacciarmi» ribatté Sauron.

   «Insolente! Dovrei strapparti quella lingua forcuta!» ringhiò l’Oscuro Signore. La sua mano corse al martello Grond, ma all’ultimo rinunciò a impugnarlo. «Non c’è tempo da perdere, presto i Valar marceranno nell’entroterra. Dobbiamo fare terra bruciata sul loro cammino e presidiare i guadi lungo il Sirion. Quel fiume sarà la nostra linea di difesa».

   «Mio signore, il Sirion è sotto il potere di Ulmo e non li tratterrà a lungo. Ben presto i Valar giungeranno alle nostre porte. Già in passato espugnarono questa fortezza... stavolta come li tratterremo?» chiese il Negromante.

   «In passato non avevamo i draghi!» ribatté Morgoth. «Sebbene Glaurung sia perito per mano di Túrin, e altri siano caduti a Gondolin, il loro numero è tornato a crescere. Ve n’è uno, in particolare, che supera tutti gli altri per ardore e potenza. Si chiama Ancalagon, e presto sarà il flagello dei Valar!» sogghignò. Come evocato, il drago fece udire il suo ruggito dai sotterranei in cui era rinchiuso; e la sala del trono ne tremò.

 

   Ora che l’Esercito di Valinor si era schierato, ingrossandosi con l’afflusso degli ultimi difensori della Terra di Mezzo, iniziò la sua marcia. L’armata si divise in tre schiere, comandata una da Oromë, una da Tulkas e l’ultima da Eönwë. I tre eserciti marciarono attraverso il Beleriand in rovina, e ovunque passassero, la natura rifioriva attorno a loro. L’erba germogliava, gli alberi rinsecchiti aprivano nuove gemme e boccioli. Le tre armate raggiunsero il Sirion in altrettanti punti del suo corso; e qui si fermarono.

   Morgoth infatti aveva ammassato ingenti forze presso i guardi. Vi erano Orchi e Troll, come di consueto, e lupi mannari in grande quantità. Vi erano poi draghi simili a Glaurung, vale a dire che si muovevano su quattro zampe e sputavano fuoco. E vi erano gli Uomini dell’Est, in numero assai superiore a quanto i Signori dell’Ovest avessero previsto. Il fervore con cui quegli Uomini si batterono per l’Oscuro Signore, immolandosi per lui, fu qualcosa che gli Immortali non scordarono mai. Il primo tentativo di varcare il fiume fu fermato su tutti e tre i campi di battaglia. In realtà i Valar e i Maiar avrebbero potuto tirare dritto, ma gli Elfi e gli Uomini al loro seguito sarebbero stati massacrati, e questo non potevano permetterlo. Così i tre eserciti si accamparono. E lì rimasero, contendendo il fiume alle armate di Morgoth con frequenti attacchi. La guerra-lampo divenne una guerra di logoramento. Una guerra che si trascinò per quaranta lunghi anni.

   In tutto questo tempo, Sauron fu attivo sul campo di battaglia più meridionale, quello che lo opponeva a Eönwë; ma stette bene attento a non esporsi troppo. Accanto a lui c’erano sempre i Balrog e i draghi a dargli manforte e coprire le sue ritirate. Giunse più volte nei pressi di Eönwë: i due si videro e si scagliarono dardi, anche se non arrivarono mai al corpo a corpo. Erano però a portata di voce e ne approfittarono per scambiarsi accuse e recriminazioni.

   «Ma guarda, Manwë mi ha spedito contro il suo trombettiere!» disse Sauron, la prima volta che s’incontrarono. «Ti annoiavi tra le mollezze di Valinor? Mi ero quasi convinto che voialtri vi foste del tutto scordati della Terra di Mezzo!» lo provocò.

   «Da quando colpisti Ilmarë, non è passato giorno senza che ci pensassi» disse però Eönwë. «A lungo ho bramato di ritrovarti. Ora ti trovo, e vedo che sei sempre lo schiavo di Morgoth».

   «E tu lo schiavo dei Valar!» rimbeccò Sauron. «Il mio padrone però s’indebolisce; verrà il giorno in cui potrò soverchiarlo. I tuoi padroni, invece, ti domineranno in eterno!».

   «Non c’è tirannia sotto i Valar. Il loro potere è pace, è una gioia che si respira di continuo come l’aria» ribatté Eönwë. «Tu potevi esserne partecipe. Potevi avere la beatitudine, invece hai scelto l’orrore. Perché?!».

   «Perché qui ho più potere» rispose il Negromante. Scagliò una lancia sopra il fiume, cercando di trafiggere l’araldo, ma questi si protesse con lo scudo scintillante. La lancia vi rimbalzò e si perdette nell’acqua.

   «Tutto il potere dell’Ombra non ti salverà dalla tua sorte» avvertì Eönwë.

   «Vedremo» disse Sauron, e per il momento si ritirò.

 

   Quarant’anni durò la guerra di logoramento, durante la quale l’esercito di Valinor soffrì frequenti attacchi. Le truppe di Morgoth attraversavano il fiume in altri punti e poi assalivano nottetempo gli accampamenti dell’Ovest, cercando d’incendiarli col fuoco dei draghi. Gli assalti furono respinti e numerosi draghi rimasero sul terreno; ma si vociferava di un orrore ancora più grande. Molti reparti di Valinor, inviati in avanscoperta oltre il Sirion, non avevano fatto ritorno. Certe notti, però, le vedette avevano intravisto a grande distanza il fuoco balenare dal cielo verso la terra; cosa questa che né draghi né Balrog potevano fare. Anche le Aquile furono decimate in attacchi notturni e le superstiti confermarono che il pericolo veniva dal cielo. Poco alla volta gli Immortali compresero che Morgoth aveva escogitato un nuovo orrore, dando ai draghi le ali, per renderli ancora più mortiferi. Il nome di Ancalagon cominciò a circolare tra gli abitanti della Terra di Mezzo; ma i racconti su di lui erano confusi e parziali. Il rettile non si era ancora mostrato chiaramente alla luce del giorno, segno che Morgoth lo teneva come arma segreta.

   Dopo decenni di lotta, le forze dell’Ombra cominciarono ad assottigliarsi. Un’enorme quantità di Orchi, Troll e Uomini malvagi era perita negli scontri; i loro scheletri circondavano il fiume e ne intasavano le acque. Allora le forze di Valinor ripresero animo. Nel corso di una singola giornata, le tre schiere attaccarono, riuscendo finalmente a varcare il fiume. Gli accampamenti nemici furono distrutti; le truppe di Morgoth si ritirarono a nord con gravi perdite. Era cominciata la campagna finale.

   Nel corso dei due anni successivi, le schiere di Valinor marciarono verso il Nord, liberando le terre che attraversavano. Procedevano a rilento, per via dei frequenti attacchi nemici. Ogni territorio doveva essere accuratamente bonificato dalle forze del male, prima di proseguire, così che queste non potessero attaccare gli Immortali alle spalle. Gli Orchi inoltre avevano fatto terra bruciata, così che i rifornimenti per le truppe dovevano affluire da grande distanza. Era penoso osservare quelle terre, un tempo floride, ridotte in quello stato. Tutte le città degli Elfi erano in rovina; anche i villaggi degli Uomini erano stati saccheggiati da tempo. Il suolo stesso scricchiolava sinistramente, perché il potere di Morgoth era ormai venuto a contatto con quello dei Valar. Spesso si aprivano voragini nel terreno, da cui uscivano fumo e fiamme. Dalle coste giungevano notizie ancor più preoccupanti: il Mare aveva iniziato a invadere l’entroterra, segno che tutto il Beleriand cominciava a sprofondare sotto le immani forze geologiche.

   «Mi chiedo se col nostro attacco salveremo il Beleriand... o se lo manderemo in pezzi» disse una volta Eönwë, durante una riunione coi capi delle altre schiere.

   «Morgoth non esiterebbe a trascinare questa terra nella sua rovina» disse Oromë. «Ma persino questo non sarebbe un prezzo troppo elevato, in cambio della sua definitiva sconfitta».

   «Affrettiamoci, allora!» disse Tulkas. «Sono stufo di contendere al Nemico ogni palmo di terra. Puntiamo dritti sulla sua roccaforte e facciamola finita!».

   «Pazienta ancora un poco» lo esortò Oromë. «Dobbiamo bonificare queste terre, se non vogliamo che alla fine di tutto gli Orchi e altre male creature tornino a moltiplicarsi».

   «Temo che questo sia inevitabile» disse però Eönwë. «La potenza di Morgoth è quasi tutta fluita nei suoi servitori. La sua volontà agirà per loro tramite, anche se la sua forma incarnata sarà rimossa dal mondo».

   «Nondimeno, un grande male sarà rimosso e i Popoli Liberi avranno sollievo per qualche tempo» disse Oromë. «Procediamo, dunque! Non manca molto alla resa dei conti».

   «Vorrei solo che Ilmarë fosse con noi» sospirò Eönwë. Forse era quella, la causa del suo pessimismo. L’aveva persa da un tempo così incalcolabile che ormai non sperava più di rivederla in forma incarnata. Solo qualche volta l’aveva intravista attraverso Olórë Mallë, il Sentiero dei Sogni; ma Ilmarë era lontana e non rispondeva ai suoi appelli. Al risveglio, Eönwë si sentiva più abbandonato che mai.

   «Abbi fede, amico mio» disse allora un Maia, facendosi avanti. Era Olórin, il più saggio del suo popolo. «Ilmarë ancora vive, anche se dorme il lungo sonno. Ma molte cose saranno smosse, quando il potere dei Valar e quello dell’Avversario giungeranno all’estremo scontro. Se una volta ad Angband percepirai la sua vicinanza, chiamala!» raccomandò.

   «Lo farò» promise Eönwë. «E farò giustizia di colui che l’ha ridotta in quello stato».

 

   Si giunse così allo scontro finale, sul deserto di Anfauglith, davanti alle porte di Angband. Le tre schiere di Valinor si riunirono in un solo possente esercito, che marciò sulla piana, alla volta dei Thangorodrim. Valar e Maiar erano in prima fila; seguivano Elfi e Uomini. Si fermarono solo per un attimo davanti allo Haudh-en-Ndengin, il Tumulo del Massacro eretto dopo la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, per portare rispetto ai caduti. Infine lo oltrepassarono e giunsero davanti ai cancelli di Angband.

   Davanti a loro era schierato l’ultimo e più grande esercito di Morgoth. C’erano Sauron, i Balrog e i demoni minori. C’erano draghi a quattro zampe, lupi mannari e altre creature dell’Oscurità. Vi erano infine Orchi, Troll e Uomini malvagi, in quantità incredibile, considerando le perdite che avevano avuto nei quarantadue anni di guerra. Fu Sauron a farsi avanti, in veste di messaggero.

   «Benvenuti, miei signori» esordì in tono beffardo. «Come vedete, la stirpe degli Uomini combatte lealmente al nostro fianco. Voi avete le Tre Case, o quel poco che ne resta; ma tutti gli altri sono con noi. Essi venerano Morgoth, riconoscendolo come loro Signore, e sono lieti di dare la vita per lui. Ecco come usano il libero arbitrio che Ilúvatar gli ha donato! E quindi vi si pone davanti una scelta difficile: se volete salvare i Figli Minori d’Ilúvatar... dovrete sterminarli» disse con maligno compiacimento.

   «Vade retro, schiavo di Morgoth!» disse però Eönwë. «Non è più tempo per dibattiti e ripensamenti. Quest’oggi si decide il destino del Mondo».

   «Arrivate tardi, come sempre. I giochi ormai sono fatti. Che Morgoth trionfi o cada, il suo volere impregnerà Arda per sempre!» disse Sauron, e si ritirò. Anche Eönwë tornò nel suo schieramento. Di lì a poco squillarono le trombe e i corni. Le due immense schiere si gettarono l’una contro l’altra e vennero in urto, mentre il terreno sotto di loro scricchiolava e si fendeva, e c’erano crolli nei monti.

   Fu l’ultimo scontro, il più cruento. Entrambe le parti miravano alla vittoria totale. I Balrog si fecero avanti con le loro fruste di fiamma, ma Oromë e Tulkas li annientarono, estinguendo il loro fuoco con la lancia, la spada o la nuda forza delle mani. Un solo Balrog  sprofondò in uno degli abissi che ormai si spalancavano un po’ ovunque e non fu più visto. Le brulicanti legioni degli Orchi si consumarono come erbaccia in un incendio, quando non furono spazzate via come foglie morte da un vento ardente. Le creature oscure furono uccise o gettate nei crepacci. E gli Uomini che adoravano Morgoth combatterono e morirono in suo nome, come Sauron aveva annunciato.

   Allora, vedendo che i suoi eserciti erano allo sbando e il nemico già picchiava sui cancelli, Morgoth tremò e non osò uscire di persona. Tuttavia scatenò la sua ultima arma, la più micidiale. La piana di Anfauglith tremò e si spaccò, i Monti di Ferro vomitarono fiamme, i Thangorodrim furono avvolti dai fulmini. I cancelli di Angband si aprirono ed ecco uscirne i draghi alati, che mai prima d’ora si erano visti alla luce del sole. Il loro assalto fu una tempesta di fuoco che nemmeno i Valar poterono fermare. L’Esercito dell’Ovest fu avvolto dalle fiamme, e in quelle fiamme perirono molti Elfi e Uomini coraggiosi. Le loro armature, forgiate a Valinor e benedette dagli Immortali, si sciolsero sui corpi carbonizzati. I Maiar stessi furono ricacciati indietro, ustionati e doloranti. Scagliarono frecce e lance contro i draghi, mirando al loro ventre molle, e in tal modo riuscirono ad abbatterne alcuni. Ma persino la lancia di Oromë rimbalzò sulle scaglie di Ancalagon senza nuocergli.

   Infastidito dall’attacco, il drago nero investì con un colpo di coda il Cavaliere dei Valar, disarcionandolo e gettandolo a terra. In un lampo fu su di lui per finirlo. Tulkas si slanciò sul compagno caduto, afferrò il drago per le fauci e con uno sforzo formidabile gliele tenne aperte. Allora il drago alitò una fiammata rovente; persino il Vala ne fu ustionato. Con uno scarto Ancalagon si liberò dalla presa e con pochi colpi d’ala tornò in aria, per flagellare di nuovo l’armata di Valinor. Oromë e Tulkas si scambiarono un’occhiata disperata: avevano affrontato Ancalagon con tutta la loro forza divina, e non era bastato. Davanti alla furia di quel nero demonio, anche gli dèi cadevano.

   In quella il sole tramontò nel cielo rosso sangue. Nelle tenebre punteggiate dagli incendi le truppe di Morgoth ripresero animo, mentre i campioni dell’Ovest indietreggiavano. Era un arretramento che rischiava di trasformarsi in una rotta irrimediabile. In quella però si udirono i richiami delle Aquile ed esse vennero a stormi, insieme a tutti gli uccelli forti d’ala. Erano condotti da Thorondor, il Signore delle Aquile; e in groppa a Thorondor c’era Eärendil. I rapaci si gettarono sui draghi, malgrado questi ne abbattessero molti col fuoco, e gli strapparono gli occhi con gli artigli, rendendoli pazzi di dolore e vulnerabili ai successivi attacchi degli Immortali. Nessuno, però, riuscì ad avvicinarsi tanto ad Ancalagon da accecarlo. La battaglia proseguì per tutta la notte, con grandi stragi da ambo le parti. In quella confusione non c’era modo di sapere chi stesse prevalendo; solo la prossima alba avrebbe rivelato il vincitore.

 

   Messo davanti alla disfatta, esausto e con gli occhi pieni d’orrore, Eönwë cadde in ginocchio sulla terra riarsa. Vi passò sopra le mani, osservando la polvere che gli scorreva tra le dita. Poi alzò gli occhi al cielo buio, dove anche le stelle erano oscurate dai fumi velenosi.

   Poco lontano, Sauron lo vide e fremette di gioia malefica. Si fece strada tra gli Elfi, abbattendoli a destra e a manca con poderosi colpi della sua mazza ferrata. Era deciso a raggiungere Eönwë e abbatterlo, approfittando del suo sconforto. La loro lunga contesa sarebbe finita, finalmente.

   In quella però Eönwë notò un piccolo squarcio nella cappa fumosa, da cui vide splendere una stella; forse proprio quel Silmaril che i Valar avevano scagliato nel cielo in segno di speranza. Allora l’araldo levò le mani nell’estrema preghiera: «Ilmarë, se puoi sentirmi, destati dal lungo sonno e torna da me! Per lunghe ere ti ho attesa, sognando di rivivere la felicità di un tempo. Non lasciarmi solo, ora che il mio animo è triste fino alla morte. Eru, Padre di Tutto, accogli la mia supplica! Non abbandonare i Tuoi figli all’ombra del Male. Soccorrici nel dolore, confortaci nella pena. Fa’ che i cuori a lungo divisi possano ricongiungersi. Ma sia fatta la Tua volontà, non la mia!».

   In quel preciso momento, negli abissi di Angband, dietro una porta ferrea che non veniva aperta da secoli, qualcosa si mosse. Le cortine sbrindellate si sollevarono, lacerando le ragnatele che le coprivano. La polvere si sollevò a sbuffi, mentre il respiro di colei che giaceva sul letto si faceva più rapido e intenso. Infine gli occhi chiusi da ere immemorabili si riaprirono. E fu la luce.

 

   Le sorti della battaglia continuavano a oscillare, con l’Esercito dell’Ovest che ora veniva respinto e ora riguadagnava terreno, mentre fra i Thangorodrim infuriava la battaglia aerea tra draghi e rapaci. D’un tratto vi fu un boato più profondo di tutti. Un’esplosione di luce scosse il torrione centrale, infrangendone la dura superficie rocciosa, e qualcosa ne scaturì. Parve allora che una stella aleggiasse sul campo di battaglia, così fulgida che tutte le creature dell’Ombra si coprirono gli occhi o distolsero lo sguardo. Solo Sauron osò fissarla; e ciò che vide lo lasciò di stucco. Perché la stella vivente era Ilmarë, più lucente e terribile di quanto l’avesse mai vista. Era sorretta da due ali di pura luce; nelle sue mani prese forma una lancia scintillante.

   Vedendola, Ancalagon ruggì di collera e le alitò contro le sue fiamme, ma esse s’infransero contro una bolla di luce bianca che avvolgeva la Maia. Allora il drago, che volava più in alto, calò su di lei per azzannarla e travolgerla. Ilmarë non si scompose; impugnò saldamente la lancia di luce, prese la mira e la scagliò nel momento in cui le ali del drago si sollevavano, scoprendogli il petto.

   La lancia percorse il cielo come una saetta e giunse a bersaglio. Si piantò nel petto di Ancalagon, forandone le scaglie, e vi entrò per tutta la sua lunghezza, trapassandogli il cuore. Il drago nero lanciò un ruggito agonizzante, che assordò tutti coloro che combattevano sotto di lui. Schiumò, si rivoltò e cercò d’innalzarsi, sbattendo le ali come per artigliare l’aria. Infine le forze lo abbandonarono ed esso precipitò dal cielo, come una meteora avvolta dal fuoco. Impattò contro il torrione centrale dei Thangorodrim, già indebolito, e lo fece tremare. Le crepe si ramificarono, accompagnate da schianti e boati, finché la torre-montagna si rovesciò su un fianco e franò. Nella sua rovina investì e abbatté uno dei torrioni laterali. Il loro crollo travolse un’ampia parte dell’esercito di Morgoth, ancora addossato alla fortezza. A quel punto anche il terzo e ultimo torrione, indebolito dalle vibrazioni, cedette e rovinò al suolo.

   In quella sorse il sole, pallido attraverso i fumi della battaglia. L’Esercito dell’Ovest dette un possente urlo di trionfo per la caduta dei Thangorodrim e si lanciò nell’assalto finale. Oromë era di nuovo in sella e Tulkas gli correva a fianco; entrambi avevano già rimarginato le ferite. Davanti alla loro carica, le truppe di Morgoth cedettero definitivamente. Gli Orchi e gli Uomini malvagi furono calpestati, o gettati nei crepacci, o fuggirono. Anche i draghi sbandarono, dopo la caduta del loro campione: le folgori dei Valar li abbatterono, tanto che solo due di loro riuscirono a fuggire, così che la loro progenie tormentasse il mondo per lunghi anni ancora. Quando tutte le creature nate dalla perfidia di Morgoth furono sbaragliate, i Valar varcarono i cancelli di Angband e scesero nelle profondità della terra, per sconfiggere una volta per tutte il loro antico nemico.

   Sentendoli arrivare, Morgoth si mostrò ancora una volta pusillanime. Si rifugiò nella più profonda delle sue segrete, e quando la volta fu scoperchiata sopra di lui, inondandolo di luce, invocò pace e perdono. Grond giaceva a terra, inutilizzato, perché l’Oscuro Signore era ormai così debole da non riuscire a brandirlo. «Fratelli miei... quanto tempo è passato!» disse. «Avete versato molto sangue e conquistato una grande vittoria; potete essere fieri di voi stessi. Ora perché non discutiamo come spartirci questo mondo, affinché ciascuno abbia ciò che merita?».

   «Avrai ciò che meriti, eccome!» disse Oromë, e con un sol colpo di spada gli troncò le gambe all’altezza delle ginocchia. L’Oscuro Signore cadde faccia a terra e la Corona Ferrea rotolò con clangore sul pavimento. Allora Tulkas fu sopra di lui e lo incatenò con Angainor, che già un tempo lo aveva gravato. Le mani gli furono poste nei ceppi di tilkal ed egli fu a tal punto avvoltolato che il suo capo stava piegato fino alle ginocchia sanguinolente. Tulkas estrasse i due Silmaril rimanenti dalla corona, poi la spezzò su un lato, piegandola per aprirla. La pose attorno al collo di Morgoth e la richiuse a forza, spingendogli le punte acuminate in profondità nelle carni: la corona era divenuta un collare da schiavo. Morgoth gridò come quel demonio che era, ringhiò, sbavò, maledisse tutti i suoi nemici; infine lo zittirono con una mordacchia. Tulkas lo trascinò a viva forza fino in superficie, dove il suo corpo martoriato fu esposto alla vista dei suoi schiavi. Allora anche gli ultimi fedeli lo abbandonarono, dandosi a una fuga disordinata.

 

   Sbigottito, Sauron aveva assistito a ogni cosa: il ritorno d’Ilmarë, la caduta di Ancalagon, il crollo dei Thangorodrim e da ultimo la sconfitta di Morgoth. Allora, strano a dirsi, sentì una gran gioia. Il suo vecchio padrone era finalmente in catene e lui era libero dal servaggio. Stava per andarsene, quando una luce intensa lo costrinse a schermarsi gli occhi. Ilmarë calò dall’alto e gli atterrò davanti, fissandolo con sommo disgusto. «Ammira il tuo padrone» gli disse, indicando il corpo martoriato di Morgoth. «Tu non finirai meglio di lui».

   «Ilmarë... mia adorata!» mormorò Sauron. Si levò l’elmo puntuto e cercò di ammirare i suoi occhi, finalmente aperti dopo incalcolabili eoni; ma erano così luminosi che non riuscì a fissarli. Dovette distogliere lo sguardo. «Sapessi come ho sofferto per te... quanto ti sono stato accanto, mentre eri in quel sonno di morte...» confessò.

   «Lo so; ho udito tutto ciò che mi dicevi» fu l’inaspettata risposta.

   «Allora sai che ti amo!» si riscosse Sauron. «Vieni con me: cominceremo una nuova vita, lontano sia dai Valar che da Morgoth. Saremo liberi, finalmente!». Cercò di abbracciarla, ma lei si ritrasse con sdegno.

   «Liberi? Tu non sarai mai libero» disse la fanciulla, con occhi sfavillanti. «Sarai sempre schiavo del tuo odio e della tua brama di potere».

   «No, io posso cambiare, posso...!» fece Sauron, ma in quella Eönwë gli fu davanti.

   «Ora che Morgoth giace in catene, tu lo accompagnerai» disse l’araldo.

   «Non mi sono mai piegato davanti a te e non lo farò adesso!» ringhiò il Negromante, brandendo di nuovo la sua mazza. Stavano per venire allo scontro, quando Ilmarë si frappose. «Vuoi colpirmi ancora, Sauron? Vuoi che la storia si ripeta?» chiese la fanciulla.

   «Io... no, non voglio» mormorò il Maia, ricordando l’eternità di dolore e rimorso che l’antico incidente gli aveva provocato. Mollò la mazza ferrata e cadde in ginocchio. «Oh, mio antico e inestirpabile amore! Potrai mai perdonarmi per ciò che ti ho fatto?!» le domandò.

   «Posso perdonarti per il male che hai fatto a me» rispose Ilmarë. «Ma non per quello che hai arrecato a innumerevoli altri innocenti. Il loro sangue grida ancora giustizia».

   «Ebbene, che ne sarà di me?» chiese Sauron, in preda alla vergogna.

   «Tu puoi scegliere di rinnegare Morgoth e le sue seduzioni, o di seguirlo sul suo rovinoso cammino» rispose Eönwë. «Bada a te! Rifiutasti di pentirti dopo la caduta dei Lumi, e di nuovo dopo la Guerra dei Poteri. Questa è la tua terza possibilità di redenzione e sarà l’ultima. Rifiutala e seguirai il tuo padrone Morgoth nel Vuoto».

   «Io... accetto l’offerta» mormorò il Negromante. Il suo viso era esangue ed egli fissava il suolo in preda alla vergogna, senza azzardarsi a guardare in viso gli interlocutori. Del resto, non avrebbe retto lo sguardo d’Ilmarë.

   «In tal caso, abiura la tua lealtà all’Oscuro Signore!» ordinò l’araldo.

   «Io... rinnego Morgoth e le sue seduzioni» disse Sauron a denti stretti. «Rinnego tutto ciò che ho fatto per suo ordine. Mi riconosco colpevole per pensieri, parole e opere. Non merito il vostro perdono, tuttavia lo imploro. E giuro sul Padre Eru che dedicherò il resto della mia esistenza a fare ammenda».

   «Ti ho udito, e ti ha udito anche Eru» disse Eönwë. «Sii fedele a questo proposito, o il Vuoto sarà davvero il tuo destino».

   «Dunque ora cosa mi aspetta?» tornò a chiedere Sauron.

   «Sarai condotto a Valinor e giudicato dalle Potenze» rispose l’araldo. «Poiché i tuoi crimini sono stati molti ed efferati, puoi aspettarti di giacere a lungo nelle Aule di Mandos. E seguirà un periodo di servaggio ancora più lungo. Ma se ti comporterai bene, un giorno potrai aggirarti libero a Valinor, com’è ora per Makar e Meássë, che hanno fatto ammenda dei peccati».

   «Così sia» disse il Negromante. Alzò per un attimo lo sguardo su Ilmarë e la vide accanto a Eönwë. Allora sentì che, persino se i Valar lo avessero infine perdonato, lei comunque gli si sarebbe sempre negata. E in lui crebbe un dolore senza speranza, misto al rancore per Eönwë, che lo aveva umiliato davanti a lei. A che scopo fare ammenda, se i suoi desideri sarebbero rimasti per sempre inappagati?

 

   La Guerra d’Ira era finita e il regno malefico di Angband giaceva in rovine. Dalle profonde miniere e dalle carceri emerse una moltitudine di schiavi che avevano perduto ogni speranza. Si guardarono intorno, alla luce del giorno, e videro un mondo che era cambiato per sempre.

   Lo scontro di poteri era stato così immane che tutto il Beleriand ne era squassato. I Monti di Ferro furono livellati, lasciando solo scarsi resti nella porzione più orientale del loro arco. La lunga era glaciale provocata da Morgoth era finita, ma lo scioglimento dei ghiacci settentrionali peggiorò le cose. Il Mare si rovesciò con fragore all’interno delle coste, seppellendo vasti territori. Allora anche tra i vincitori ci furono confusione e paura, ed essi dovettero ritirarsi a oriente. Nell’arco di pochi anni, le acque salirono inesorabili a sommergere tutto il Beleriand, per il quale Elfi e Uomini avevano duramente lottato. I superstiti della battaglia furono costretti a varcare i Monti Azzurri in cerca di scampo; ma i Monti stessi furono parzialmente sommersi. La loro catena fu infranta e il fiume Lhûn s’incanalò nell’apertura, formando un ampio estuario.

   L’inabissamento del Beleriand generò un immane contraccolpo: i territori a oriente si sollevarono. Il Mare Interno di Helcar si prosciugò quasi del tutto, lasciando pochi rimasugli, come il mare di Rhûn e quello di Núrnen. Dalle acque affiorò la terra vulcanica che, mille anni dopo, avrebbe preso il nome di Mordor, divenendo il terzo e ultimo regno del Male.

   Allora Eönwë rivolse ai figli di Fëanor superstiti – Maedhros e Maglor – un discorso analogo a quello fatto a Sauron, invitandoli a pentirsi e tornare a Valinor per essere sottoposti a giudizio. Sulle prime i principi parvero accettare; ma il loro giuramento li indusse a un’ultima scelleratezza. Approfittando della grande confusione dovuta al cataclisma, s’intrufolarono nell’accampamento di Valinor. Giunti nottetempo alla tenda in cui erano custoditi i Silmaril, trucidarono le guardie Vanyar e s’impadronirono delle due gemme. Allora tutto l’accampamento insorse contro di loro, che si prepararono a morire lottando; ma Eönwë trattenne i suoi.

  «Basta così» disse l’araldo. «Troppo sangue è stato sparso per quelle gemme. Si avvicina il momento in cui esse troveranno le dimore cui erano destinate. E saranno proprio i figli di Fëanor gli involontari esecutori della Sorte. Lasciateli andare».

   Increduli, i due principi fuggirono senza incontrare resistenza; ma non avevano riflettuto a fondo sulle parole di Eönwë. Appena si sentirono a distanza di sicurezza, presero un Silmaril a testa, come a spartirsi l’eredità paterna. Ma non appena li ebbero tolti dalla teca di cristallo, scoprirono che il tocco li ustionava, segno che il loro diritto sulle gemme era decaduto in seguito alle loro malefatte. Allora Maedhros, in preda alla disperazione, si gettò con la sua gemma in una delle voragini infuocate che in quei giorni costellavano il Beleriand prossimo al collasso. Maglor invece gettò la sua gemma nel Mare ruggente, mentre questo s’avanzava a coprire il Beleriand. Da allora in poi vagò sulle coste, cantando il suo dolore e il suo rimpianto, senza tornare più tra i suoi simili, finché svanì dalla storia. Così i Silmaril trovarono le loro dimore nei tre elementi del mondo; e lì rimarranno fino all’Ultima Battaglia, quando Arda sarà schiantata e ricomposta.

 

   «Siamo pronti a salpare, mia diletta» disse Eönwë, affacciandosi nella tenda che condivideva con Ilmarë. In un attimo la fanciulla gli fu accanto. Guardarono il Mare, finalmente calmo dopo tre anni di tumulti. Tutti loro si erano ritirati nel Lindon, l’unica parte del Beleriand non sommersa dalle acque. Ora gli Elfi Vanyar e Noldor sarebbero tornati nelle Terre Imperiture, e molti Sindar li avrebbero seguiti. Anche i Noldor esuli erano stati perdonati: gli era concesso di stabilirsi a Eressëa in vista di Valinor. Ma c’erano anche dei prigionieri da trascinare all’Ovest: in primo luogo Morgoth, che sarebbe stato espulso nel Vuoto, e poi anche Sauron, in attesa di giudizio.

   Eönwë e Ilmarë si recarono nella grotta sulle pendici dei Monti Azzurri in cui Sauron era stato rinchiuso in quegli anni di cataclismi. Dovevano prelevarlo, per portarlo a bordo della loro nave. Con loro venne una robusta scorta di Maiar, nel caso in cui il Negromante opponesse resistenza.

   «Hai più parlato con lui, dopo il giorno della vittoria?» chiese Ilmarë.

   «Non molto... sai com’è, sono stati anni tremendi» disse Eönwë, che si era adoperato senza posa per mettere in salvo i superstiti del Beleriand nei territori ancora emersi. «Ho solo scambiato qualche breve parola, quando lo abbiamo rinchiuso qui. Ha chiesto pergamena, penna e inchiostro per scrivere. Credo che volesse lasciarti un messaggio, prima d’essere giudicato dai Valar».

   «Qualunque cosa voglia comunicarmi, può dirmela a voce» notò Ilmarë.

   «Forse si vergogna troppo» ipotizzò Eönwë. Levò la mano verso la porta che sigillava l’ingresso della grotta e pronunciò l’incantesimo che la dischiuse. I pesanti battenti si aprirono da soli, permettendo ai Maiar d’entrare.

   «È tempo di salpare, vecchio mio!» annunciò Eönwë. Ma dalle ombre non giunse alcuna risposta. «Non fare scherzi... rispondi!» ordinò l’araldo. Inquieto, sguainò la spada.

   «Guarda!» disse Ilmarë, indicando più avanti. Le catene con cui il Negromante era stato avvinto alla parete giacevano ancora attaccate alla roccia, ma erano vuote.

   «Lui dov’è?!» esclamò Eönwë, guardandosi attorno con raddoppiata ansia.

   «Si sarà fatto serpente e sarà strisciato via da qualche buco» sospirò Ilmarë. «Ha ancora questo potere, se ben ricordi. C’erano degli incantesimi che avrebbero dovuto trattenerlo, ma dev’essere riuscito a infrangerli».

   «Vergogna a noi, che lo abbiamo sottovalutato!» gemette Eönwë. «Per la nostra colpevole negligenza, il mondo potrebbe cadere sotto una nuova Ombra!».

   Ilmarë non disse nulla, ma si accostò alla parete con infisse le catene. Aveva notato una pergamena, posata a terra. La raccolse, la srotolò e la lesse al bagliore da lei stessa emanato.

 

   Mia amata Ilmarë,

   se stai leggendo queste righe significa che sono riuscito a fuggire prima che mi portassero a Valinor. Lo so, avevo un’ultima occasione per redimermi, e ancora una volta ho dato le spalle alla Luce. Ma il fatto è che se anche i Valar mi perdonassero, non potrei tollerare di vivere nella loro terra, vicino a te, eppur da te separato. Torna nel Regno Beato, vivi lieta per sempre. A te sola, di tutte le creature d’Ilúvatar, auguro ogni bene. Per quelli come me, invece, non c’è gioia né ristoro, solo un’eterna guerra col mondo. Ho lasciato l’inferno di Angband, ma lo porterò sempre con me, perché sono io l’inferno. Compiangimi, se puoi. O meglio ancora, dimenticami.

   Per sempre tuo,

   Mairon

 

   «Ebbene?» chiese Eönwë.

   «Sauron ha fatto la sua scelta, e non può più essere revocata» sospirò Ilmarë. Stracciò la lettera e ne disperse i frammenti. «Vieni, lasciamo queste contrade di dolore e pianto. Non possiamo fare più nulla, qui. Torniamo a casa».

   E lasciarono la grotta a braccetto.

 

 

-Commento:

   Tolkien è sempre stato parco di dettagli nel descrivere la Guerra d’Ira. Leggendo il Silmarillion si ha l’impressione che sia stata rapida, consistendo in pratica di un’unica grande battaglia davanti ai cancelli di Angband. Ma dalle informazioni frammentarie delle raccolte si evince che invece il conflitto sia durato oltre quarant’anni, attestandosi per lungo tempo sul fiume Sirion. Ho quindi descritto questo scenario, in cui l’avanzata dell’Esercito dell’Ovest subisce una lunga battuta d’arresto. Ne ho approfittato per introdurre il drago Ancalagon, come una forza spaventosa ma ancora celata nella notte, perché altrimenti la sua unica apparizione sarebbe stata nella battaglia finale in cui viene abbattuto.

   Come indicavo nel precedente commento, non è chiaro se Sauron sia ancora al servizio di Morgoth dopo essere stato scacciato da Tol-in-Gaurhoth. Tuttavia Tolkien scrive che, all’indomani della Grande Battaglia, Sauron fece atto di contrizione davanti a Eönwë. Questo implica che in un primo momento fosse stato catturato, e prima ancora che si trovasse sul campo di battaglia. Quindi ho immaginato che Morgoth emani una sorta di “condono generale” per i servi che lo hanno deluso, richiamandoli ad Angband per una strenua difesa del reame.

   Nel Silmarillion Eärendil partecipa alla Grande Battaglia sulla sua nave Vingilot, prodigiosamente resa volante dai Valar. Io però ho sempre avuto difficoltà a figurarmi una scena del genere, con la nave che fluttua a mezz’aria senza alcun sistema di propulsione. Tra l’altro, un’imbarcazione in legno con le vele di tela è quanto di più infiammabile esista, quindi sarebbe un bersaglio assai vulnerabile per i draghi alati sputafuoco! Di conseguenza ho preferito immaginare che Eärendil combatta in groppa a Thorondor, che gli conferisce più agilità, e che il Silmaril sia stato gettato in orbita dai Valar anziché “navigare nel cielo” su Vingilot.

   E ora veniamo al grosso cambiamento. Nel Silmarillion è Eärendil ad abbattere Ancalagon il Nero, in un modo non specificato. Così a logica viene da pensare che lo abbia colpito con una freccia o una lancia, per evitare che il drago arrivasse a contatto con la sua nave. Ma nella mia versione il momento saliente della battaglia è il risveglio d’Ilmarë dal suo lungo sonno. Sentivo che a questo punto la Maia doveva fare qualcosa di decisivo per le sorti dello scontro, quindi ho stabilito che fosse lei ad abbattere Ancalagon con una delle sue “lance di luce”. Per la sconfitta di Morgoth, mutilato e incatenato, mi sono attenuto invece al Silmarillion.

   Come accennavo, Tolkien scrive che dopo la battaglia Sauron si sottomise a Eönwë, abiurando le sue malefatte. Poi però «quando Eönwë se ne andò, ecco che egli si nascose nella Terra di Mezzo; e ricadde nel male». Da queste scarne indicazioni si ha l’impressione che Eönwë lo avesse lasciato a piede libero, senza nemmeno curarsi di scortarlo a Valinor. È un atteggiamento francamente irresponsabile, considerando le conseguenze drammatiche per gli abitanti della Terra di Mezzo. Ho preferito immaginare che Sauron sia incatenato in una grotta, nel periodo di cataclismi geologici in cui il Beleriand viene sommerso, ma che riesca a liberarsi e fuggire prima che tornino a prenderlo per portarlo a Valinor. Lascia solo una lettera d’addio a Ilmarë, in cui spiega le ragioni di quest’ultimo voltafaccia. I giochi sono fatti, e il resto è storia nota.

 

   
 
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