Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Snehvide    06/08/2021    3 recensioni
“Chi ha dato i punti qua?”
Il modo in cui squilla quella domanda gli dà una fitta alle tempie.
“Glieli hai dati tu, Levi?”
“Ehi, bada a come parli!”
“Sono stato io, Hange.”
Si prende le occhiate che merita. Sapeva che le avrebbe ricevute.
Si era figurato mentalmente Hange rivolgergli quello sguardo già dal momento in cui Levi se ne è uscito con il prevedibile ‘vado a chiamare Hange…', e lui non lo ha fermato.
È stata una sua decisione.
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[WARNING: Tematiche MOLTO delicate] [Erwin/Levi] [Hurt/Comfort a palate]
Genere: Angst, Dark, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Johanniskraut | Hypericum perforatum

 

“Bene, bene, bene—”, Hange allunga i gomiti, fa scrocchiare le nocche delle dita in avanti e poi all’indietro. “Che cosa abbiamo qui oggi?”

Erwin pensa sempre che se fosse un soldato in difficoltà, il volto sorridente di Hange sarebbe esattamente quanto vorrebbe trovare al suo capezzale.
Fiduciosa, altruista, sorprendentemente competente. Le lamentele e le dicerie che serpeggiano sul suo conto sono molte, è vero. Ma a lamentarsi, sono soprattutto quei soldati deboli di cervello che, anche volendo, non potrebbero mai capire cosa davvero accadrebbe loro se ad occuparsi di simili ferite fosse uno di quei medicastri degli ospedali distrettuali.

“La febbre. Ecco cosa abbiamo qui, Comandante Erwin: la febbre.”

Tuttavia, adesso che quel sorriso fuori luogo e quei capelli arruffati penzolano sul suo viso, di una cosa deve rendere loro merito: c’è qualcosa nell’entusiasmo con cui Hange si approccia ai feriti da renderla un paradosso vivente.
Erwin non ha davvero idea di come possa trovarla estremamente rassicurante e, al contempo, anche estremamente fastidiosa.

“Dunque sei umano anche tu, non è una leggenda,”

“Pare di no.”

Ha sentito storie orrende su quel termometro che solleva tra le dita.
Finisce sotto al suo braccio però, ed è abbastanza sicuro che lo sguardo torvo che Levi le rivolge da quando ha messo piede nel suo ufficio, abbia avuto un peso non indifferente nell’eccezionalità della sua scelta.

Sa già dove mettere le mani, ed è una delle ragioni per cui a Erwin quella donna piace tanto.
Gli allenta i pantaloni come farebbe con una recluta qualunque; i bottoni della sua camicia si arrendono sotto le sue dita, battono la ritirata – e gli sembra quasi di sentirla mugolare un motivetto allegro mentre lo fa, qualcosa di ritmico e irritante.
O forse, è solo la febbre.
Chiude gli occhi quando i suoi polpastrelli vanno a sondare luoghi ancora meno inclini a sopportarla.

“Lo dico sin da quando abbiamo fatto ritorno tra le mura che quella ferita non mi piace – ma darmi retta? Giammai!”

“Smettila di lamentarti e vedi di muoverti, quattrocchi di merda. Fai ciò che devi fare e poi torna a giocare con i tuoi giganti del cazzo!”

“Va tutto bene, Levi—”

Erwin solleva una mano, vuole stringere i muscoli tesi di Levi, ricordargli che davvero, va tutto bene. Caso vuole che anche la mano del capitano sia partita verso di lui con le medesime intenzioni.
La incontra a metà strada; Erwin lascia che la stringa.


“Chi ha dato i punti qua?”


Il modo in cui squilla quella domanda gli dà una fitta alle tempie.


“Glieli hai dati tu, Levi?”

“Ehi, bada a come parli!”

“Sono stato io, Hange.”

Si prende le occhiate che merita. Sapeva che le avrebbe ricevute.
Si era figurato mentalmente Hange rivolgergli quello sguardo già dal momento in cui Levi se ne è uscito con il prevedibile ‘vado a chiamare Hange…', e lui non lo ha fermato.

È stata una sua decisione.

“Vuoi dire che—” si interrompe, sbalordita e inorridita, “Vuoi dire che hai fatto da solo questo schifo!?”

“È così.”

“Ma… come diavolo ti è saltato in mente!?”

Erwin osserva i tratti ordinati del viso della caposquadra venire sfigurati dall’angoscia.
Anche questa è una sua decisione.
Tace.

“Dannazione, Erwin, sei completamente impazzito?!”

“Vedi di darti una calmata, quattrocchi!”

“Ma è un’autentica follia! Perché non hai detto subito che era così grave!?”

“Non mi è sembrato opportuno rubare tempo e risorse all’infermeria per una simile sciocchezza. Durante l’ultima missione ho perso venticinque uomini. I feriti sono stati in tutto quarantacinque.”

Abbiamo perso,”

Erwin solleva gli occhi, dà a Levi ciò che vuole.

“C’ero pure io. C’era Hange. C’erano tutti gli altri. Gli uomini non li hai persi. Li abbiamo persi.” puntualizza il capitano, come ogni volta.

E come ogni volta, Erwin vorrebbe trovare sollievo in quelle parole. Lo vorrebbe davvero.
Ma non ci riesce.
Quelle braccia conserte e quel volto livido non possono bastare, ed Erwin è sicuro che Levi lo sappia già.

“Quella che per chiunque della mia squadra sarebbe stata davvero una sciocchezza, ha rischiato di tramutarsi nella perdita più grande per tutto il Corpo di Ricerca!”

“Non esageriamo,” sogghigna Erwin al rimprovero teatrale della scienziata.
Volta il capo dall’altro lato quando è chiaro che è il solo a considerarlo tale.

Non protesta quando Hange esamina i punti ad uno ad uno. Stringe i denti, ma non si lascia sfuggire neppure un gemito; neppure quando la vede scuotere la testa, allontanare le mani e sospirare.

“Devo riaprirla, non c’è altra soluzione” decreta sconfitta. Ed Erwin è pronto anche a questo.
Annuisce.

“Roba da non crederci,” borbotta ancora tra sé e sé la caposquadra, quando si ricorda del termometro sotto al suo braccio.
Ne rintraccia il risultato, prima di metterlo via in fretta senza rivelarlo. “Io—io sono senza parole!” continua, insieme ad un’altra serie di lamentele che Erwin non sente più, perché sovrastate da un rumore più forte, più aspro: quello dello sguardo di Levi.

“Lo stai facendo di nuovo.”

Capisce che sono state le labbra del capitano ad articolarlo solo quando anche Hange si volta nella sua direzione.

“Cosa?”

“Lo stai facendo di nuovo. Stai facendo di nuovo quella cazzo di cosa, razza di idiota—”

“Cos—di cosa stai parlando? Ehi, dove vai? Levi?”

Erwin chiude le palpebre.
È una sua decisione anche questa.

“Levi!”

Cristo.

“Torna immediatamente qui, Levi. È un ordine.”

Comandante ad interim.
Eccellente.
La precisione e il tempismo con cui Hange si destreggia tra i poteri che le ha conferito, ha sempre del sublime.
Prima o poi, dovrà trovare il momento giusto per parlarle dei piani per il futuro.

Non ha bisogno di vedere con gli occhi il disgusto di Levi mentre torna al divano sotto lo sguardo inflessibile di Hange. Lo sente come mille chiodi sotto le unghie, ed è perfetto così.

I passi del capitano si uniformano, si velocizzano, prendono il ritmo di quel muscolo che ha ancora in petto, e che reagisce a stimoli che pensa sempre, erroneamente, di aver addomesticato.

“Allora,”
Hange torna Hange.
Torna sulle ginocchia, torna a rimestare nella grande borsa che ha portato con sé. “Diamoci da fare, comandante.”

“Non è necessario alcun anestetico,”

Hange esamina l’ago della siringa estratta. Avvicina gli occhi miopi all’etichetta scritta a mano su di una fiala.

“Oh, l’anestetico è necessario eccome.”

Gli estremi per l’insubordinazione ci sarebbero tutti, ha anche visto che tipo di sguardo si è scambiata con Levi: è una congiura. Ma il suo silenzio è il filo che permette a quell’universo di mantenere una parvenza di equilibrio, e non può permettere ai suoi capricci di rovinarlo.

Erwin sente bene il fremito rasposo del suo fiato quando l’ago affonda accanto alla carne lesa: è come se tornasse solo adesso a respirare.

“Non ti darò quello che speri,” gli sussurra Hange in gran segreto.
China sul suo fianco intorpidito, Erwin la sente muoversi, delicata come non mai.

Dal fondo della stanza, Levi deglutisce.
Le palpebre fluttuano incerte mentre distoglie lo sguardo altrove, e fa rumore.

-

“Ancora un attimo di pazienza, ho quasi finito,” annuncia la scienziata, forse perché i suoi muscoli adesso fremono un po’.
Erwin galleggia in un luogo strano, a metà tra un sogno agitato e una veglia che punge, stride come il filo da sutura che l’ago tra le dita di Hange tira e congiunge, forte di un potere che non può ancora dismettere.

Le anche di Levi poggiano adesso sul bracciolo del divano; non sa da quanto tempo siano lì.
Non ha sentito il capitano coprire la distanza, e neanche cominciare ad inumidire la sua fronte con il panno freddo che dalle sue tempie solca tutto il volto.
La realtà è appannata da una foschia simile a quella dell’alba; la stessa che negli ultimi giorni attraverso i vetri della sua camera ha segnato per lui l’epilogo dell’ennesima notte insonne.

“Non svenirmi qui, Erwin. Gli antinfettivi sono tutti in infusione, saranno pronti solo questa sera.”

“Quindi secondo te dovrà restare così sino a questa sera?”

“Lo terrò sotto osservazione in infermeria. Se la temperatura dovesse alzarsi troppo, gli preparerò qualcosa per abbassarla.”

“Non preoccuparti, Hange. Posso tornare nel mio alloggio.”

“Scordatelo.”

Del resto, è lei che tira le fila, adesso. Letteralmente.
Erwin sorride.

“Lascialo tornare nel suo alloggio.” Levi ripone la pezzuola in un bacile, “Starò io con lui. Starà bene.”

Hange assorbe la notizia mentre chiude l’ultimo dei suoi abissi in superfice.
Taglia il filo dal suo lembo di pelle appena ricongiunto, acconsente alla richiesta.
Il calore di quella frase, ha convinto anche lei.

 

-

“Ho pulito la stanza, acceso il camino e cambiato le lenzuola come ordinato, capitano.”


Levi risponde all’entusiasmo di Gerda con un cenno invisibile del viso.
Erwin pensa che la tempestività della recluta nel portare al termine i suoi ordini meriterebbe un riconoscimento maggiore, ma Levi è Levi.
Ed è pieno di spigoli che non è ancora riuscito a smussare.

Lo aiuta a raggiungere il letto con movimenti lenti e attenti, così lenti e attenti da toccare le stringhe di qualcosa che deforma il suo volto in una smorfia.
Levi è minuto, ma le mani che ha sentito addosso per tutto il tragitto che separa il suo ufficio dal suo alloggio privato sono quelle di qualcuno che potrebbe sostenerne anche dieci come lui; ed è la ragione per la quale non ci prova neanche a fingere di non aver bisogno del suo aiuto.

“Stai attento ai quei punti,” gli raccomanda, “non ho voglia di stare a sentire ancora i deliri di onnipotenza di quella quattrocchi di merda,”

“Hange fa solo il suo dovere,” si sente in dovere di precisare, “e lo fa anche bene.”

“Hange fa il dovere di qualcun altro.” interviene senza forza Levi, “qualcuno che è così idiota da farsi una cosa simile. Per questo si impegna a farlo così bene.”

Erwin lo sa.
Sente il volto infiammare, ma forse è, ancora una volta, solo la febbre.

Eppure, agli occhi di Levi deve apparire così debole e stanco da spingersi persino ad inginocchiarsi e sfilare per lui scarpe e pantaloni.
Non lo ferma.
Non avrebbe alcun senso.
Non obietta neppure quando gli solleva le gambe e le adagia al materasso piano, lentamente, con una cortesia che dà fastidio, ma di cui ha bisogno.

“Questo ti abbasserà la febbre” vedere Levi maneggiare i suoi tè è uno spettacolo per i sensi.
C’è qualcosa nei fumi in cui si immerge che lo rende ai suoi occhi come l’essere di un altro mondo, uno di quelli lontani, distante anni luce dal loro.
Uno di quelli che non conoscono mura, né soldati mandati in pasto a titani oscuri, e sarà la febbre, ma per un attimo, Erwin si perde a domandare a quei vapori l’ordine di quale meschino, dispotico essere possa averlo mandato lì, a riportare speranza in quel mattatoio senza via di fuga.

Poi sorride, perché si ricorda di esser stato proprio lui.

È stata una sua decisione.

“Infuso di tiglio e sambuco” ha imparato a riconoscerne la fragranza dolciastra da quando la ritrova spesso ad aleggiare nella camera di Levi nei giorni di convalescenza “la tua combinazione preferita,”

“Non è la mia combinazione preferita, idiota. Fa schifo.” risponde Levi con un sospiro “Lo diventa dal momento in cui è in grado di togliermi dai piedi quella zanzara fastidiosa di Hange,”

“Mi sembra un valido compromesso,”

Levi soffia col naso, guarda altrove, non dice niente.
Erwin tira un respiro profondo, il borbottio dell’acqua bollente nella tazza sul grembo diventa a poco a poco un suono sordo, sempre meno udibile, sempre meno agitato.

Il silenzio cala come una coltre che si inspessisce nel tempo in cui ciascuno si aspetta che sia l’altro a testarne per primo l’inaccessibilità.
Il capitano smette di stringere le barre in ferro battuto ai piedi del letto, si fissa con disgusto i palmi sudati, storce le labbra.

“Bevi l’infuso, e poi dormi un po’”

L’unica mano rimasta ad Erwin ci mette un istante a decidere che sì, avrebbe accettato quell’ordine. È persino più generoso di quanto possa prospettarsi.
Aveva previsto Levi dar voce ai suoi ‘perché?’ alla quale avrebbe saputo solo rispondere ‘perché cosa?’, ma il capitano è più intelligente; più scaltro, e sembra aver ben chiaro come funzioni la sua mente in certi momenti.
Per questo, tace. Non gli permette di indulgere.
Lo scalza: questa volta, è più veloce lui.

 

Levi abbandona la camera, ma Erwin può a malapena vederlo.
Forse c’era qualcos’altro oltre al tiglio e al sambuco in quella tisana da rendere il momento in cui chiude gli occhi in qualche modo sconveniente da osservare,
ma la sua lingua non ne distingue il sapore.

Se fosse rimasto, avrebbe detto a Levi di star tranquillo e di non preoccuparsi.
Perché comunque, dal momento in cui affonda contro le federe ingiallite dei cuscini, lui non pensa più a niente.
Non pensa alle sue ferite, né a quelle dei suoi soldati che giacciono adesso orribilmente sfigurati in infermeria.
Non pensa a nulla, a niente – il vuoto più asettico.
La sua mente non gli fa riascoltare le urla dei suoi uomini, né lo scricchiolio delle loro ossa mentre vengono sbriciolate dai denti dei giganti perché un suo ordine li ha mandati nelle retrovie ad ovest anziché tenerli il più possibile verso est.
Non sente Moblit dichiarare il numero ufficiale delle vittime, né la loro cenere cadere sorda come neve e ingrigire i profili dei soldati in fila, fantasmi sbiaditi, inerti, sospesi nelle tenebre stravolte dalle pire accese.

Ascolta solo il cigolio della finestra sospinta dalla brezza settembrina, il nitrire distante di alcune giumente dal galoppatoio di addestramento, il mormorio di ombre che oscillano confuse sotto la sua porta e che si interrompono di tanto in tanto con uno shhh, abbassa la voce!’.

 

 

-

 

Si sveglia con in bocca aloni di sambuco misto a bile, e la gran voglia di chiamare a pieni polmoni qualcuno; venticinque nomi, ad essere precisi.
Felix, Philipp, Maren, Sandra, Stefan, Uwe, Annika, quelli che scappano alle sue labbra con un fremito, prima che delle mani scorrano sulla sua schiena come la lingua di un gigante anomalo che ci tiene anzitutto a capire di che pasta è fatto e solo allora divorarlo.

I suoni ovattati sono tornati. Sono quelli di un campo di battaglia ormai sgombro che puzza di morte e di sangue bruciato, pieno di brandelli di uomini e stendardi a cui non è rimasto più nessuno che ci creda.

Qualcosa lo punge da qualche parte, e il dolore fa il suo dovere senza inganni: gli restituisce un corpo, ed anche una mente che lo possa tormentare.
Non trova più nulla che gli impedisca di ritornare sulla schiena.
Rotola supino. Mentre lo fa, ha i brividi. Forse persino di piacere.

Le ombre che si allungano e dilatano dinnanzi ai suoi occhi però, sono così familiari da dissipare in fretta l’entusiasmo.

“Con le erbette, Levi? Sul serio?”

“Chiudi il becco.”

“Beh, per lo meno, ha dormito un po’. Ne aveva bisogno.”

Il palmo che il comandante ad interim piega sulla sua fronte è un miscuglio di affetto e pietà.
Sente le sue nocche strofinare lievi e poi scendere lungo il collo.
Controlla le garze che ha sistemato sul suo addome, tocca anche la spalla mutilata; non lo faceva (né glielo lasciava fare) da tempo, in effetti.

“Ha ancora la febbre alta, ma con l’antinfettivo che gli ho somministrato dovrebbe scendere durante la notte.”

“Questo lo hai già detto prima. Se non hai niente di nuovo da aggiungere, allora lascialo riposare in pace e togliti dai piedi.”

“Va bene, va bene, me ne vado…”

Non è veramente offesa.
Erwin la conosce abbastanza da capire quando lo è davvero dal modo in cui calca alcune sillabe.
Se Hange esce, è perché sa quanto possa essere forte in certi momenti il desiderio di restare da soli.

“Vieni con me nelle cucine, Levi. Ho detto al cuoco di preparare un menù speciale per Erwin.” cinguetta di spalle, di nuovo spensierata.

-

“Ehi. Erwin—"

Innocenti non è il termine con cui Erwin descriverebbe le mani di Levi che d’improvviso si sente avvolgere addosso.
Sono mani che hanno conosciuto il sangue, e spesso lo hanno provocato; il fatto che abbia deciso di dimenticarlo non le rende differenti.

Vagano sul suo petto erratiche; mutano direzione e intensità in apparenza senza alcuna logica.
Il loro passaggio, richiama alla sua mente le dita di un Erwin bambino che non proferisce parola da giorni, forse settimane. Perché prima ne ha proferite fin troppe e quindi adesso ha deciso di smettere.
Un Erwin bambino che ha imparato la lezione, ma a cui manca sempre un punto; come un tassello che gli impedisce di coprire tutte le zone in ombra del suo puzzle. Dunque, scava.
Scava con dita non ancora indurite dalle redini dei cavalli proprio lì, al centro del petto, come a voler confermare con il dolore la presenza di ciò che giura di esser pronto a sacrificare in cambio di risposte che il soffitto non ha.

La verità, è che quelle mani non erano innocenti neanche allora.



Erwin sgrana gli occhi di colpo.
Il soffitto è diverso, la sua mancanza di risposte, tale e quale.

“Cristo, sei fradicio—”

Levi ha detto qualcos’altro prima, ma dal fondo della gola del gigante in cui si trovava, non è riuscito a sentire bene.

“Vieni, tirati su. Avanti.”

Erano secoli che le sue labbra non perdessero un gemito così sincero.
Ruota piano il bacino, accenna un rigoroso tentativo di ribellione, giusto perché ci sta.

È ancora il comandante, dopotutto. O meglio, tornerà ad esserlo molto presto.

“Ehi, sta’ calmo. Vedi di non fare storie.” 

Levi non è gentile con le sue ferite inferocite, ma del resto, neanche lui vuole che lo sia.
Curvato sul suo corpo, la spalla che trova è così piccola da permettere appena alla sua fronte di trovarvi riparo. Il fiato caldo gli brucia gli occhi; li serra, annaspa.

“Hai anche gli incubi, adesso? Con che merda ti ha drogato, quella rincoglionita?”

La corazza di buio e di bava appiccicosa che ha addosso sembrava poter durare in eterno, ma Levi la scolla dalle sue carni in un niente.
Sarà stato raccapricciante per lui, se ne mortifica.

“Ora non muoverti. Se mi farai bagnare le garze, queste diventeranno uno schifo e dovremo cambiarle.”

Erwin ci prova, ma il suo corpo è un cavallo senza briglie.
Confusa, la sua mano tenta di ancorarsi alle lenzuola. Trova la invece la stoffa che ricopre il fianco di Levi, ed è ancora meglio.
L’acqua della pezza con cui Levi gli ripulisce nuca, spalle e schiena è gelida e sembra scandire un rituale al termine del quale tutto ciò che ha intorno torna ad avere un nome.

“Va meglio?”  è una domanda, ma il tono che sente non vuole davvero una risposta.
Piega il capo senza pensarci; neanche quella è una risposta.

Non sa quando o come Levi abbia cambiato le lenzuola; nel momento in cui lo aiuta a distendersi, le trova differenti.
O forse, è solo la presenza di Levi su di esse a renderle tali.
Levi odora di sapone neutro, e di un miscuglio di erbe e spezie che neppure Miche è mai riuscito a isolare.

“Non ti chiederò di non farlo più, perché so che qualunque cosa dirò, quella testa del cazzo che ti ritrovi farà sempre come diavolo gli pare.”

Quello, è uno di quei discorsi che impiegano un considerevole quantitativo di risorse ed energie mentali. Lasciare che prosegua solo per soddisfare la curiosità di vedere fin dove la sua fantasia è in grado di spingersi, è quanto di più scorretto possa fare.
Erwin lo sa, ma lo fa lo stesso.
Anche questa è una sua decisione.

“Ti chiedo solo di dirmelo, di darmi un cenno. Conosco metodi altrettanto validi per farti sentire una merda, o… fragile, dolorante, vulnerabile - qualunque cosa tu voglia sentirti.”


“Non è così che funziona,”

Gioca, da perfetto meschino.
Come se fosse davvero qualcosa che può o non può funzionare. Come se fosse davvero qualcosa.

“Non me ne frega un cazzo di come funziona.” Levi lo dice alla sua pelle, riempie il suo collo di sospiri. “Tu dimmelo, e io lo farò. Qualunque cosa sia.”

E quel ‘qualunque cosa sia’, gratta come sabbia, non perché le labbra screpolate di Levi affondano adesso dove un cuore alimentato a morte batte ancora forte e volgare, ma perché quello scherzo sta già durando da troppo, e i pezzi di parole che lo descrivono lo stanno già rendendo qualcosa.
E non va bene.

“Dimmi che lo farai.”

“Lo farò.”

Si libra nella penombra, distorto e confuso, come è giusto che sia.
Sanno entrambi che è una menzogna, il silenzio che segue è una confessione.

Levi lo assorbe, e non si muove.
Rimane lì, con l’orecchio teso contro il suo sterno come a voler ascoltare altre verità.

“Non tu, Erwin—"

Levi solleva le dita serrate al petto, il fantasma di un pugno fallito.
O di un saluto militare, fallito.


“Cristo, tra tutti, non tu—” è quasi un lamento. Anzi, è un lamento.

Erwin allunga il braccio, lo stringe a sé di più. Ancora di più.
Le cornee spalancate al soffitto richiamano gli stessi quesiti di sempre.
Le dita scavano, cercano il cuore, ma trovano Levi, che sa di sapone, erbe e spezie.

Il sangue gli romba nelle orecchie.

“Va bene—”

 

Fine

______

 

NOTE:  

0) Lavoro NON betato.

1) Johanniskraut è il nome tedesco dell’Iperico (o ‘Erba di San Giovanni) una erba officinale usata sin dall’antichità nel trattamento delle ferite del corpo e della mente.
Fonte: https://www.humanitas.it/enciclopedia/principi-attivi/fitoterapici/iperico/ .
Mi piace pensare che sia il terzo ingrediente della tisana di Levi che Erwin non è riuscito a identificare.

2) È una delle fanfiction più cupe che io abbia mai scritto, ma mi ha permesso di esplorare il personaggio di Erwin e di vederlo sotto un’altra luce. Grazie per aver letto fin qui! Mi auguro vi sia piaciuta.

3) Fanfiction nata dalla challenge ‘Come as you are (not)’ del gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite a trovarci!

 

 

   
 
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