Johanniskraut
| Hypericum perforatum
“Bene, bene, bene—”, Hange allunga i
gomiti, fa scrocchiare le nocche delle dita in avanti e poi all’indietro. “Che
cosa abbiamo qui oggi?”
Erwin pensa sempre che se fosse un soldato in difficoltà, il volto sorridente
di Hange sarebbe esattamente quanto vorrebbe trovare al suo capezzale.
Fiduciosa, altruista, sorprendentemente competente. Le lamentele e le
dicerie che serpeggiano sul suo conto sono molte, è vero. Ma a lamentarsi, sono
soprattutto quei soldati deboli di cervello che, anche volendo, non potrebbero
mai capire cosa davvero accadrebbe loro se ad occuparsi di simili ferite fosse
uno di quei medicastri degli ospedali distrettuali.
“La febbre. Ecco cosa abbiamo qui, Comandante Erwin: la febbre.”
Tuttavia, adesso che quel sorriso
fuori luogo e quei capelli arruffati penzolano sul suo viso, di una cosa deve
rendere loro merito: c’è qualcosa nell’entusiasmo con cui Hange si approccia ai
feriti da renderla un paradosso vivente.
Erwin non ha davvero idea di come possa trovarla estremamente rassicurante e,
al contempo, anche estremamente fastidiosa.
“Dunque sei umano anche tu, non è una leggenda,”
“Pare di no.”
Ha sentito storie orrende su quel termometro che solleva tra le dita.
Finisce sotto al suo braccio però, ed è abbastanza sicuro che lo sguardo torvo
che Levi le rivolge da quando ha messo piede nel suo ufficio, abbia avuto un
peso non indifferente nell’eccezionalità della sua scelta.
Sa già dove mettere le mani, ed è una
delle ragioni per cui a Erwin quella donna piace tanto.
Gli allenta i pantaloni come farebbe con una recluta qualunque; i bottoni della
sua camicia si arrendono sotto le sue dita, battono la ritirata – e gli sembra
quasi di sentirla mugolare un motivetto allegro mentre lo fa, qualcosa di
ritmico e irritante.
O forse, è solo la febbre.
Chiude gli occhi quando i suoi polpastrelli vanno a sondare luoghi ancora meno
inclini a sopportarla.
“Lo dico sin da quando abbiamo fatto ritorno tra le mura che quella ferita non
mi piace – ma darmi retta? Giammai!”
“Smettila di lamentarti e vedi di
muoverti, quattrocchi di merda. Fai ciò che devi fare e poi torna a giocare con
i tuoi giganti del cazzo!”
“Va tutto bene, Levi—”
Erwin
solleva una mano, vuole stringere i muscoli tesi di Levi, ricordargli che
davvero, va tutto bene. Caso vuole che anche la mano del capitano sia
partita verso di lui con le medesime intenzioni.
La incontra a metà strada; Erwin lascia che la stringa.
“Chi ha dato i punti qua?”
Il modo in cui squilla quella domanda gli dà una fitta alle tempie.
“Glieli hai dati tu, Levi?”
“Ehi, bada a come parli!”
“Sono stato io, Hange.”
Si prende le occhiate che merita. Sapeva che le avrebbe ricevute.
Si era figurato mentalmente Hange rivolgergli quello sguardo già dal momento in
cui Levi se ne è uscito con il prevedibile ‘vado a chiamare Hange…', e
lui non lo ha fermato.
È stata una sua decisione.
“Vuoi dire che—” si interrompe, sbalordita e inorridita, “Vuoi dire che hai
fatto da solo questo schifo!?”
“È così.”
“Ma… come diavolo ti è saltato in
mente!?”
Erwin osserva i tratti ordinati del viso della caposquadra venire sfigurati
dall’angoscia.
Anche questa è una sua decisione.
Tace.
“Dannazione, Erwin, sei completamente impazzito?!”
“Vedi di darti una calmata, quattrocchi!”
“Ma è un’autentica follia! Perché non
hai detto subito che era così grave!?”
“Non mi è sembrato opportuno rubare tempo e risorse all’infermeria per una
simile sciocchezza. Durante l’ultima missione ho perso venticinque uomini. I
feriti sono stati in tutto quarantacinque.”
“Abbiamo perso,”
Erwin solleva gli occhi, dà a Levi ciò che vuole.
“C’ero pure io. C’era Hange. C’erano tutti gli altri. Gli uomini non li hai
persi. Li abbiamo persi.” puntualizza il capitano, come ogni volta.
E come ogni volta, Erwin vorrebbe trovare sollievo in quelle parole. Lo
vorrebbe davvero.
Ma non ci riesce.
Quelle braccia conserte e quel volto livido non possono bastare, ed Erwin è
sicuro che Levi lo sappia già.
“Quella che per chiunque della mia squadra sarebbe stata davvero una
sciocchezza, ha rischiato di tramutarsi nella perdita più grande per tutto il
Corpo di Ricerca!”
“Non esageriamo,” sogghigna Erwin al rimprovero teatrale della
scienziata.
Volta il capo dall’altro lato quando è chiaro che è il solo a considerarlo
tale.
Non protesta quando Hange esamina i punti ad uno ad uno. Stringe i denti, ma
non si lascia sfuggire neppure un gemito; neppure quando la vede scuotere la
testa, allontanare le mani e sospirare.
“Devo riaprirla, non c’è altra soluzione” decreta sconfitta. Ed Erwin è pronto
anche a questo.
Annuisce.
“Roba da non crederci,” borbotta ancora tra sé e sé la caposquadra, quando si
ricorda del termometro sotto al suo braccio.
Ne rintraccia il risultato, prima di metterlo via in fretta senza rivelarlo.
“Io—io sono senza parole!” continua, insieme ad un’altra serie di lamentele che
Erwin non sente più, perché sovrastate da un rumore più forte, più aspro:
quello dello sguardo di Levi.
“Lo stai facendo di nuovo.”
Capisce che sono state le labbra del capitano ad articolarlo solo quando anche
Hange si volta nella sua direzione.
“Cosa?”
“Lo stai facendo di nuovo. Stai
facendo di nuovo quella cazzo di cosa, razza di idiota—”
“Cos—di cosa stai parlando? Ehi, dove
vai? Levi?”
Erwin chiude le palpebre.
È una sua decisione anche questa.
“Levi!”
Cristo.
“Torna immediatamente qui, Levi. È
un ordine.”
Comandante ad interim.
Eccellente.
La precisione e il tempismo con cui Hange si destreggia tra i poteri che le ha
conferito, ha sempre del sublime.
Prima o poi, dovrà trovare il momento giusto per parlarle dei piani per il futuro.
Non ha bisogno di vedere con gli
occhi il disgusto di Levi mentre torna al divano sotto lo sguardo inflessibile
di Hange. Lo sente come mille chiodi sotto le unghie, ed è perfetto così.
I passi del capitano si uniformano, si velocizzano, prendono il ritmo di quel
muscolo che ha ancora in petto, e che reagisce a stimoli che pensa sempre, erroneamente,
di aver addomesticato.
“Allora,”
Hange torna Hange.
Torna sulle ginocchia, torna a rimestare nella grande borsa che ha portato con
sé. “Diamoci da fare, comandante.”
“Non è necessario alcun anestetico,”
Hange esamina l’ago della siringa
estratta. Avvicina gli occhi miopi all’etichetta scritta a mano su di una
fiala.
“Oh, l’anestetico è necessario
eccome.”
Gli estremi per l’insubordinazione ci
sarebbero tutti, ha anche visto che tipo di sguardo si è scambiata con Levi: è
una congiura. Ma il suo silenzio è il filo che permette a quell’universo di
mantenere una parvenza di equilibrio, e non può permettere ai suoi capricci
di rovinarlo.
Erwin sente bene il fremito rasposo del suo fiato quando l’ago affonda accanto
alla carne lesa: è come se tornasse solo adesso a respirare.
“Non ti darò quello che speri,” gli
sussurra Hange in gran segreto.
China sul suo fianco intorpidito, Erwin la sente muoversi, delicata come non
mai.
Dal fondo della stanza, Levi deglutisce.
Le palpebre fluttuano incerte mentre distoglie lo sguardo altrove, e fa rumore.
-
“Ancora un attimo di pazienza, ho
quasi finito,” annuncia la scienziata, forse perché i suoi muscoli adesso
fremono un po’.
Erwin galleggia in un luogo strano, a metà tra un sogno agitato e una veglia
che punge, stride come il filo da sutura che l’ago tra le dita di Hange tira e
congiunge, forte di un potere che non può ancora dismettere.
Le anche di Levi poggiano adesso sul bracciolo del divano; non sa da quanto
tempo siano lì.
Non ha sentito il capitano coprire la distanza, e neanche cominciare ad
inumidire la sua fronte con il panno freddo che dalle sue tempie solca tutto il
volto.
La realtà è appannata da una foschia simile a quella dell’alba; la stessa che
negli ultimi giorni attraverso i vetri della sua camera ha segnato per lui
l’epilogo dell’ennesima notte insonne.
“Non svenirmi qui, Erwin. Gli antinfettivi sono tutti in infusione, saranno
pronti solo questa sera.”
“Quindi secondo te dovrà restare così
sino a questa sera?”
“Lo terrò sotto osservazione in
infermeria. Se la temperatura dovesse alzarsi troppo, gli preparerò qualcosa
per abbassarla.”
“Non preoccuparti, Hange. Posso
tornare nel mio alloggio.”
“Scordatelo.”
Del resto, è lei che tira le fila, adesso. Letteralmente.
Erwin sorride.
“Lascialo tornare nel suo alloggio.” Levi ripone la pezzuola in un bacile,
“Starò io con lui. Starà bene.”
Hange assorbe la notizia mentre
chiude l’ultimo dei suoi abissi in superfice.
Taglia il filo dal suo lembo di pelle appena ricongiunto, acconsente alla
richiesta.
Il calore di quella frase, ha convinto anche lei.
-
“Ho pulito la stanza, acceso il
camino e cambiato le lenzuola come ordinato, capitano.”
Levi risponde all’entusiasmo di Gerda con un cenno
invisibile del viso.
Erwin pensa che la tempestività della recluta nel portare al termine i suoi
ordini meriterebbe un riconoscimento maggiore, ma Levi è Levi.
Ed è pieno di spigoli che non è ancora riuscito a smussare.
Lo
aiuta a raggiungere il letto con movimenti lenti e attenti, così lenti e
attenti da toccare le stringhe di qualcosa che deforma il suo volto in una
smorfia.
Levi è minuto, ma le mani che ha sentito addosso per tutto il tragitto che
separa il suo ufficio dal suo alloggio privato sono quelle di qualcuno che
potrebbe sostenerne anche dieci come lui; ed è la ragione per la quale non ci
prova neanche a fingere di non aver bisogno del suo aiuto.
“Stai
attento ai quei punti,” gli raccomanda, “non ho voglia di stare a sentire
ancora i deliri di onnipotenza di quella quattrocchi di merda,”
“Hange
fa solo il suo dovere,” si sente in dovere di precisare, “e lo fa anche bene.”
“Hange
fa il dovere di qualcun altro.” interviene senza forza Levi, “qualcuno che è
così idiota da farsi una cosa simile. Per questo si impegna a farlo così
bene.”
Erwin
lo sa.
Sente il volto infiammare, ma forse è, ancora una volta, solo la febbre.
Eppure, agli occhi di Levi deve apparire così debole e stanco da spingersi
persino ad inginocchiarsi e sfilare per lui scarpe e pantaloni.
Non lo ferma.
Non avrebbe alcun senso.
Non obietta neppure quando gli solleva le gambe e le adagia al materasso piano,
lentamente, con una cortesia che dà fastidio, ma di cui ha bisogno.
“Questo ti abbasserà la febbre” vedere Levi maneggiare i suoi tè è uno
spettacolo per i sensi.
C’è qualcosa nei fumi in cui si immerge che lo rende ai suoi occhi come
l’essere di un altro mondo, uno di quelli lontani, distante anni luce dal loro.
Uno di quelli che non conoscono mura, né soldati mandati in pasto a titani
oscuri, e sarà la febbre, ma per un attimo, Erwin si perde a domandare a quei
vapori l’ordine di quale meschino, dispotico essere possa averlo mandato lì, a
riportare speranza in quel mattatoio senza via di fuga.
Poi sorride, perché si ricorda di esser stato proprio lui.
È stata una sua decisione.
“Infuso di tiglio e sambuco” ha imparato a riconoscerne la fragranza dolciastra
da quando la ritrova spesso ad aleggiare nella camera di Levi nei giorni di
convalescenza “la tua combinazione preferita,”
“Non è la mia combinazione preferita, idiota. Fa schifo.” risponde Levi con un
sospiro “Lo diventa dal momento in cui è in grado di togliermi dai piedi quella
zanzara fastidiosa di Hange,”
“Mi sembra un valido compromesso,”
Levi
soffia col naso, guarda altrove, non dice niente.
Erwin tira un respiro profondo, il borbottio dell’acqua bollente nella tazza
sul grembo diventa a poco a poco un suono sordo, sempre meno udibile, sempre
meno agitato.
Il
silenzio cala come una coltre che si inspessisce nel tempo in cui ciascuno si
aspetta che sia l’altro a testarne per primo l’inaccessibilità.
Il capitano smette di stringere le barre in ferro battuto ai piedi del letto,
si fissa con disgusto i palmi sudati, storce le labbra.
“Bevi l’infuso, e poi dormi un po’”
L’unica mano rimasta ad Erwin ci mette un istante a
decidere che sì, avrebbe accettato quell’ordine. È persino più generoso di
quanto possa prospettarsi.
Aveva previsto Levi dar voce ai
suoi ‘perché?’ alla quale avrebbe saputo solo rispondere ‘perché
cosa?’, ma il capitano è più intelligente; più scaltro, e sembra aver ben
chiaro come funzioni la sua mente in certi momenti.
Per questo, tace. Non gli permette di indulgere.
Lo scalza: questa volta, è più veloce lui.
Levi abbandona la camera, ma Erwin può a malapena vederlo.
Forse c’era qualcos’altro oltre al tiglio e al sambuco in quella tisana da
rendere il momento in cui chiude gli occhi in qualche modo sconveniente da
osservare, ma la sua lingua non ne distingue il sapore.
Se fosse rimasto, avrebbe detto a Levi di star tranquillo e di non
preoccuparsi.
Perché comunque, dal momento in cui affonda contro le federe ingiallite dei
cuscini, lui non pensa più a niente.
Non pensa alle sue ferite, né a quelle dei suoi soldati che giacciono adesso
orribilmente sfigurati in infermeria.
Non pensa a nulla, a niente – il vuoto più asettico.
La sua mente non gli fa riascoltare le urla dei suoi uomini, né lo scricchiolio
delle loro ossa mentre vengono sbriciolate dai denti dei giganti perché un suo
ordine li ha mandati nelle retrovie ad ovest anziché tenerli il più possibile
verso est.
Non sente Moblit dichiarare il numero ufficiale delle vittime, né la loro
cenere cadere sorda come neve e ingrigire i profili dei soldati in fila,
fantasmi sbiaditi, inerti, sospesi nelle tenebre stravolte dalle pire accese.
Ascolta solo il cigolio della finestra sospinta dalla brezza
settembrina, il nitrire distante di alcune giumente dal galoppatoio di
addestramento, il mormorio di ombre che oscillano confuse sotto la sua porta e
che si interrompono di tanto in tanto con uno ‘shhh,
abbassa la voce!’.
-
Si sveglia con in bocca aloni di sambuco misto a bile,
e la gran voglia di chiamare a pieni polmoni qualcuno; venticinque nomi, ad
essere precisi.
Felix, Philipp, Maren, Sandra, Stefan, Uwe,
Annika, quelli che scappano alle sue labbra con un fremito, prima che delle
mani scorrano sulla sua schiena come la lingua di un gigante anomalo che ci
tiene anzitutto a capire di che pasta è fatto e solo allora divorarlo.
I suoni ovattati sono tornati. Sono quelli di un campo
di battaglia ormai sgombro che puzza di morte e di sangue bruciato, pieno di
brandelli di uomini e stendardi a cui non è rimasto più nessuno che ci creda.
Qualcosa lo punge da qualche parte, e il dolore fa il
suo dovere senza inganni: gli restituisce un corpo, ed anche una mente che lo
possa tormentare.
Non trova più nulla che gli impedisca di ritornare sulla schiena.
Rotola supino. Mentre lo fa, ha i brividi. Forse persino di piacere.
Le ombre che si allungano e dilatano dinnanzi ai suoi
occhi però, sono così familiari da dissipare in fretta l’entusiasmo.
“Con le erbette, Levi? Sul serio?”
“Chiudi il becco.”
“Beh, per lo meno, ha dormito un po’. Ne aveva
bisogno.”
Il palmo che il comandante ad interim piega
sulla sua fronte è un miscuglio di affetto e pietà.
Sente le sue nocche strofinare lievi e poi scendere lungo il collo.
Controlla le garze che ha sistemato sul suo addome, tocca anche la spalla
mutilata; non lo faceva (né glielo lasciava fare) da tempo, in effetti.
“Ha ancora la febbre alta, ma con l’antinfettivo che gli ho somministrato
dovrebbe scendere durante la notte.”
“Questo lo hai già detto prima. Se non hai niente di
nuovo da aggiungere, allora lascialo riposare in pace e togliti dai piedi.”
“Va bene, va bene, me ne vado…”
Non è veramente offesa.
Erwin la conosce abbastanza da capire quando lo è davvero dal modo in cui calca
alcune sillabe.
Se Hange esce, è perché sa quanto possa essere forte in certi momenti il
desiderio di restare da soli.
“Vieni con me nelle cucine, Levi. Ho detto al cuoco di preparare un menù
speciale per Erwin.” cinguetta di spalle, di nuovo spensierata.
-
“Ehi. Erwin—"
Innocenti
non è il termine con cui Erwin descriverebbe le mani di Levi che d’improvviso
si sente avvolgere addosso.
Sono mani che hanno conosciuto il sangue, e spesso lo hanno provocato; il fatto
che abbia deciso di dimenticarlo non le rende differenti.
Vagano sul suo petto erratiche; mutano direzione e intensità in apparenza senza
alcuna logica.
Il loro passaggio, richiama alla sua mente le dita di un Erwin bambino che non
proferisce parola da giorni, forse settimane. Perché prima ne ha proferite fin troppe
e quindi adesso ha deciso di smettere.
Un Erwin bambino che ha imparato la lezione, ma a cui manca sempre un punto;
come un tassello che gli impedisce di coprire tutte le zone in ombra del suo
puzzle. Dunque, scava.
Scava con dita non ancora indurite dalle redini dei cavalli proprio lì, al
centro del petto, come a voler confermare con il dolore la presenza di ciò che
giura di esser pronto a sacrificare in cambio di risposte che il soffitto non
ha.
La verità, è che quelle mani non erano innocenti neanche
allora.
Erwin sgrana gli occhi di colpo.
Il soffitto è diverso, la sua mancanza di risposte, tale e quale.
“Cristo, sei fradicio—”
Levi ha detto qualcos’altro prima, ma dal fondo della gola del gigante in cui
si trovava, non è riuscito a sentire bene.
“Vieni, tirati su. Avanti.”
Erano secoli che le sue labbra non perdessero un
gemito così sincero.
Ruota piano il bacino, accenna un rigoroso tentativo di ribellione, giusto
perché ci sta.
È ancora il comandante, dopotutto. O meglio, tornerà
ad esserlo molto presto.
“Ehi, sta’ calmo. Vedi di non fare storie.”
Levi non è gentile con le sue ferite inferocite, ma del resto, neanche lui
vuole che lo sia.
Curvato sul suo corpo, la spalla che trova è così piccola da permettere appena
alla sua fronte di trovarvi riparo. Il fiato caldo gli brucia gli occhi; li
serra, annaspa.
“Hai anche gli incubi, adesso? Con che merda ti ha
drogato, quella rincoglionita?”
La corazza di buio e di bava appiccicosa che ha addosso sembrava poter durare
in eterno, ma Levi la scolla dalle sue carni in un niente.
Sarà stato raccapricciante per lui, se ne mortifica.
“Ora non muoverti. Se mi farai bagnare le garze, queste diventeranno uno schifo
e dovremo cambiarle.”
Erwin ci prova, ma il suo corpo è un cavallo senza
briglie.
Confusa, la sua mano tenta di ancorarsi alle lenzuola. Trova la invece la
stoffa che ricopre il fianco di Levi, ed è ancora meglio.
L’acqua della pezza con cui Levi gli ripulisce nuca, spalle e schiena è gelida
e sembra scandire un rituale al termine del quale tutto ciò che ha intorno
torna ad avere un nome.
“Va meglio?” è
una domanda, ma il tono che sente non vuole davvero una risposta.
Piega il capo senza pensarci; neanche quella è una risposta.
Non sa quando o come Levi abbia cambiato le lenzuola; nel
momento in cui lo aiuta a distendersi, le trova differenti.
O forse, è solo la presenza di Levi su di esse a renderle tali.
Levi odora di sapone neutro, e di un miscuglio di erbe e spezie che neppure
Miche è mai riuscito a isolare.
“Non ti chiederò di non farlo più, perché so che qualunque cosa dirò, quella
testa del cazzo che ti ritrovi farà sempre come diavolo gli pare.”
Quello, è uno di quei discorsi che impiegano un considerevole quantitativo di
risorse ed energie mentali. Lasciare che prosegua solo per soddisfare la
curiosità di vedere fin dove la sua fantasia è in grado di spingersi, è quanto
di più scorretto possa fare.
Erwin lo sa, ma lo fa lo stesso.
Anche questa è una sua decisione.
“Ti chiedo solo di dirmelo, di darmi un cenno. Conosco
metodi altrettanto validi per farti sentire una merda, o… fragile, dolorante,
vulnerabile - qualunque cosa tu voglia sentirti.”
“Non è così che funziona,”
Gioca, da perfetto meschino.
Come se fosse davvero qualcosa che può o non può funzionare. Come se fosse
davvero qualcosa.
“Non me ne frega un cazzo di come funziona.” Levi lo dice alla sua pelle,
riempie il suo collo di sospiri. “Tu dimmelo, e io lo farò. Qualunque cosa
sia.”
E quel ‘qualunque
cosa sia’, gratta come sabbia, non perché le labbra screpolate di Levi
affondano adesso dove un cuore alimentato a morte batte ancora forte e
volgare, ma perché quello scherzo sta già durando da troppo, e i pezzi di
parole che lo descrivono lo stanno già rendendo qualcosa.
E non va bene.
“Dimmi che lo farai.”
“Lo farò.”
Si libra nella
penombra, distorto e confuso, come è giusto che sia.
Sanno entrambi che è una menzogna, il silenzio che segue è una confessione.
Levi lo assorbe, e
non si muove.
Rimane lì, con l’orecchio teso contro il suo sterno come a voler ascoltare
altre verità.
“Non tu, Erwin—"
Levi solleva le dita serrate al petto, il fantasma di un pugno fallito.
O di un saluto militare, fallito.
“Cristo, tra tutti, non tu—” è quasi un lamento. Anzi, è un lamento.
Erwin allunga il
braccio, lo stringe a sé di più. Ancora di più.
Le cornee spalancate al soffitto richiamano gli stessi quesiti di sempre.
Le dita scavano, cercano il cuore, ma trovano Levi, che sa di sapone, erbe e
spezie.
Il sangue gli romba
nelle orecchie.
“Va bene—”
Fine
______
NOTE:
0) Lavoro NON betato.
1) Johanniskraut è il nome tedesco dell’Iperico (o ‘Erba di San
Giovanni) una erba officinale usata sin dall’antichità nel trattamento delle
ferite del corpo e della mente.
Fonte: https://www.humanitas.it/enciclopedia/principi-attivi/fitoterapici/iperico/
.
Mi piace pensare che sia il terzo ingrediente della tisana di Levi che Erwin
non è riuscito a identificare.
2) È una delle
fanfiction più cupe che io abbia mai scritto, ma mi ha permesso di esplorare il
personaggio di Erwin e di vederlo sotto un’altra luce. Grazie per aver letto
fin qui! Mi auguro vi sia piaciuta.
3) Fanfiction nata
dalla challenge ‘Come as you
are (not)’ del gruppo Hurt/Comfort Italia.
Venite a trovarci!