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Autore: SkyDream    05/09/2021    4 recensioni
[Ship!IwaOi][Drammatico]
Tooru e Hajime si stanno allontanando l'uno dall'altro. I sogni e le ambizioni li hanno messi davanti un bivio che li ha costretti a confrontarsi, ad amarsi e forse a perdersi nella speranza di tornare.
Ed è proprio quando Tooru vede Hajime scendere le scale della stazione che un botto immane non gli fa solamente tremare le gambe, ma spacca le vetrine dei negozi e fa crollare interi muri.
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Dal testo:"Già, perché Tooru era convinto di non poter provare un dolore più forte di quello, qualcosa di più brutto di sapere Hajime lontano dalle sue braccia.
Poi aveva sentito un fischio forte, dei tremori sotto i piedi e capì che qualcosa non andasse nell’esatto momento in cui una ventata troppo forte non gli spostò semplicemente i capelli.
Lo gettò a terra.
[...]
Tooru si trascinava a stento, non capiva nemmeno perché stessero tentando di portarlo fuori da lì. Tanto non percepiva più nulla, si sentiva totalmente scisso a metà come se gli avessero conficcato un coltello nello sterno e lo avessero affettato."
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice: Allora, io ho una sorta di attrazione per tutte le situazioni drammaticheimprobabili, la cosa che mi attira di più di queste situazioni è scoprire come potrebbero reagire alcuni personaggi, magari vederli in situazioni così estreme da dover portare a galla aspetti del loro carattere che non avrei mai considerato prima.
E questa storia non fa eccezione.
Spero di aver reso abbastanza bene Tooru, che so che potrebbe risultare un po' "insolito", ma prendiamolo come una sorta di esperimento!
Se vi va, fatemi sapere se è IC o - in caso contrario - come avrebbe reagito secondo voi. Sono davvero curiosa <3 
A presto!


~ La paura del buio ~
[IwaOi]

Tu tornerai da me con l'aria stanca
Porterai dei tagli sulle braccia
[...]
Riconosco i segni sulla faccia

Tu tornerai da me con le mani giunte
Tornerai da me

(Maneskin – La paura del buio)
 
 
 
«Hajime! Hajime!»
Non smise di urlare, non mise nemmeno a fuoco in quel caos di terrore e confusione che lo stavano investendo.
Era di una potenza inaudita, una coltellata all’anima che non potrà risanarsi mai più, sentiva proprio la carne del petto sfilettarsi e i suoi organi entrare in contatto con le urla e la polvere che ormai gli avevano tinto i capelli e il viso di bianco. Lo avevano macchiato senza remore.
Già, la sua anima non potrà risanarsi mai più proprio come quel treno che aveva appena deragliato all’interno della stazione.
Una colonna di fumo si sollevò da terra, circondata da polvere e detriti e, tra le curve che formava per raggiungere il cielo ormai stinto dei colori del tramonto, si vedevano dei calcinacci staccarsi dai pilastri incrinati e scivolare sulle macerie come fossero fatte di pasta di zucchero.
Un tabellone dalle luci a singhiozzo esalò il suo ultimo respiro e si spense, lasciando il binario 3 totalmente al buio.
«Hajime! Hajime!»
Tooru lo cercò tra la folla che gli cominciò a salire addosso sgomitandogli tra le coste e travolgendolo, cercò di sollevare le braccia per andare contro corrente e infilarsi lì, nel sottopassaggio dove lo aveva visto per l’ultima volta.
Dove si erano lasciati andare con uno sguardo carico di dolore e delusione.
Tooru riuscì a riemergere, si catapultò per le scale scivolose ma una mano lo afferrò saldamente per il polso.
«Sei pazzo? Vai via! Vai via!» Tooru neanche si volto, sapeva soltanto che quella voce non apparteneva al suo ragazzo e quindi non meritava la sua attenzione. Scrollò via il braccio e spiccò un salto lungo tre scalini.
Le luci nel sottopassaggio fecero le bizze, i tabelloni si erano sfracellati a terra e parte del soffitto era crollato. Continuava a crollare sulla sua testa in cui pezzi di calcinacci e acqua si erano incastrati tra i capelli.
Arrivò all’ingresso del binario tre, vi erano valigie abbandonate lungo il corridoio e su per le scale, evitò quelle che potè, su alcune ci salì sopra e continuò a cercare di raggiungere l’uscita al piano superiore.
Non ci fu nessuna boccata d’aria fresca a farlo sentire meglio, solo un putrido fetore di bruciato. Notò dei fili scoperti che uscivano dai muri, vi erano ferri sporgenti e vetri per terra.
Un signore portava una donna sulla schiena, sembrava svenuta. Qualcuno cercava di scappare, altri erano seduti pietrificati dalla paura.
La stessa che Tooru sentiva salire dallo stomaco, insieme alla nausea, alla voglia di accartocciarsi con la stessa facilità con cui si erano accartocciate le lamiere di quel vagone merci.
La testa vuota, le gambe pesanti. Tooru non era più se stesso.
Si girò verso il binario 4, in mezzo all’erba un po’ incolta intravide un borsone bianco e acqua marina dall’aria sgualcita. E in un momento il mondo cessò di esistere.
 
Miyagi. Un’ora prima.
 
«Non ci hai ripensato?» Hajime si sedette sullo schienale della panchina, portò i gomiti sulle ginocchia e affondò il viso tra le mani. Si scompigliò i capelli.
Stanco. Deluso. Ferito.
Tooru, seduto ordinatamente al suo fianco, fece cenno di no con la testa e gli rivolse uno sguardo carico d’affetto. D’amore.
Hajime non lo vide.
«Te l’ho detto, non voglio che tu venga con me in Argentina. Io ormai ho degli amici lì, ho la mia squadra. Starò bene.» Tooru tentò di rassicurarlo, ma Hajime era ormai fuori di sé. Continuava a stringersi i capelli e a scuotere la testa.
«Sei il solito egocentrico, Tooru. Tu starai senz’altro bene, è di me che non ti interessa per niente.» lo accusò con una nota di veleno, avrebbe voluto fargli assaggiare solo una goccia di tutto l’amaro che aveva in gola.
O forse no, no. Dopotutto lo amava ancora, lo ha sempre fatto.
«Ti conosco, Hajime, tu vuoi venire con me perché non riesci a immaginarmi lì senza te, ma devi pensare ai tuoi obiettiv-».
«Penso che sei lontano, deficiente, ecco che cosa penso!» sbottò l’altro, sollevò gli occhi verdi e li puntò sul suo ragazzo, poco più in basso. Lo notò subito, Tooru, che Hajime aveva gli occhi lucidi.
«Ehi…» tentò di riprenderlo un momento, confuso e addolorato dalla piega che stavano prendendo gli eventi.
«Vedo che a te non interessa sapermi lontano. Anche a me non dovrebbe proprio fottermene nulla, invece guardami: disposto ad abbandonare tutto per seguirti e piantato in asso il giorno prima della partenza!».
«Non sto piantando in asso proprio nessuno io!» ci tenne a precisare Tooru, i lineamenti del volto feriti. Tutta la loro relazione era una continua sofferenza negli ultimi tempi.
«Hajime – continuò poi, abbassando lo sguardo -, so che hai l’opportunità di finire l’università qui ed entrare a far parte degli allenatori. Hai delle qualità smisurate come leader, come motivatore e anche come persona. Perché vuoi mandare tutto a monte?» e il tono era sincero, quasi non comprendesse la semplicità della risposta che sarebbe seguita.
«Per te. Voglio ricominciare di nuovo con te».
Ricominciare – pensò Tooru – un po’ come in un videogioco in cui premi “Nuova partita” e sovrascrivi sul file precedente.
Vorrebbe ricominciare con lui, perché d’altronde hanno sempre cominciato insieme, in ogni cosa si sono sempre supportati mano nella mano, senza dover nemmeno chiedere.
C’erano e basta. Erano insieme, indistruttibili come sempre.
Poi, dopo il diploma, Hajime si era ritrovato a studiare ad un tavolo troppo silenzioso e Tooru tornava dagli allenamenti solo, sotto un sole troppo caldo.
Si erano rivelati tutto e poi si erano lasciati andare. Senza riuscirci davvero.
Tooru tornava spesso in Giappone, più di quanto un essere umano potesse sopportare e Hajime compensava partendo nei restanti mesi vuoti.
La prima volta in cui Tooru aveva bussato alla sua porta – con la maglietta del San Juan a far risaltare l’abbronzatura dorata della sua pelle – si erano letteralmente saltati addosso.
Hajime lo aveva tirato dentro per poi spingerlo contro il muro, gli avambracci posti ai lati della sua testa e i loro corpi già dolorosamente vicini. Aveva avvicinato il suo viso a quello dell’altro aspettandosi un calore ed un profumo diverso, ma chiudendo gli occhi Tooru era quello di sempre.
Con i capelli più ramati e muscoli scolpiti, ma quello di sempre.
E non ci aveva capito più nulla, sapeva solo che voleva marchiare ogni cosa. Come infiniti, dolorosi, eccitanti promemoria.
E volta dopo volta, esame dopo esame, - passati senza avere il suo ragazzo a festeggiare con lui come ai vecchi tempi – aveva riflettuto sulla possibilità di autospedirsi in Argentina e rimanerci.
Casa sua non era più sotto il cielo del Giappone e non ci sarebbe più tornata, inutile raccontarsi menzogne.
E, invece, era stato bloccato prima ancora di terminare la frase.
Tooru non voleva. Tooru voleva saperlo in Giappone.
“Sei proprio uno stronzo egoista!” e, beh, l’alzatore se li era meritati tutti gli insulti.
Ora se ne stavano sulla panchina del parco di fronte la stazione, Hajime con il borsone tra i piedi che conteneva un abito elegante e delle cartellette di roba seria e documenti da presentare alla nuova squadra che dovrebbe seguire nel post-laurea, Tooru con in tasca il biglietto di sola andata per l’Argentina datato per il giorno dopo.
Ogni secondo era solo un logorante dolore, un tentativo – vanissimo – da parte di Hajime e del resto del mondo di fargli cambiare idea. Essere felici a volte costa sacrificio, ma ne vale la pena.
Tooru non voleva essere felice, però, voleva solo che Hajime avesse il suo lavoro, che facesse carriera e brillasse come brillava per tutta la Johsai ai tempi del liceo.
Hajime scivolò dalla panchina e portò il borsone sulla spalla. Gli occhi lucidi di Tooru lo cercavano disperati, non poté fare a meno di avvicinarsi al suo viso e saggiare la sua bocca.
Forse per l’ultima volta.
E Tooru non gli mordicchiò le labbra come faceva sempre, non sorrise lambendo appena la sua lingua.
Tooru portò le mani dietro la sua nuca e lo spinse contro di sé in un tentativo disperato di aggrapparsi.
Perché non era pronto a vedere quel rapporto sgretolarsi e diventare sabbia.
«Hajime-» sussurrò ancora con le palpebre socchiuse. Dolore acuto.
«Tornerai da me.» fu la risposta a fior di labbra dell’altro. Finse sicurezza – come sempre – mentre in realtà aveva semplicemente omesso il punto di domanda.
Era una preghiera, un desiderio per cui avrebbe venduto l’anima al diavolo.
Poi si era sollevato ed era andato via, Tooru lo aveva raggiunto e gli aveva stretto la mano – intrecciandola bene, saggiando le nocche screpolate con i polpastrelli – fino alla stazione semi-deserta e al tunnel del sottopassaggio.
Lo aveva visto sparire oltre la sua visuale del corridoio, poi si era voltato per andarsene. Gli occhi socchiusi nel tentativo di ricordare a se stesso che quella distanza avrebbe fatto bene al suo ragazzo, che gli avrebbe permesso di spiccare il volo e di mostrare al mondo di cosa fosse capace. Nonostante il dolore di saperlo lontano, o almeno così credeva.
Già, perché Tooru era convinto di non poter provare un dolore più forte di quello, qualcosa di più brutto di sapere Hajime lontano dalle sue braccia.
Poi aveva sentito un fischio forte, dei tremori sotto i piedi e capì che qualcosa non andasse nell’esatto momento in cui una ventata troppo forte non gli spostò semplicemente i capelli.
Lo gettò a terra.
Un boato immenso lo costrinse a tapparsi le orecchie e accucciarsi sul pavimento, pezzi di soffitto gli crollarono sulla testa e la vetrina del bar esplose a pochi metri dalla sua faccia.
Quando aveva riaperto gli occhi – arrossati e lacrimanti a causa della polvere e del fumo – si era accorto di non vedere né sentire assolutamente niente.
Udiva solo un fischio continuo, un acufene tintinnante e davanti a sé una coltre biancastra gli oscurava la visuale.
Poi aveva urlato e la gente aveva cominciato a salirgli addosso. Ma lui era riuscito a scappare nel sottopassaggio e a salire fino al binario tre.

«Haj-» Il nome gli morì in gola quando il borsone bicolore gli apparse davanti gli occhi su quel binario semi deserto.
Si catapultò dall’altro lato, scese oltre la linea di confine e si buttò sulle rotaie voltandosi a destra e sinistra.
Nessun volto familiare, per quanto riuscisse a focalizzarsi sui volti.
Cadde in ginocchio di fronte il borsone, lo strinse tra le braccia in un unico e lungo lamento. Sentiva contro il viso le piccole spille colorate che Hajime aveva collezionato nel corso degli anni.
Le conosceva tutte, molte gliele aveva regalate lui.
Rimase lì, accucciato tra i binari, bloccato tra singhiozzi che non ne volevano sapere di uscire, strozzandosi tra le corde vocali intossicate. L’aria sapeva di calcestruzzo e mattoni.
«Deficiente!» un paio di mani gli scrollarono le spalle, lo stavano tirando via da quel borsone che si ostinava a stringere con tutte le sue forze.
«Deficiente, vieni via! Che cazzo ci fai qui! Via!» Le mani gli strapparono violentemente il borsone e lo tirarono via con incredibile leggerezza.
Tooru sollevò gli occhi assente, l’anima ridotta a pezzi e l’aria bloccata fuori dai polmoni rinsecchiti per le urla.
Chiunque lo stesse trascinando, doveva avere una forza incredibile.
Tooru si ritrovò a camminare giù per le scale del sottopassaggio, ormai deserto, poteva sentire le sirene dei vigili del fuoco avvicinarsi sempre di più alla stazione. C’era un rumore assordante, sembrava un allarme ma probabilmente gli era solo scoppiato un timpano, pensò.
Dall’uscita del tunnel si vedevano delle forti luci che lo costrinsero a socchiudere gli occhi, quasi fosse accecato. Una donna dai capelli biondi si avvicinò di corsa e gli prese l’altra mano tirandolo via.
Tooru si trascinava a stento, non capiva nemmeno perché stessero tentando di portarlo fuori da lì. Tanto non percepiva più nulla, si sentiva totalmente scisso a metà come se gli avessero conficcato un coltello nello sterno e lo avessero affettato.
Quando sentì l’erba solleticargli le caviglie, capì di essere arrivato al parco di fronte la stazione. Lì dove aveva baciato il suo ragazzo l’ultima volta neanche un’ora prima.
Le ginocchia gli cedettero e cadde al suolo, poteva vedere decine di persone sedute come lui che attendevano di essere soccorse dai medici e dagli infermieri che erano giunti con le ambulanze.
Fortunatamente nessuno sembrava in gravi condizioni, ma Tooru non riuscì a realizzare del tutto questo pensiero.
La persona che gli aveva strappato il borsone lo raggiunse sul prato e gli passò una mano dietro la nuca abbracciandolo forte. Tooru poteva sentire le braccia dell’altro tremare, avere quasi delle convulsioni, e il suo petto salire e scendere a ritmo di singhiozzi.
Stava piangendo e non solo. Non solo.
Lo stava decisamente insultando.
«Hai la merda al posto del cervello, deficiente. Deficiente!» e gli baciava la fronte, sentiva le sue labbra screpolate contro la pelle. Sentiva le lacrime scivolargli addosso ad ogni bacio e il cuore scalpitare come impazzito.
«Dovevi andare via, dovevi scappare, non farlo mai più. Se ci provi ancora, giuro che ti ammazzo, Tooru».
E fu lì che l’alzatore riuscì a tornare – seppur minimamente – alla realtà. Con il volto ancora affondato nella felpa dell’altro, sentì le lacrime corrergli sul viso sporco di polvere. I singhiozzi finalmente salirono e poté sfogarsi, pensò che non doveva essere poi così diverso da un bambino.
Hajime lo stava abbracciando.
Ma non riusciva ancora a realizzarlo, si sentiva ancora scisso a metà e il dolore e la paura lo avevano totalmente inghiottito. Non respirava, stava ancora annegando.
Tooru sollevò il viso senza neanche degnarsi di asciugarsi gli occhi e vide il volto di Hajime nelle sue stesse condizioni. Aveva un taglio sulla fronte con del sangue già secco, non sembrava profonda.
Era graffiato dappertutto ma – santo cielo – era vivo. Stava bene.
Il viso contratto in una smorfia di dolore e terrore, si stava mordendo le labbra mentre le ciglia umide lasciavano scie lungo gli zigomi.
«Mi avevi detto di tornare.» fu tutto quello che Tooru riuscì a dirgli, anche se solo col labiale. Ormai totalmente senza voce, la gola bruciata dalle urla, dal fumo e dalla polvere.
Hajime avvicinò i loro volti e fece finta di tiragli una piccola testata, avrebbe voluto baciarlo ma nessuno dei due era nelle condizioni adatte. Gli infilò una mano tra i capelli rovinati in una tenera e goffa carezza e poi se lo riportò nuovamente sul petto stringendolo come se fosse l’unico modo per salvare entrambi.
Impiegarono quasi un’ora per calmarsi, Tooru non riusciva a staccare le mani tremanti dalla felpa dell’altro, quasi temesse di vederlo sparire e Hajime dal canto suo non aveva minimamente mollato la presa.
Si allontanarono l’uno dall’altro solo quando un medico si avvicinò per visitarli e medicarli.
Entrambi furono considerati in condizioni stabili e liberi di tornare a casa.
Hajime strinse i denti quando un infermiere gli chiuse la ferita in fronte con tre punti per poi disinfettare i graffi sul viso, sulle mani e gli avambracci.
Tooru aveva riportato perlopiù lividi lungo lo sterno, a causa delle gomitate della folla, e una lieve irritazione agli occhi dovuta alla polvere.
Si erano presi per mano, ancora devastati, distrutti dentro e fuori, ed erano saliti sul primo autobus in direzione casa.
Casa nuova di Hajime, quella che aveva affittato durante il periodo dell’università. Il loro piccolo nido sicuro.
Era stato proprio l’ex alzatore ad aprire la porta e a tirare dentro il proprio ragazzo, ancora con lo sguardo spento e gli occhi rossi e umidi.
«Dobbiamo farci una doccia.» constatò togliendo la giacca per lasciarla in un angolo della camera da letto. I vestiti erano ormai da buttare.
Tooru notò come Hajime non avesse intenzione  nemmeno di fare la doccia da solo, proprio come lui d’altronde. Avevano come il sentore che – qualora si fossero persi di vista un momento – l’altro sarebbe potuto sparire, come in un sogno.
Avevano perfino mentito alle proprie famiglie scrivendo loro di non essere stati coinvolti nell’evento, proprio per rimanere soli, senza nessuno in mezzo.
Tooru aveva poi sentito l’acqua calda scivolargli sui capelli e sul corpo, le mani ancora tremanti del suo ragazzo avevano preso ad insaponargli i capelli. Avrebbe voluto fare altrettanto, ma non ci riusciva.
Tooru Oikawa non era mai stato peggio. Il dolore al petto si era solo affievolito, ma era ancora là.
Quel terrore sordo, le urla, lo strazio lo avevano completamente scisso in due.
Hajime si era insaponato a sua volta e aveva lasciato che l’acqua e il profumo portassero via ogni traccia di quella giornata.
Fu quando si stesero nel letto – Tooru con il pigiama e la felpa dell’altro – che poterono finalmente incastrarsi.
L’alzatore tornò contro il petto dell’altro, avvolgendolo con un braccio e poggiando una guancia nell’incavo del collo, mentre si sentiva a sua volta stretto con urgenza.
Hajime scivolò appena per permettere alle loro labbra – finalmente – di scontrarsi. Fu come tornare a respirare.
Fu come se l’uno dicesse all’altro “Sono qui!”.
«Hajime?» la voce di Tooru era un sussurro tra le lenzuola ormai calde. Il diretto interessato intrecciò meglio le loro gambe e con un bacio a fior di labbra lo invitò a proseguire.
«Se tu sei qui con me, perché ho ancora così paura di perderti?» Gli occhi nocciola di Tooru erano irriconoscibili, ancora fortemente irritati, e si erano piantati sul viso dell’altro senza vederlo davvero.
«Anche io provo ciò che provi tu, non spaventarti.» ma tremava comunque, l’ex schiacciatore, tenendosi sul petto il suo ragazzo e senza smettere di accarezzargli ora il collo, ora la schiena.
«Io… quando credevo di… non ci ho visto più niente. Ha solo fatto male, tremendamente».
E faticava a respirare, Tooru Oikawa, si sentiva ancora morire dentro respiro dopo respiro. Non credeva ancora in quell’immensa fortuna di averlo con se.
Gli era bastato un attimo per capire cosa significasse perdere ciò che si ama, e scoprirlo con quell’intensità era stato devastante.
«Io ero sul binario quattro, quando ho sentito il rumore del deragliamento sono riuscito a scendere sui binari opposti e a nascondermi dietro il muro del sottopassaggio, ma quando il vagone si è scontrato il rumore e l’onda d’urto sono stati così forti da farmi perdere i sensi per qualche momento. Quando mi sono ripreso e ho visto il muro che crollava e la gente che scappava… non riuscivo a vedere l’ingresso della stazione e conoscendoti sapevo che non saresti scappato. Poi ti ho visto.» Hajime poggiò la fronte sui capelli ancora umidi del suo ragazzo e sollevò le dita per giocherellare con i ciuffi più lunghi.
«Non andare via, Hajime. Mai più. Neanche se te lo dico di nuovo, non andare».
«Va bene, ora dormi».
E Tooru era rimasto ancorato alla felpa, immobile, incapace di riposare davvero. Rimase tutta la notte concentrato sulle dita di Hajime che gli carezzavano la nuca, fingendo di non sentirlo piangere.
Ma andava bene così, finchè erano insieme andava bene così.
 
 
 
Ed erano passati quattro anni da quel giorno.
Nessuno dei due aveva più messo piede su un treno, ma d’altronde l’Argentina andava raggiunta in aereo.
Hajime aveva trovato una squadra di ragazzini da allenare lì, vicino la centrale di pallavolo di San Juan.
Ogni sera, quando tornava a casa con Tooru al suo fianco che gli tendeva la mano, poteva sdraiarsi sul loro letto e stringerselo al petto, accarezzargli la nuca e trovare la pace.
Tooru neanche parlava, preferiva comunicare con i gesti, e ogni sera gli dava un bacio lungo sulle labbra prima di sfociare in qualcosa di decisamente meno casto.
E Hajime si perdeva nei suoi occhi limpidi, gli toglieva gli occhiali da sopra il naso e rimaneva incantato da quelle iridi lucide e vogliose.
Non lo avrebbe mai ammesso – d’altronde Tooru ci aveva messo parecchio tempo per riprendersi da quel trauma – ma a volte gli tornavano in mente gli occhi arrossati di quel giorno. E allora aveva bisogno di baciarlo ancora e ancora per ricordarsi di essere lì.
Di essere insieme.
Legati ancora di più da una piccola fede all’anulare. Da una piccola promessa.
 
«Tornerò da te sempre. Qualunque cosa accada».
   
 
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