Il
sole, prima che sorga
“Comandante,”
Moblit bussa tre volte, prima di aprire la porta di
sua iniziativa.
Non ne sa molto al riguardo, ma Levi si domanda se questo non possa ritenersi
già il primo segnale di una futura insubordinazione.
“Oh, mi scusi—” sussulta.
Anche in orizzontale, Levi riesce a vedere il modo idiota in cui arrossisce,
“Ero venuto a lasciarle i documenti che mi ha chiesto questa mattina. Pensavo
non ci fosse nessuno...”
“Non fa niente, Moblit, lasciali pure sulla mia
scrivania.”
Risposta scontata, Levi non ne è sorpreso.
Si domanda solo se quel tirapiedi stralunato obbedirebbe al comando senza
domandarsi perché il neo comandante Erwin Smith, capo del Corpo di
Ricerca, sia in ginocchio al centro della stanza, con le braccia intorno al suo
subordinato.
“Va tutto bene, comandante?”
Dannazione.
Ruota gli occhi appesantiti, tossisce.
“È tutto a posto, Moblit. Il capitano Levi ha solo avuto un capogiro, si
riprenderà presto.”
“Ne è sicuro?” avanza ancora.
“Sicurissimo. Stai tranquillo. Me ne occupo io. Torna pure al tuo lavoro.”
Levi non crede sia sufficiente per liberarsi di un ficcanaso di simile portata,
eppure funziona.
Poco convinto, il soldato poggia sulla scrivania quanto richiesto, esegue un
perfetto saluto militare ad un comandante di spalle, e gentilmente, si
toglie dai coglioni.
Levi esala un fiato, quasi senza accorgersene.
“Visto? Io mantengo sempre le mie promesse—”
Finge di non apprezzare la mano di Erwin che gli sposta i capelli dalla fronte;
è un tentativo camuffato di percepirne il calore, lo sa bene.
Considerato quanto ci ha messo prima di concedergli di poterla tastare la prima
volta, ci sta.
Soffia, ma non è credibile; perché le mani di Erwin sono grandi e fresche, e
Levi non riesce davvero a credere che mani simili diano priorità alla sua
fronte accaldata piuttosto che a mappe e schemi di una divisione dalla quale
dipenderà la vita o la morte di un centinaio di soldati.
“Ciò non toglie che sei svenuto perché hai un febbrone
da cavallo, Levi. Dobbiamo fare qualcosa.”
La prospettiva lo agita quanto lo sguardo che
intravede nel suo campo visivo sempre più stretto. Accenna ad un tentativo di
puntellare i gomiti, ma il suo corpo è talmente pesante che sembra ormai non
appartenergli più.
“Dai, vieni qui,” Erwin è troppo veloce; troppo frettoloso perché quella morsa
che gli mangia lo stomaco se ne stia zitta.
“N-non—” si agita, “Ho detto che non vo—”
“Non ho intenzione di portarti in infermeria,” si ferma Erwin, tornando sulle
ginocchia; il mento che chiude tra le sue dita lo sottrae alla ribellione, “Te
l’ho promesso.”
E Levi non sa perché quella frase richiami alla sua
mente il sigillo a inchiostro rosso e la firma ordinata che ha visto anteporre
ai documenti sul suo conto.
‘Capitano Levi e-basta’, aveva scandito giusto un mese prima il Generale
Zackley strascicando sotto baffi appena toelettati la pungente assenza di un
cognome. ‘C’è la parola di uno dei più stimati membri del nostro esercito
dietro il tuo reclutamento così…come dire, straordinario. Sarei uno sciocco a
dubitare della tua lealtà o della capacità di onorare questa carica per te
proposta dal nostro Erwin.’
O qualcosa del genere.
“Voglio solo permetterti di distenderti sul divano e
darti qualcosa per abbassare la temperatura. Me lo concedi?”
Ed è talmente surreale che comincia a credere sia davvero la febbre a dargli in
pasto una frase simile, insieme a quel pollice che dal mento si è allungato
alla guancia, e non sembra voler smettere di tracciare archi invisibili su di
essa.
D’altronde, li sente, i polmoni presentargli il conto
di quei gesti di troppo. Lo sente, il modo in cui si gonfiano e sgonfiano, in
cui raspano e sibilano ad ogni fiato quasi fossero passati dalla parte di un
comandante che ancora fatica a riconoscere.
“Cosa faresti se ti dicessi di no?”
Un paio di colpi di tosse ne mitigano il sarcasmo.
Vede Erwin far spallucce, stirare gli angoli della bocca in quel suo mezzo
sorriso che neanche i capogiri
riescono a completare per lui.
“Resterei qui con te sul pavimento tutto il tempo, almeno fin quando i crampi
alle gambe non avranno la meglio.”
“Cristo, sei proprio idiota…”
Non sa se per la risposta data, oppure per il modo in
cui lo solleva e lo stringe al petto come fosse qualcosa di prezioso.
**
“Non dormire adesso,”
Difficile non farlo: forse un tono autoritario avrebbe fatto la differenza, ma
quel sussurro dolente che Erwin bisbiglia al suo orecchio, mentre dall’incavo
della propria spalla raccoglie il suo volto, non è molto convincente.
Levi increspa le palpebre, si accorge di non sapere dov’è.
Non ha neanche idea di cosa sia successo; la vertigine è come il peggior
bastardo dei bassi fondi: ha atteso a lungo prima di saltargli addosso, e ora
che ha trovato in lui una preda facile non ha alcuna intenzione di mollarlo.
Si guarda intorno, scopre l’origine di quell’odore di
lavanda che in un momento imprecisato ha sentito sfiatare sulla faccia, umido e
appiccicoso.
Gli pizzica la gola, strappandogli un paio di colpi di tosse.
“Piano,”
La mano di Erwin si muove lenta sul filo della schiena
delineando ossa che non sapeva di poter sentire. Levi realizza di essere in una
sala da bagno. In una di quelle vere.
Una di quelle che si era sempre chiesto che forma potessero mai avere, prima di
tornare a pensare a qualcosa di più utile e meno surreale.
Abbassa lo sguardo, scruta la vasca in ghisa dentro
alla quale una recluta affaticata sta versando l’ennesimo secchio d’acqua
calda.
“Te ne sono grato, Laszlo. Va bene così.”
“È sicuro che non le serva altro, Comandante?”
“No, grazie. Puoi andare.”
Stupide marionette senza cervello.
Farebbero di tutto pur di garantirsi il suo favore, pure pulirgli il culo, pensa
Levi disgustato, prima che un capogiro lo costringa ad adagiarsi di nuovo sotto
quel pomo d’Adamo che sporge tagliente come il nocciolo di qualcosa andatogli
di traverso.
“Coraggio, diamoci da
fare.”
Le dita di Erwin sulle tempie lo riscuotono, e– diamine, si stava di nuovo
addormentando?
Le sente leggere e
gentili, mentre scostano per lui camicia e cinghie denudandogli la schiena.
Vorrebbe guardare meglio cosa diamine stia facendo, ma il modo in cui il palmo
dell’altra mano lo preme contro il suo collo è convincente: sembra quasi
volerlo schermare dalle ragioni per cui di tanto in tanto un tanfo rancido si
interseca oltraggioso alla fresca fragranza della sua colonia;
E va bene così.
Deglutisce un bolo di saliva acido, cede alla pesantezza delle sue palpebre.
Si rende conto di esser stato per tutto il tempo seduto sulle gambe del
comandante solo quando questo gli poggia una mano tra le spalle e una sotto al
braccio, incitandolo a tornare in piedi.
“Ce la fai ad alzarti? Giusto per un attimo.”
E una imprecazione è già
sulla punta della lingua, se prima non si fosse accorto, appunto, di non
riuscirci.
Barcolla, le gambe tremano. La presa di Erwin sul costato è la sola cosa in
grado di restituirgli un’illusione di stabilità.
“Ti tengo,” dice, con una
nota di allarme, forse perché il modo in cui il sangue si è prosciugato dal suo
volto ha impressionato anche lui.
Un telo da bagno casca
sulle sue spalle, lo avvolge.
“C-che cazzo stai—”,
gracchia, si sottrae d’istinto ad un tocco indiscreto piegando il bacino.
Erwin ritrae la mano da sotto le falde del telo, la solleva in segno di resa.
“Volevo solo aiutarti. Se riesci a toglierti i pantaloni da solo, fa pure.”
“Perché dovrei togliermi i pantaloni?”
Il capogiro sopraggiunge
nell’esatto istante in cui piega la testa a sufficienza per guardare, e la cosa
coincide più o meno anche con la risposta alla sua domanda.
Preme il dorso della mano sulle labbra, soffoca un conato.
“Di solito il bagno non
si fa da vestiti. A meno che tu non abbia voglia di lavarti nella stessa acqua
dei tuoi indumenti ricoperti di vomito…”
Erwin torna alla sua
cintura prima ancora che termini la frase.
Lo adagia nella vasca
piano, tra vapori che gli cingono le natiche ossute e i brividi che come tanti
spilli si ergono nell’istante in cui il suo intero corpo viene immerso nel
liquido tiepido.
“Non ci vorrà molto”
promette Erwin, mentre un filo d’acqua cade lento al centro della sua fronte
bagnando ciuffi di capelli appiccicosi.
Levi apre gli occhi: quella brocca in vernice smaltata avvolta dai fumi lui
l’ha già vista.
Era insieme alla voce morbida di una giovinetta che pronunciava il suo nome
come baciandolo, dandogli un’inflessione così dolce da dubitare fosse il suo; c’era l’acqua insaponata che
scrosciava tiepida sotto i suoi talloni che facevano ciaf-ciaf, c’erano
delle dita tra i suoi capelli, polsi sottili e sporgenti, c’erano ‘tesoro’
e ‘amore mio’, e poi non c’erano più; sostituiti da colpi di tosse
sempre più violenti, come quelli che adesso squassano il suo petto e lo
soffocano, lo soffocano.
Lo soffocano.
Lo sciabordio dell’acqua
e i suoi polsi incrociati allo sterno che urtano contro il bordo della vasca è
ciò che disintegra tutto. Le memorie affondano, lo stomaco si contrae in
una fitta, e lui torna ad una realtà che ha la forma degli avambracci tesi di
Erwin su cui sono arrotolate le maniche della sua bella camicia di batista.
Siede per terra, lo porta giù con sé. I suoi talloni nudi tornano a fare
ciaf-ciaf, ma il pavimento è freddo, e trema, e fa male.
“Va tutto bene, respira, Levi. Così. Respira.”
Palmi bagnati premono sul suo torace. Oltre la schiena ricurva, la voce di
Erwin invoca autoritario qualcosa che i suoi polmoni hanno dimenticato.
“Shhhh, va già molto
meglio...” culla il comandante, contro i fremiti del suo collo nudo.
“Va già molto, molto meglio…”
Levi sente le ciglia
appiccicose tentare di scollarsi, cercare di mettere a fuoco quella che
sembrano le ginocchia del comandante piegate ai lati dei suoi fianchi. Ci
riesce solo quando le nocche di Erwin scivolano contro le sue palpebre
privandole di tutta la schifezza che gli impedisce di vedere.
Un lampo di lucidità inaspettata gli stira le labbra in un sorriso amaro.
Per Erwin, esser pronto a bagnarsi il culo nel suo piscio è solo un modo per
chiedergli scusa per averlo sottratto ad una vita da prigioniero e farlo vivere
in un altro tipo di prigione, ma ai suoi servizi, si dice.
Non c’è niente che potrà
fare.
Probabilmente, in quello stato, il suo ritorno al sottosuolo è solo una
questione di tempo.
Vivo o morto, poco importa.
**
“Ringrazia che hai dei
sottoposti fedeli ma non irresponsabili, Erwin.”
È troppo debole per
arrabbiarsi sul serio. Ma per il terrore, un sottile margine di manovra c’è
ancora. Ed è la forza motrice che lo porta a voltare la testa verso quel pomo
d’Adamo sporgente, che adesso, più che un nocciolo, sembra avere di traverso
tutte le volte in cui i suoi subordinati non gli hanno obbedito come richiesto.
Si risparmia il ‘lo
avevi promesso’, o qualsiasi altra rivendicazione, non gli sembra il caso
di infierire oltre.
Contro la sua schiena, il sospiro che Erwin si impone di far uscire piano,
silente, senza che la quattrocchi di merda possa trarne soddisfazione e
far brillare ancora di più il suo sguardo da schizzata, è una punizione già
sufficiente.
“Ti avrei chiamata se la situazione avesse richiesto il tuo intervento,”
“Uh? Non lo richiede?” domanda sarcastica, roteando il collo dal lavabo nel
quale è già intenta a sciacquarsi le mani.
“Prima Moblit, poi
Laszlo. Dopo Nifa ed Abel, impegnati proprio nel laboratorio qui di fianco. Ben
quattro soldati sono venuti a riferirmi, con tutto il contegno e giri di parole
di cui sono capaci, ciò che può essere riassunto come ‘il comandante sta per
far fuori il soldato più forte dell’umanità’. Credo che a questo punto, sia
ragionevole da parte mia venire a farti una visitina, non credi anche tu,
Erwin? O meglio—”
Hange sprofonda sulle
ginocchia, di fronte al suo volto che Levi sente già contrarsi in un ringhio
“—fare una visitina a lui.”
Erwin scuote la testa, sospira ancora. Si solleva da terra, lo porta su con sé
sottraendolo alle dita invasive che la caposquadra ha già teso verso il suo
collo.
“Eh? Ma dove vai? Erwin!”
Il ‘te l’ho promesso’ di prima ritorna alla sua mente come un vecchio
amico a cui Levi non ha dato fiducia, e che fastidioso, conferma per lui quanto
Erwin sia un uomo di parola.
“Lo porto sul divano. Il
pavimento di una sala da bagno non mi sembra il luogo ideale per una
esaminazione—”
O forse no.
“Sai che non sono
schizzinosa.” cinguetta irritante, trottandogli dietro senza grazia.
“Tu no.” sorride, sistema
meglio le falde del telo da bagno in cui, in un impeto di modestia, si era
preoccupato di avvolgerlo all’ingresso della caposquadra, “Ma Levi potrebbe
esserlo. E potrebbe anche non gradire l’essere scrutinato da te prima di avere
il tempo di rivestirsi.”
“Quante sciocchezze,”
avanza la quattrocchi, gli occhiali sul naso spinti dall’indice, il sorriso di
chi riesce facilmente a immaginare le prossime mosse. “mi toglie solo
l’impiccio di doverlo spogliare”
Allunga le dita, la forza
per un altro soffio tra i denti, Levi la trova ancora.
Sul divano, Erwin lo tira a sé di colpo.
Non può mantenere la promessa, è evidente, ma in quel continuo temporeggiare,
Levi vede tutto l’impegno del comandante affinché il compromesso raggiunto
possa essere in qualche modo accettabile.
“Lasciagli almeno indossare i pantaloni,”
“Chi ti dice che mi serve con i pantaloni?”
La bacchetta in vetro che
estrae dalla grande borsa in tela dovrebbe spiegare qualcosa, a giudicare dal
modo in cui la fa oscillare.
“Hange, per favore…”
“Stavo solo scherzando,”
ridacchia la caposquadra, ma solo per un po’.
Il conto che i suoi polmoni gli chiedono per aver tentato di infilarsi da solo
nei pantaloni smessi di Erwin è più alto di quanto chiunque si aspettasse.
“Levi?”
“Levi!”
Il petto di Erwin è di nuovo contro la sua schiena, la sua bella camicia in
batista nei suoi pugni sbiancati.
Hange non ride più. Ha una mano sul suo torace, l’altra sulla sua nuca che
piega verso il basso e la costringe a tale posizione fin quando non sente i
colpi di tosse distanziarsi.
“Va tutto bene,” gli dice Erwin in un orecchio, forse per l’ennesima volta,
Levi non ne è sicuro.
“È già passato—”
aggiunge, e Levi riesce a crederci solo quando il suo corpo non gli chiede per
l’ennesima volta di scegliere tra il soffocare e il tossire.
Sente i muscoli cedere
mentre crolla esausto– è il torace di Erwin quello, pazienza – va bene
comunque. Le mani allentano la presa, la camicia avrà senza dubbio una brutta
increspatura d’ora in poi. Levi storce il naso anche per questa.
La prima cosa che rivede quando strizza bene le palpebre, è il volto della
caposquadra, che solleva gli occhi verso la testa che si affaccia sopra la sua
e fa un cenno di dissenso.
“Te lo dico già da
adesso: questo va in infermeria.”
Ed Erwin tace. Assorbe.
Si preoccupa solo di sfregare ancora le sue spalle tese con entrambe le mani.
Stupida marionetta.
“Va bene, Levi. Adesso facciamo i bravi, però.”
Le dita della quattrocchi si puntellano, scivolano dalla nuca al collo,
tastano, investigano.
Levi ritrae il mento, mostra i denti, si dice di non sapere il perché.
“Lasciala fare,” lo
tradisce, Erwin.
Le mani che ha sulle sue spalle non sono lì solo per accarezzarlo, “non aver
paura di Hange. Vuole solo aiutarti.”
E se avesse abbastanza
forza, e abbastanza aria nei polmoni, Levi glielo sbatterebbe volentieri in
faccia il suo ‘fanculo, pezzo di merda”, ma non ce l’ha. Non adesso.
Si consola con l’idea che se lascerà lavorare la quattrocchi adesso, forse ne
avrà a sufficienza quando lo risbatteranno nelle fogne della capitale.
Le nocche della psicopatica
scorrono tra le pieghe della sua fronte corrugata.
“Hai la febbre alta,”
“Dimmi qualcosa che già non so.” abbozza, tra un colpo di tosse e l’altro.
“Perché non sei tu a dirmi qualcosa che io non so?” La bacchetta di vetro di
prima scivola sotto il suo braccio, l’indice e il medio si allineano sul suo
polso. “Non ho avuto modo di vedere neanche i tuoi referti medici e il mio
timbro di autenticazione è insolitamente sparito…”
Levi sente le ultime parole squillare in modo differente, non è lui
l’interlocutore.
Tende il collo di lato, guarda la bella linea della mascella del comandante
contrarsi.
Sulle sue spalle, le dita di Erwin si irrigidiscono.
“Puoi fare qualcosa per lui?” cambia in fretta argomento, la caposquadra fa
spallucce.
Scosta i lembi del telo dalle sue spalle, fastidiosi, i palmi interrogano
ancora il suo torace e il suo costato. Formulano per lei la risposta.
“È presto per dirlo. Devo
prima capire qualcosa sulla sua storia clinica per poter pensare ad una terapia
efficace.”
Erwin sospira, Levi sente il suo fiato tra i capelli, e l’illusione di poter
vivere davvero in quel mondo impossibile riempirsi di crepe.
Non che ci abbia mai creduto davvero, si dice. Si consola.
Avverte il volto avvampare quando, in silenzio, la quattrocchi sfiora invadente
cicatrici disseminate qua e là. Rabbrividisce. Muove il bacino, tenta di
sottrarsi alle dita e a ricordi.
Come il peggior dei meschini, Erwin glielo impedisce.
“Stai fermo,”
Traditore di merda.
Contro qualsiasi previsione, Hange perde in fretta interesse in esse, come
l’ape che da sotto le ciocche ha visto entrare dalla finestra puntando i fiori
di un dipinto al muro, per poi accorgersi dell’inganno e imbarazzata, volare
via.
Una mano di Erwin rimane lì, sopra le vertebre inarcate in avanti che la
caposquadra comincia a picchiettare con le dita. Ed è snervante.
Ogni movimento del suo capo, puntellato contro il petto del comandante, produce
uno strano suono ruvido, identico allo stridio che Levi ha scoperto produrre la
polvere se il vento la solleva e la riversa contro i vetri delle finestre.
Rumore che aumenta quando Erwin gratta la sua nuca ad un ritmo differente da
quel coso freddo che Hange sta facendo scorrere tra le sue spalle chiedendogli
di respirare piano e in profondità, ed è altrettanto snervante.
“Levi, c’è nessuno nella tua famiglia che soffre di malattie respiratorie?”
“Mia madre, credo.”
“Sai di cosa si tratta?”
“Ha importanza?”
“Potrebbe.”
Levi sospira.
“Non ne ho idea, ero
piccolo quando è morta.”
“Ho capito. Non importa.”
La lieve stretta sul
fianco la prende come il segnale che può rialzarsi.
Erwin e il telo tornano al loro posto; la nausea, anche.
Deve battere più volte le palpebre prima di liberarsi dello sfarfallio e del
senso di disgusto che lo coglie; non fa neanche caso alla bacchetta di vetro
che, dal suo braccio, Hange rimuove, esamina e mette via senza alcun commento,
insieme all’affare che si sfila dalle orecchie.
Se avesse modo di dar fuoco al mondo, in quel momento lo farebbe.
“Dunque?”
È Erwin a fare la
domanda, forse perché ha notato il sudore freddo traspirare da qualche parte
contro la sua bella camicia, e se non fosse bastato, il modo in cui ha iniziato
a non trattenere più gli ansiti è comunque convincente.
“Bronchi e polmoni
piuttosto debolucci. Considerando che hai messo piede in superficie solo un
mese fa, non c’è da stupirsi. Chiunque al posto tuo sarebbe una calamita per
virus e batteri.”
Non lo guarda nemmeno per un istante, ma il suo discorso non sembra destare la
sua preoccupazione.
Di nuovo china sulla sua grande borsa, fruga alla ricerca di qualcosa che
sembra essersi nascosto bene.
“Qual è dunque il da farsi?”
La domanda di Erwin cade
nell’inascoltato.
“Hange?”
La caposquadra volta la
testa in sua direzione solo quando il qualcosa di cui era alla ricerca salta
fuori.
“Vorrei farti un prelievo di sangue, se me lo permetti.
Mi aiuterà a capire quali sono le tue carenze e come poterti curare al meglio.”
“Hange…”
Nella punta dell’ago che raccoglie dal contenitore, c’è lo stesso identico
scintillio che brilla al di là delle sue lenti; un bagliore che Levi ha visto
solo nei soggetti più pericolosi del sottosuolo; quelli più sadici e,
soprattutto, più imprevedibili.
“Solo
un pochino, solo un pochino. Prometto che non te ne accorgerai neanche. Lo
prometto!” cantilena, in un crescendo spasmodico di entusiasmo.
“Ha
un nuovo microscopio e nuovi reagenti. Aspettava con ansia la prima occasione
utile per poterli usare.”
È
la risposta bonaria che Erwin gli offre in pasto nel momento in cui Levi
solleva il mento verso di lui per tentare di capirci qualcosa.
“Quindi,
prima di ributtarmi nelle fogne della capitale, mi fate fare anche da cavia,
eh?” sorride sarcastico.
Hange non sente.
Sulle ginocchia, monta il suo aggeggio ubriaca di una euforia tutta sbagliata;
canticchia.
Erwin,
invece, sente fin troppo bene.
Il suo sguardo è come una coltre che Levi avverte d’improvviso cadere sulla sua
testa, impossibile da ignorare. Levi solleva il collo, lo incontra: c’è
qualcosa in quegli occhi blu e in quel sorriso.
Qualcosa che comunica con parti dentro di sé che non sapeva essere ancora con
lì, seppelliti in attesa di un richiamo – quel richiamo.
“Vieni
qui,”
Lo stringe a sé, senza dirgli nient’altro.
Lo abbraccia, annoda il corpo al suo in barba alle ombre che, dentro di sé,
Levi può sentire indietreggiare disgustate, lasciandogli tracce sui muscoli
irrigiditi.
Erwin lo lascia perplesso nel suo abbraccio; lui, perplesso, si lascia
abbracciare.
Qualunque cosa abbia avuto intenzione di fare, smette di avere alcuna
importanza.
“Che
diavolo stai—” tossisce, le sue gote perdono colore o forse lo acquistano, non
sa interpretare il formicolio che d’improvviso sente come tarli impazziti.
“Shhh…”
soffia sulla sua fronte, la tasta con le labbra. “Ti si sta alzando la febbre.”
“Gli
darò qualcosa per farla scendere dopo il prelievo,”
Hange inumidisce una
garza con un disinfettante che sa di pulito, recupera un laccio da una tasca
della borsa.
“Avanti, dai – stendi
quel tuo bel braccino tutto pelle e ossa!”
È Erwin a stenderlo per
lui; lo fa direttamente sul suo braccio, in un curioso gioco di contrasti e
sovrapposizioni. Erwin ha la pelle rosata ed elegante, di un rosato (e di un
elegante) che ben si sposa con qualsiasi altra parte del suo corpo, pensa Levi,
di fronte allo sdegnoso grigio insalubre del suo arto.
Chiude il polso tra il pollice e l’indice, affonda il naso contro le tempie
“farà in fretta,” assicura, e Levi sente qualcosa sulla lingua, come un gusto
che assapora per la prima volta.
“Hai delle vene
bellissime,” blatera la quattrocchi, strisciando con i polpastrelli su di esse
mentre stringe il laccio poco più in alto del suo incavo; ed è un commento
talmente tanto fuori luogo che Levi ne riderebbe, o rabbrividirebbe, o entrambe
le cose – se solo un crescendo erratico di colpi di tosse non mandassero,
ancora una volta, tutto al diavolo.
“Cosa abbiamo detto
prima? Ricordi?”
La mano che Erwin gli poggia sul petto è ferma, è dalla sua parte, non cede al
ricatto: lo aiuta ad imbrigliarlo, “Respiri lenti e profondi, testa inclinata
–come abbiamo fatto poco fa.”
Abbandonato ad occhi
chiusi contro il torace di Erwin, Levi non sa dire se è davvero quella mano, o
quella voce, o quel cuore che ha deciso di battere su ordine del comandante,
forte e possente, a restituire ordine a ogni cosa, perché è stanco; non ha
davvero la forza per pensare.
Perché se fosse là sotto sarebbe già morto; sgozzato da uno dei tanti che da
anni sognano di pisciare sul suo cadavere o soffocato dai suoi stessi polmoni
di merda, poco importa.
Se fosse là sotto, sarebbe già morto.
Perché chiunque sia là sotto, è già morto.
Si rende conto di essere
tornato a respirare solo quando sente la punta di un ago ferirgli il braccio,
ed è fastidioso a sufficienza da fargli aggrottare le sopracciglia.
Le dita di Erwin sulla sua guancia ne trattengono il fremito e già che ci sono,
anche quei sudori freddi che hanno preso a colargli lungo le tempie.
“Non muoverti,” scandisce
Hange, senza rimprovero, “ho quasi finito,”
Non mente.
Il lezioso ‘fatto’
arriva pochi secondi dopo, scandito da un sospiro di Erwin, che vibra sotto il
suo orecchio e dal formicolio del sangue che torna a circolare.
“Ti porto a letto,” dice,
in un cono d’ombra.
Sotto quei polpastrelli che gli sfiorano la fronte, Levi non ha di che
protestare.
“Sarà il primo soldato
della legione a ricevere una terapia mirata, ci pensi? Potrebbe essere una
svolta decisiva!”
“Sono sicuro che farai un
ottimo lavoro, Hange. Non farti trascinare dall’entusiasmo, però.”
“Portalo in infermeria, mi occuperò io stessa di l—Erwin!”
**
La camera da letto di
Erwin è spoglia, invasa dai libri, terribilmente disordinata.
Levi non sa dire se è la febbre ad avergli divorato quella cosa negli occhi che
permette di distinguere i colori, o se tutto lì dentro viri davvero verso il
monocromatico.
“Perché non sono nei dormitori?” domanda letargico, i gomiti piegati sul
bracciolo della poltrona scura ove di tanto in tanto affonda la testa per
sedare dei colpi di tosse.
Le mani di Erwin sono rosate ed eleganti anche mentre sistemano con una
praticità militare un paio di lenzuola fresche sul suo letto.
“Presto avrai un alloggio privato, come tutti gli ufficiali d’alto rango.
Inoltre, non è prudente che tu rimanga a dormire in mezzo agli altri soldati—”
“Temi potrei
contagiarli?”
“Temo potrebbero
contagiare te.”
Levi sorride, soffia
sarcastico dal naso. A quel punto, non avrebbe neanche senso chiedergli perché
non sia in infermeria: troverebbe una nuova scusa altrettanto ridicola.
Lo solleva e lo adagia
sul letto con movimenti morbidi, non gli chiede neppure se riesca a farlo da
sé: prenderlo tra le braccia è come se fosse il completamento di un dovere a
cui è stato chiamato a rispondere, e chi è lui per impedirgli di fare il suo
lavoro, in fondo?
“I cuscini in questo modo dovrebbero permetterti di respirare meglio” dice,
appiattendo una federa sgualcita dietro la schiena, e Levi ingoierebbe la
lingua piuttosto che ammettere che è vero, che la sensazione di inalare
limatura di ferro non è più immediata come prima.
“Va meglio?”
Annuisce tra gli ansiti. Si contraddice prima ancora di rendersene conto.
È che la mano di Erwin
sulla federa era troppo vicina alla sua spalla: scivolare su di essa, poi sul
collo, e infine sulla sua guancia, è un percorso che Levi riesce a tracciare
facilmente prima ancora di sentirlo.
“Hange verrà a portarti
delle medicine tra poco, intanto però, questo ti aiuterà.”
Le dita di Erwin cascano sul suo petto fredde e viscose: ha un impiastro tra
l’indice e il medio, una fetida poltiglia collosa che in poco tempo, Levi sente
ovunque.
Spalanca gli occhi di scatto, sussultando come un affogato.
Erwin lo tira a sedere prima ancora che riprenda a tossire.
“Piano, Levi. Piano.
Respira. Ricordi come si fa, no?”
Ci prova.
Si sforza di ricordare. Prima lo fa, prima Erwin smetterà di guardarlo in quel modo.
“Passato?”
Tra uno sbuffo di tosse e
un altro, annuisce. Annuisce ancora.
Nel mondo in superfice, quelli come lui non sanno fare nient’altro che annuire.
Furlan e Isabel ne sapevano qualcosa.
Il sudore sulla schiena raggela quando le dita di Erwin vanno anche lì.
“Che cos’è questo schifo?”
“Proprio non ti fidi di
me, eh?”
Preme con il palmo contro il costato: qualunque cosa stia spalmando, vuole che
il suo corpo la assorba bene.
Levi esala un sospiro, che non è una risposta, ma Erwin probabilmente penserà
lo sia.
‘Fiducia’ è un concetto interessante. Più una debolezza, che altro.
“Io non mi fido di niente e di nessuno—”, scocca con fiato grosso.
Ricordi, come cartoline dal sottosuolo, avvalorano la sua idea.
Erwin scuote la testa, prende una nuova noce di schifo, il sorriso sempre
sulle labbra.
“No, sei solo stanco, malato e dolorante,” continua, le mani sulla nuca
inclinata, le dita più leggere sull’ematoma che ha sul fianco, “non appena
riusciremo a farti stare meglio, anche il tuo umore sarà differente,
vedrai—"
Quel ‘vedrai’, è già una richiesta.
È un ‘fidati’ speranzoso di prender vita, e la sua attesa, Levi, può
vederla riflessa ovunque: dalla stanza priva di colori, alle tende severamente
tirate, al sorriso affettuoso di Erwin che offre, ma non implora.
Levi non risponde.
Cede ai cuscini su cui Erwin torna ad adagiarne la testa, alla pezzuola fredda
che Erwin gli poggia lieve sulla fronte, agli ‘adesso riposa’, ‘starò
con te ancora un altro poco’, ‘presto starai bene’.
**
“Sta riposando, Hange—”
“Non me ne importa niente
se sta riposando, deve prendere questa o la febbre gli si alzerà ancora!”
“Lascia che si svegli da
solo, non – Hange!”
“Levi!”
Non c’è niente di personale, Levi lo capisce.
La quattrocchi di merda è un essere subdolo e rancoroso, e quella è la sua vendetta.
Lui ha solo la sfortuna di essere il mezzo attraverso il quale può attuarla.
“Ehi, Levi!” squilla ancora al suo capezzale, ed è una fortuna che sia già
sveglio.
Apre gli occhi, e il teatrino che gli si para dinnanzi è esattamente quanto la
sua mente aveva già costruito da sé.
Erwin, in uno spicchio
alla sua sinistra, ha una mano spalmata sul viso. L’altra è stretta al proprio
avambraccio, come a voler assicurarsi che resti lì e non finisca su quello
della caposquadra.
Levi non ne capisce molto, ma qualcosa gli dice che sarebbe quantomeno
inopportuno per un neo comandante usare violenza su un suo subordinato.
Anche se quel subordinato è un orrendo mostro dal volto sorridente che,
con prepotenza, invade il suo limitato campo visivo.
“Come stai, Levi?”
domanda, fastidiosa a sufficienza da fargli chiudere il volto in una smorfia.
La mano sulla sua fronte al
posto della pezzuola ne aumenta l’irritazione.
“Se Erwin ti avesse portato in infermeria, a quest’ora la febbre sarebbe già
scesa…”
Levi vorrebbe rispondergli che probabilmente sarebbe sceso anche il suo livello
di sopportazione, ma quell’ultimo respiro a bocca schiusa non deve esser
piaciuto a qualcosa che ha lì sotto.
Rantola, ricomincia a tossire. La quattrocchi poggia l’altra mano sul petto.
“È il mio unguento balsamico quello che gli hai spalmato addosso?”
“Me ne era rimasta una
discreta quantità dall’ultimo raffreddore…”
“Oh – ecco dov’era
finito…”
Hange si solleva dall’angolo di letto occupato quando i colpi di tosse si
distanziano.
Il palmo a spianargli la fronte corrucciata ha un’efficacia inaspettata; Levi
rimane ad occhi chiusi anche dopo.
“Sciogli questo composto in una tazza d’acqua calda abbondante, aggiungi del
miele. Gliela facciamo bere subito, mi sembra un po’ disidratato.”
“Grazie, Hange – ci penso
io. Puoi anche andare.”
“Prima di andare, vorrei
misurargli la temperature in modo adeguato, e dare un’occhiata
all’addome e al resto del corpo, dato che prima non c’è stato il tempo di farlo
– potrebbe tornarmi utile per le analisi, e—”
“Han—”
“Vogliate scusarmi, Comandante!”
Moblit bussa i suoi
consueti tre colpi alla porta, e il fatto che anche questa volta entri senza
attendere risposta ha del salvifico.
“Caposquadra Hange, è
successo un disastro in laboratorio!”
Il resto, Levi non vuole
sentirlo.
Il mal di testa torna a pulsare nelle sue tempie e tutto intorno a lui diventa
un ronzio fastidioso, quasi doloroso.
Si alleggerisce quando Hange e il suo assistente idiota smettono di parlare.
La caposquadra sbuffa.
“E va bene,” si trascina annoiata verso la porta, “tornerò a visitarlo questa
sera, e se starà meglio, cominceremo la sua terapia. Dovesse cambiare qualcosa
prima di allora, voglio che tu mi venga immediatamente ad avvisare, Erwin. Non
osare mettere a rischio la salute del nostro soldato più prezioso.”
Erwin non dice nulla.
Levi sospetta voglia solo godersi l’intimo piacere dell’averla finalmente fuori
dalle palle per un po’.
“Non è cattiva, è molto competente. È solo…un po’ eccessiva nei modi,
ecco.”
Giustifica così, il sospiro di sollievo che tira allo scatto della maniglia
alle sue spalle.
“È una insopportabile quattrocchi di merda,” sibila Levi, si pente subito di
averlo fatto.
Le costole gli fanno talmente male che la sola idea di ricominciare a tossire è
sufficiente per fargli venire voglia di tacere per sempre.
Erwin sorride, ha una
brocca fumante tra le mani, non sa da dove sia arrivata – forse una gentile
concessione della caposquadra, che in quel caso andrebbe a premere sul suo
senso di colpa.
“Adesso, coraggio, bevi questa—”
Il cucchiaino ricolmo di
miele tintinna ancora contro la porcellana della tazza mentre lo dice.
Il miscuglio che compone con quanto versato nella tazza crea un odore rancido
simile a quello del pane ammuffito dall’acqua.
Levi tossisce, e non rifiuta
la mano che Erwin fa scivolare sotto la sua testa: è gentile, robusta, gli dà
l’impressione di poter sostenere quello che vuole.
Fa aderire le labbra al bordo, beve ad occhi chiusi senza alcuna protesta sino
alla fine.
“Bravo,” commenta, la punta di un fazzoletto a raccogliere dei rivoli sfuggiti
alle sue labbra impegnate a chiedere al soffitto più aria, molta più aria,
“molto bravo, metticela tutta a stare meglio, Levi—”
Perché altrimenti sarebbe stata una gran perdita di tempo, l’essere andati a
reclutarlo in culo al mondo, si costringe a pensare.
Giusto perché così farà meno male, quando lo scaraventeranno di nuovo lì sotto.
“Adesso puoi dormire in
pace, questa volta per davvero.” assicura Erwin, prima di riportarlo tra
i cuscini che Levi non è sicuro essere più comodi dell’incavo del suo
avambraccio, ma va bene lo stesso.
**
“Buongiorno! Ben
svegliato!” trilla Hange allegra, spalancando tende e vetri della finestra,
“Come andiamo, oggi?”
Levi non saprebbe dire perché la quattrocchi di merda sia di nuovo lì.
Ha ingoiato le sue schifezze, si è fatto bucare, toccare, palpare, violare,
in ogni luogo e ogni dove senza batter ciglio, stravolto dalla febbre e dalla
speranza che prima l’avrebbe accontentata, prima avrebbe imboccato il corridoio
per andarsene felicemente a fanculo: non che abbia creduto davvero di
togliersela di torno per molto tempo, ma che sarebbe stata la prima persona a
rivedere dopo quella che è stata di certo una delle notti più lunghe della sua
vita, beh – non è esattamente quanto si auspicasse.
“Mi sembra che stiamo meglio, o no?”
Anche l’angolo del letto che occupa cigola in un modo differente, quando c’è
lei.
Sembra quasi il lamento che impone alle sue labbra di non far uscire per
nessuna ragione.
“La febbre è tornata—”anticipa accigliato, il tocco sgraziato della sua mano
sulla fronte però, se lo becca lo stesso.
“Questo perché non sei
guarito.”
“Pensavo che tutte quelle porcherie che mi hai fatto ingurgitare ieri
servissero a qualcosa—”
“Servono a farti guarire,
infatti. Ma non ho nessuna bacchetta magica con me; solo i dettami della
scienza. E la scienza ha i suoi tempi. Apri la bocca, adesso.”
Ha armeggiato tutto il
tempo dentro la borsa, doveva aspettarsi qualcosa di fastidioso come quella
barra di ferro che, senza mezzi termini, gli ficca in gola.
“Apri di più, non vedo niente così!” lo rimprovera, insoddisfatta.
Gli avvicina il lume in faccia, preme più a fondo.
Si arrende solo quando i conati cominciano ad essere così convincenti da farle
immaginare il ritorno del magro brodo che è riuscito a buttare giù la sera
precedente, direttamente sulla sua faccia.
“Era proprio necessario?”
Puntella i gomiti, cerca di tirarsi su prima che i colpi di tosse aumentino.
Gli piace credere che ci sarebbe riuscito anche senza il suo aiuto.
“Indispensabile. Io non
faccio mai nulla che non lo sia.”
Quattrocchi di merda.
“Erwin è in riunione, in
caso tu ti stia domandando dove sia—”
In realtà, Levi si sta solo domandando perché stia preparando di nuovo uno di
quei suoi aggeggi infernali con cui continua a bucarlo. Ma apprezza il
tentativo di distrazione.
“Tornerà nel giro di
qualche ora, non preoccuparti. Scopri la spalla.”
“E tu non dovresti essere
in tali riunioni?”
Un po’ ci spera di riuscire a metterla in difficoltà; sta per infilzarlo per
l’ennesima volta in poche ore, ha bisogno di una piccola soddisfazione.
“Ho chiesto un permesso
per venire a controllarti. Li raggiungerò non appena avrò finito.”
“Che gentili. Allora fossi in te mi darei una moss—” si interrompe, prima per
il modo insolente in cui l’ago brutalizza le sue carni, poi per la serie
di colpi di tosse che, quasi in difesa di quell’essere maligno e logorroico,
gli si rivolta contro.
“Ehi – Levi, stai bene?”
La verità è che no, non
sta affatto bene. Ha di nuovo i polmoni in fiamme, il respiro ridotto ad un
fiato umido e rantoloso che riesce appena a farsi strada attraverso la gola
chiusa, e cazzo.
Cazzo.
Quand’è che ha finito per conficcare le unghie sulle spalle della quattrocchi
in quel modo?
Le dita di Hange sulla
nuca sono però calme e pazienti, frugano piano tra i capelli, si muovono ad un
ritmo che il suo torace non riesce ad emulare.
“Respira attraverso il naso, fai piano. Hai un inferno lì nel petto, lo so.
Cerca di concentrarti sul respiro, piano...”
E Levi non sa perché la sua voce suoni adesso così differente.
Si lascia cullare dalle sue indicazioni, rilassa le spalle, ascolta il
respiro che lentamente lo accompagna.
Solleva la testa dal
collo della caposquadra quando ha l’impressione di avere in gola un odore fin
troppo sconosciuto, che è sgradevole, ma è pur sempre meglio di non averne nessuno.
“Diavolo, stai di nuovo bollendo—”
Giusto perché le schifezze con cui lo rimpinza funzionano bene, le direbbe, ma
questa volta tace.
Non tenere a freno la lingua, nel suo caso, ha un prezzo troppo alto.
Hange si alza, porta via
tutti i suoi arnesi, recupera il vassoio che quella sciroccata di Nifa ha
timidamente poggiato sul comodino in un’incursione di cui ha avuto a malapena
consapevolezza, e Dio…ma perché il mondo sembra essersi accordato affinché lui
non possa riposare in pace?
Hange versa delle gocce
di qualcosa su di un cucchiaio, le lascia cadere nella brodaglia che ha sul
vassoio.
“Non ho fame,” anticipa.
“Bevi almeno il latte,” insiste, gli porge la tazza tra le mani, “ho versato al
suo interno un medicamento che ti aiuterà sia con la tosse che con la febbre.
Credimi, non vorresti prenderlo in un cucchiaio. Ha un sapore terribile.”
Levi non vuole sentire
altro. Arriccia il naso sul bordo in ceramica.
La forza di bere da solo, però, oggi riesce a trovarla.
Si rimette giù boccheggiante, con una smorfia di disgusto sul volto e il corpo
privo di forze.
Lo sguardo inquisitore della caposquadra lo scruta con sospetto, non trova nulla
da ridire però,
il che è già una gran cosa.
“Adesso prova a riposare un po’” dice, rimboccandogli le coperte, come se non
fosse stata lei ad averglielo impedito sino ad allora.
“Di tanto in tanto verrà qualcuno della mia squadra ad assicurarsi che tu stia
bene; non ti sveglierà. Se poi dovessi annoiarti, allora guarda qua—”
Levi solleva gli occhi
verso ciò che la scienziata tiene tra le mani, ma il suo campo visivo già
offuscato dalla febbre, è adesso ulteriormente ridotto anche dalla pezzuola
fredda, goffamente planata troppo in basso rispetto alla sua fronte.
“Non conosco ancora i tuoi gusti, ho cercato di capire quali tematiche un tizio
scorbutico e antipatico come te potrebbe gradire, e mi sono
accorta che, in realtà, la nostra biblioteca non offre poi un granché – ad ogni
modo,” solleva il primo dei tre libri che ha con sé, “abbiamo qui un meraviglioso libro sui vari
tipi di tè, un saggio illustrato sui cavalli, e un utile manuale completo per
la cura dell’orto – quale preferisci?”
“Letture impegnative,
eh?”
“Quello sui tè non è male. Ma se vuoi, abbiamo una biblioteca di saggi di
medicina, scienze, tecnologia, politica e, ovviamente, un’altra grande sezione
dedicata ai giganti – per i miei preferiti però, dovrai attendere questa sera.
Intanto, ti lascio questi tre. Resterai ancora un bel po’ di tempo a letto, del
resto.”
“Quanto?”
“Cosa?”
“Quanto tempo resterò a letto?”
Hange fa mente locale,
solleva le spalle – “È difficile dirlo, dipenderà da come reagirai alle cure.”
“E se non dovessi reagire?”
tossisce piano.
“Beh, ne troveremo altre.”
Lucida distrattamente le lenti dei suoi occhiali sul polsino dell’uniforme, li
inforca di nuovo.
“E se non funzioneranno neanche quelle, ricominceremo da capo. Ora basta
parlare, avresti un altro attacco e—”
“Oppure mi rigetterete nel sottosuolo non appena vi sarete resi conto che non
vi servo più.”
“Rigettarti nel sottosuolo? Di cosa stai parlando? Ah—diamine, ti avevo detto
di far silenzio!”
Hange si curva sul letto, lo aiuta a voltarsi sul fianco come desidera.
“Erwin ha ottenuto la sua
promozione, ormai.” È una affermazione talmente oltraggiosa che la tosse sembra
quasi volerne stemperare la forza. “Del resto, non potevate sapere di tutta la
merda che vi sareste portati su insieme a me.”
Il palmo che Hange sta
strofinando contro la sua schiena si ferma, come se interpretare quella frase
le richiedesse uno sforzo mentale maggiore di quanto riesca a fare normalmente.
Levi apre gli occhi, allontana dalle labbra i pugni contro cui sta soffocando i
colpi di tosse.
Lo sguardo che ritrova dietro le lenti della quattrocchi è quello di chi è
appena giunto ad una rivelazione importante.
“Allora avevo ragione.”
Levi solleva piano la testa, la pezzuola della sua fronte si affloscia contro
il cuscino mentre guarda la caposquadra rimestare frenetica all’interno della
sua borsa.
“Lo sapevo, lo sapevo che
avevo ragione! “borbotta tra sé e sé; un preoccupante sorriso si allarga
sul volto mentre presenta due blocchi di carta con doppia rilegatura.
Volta le pagine del più sottile,
giunge in fondo.
“Questo è il patto di arruolamento che hai sottoscritto con il Corpo di
Ricerca. E questo scarabocchio— questo qui, è la tua firma, giusto?”
Levi inspira profondamente dalle narici, e non capisce.
Cerca di non cedere a quell’ennesimo colpo di tosse, ma è tutto così fuori
luogo che fatica a trovare un senso. La febbre non lo aiuta.
Non si sforza neanche di annuire. Hange, del resto, mette via i documenti prima
che possa farlo.
“Questo invece, è
l’accordo che, in qualità di neo comandante, Erwin ha redatto a garanzia del
tuo ingresso nel Corpo di Ricerca, ove per meriti speciali ti è stata conferita
la carica di Capitano pur senza aver ricevuto un addestramento militare
formale. Ti è stata data una copia di entrambi i documenti al momento della
stipula. Anche questa reca uno scarabocchio che, in teoria, dovrebbe essere
riconducibile alla tua firma, eccolo qui—”
“Cosa diavolo c’entra
tutto questo?” biascica infastidito, cede al colpo di tosse che torna impetuoso
a chiedergli di uscire. Spera sia l’ultimo. Si maledice.
Se solo fosse stato zitto, a quest’ora starebbe dormendo, e non lì ad ascoltare
i deliri di questa psicopatica.
“Tu non sai leggere.”
Dichiara la caposquadra
trionfante, ritta di fronte ai raggi di sole della finestra che ne tagliano il
profilo a metà.
“E non sai neanche
scrivere. Non hai mai fatto un solo giorno di scuola, probabilmente neanche
esistono lì sotto!”
Levi sente il respiro
gonfiarsi, un moto agitargli il torace sempre più incazzato.
“Oh, non fare quella
faccia! Non fraintendermi, non ti sto giudicando. Anche io, tecnicamente, non
dovrei neanche essere in grado di scrivere il mio nome. O almeno, questo era
quanto il mio distretto riservava a chi all’epoca non possedesse il pene.”
Torna seduta, accavalla
le gambe. Levi tira indietro il mento più che può quando la mano della
caposquadra si stende decisa verso la sua fronte.
Il tocco è differente: è una carezza, quella che pettina indietro i suoi
capelli.
“Dato che non hai letto neanche una pagina di quanto c’è scritto qui, ti
riassumerò io i contenuti principali.” Apre sulle sue gambe il documento più
sottile “Hai firmato un patto di arruolamento che, in qualsiasi momento, ti
permette di lasciare il Corpo di Ricerca e conservare la doppia cittadinanza.
Sei libero. E lo sei in tutti i sensi. Erwin ha espressamente richiesto che
venisse inserita quella clausola. Per te, e per gli amici che hai perso.”
Levi stringe i denti. Una fitta, esplosa da qualche parte, gli spezzetta il
fiato in tanti piccoli tocchi.
“Quanto ad Erwin,”, lo spessore del secondo documento è decisamente differente,
lo dimostra anche il pulviscolo che solleva quando Hange lo fa cadere sul
proprio grembo, “Beh, si può riassumere dicendo che Erwin abbia firmato sulla
sua intera esistenza. Si assume ogni responsabilità relativa alla tua condotta,
dentro e fuori dalle mura. Si è fatto garante della tua persona, dichiarando
che si sarebbe personalmente occupato della tua salvaguardia e di quella delle
persone con cui saresti venuto a contatto. Si è anche dichiarato responsabile
della tua istruzione e del tuo addestramento. In altre parole: il Corpo di
Ricerca verrebbe sciolto ed Erwin finirebbe di fronte al plotone di esecuzione
prima ancora che l’idea di rispedirti da dove sei venuto possa sfiorare il
cervello di qualcuno di noi. Allora, ti è più chiaro adesso?”
“Perché avrebbe fatto
questo?”
Hange fa spallucce, stira all’ingiù gli angoli delle labbra, incrocia le
caviglie. “A volte è difficile riuscire
a capire cosa passi per la sua testolina, è un povero dannato. Ma è anche colui
che riporta indietro il numero più alto di soldati da ogni missione, per cui
sì, è un dannato: ma uno di quelli le cui scelte si sono sempre rivelate
brillanti ed efficienti.”
C’è affetto e stima in quelle parole, Levi lo capisce anche dal modo in cui gli
zigomi della caposquadra si sono sollevati.
Hange recupera la pezzuola dal cuscino, la bagna, la rimette al suo posto sulla
fronte. È solo una scusa per guardarlo in faccia mentre continua il suo
discorso.
“Erwin ti ha voluto con
sé perché vede in te colui su cui riporre tutte le speranze dell’umanità, anche
quelle in cui ha smesso di credere. Vede in te l’alleato più prezioso, qualcuno
a cui far prendere coscienza del suo valore. Ma soprattutto, e non credo questa
sia solo una mia opinione—” avvicina pericolosamente il viso, Levi arriccia il
naso, aspira tra i denti. “—vede qualcuno a cui vuole già bene.”
Hange sorride di fronte
al modo in cui il suo respiro si interrompe, c’è soddisfazione nel suo ghigno.
Si solleva, scuote la
testa.
“Non sforzarti di leggere
quei libri che ti ho portato, il tuo fisico potrebbe risentirne,” dice in un
moto di sarcasmo, “Se domani starai meglio, ti porterò qualcosa di più consono
a chi comincia un percorso di alfabetizzazione.”
“Fottiti.”
“Dico sul serio!” sorride
entusiasta, mette la cinghia della borsa a tracollo, “Sfrutteremo la tua
convalescenza su questo versante. Sono sicura imparerai in fretta. Ad ogni
modo…”
Si ferma sullo stipite della porta.
“Prima o poi, Erwin confermerà da sé quello che sto per dirti, ma intanto, lo
faccio io: non ci sarà più un sottosuolo per te, non è mai stato neanche
contemplato. Ma c’è per noi. Noi vorremmo uscire dal nostro, di sottosuolo. Ed
Erwin, io, tutti noi, anche i più scettici, crediamo che unendo le nostre
forze, tu sarai in grado di tirarci fuori tutti quanti…per cui, vedi di
rimetterti in fretta, e andiamo a riprenderci ciò che ci appartiene.”
Non aspetta il suo
commento.
La caposquadra esce fuori in fretta, forse perché l’ultima frase ha lasciato
trapelare più amarezza di quanto avrebbe voluto.
La porta cigola lamentosa, si riapre sospinta da un fantasma fatto di vento.
Levi ruota gli occhi, guarda la finestra rimasta aperta, la luce del sole che
trafigge la monocromia della stanza, che adesso gli sembra meno monocromatica
di prima.
Guarda le pagine del patto di Erwin frusciare sotto una folata fredda, la
stessa che con un sospiro cattura nelle narici, e per la prima volta, gli
sembra di respirare davvero.
Fine
Betaggio:
MonoNoAwareMads,
gentilissima e velocissima! Grazie!
Note: La storia è ambientata un mese dopo gli eventi di No Regrets.
Prima storia della 3
volte + 1 Challenge del gruppo facebook Hurt/Comfort Italia.
Mi ero ripromessa di fare qualcosa di breve, ma ovviamente - ahem. Sì. Certo.
Questo accadrà probabilmente nel duemilacredici.
Grazie per la lettura! Spero sia stata comunque apprezzata.