Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Snehvide    03/10/2021    2 recensioni
Arriva con un bagliore.
Uno di quelli improvvisi, come un lampo.
Lampi negli occhi, per la precisione; cerchi di fuoco incandescenti.
Arriva prepotente, e lo abbaglia senza pietà.
Senza dargli modo di chiudere le palpebre.
Senza alcuna considerazione per le pericolose accozzaglie che ha nascosto in zone d’ombra distribuite a macchia qua e là per la mente.
Erwin arriva così.
Come al solito.
Senza neanche domandarsi se lui, quella luce, la vorrebbe davvero.
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[Eruri] [Hurt/Comfort come se piovesse] [Angst a palate]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I’m a star, you’re a star
(we were ordered to burn down)


Arriva con un bagliore.
Uno di quelli improvvisi, come un lampo.
Lampi negli occhi, per la precisione; cerchi di fuoco incandescenti.

Arriva prepotente, e lo abbaglia senza pietà.
Senza dargli modo di chiudere le palpebre.

Senza alcuna considerazione per le pericolose accozzaglie che ha nascosto in zone d’ombra distribuite a macchia qua e là per la mente.

Erwin arriva così.
Come al solito.
Senza neanche domandarsi se lui, quella luce, la vorrebbe davvero.



Levi sente il tempo scorrere attraverso il belare delle greggi in lontananza.
Vi è un punto della giornata in cui si fanno radi, come i suoni di un mondo che finisce e quando succede, Levi capisce che si stanno portando via gli ultimi spicchi di un giorno che non ha visto.

È il momento migliore, quello che ama più in assoluto.

Lo sente da tutto ciò che riesce ancora a percepire, quanto gli piaccia.
Fluttuante nel buio più compatto, senza suoni, senza ombre intorno, Levi non riesce a immaginare nulla di più simile alla morte.

Lo conferma il sospiro di sollievo che esala giorno dopo giorno, e che giorno dopo giorno si fa sempre più corto, sempre più sottile.

Il sole non si infila nel sottosuolo. Non lo fa neanche per sogno (e neanche in sogno).
Neanche per un cazzo di scherzo.

Non c’è sole che possa divorare quel buio, solo Erwin.
Erwin che da quel buio l’ha tirato fuori, Erwin che ha voluto che le sue retine bruciassero per un sole vero. Erwin che si sostituisce al sole adesso che nelle tenebre ci è tornato.

Erwin, Erwin, Erwin.


Se restasse per sempre lì con lui ad abbagliarlo, Erwin il suo Sole lo sarebbe in eterno.


“Levi—”


“Levi, mi senti?”

È una scia di impulsi quella che Erwin ha sotto le dita, un potere che Levi sente correre sotto la sua pelle e la tramuta in fuoco.

Strozza un gemito. Torce le unghie su un materasso logoro che puzza di piscio e di morte.
Gli fa schifo.

Prima che Erwin tornasse a toccarlo, per lui vi era solo il silenzio alterato dal belare lontano delle bestie nelle ore in cui il sole fuori sarebbe stato alto, e invece adesso ha piscio e schifo, dolore e altre sensazioni di merda in zone del corpo che aveva già abbandonato.

“Levi—!”

Dell’acqua lo colpisce in faccia.

Gli cola anche in gola e d’improvviso, i suoi polmoni ricordano che vanno ad aria.
Tossisce una, due – più volte di quanto vorrebbe.

Volta la testa, cerca di rotolare su di un fianco. Si accorge di non riuscire a farlo.
Poi, c’è chi lo fa per lui.

 

“Erwin—”

 

Erwin tentenna, si fa attendere: ma poi il ‘sono qui’ arriva.
Come sempre.

Ed è dolce come il Levi che ripensa alla testa di Isabel nel fango, a quella di Farlan divorata per metà, pochi metri più avanti.

È dolce come il vento che la prima volta fuori dalle mura gli scompigliò i capelli e attraverso la finestra socchiusa gli sollevò la pelle in tanti piccoli chiodi irti la prima volta che Erwin lo toccò come non aveva mai permesso a nessuno di toccarlo.

È la stessa finestra sbarrata che sente cigolare adesso alle sue spalle. È più un lamento, un pianto.
Gli sembra di ricordarne il suono, ma forse no.

No, forse non lo è.

No.

I lamenti sono tutti suoi.

 

“Erwin—”

 

“Shhhh, sono qui, Levi. Sono qui—”

 

Curva la schiena, lascia che ossa ricoperte di pelle striscino verso altre ossa ricoperte di pelle e si stringano, si ricongiungano, si cerchino tra loro come uccelli che si uniscono in stormi prima di migrare per una terra lontana seguendo il Sole.

“Cristo, Levi, non sparire mai più così…” dice Erwin con un sospiro che sembra un gemito, mentre le sue mani vagano su braccia, gambe, polsi, mani – su quelle ossa che tornano ad avere un nome, su quei chiodi irti che adesso appiattisce sotto le dita, anziché inchiodarlo a sé stesso, come allora.

Come quando ha creduto lo avrebbe fatto per sempre.

Erwin gli sfiora le labbra, e qualcosa va storto. Qualcosa va terribilmente storto.

C’è un uccello bloccato da qualche parte, lì nel buio.
Levi sente il fluttuare rumoroso delle ali nel momento in cui il suo collo scatta verso l’alto risucchiando rumorosamente l’aria stantia tra i denti.

Gracchia, starnazza.

Erwin allontana le mani, e non è normale.
È un’anomalia, un difetto (Le mani di Erwin non dovrebbero mai essere altrove).

“Levi,” Infila il suo nome tra le ciocche madide che gli allontana dalla fronte ancora e ancora, “stai male, hai la febbre alta,” ed è dolce mentre con il pollice e l’indice accarezza piano gli angoli della sua bocca, come una lusinga – “ho qui con me qualcosa che può farla scendere, apri la bocca—”

Il ricordo non è nella sua mente, ma sulla pelle: lei ricorda tutto.
Ricorda un calore diverso dal proprio, un attrito tra corpi.
Ricorda anche quella cosa che non ha nome, né forma – perché è tutto ciò che non è.

E non può uccidere qualcosa che non è. Può farlo la sua mente, ma non il suo corpo.

E non vuole aprire la bocca, perché Levi si fida della sua pelle irta come chiodi, adesso di carta.

Si fida di tutto ciò che gli dice che non è il sapore dolciastro di quell’affare che la sua lingua vorrebbe incontrare di nuovo.

“Avanti, Levi—”

Fottiti, Erwin.

Lo sente pulsare nelle tempie, nelle pieghe che gli accartocciano la fronte.

Se davvero hai tutta questa voglia di andare via, allora fottiti.

Fottiti, Erwin.

 

“Apri la bocca,”

Le dita di Erwin abbandonano le labbra, scivolano verso la mandibola, ma è una stretta che non crede fino in fondo in quel che fa.

“Dai, apri—”

 

Levi scuote la testa, stringe gli occhi. A palpebre chiuse riesce persino a vederlo brillare meglio.

“Levi, prendi la medicina e torniamo a casa.”

Siamo già a casa, razza di idiota.
Casa è lì, adesso.
Casa è dove c’è un sole chiamato Erwin.

 

Erwin sfiata, e a Levi non gli servono gli occhi per vedere come non abbia ancora rinunciato.
Sta solo decidendo se ha davvero esaurito tutte le buone, e se è giunto il momento di passare alle cattive.
Levi questo non lo sa (qualcuno - forse lo stesso Erwin - una volta lo minacciò vantandosi di conoscere almeno una ventina di modi per fargli prendere una pillola).

Lo sanno però i suoi polmoni e l’inutile muscolo che gli batte in petto, che impazzito, adesso si crede davvero il cuore di un topo di fogna (‘Un ratto, con i suoi cinquecento battiti al minuto, vive circa quattro anni. Testare un farmaco su un esemplare che ha più di tre anni mi sembra il giusto compromesso, non trovi anche tu? Poi, insomma – se proprio non hai voglia di aiutarmi, non ti costringerò a stare qui...’).

“Conosco almeno una ventina di modi per farti prendere una pillola, Levi. Quasi nessuno di questi è piacevole.”

A Levi verrebbe da ridere. Anzi: gli viene da ridere. Le sue labbra tremano, insistono affinché permetta loro di allungarsi sulla sua faccia e sorridere, almeno.

Almeno quello. Lo implorano, formicolano.

E sta quasi per cedere, ma prima che possa farlo, le sue orecchie si riempiono d’acqua calda; fili di lacrime ordinate che seguono tutte lo stesso percorso segnato sulle sue guance, come lui ha sempre seguito il terreno battuto da Erwin; come la notte insegue il giorno, come la luna insegue il Sole.

Solleva una delle mani che da poco è tornato a sentire come propria, la porta al punto dello scheletro dove un tempo vi era un petto.

Vuole davvero che Erwin lo senta, quel cuore da topo che gli ha dato indietro come se mai lo avesse sostituito con altro.

Vuole che gli rinfacci tutto, vuole che gli urli un potente ‘guarda che cazzo hai combinato, stronzo. Guarda come cazzo mi hai ridotto.’

E piange. Piange a denti stretti, mascella serrata, labbra sigillate, calde e ruvide.

Silenziose. Discrete.


“Va bene,”

Ed è più di quanto Erwin possa tollerare. Lo sente sollevarsi, cambiare posizione.

“L’hai voluto tu,” bisbiglia, come a convincersi della propria innocenza prima ancora di commettere il torto (come se fosse l’unico torto nei suoi confronti, poi. Ridicolo...)



‘Capisco. Mi fido del tuo giudizio’.

‘saresti solo un peso morto, affida tutto ad Hange’.

‘è più importante della vittoria dell’umanità?’

‘sì.’

‘no’

‘sarà un casino andare al cesso con le gambe spezzate’. 'lo eviterei'

‘un soldato ferito deve stare lontano dal campo di battaglia, l’operazione di recupero del Wall Maria procederà con te che piagnucoli qui.’

‘è più importante di—’

‘sì.”

“capisco.”



Invisibili, due dita scorrono sul ponte del suo naso. Fredde come solo le dita della morte potrebbero essere, pensa Levi.

Sostano sulle narici, indugiano un paio di attimi.
Hanno dei ripensamenti, ed è normale. È normale avere paura, no? È umano.

E lo è anche Erwin, in fondo, che di paura, Levi sa, ne ha sempre avuta tanta.

Più di quanto la gente immagini (ma lui non è la gente).



Erwin sospira, e sospira ancora. Chiede al silenzio putrido un consiglio che infine, arriva.
Come sempre.

Le dita chiudono le sue narici con un pizzico lieve, tremulo.

L’ordine delle lacrime sulle guance salta, non seguono più nulla. Non seguono più nessun Sole. Possono solo brillare come un centinaio di soldati fatti saltare in aria da una miriade di pietre; volano verso altre stelle lontane, cercano il loro nuovo Dio da servire.

Vanno ovunque, e Levi soffoca in un tripudio di dita scheletriche serrate a polsi sporgenti.

Vanno ove lui non può ancora andare. Ove non gli è ancora permesso andare.
Vanno oltre il Sole.
Vanno da Erwin.


Piega il collo, le orecchie si liberano dall’acqua in pochi secondi con un gorgoglio assordante.

Il mondo si disfa degli echi, torna ad avere suoni. Suoni reali.

Annaspa, e la sconfitta, questa volta, arriva sotto forma di un sorso d’aria stantia pagata al prezzo di un’esplosione dolciastra che gli devasta il palato.

Pulsa sulla sua lingua, un bolo di saliva l’ha già avvolta, l’ha avviluppata come qualcosa da proteggere a costo della vita.

Non resisterà ancora molto.



“Ingoia, Levi”



Fanculo, Erwin. Fottiti, maledetto bastardo.
Se non può dirglielo la sua bocca schiacciata da palmi sudati e volgari, allora sarà il suo sguardo a farlo.

Ha Erwin negli occhi, del resto.

Anche morente, un sole impiega comunque molto tempo, prima che smetta di brillare.



***

“Come sta Levi?”

 

“E Levi?”

 

“Comandante, il capitano Levi…?”

 

“Il comandante Dok, corpo di Gendarmeria, chiede che venga disposta un’indagine circa la presunta diserzione del capitano Levi.”

 

“Non è stato affatto disezione! Il capitano Levi ha solo problemi di salute!”

 

“Comandante, è arrivato un telegramma…”

 

“Comandante—”

 

“E il capitano Levi?”

 

“Domando scusa, comandante—”

 

“Il capitano Levi è solo malato. Nessuna diserzione. Che venga comunicato immediatamente e messo agli atti.”



Anche questo, arriva con un bagliore.
Quello che ritrova a palpebre aperte, ma capace di insinuarsi anche sotto quelle chiuse, in realtà.

Levi sente lo scorrere del tempo attraverso il continuo andirivieni dalla sua stanza.
Non è molto diverso dalle orde di pecore affamate che ha sentito sino a poco tempo fa.
Cambiano le specie, certo. I punti in comune però, sono più di quanto potesse immaginare.


Il sole del mezzogiorno trafigge i vetri alle sue spalle spezzando in due la camera.
Piccole zone d’ombra disseminate qua e là vengono lentamente ingoiate da laghi di sole accecanti.
I punti in comune, questa volta, sono radi.



“Possiamo tirare quelle cazzo di tende?”


I suoi occhi lo sopportano a malapena.


Le tempie battono e battono anche le ciglia su occhi assottigliati.
La febbre, la confusione e la fotofobia sono un effetto dell’astinenza gli dicono, ma lo sapeva già.

 

“Hai bisogno di luce. Sei stato al buio per troppo tempo.”

È stato al buio per troppo tempo in compagnia di un sole tutto suo, vorrà dire.
Levi sospira rassegnato, guarda altrove.

I vetri della finestra chiusi non lasciano sfuggire nulla di quello stufato di manzo che si fredda sul suo comodino.

Levi non ama la carne.
Del resto, non era così popolare fino a poco tempo fa.
Anche questo sa di punizione.

“Lo sai che devi mangiare.”

Il fatto che sbuffi e il suo addome non sollevi neanche un po’ il lenzuolo che ha sul grembo è l’amara conferma che ha ragione.

Alza le dita trasparenti, scosta la mano antipatica che finge di tastargli la fronte, e invece vuole solo accarezzarlo ancora.

“Per quanto sono stato là fuori, questa volta?”

“Cinque giorni e tredici ore.”

Levi sorride, poggia la schiena alla testiera del letto, china il capo dall’altro lato.

“Faresti meglio a cambiare formulazione, sai? Queste nuove cose che ti piacciono tanto, queste ‘pillole’, come diavolo si chiamano – con me non sempre attaccano.”

 

“Potrei farlo, sì,” Il comandante annuisce in un cenno d’assenso che non vuole essere tale, ingoia qualcosa di grosso e appiccicoso, “Ma non voglio. Un’iniezione non sarebbe la stessa cosa: voglio che tu le prenda nel pieno delle tue facoltà mentali.”

Un rivolo d’acqua gli scorre giù dal collo, si insinua sotto la camicia bianca scendendo tra le costole dentellate. Quella pezzuola andava strizzata meglio, ma pretendere anche questo sarebbe oltremodo scortese.

“Sai che ci saranno momenti in cui non lo farò.”

“Andrà bene comunque,” dice, “in quei momenti saprò che non sono delle pillole ciò di cui avrai bisogno…” sospira, e c’è una compostezza che fa male, dietro quella frase.

Una saggezza che gli mangia le viscere, gli percorre le vene sottili che gli sono rimaste.
Forse dovrebbe chiedere cosa intende, in effetti. Non è un problema trovare Erwin nel buio di una baita abbandonata, tra i colli dietro Shiganshina, o sotto la pelle, tra muscoli prosciugati e ossa spigolose, utili solo ad infastidire chi ha intorno?

 

La mano sulla sua nuca gliela concede senza scostarsi. Permette a quelle dita di scavare un po’ lì, perché magari sotto sotto, una parvenza di risposta ai suoi interrogativi riescono a trovarla, si dice.

E anche se non fosse così, lui gliela concederebbe lo stesso, questa volta.

Perché sa che ne ha bisogno almeno quanto lui.

 

“…solo, “, la lingua del comandante schiocca, rimesta qualcosa che il palato ha trattenuto più a lungo dell’alone dolciastro che ancora insudicia il suo, “ti chiedo di non morire, Levi. Cerca Erwin tutte le volte che vorrai e dove vorrai, ma poi torna qui da noi. Torna qui da me. Non lasciarmi dinnanzi a questo gran casino…”

Levi esamina l’immagine triste che lo veglia senza sosta da una sedia accanto al letto, la scruta come fosse un quadro dalle tinte sbiadite di qualcuno ormai andato da tempo; un eroe di guerra, un antenato che ricorda vagamente qualcuno che conosce.

“Mi stai offrendo un compromesso...”

Insacca il collo nelle spalle, la bella uniforme verde fruscia come sfiorata dal sole.
Un sorriso timido lo accenna anche l’unico occhio che le è rimasto.

“Cosa c’è di male in un compromesso, in fondo? Fa felici tutti, certo – a metà.”

“Appunto: a metà,” Levi sorride, sorride anche lei.

 

“Adesso mangia, però. Verrò a darti qualcosa per la febbre tra qualche ora.”

 

“Hange—”

 

La richiama quando arriva alle soglie della porta, quando l’ombra l’ha già spezzata a metà.

Stringe il nome tra le labbra che arriccia, sente il suo respiro vibrare nella polvere sollevata dal sole (quello vero).


“Manca anche a me. Mancano anche a me.”


Già. Come un perfetto egoista, a volte tende a dimenticarlo.


Come un sole che dimentica esser morto e non smette di brillare.



Fine.

 

Note:
NON betata, NON corretta.
Non mi capita spesso di scrivere da POV Inaffidabile, ma ammetto che è uno dei miei guilty pleasure.
Mi diverte un sacco sapere quand’è che il lettore comincia a sospettare che c’è qualcosa che non va. :D
Grazie per avere letto, sempre e per sempre. <3

Scritto per il Writeptember del gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite a trovarci! È appena iniziato l’Advent Calendar!

Titolo: Traduzione di una frase di ‘Zachem Ya’, vecchia canzone delle TaTu.

   
 
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